Note di Archeologia calabrese
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Anteprima del libro
Note di Archeologia calabrese - Paolo Brocato
1948).
Editoriale
Dopo alcune incertezze e titubanze, forse connesse alla nascita di una nuova collana, hanno prevalso le ragioni del fare, non tanto per l’assenza di iniziative in campo editoriale, niente affatto limitate né poco significative, ma per realizzare uno strumento scientifico che ponga al centro dell’attenzione il paesaggio inteso come contesto complessivo di interazione tra cultura e ambiente. Il paesaggio come teatro dell’attività dell’uomo quale protagonista storico, che contribuisce all’evolversi e alla trasformazione della scena, realizzando una successione di scenografie diverse nel tempo.
Riscoprire paesaggi antichi comporta un grande sforzo che non è solo scientifico ma, in primo luogo umano, proprio perché implica un allontanamento dalla dimensione spazio temporale moderna ed una immersione nel passato, alla ricerca di scenari, nella loro materialità e immaterialità, ormai dimenticati ma ancora vivi nel presente.
Lo sforzo scientifico non è da intendersi solo nella registrazione dei dati e nella loro decodificazione, ma anche soprattutto nel travaglio della riflessione e nel tentativo di far propria, per poi trasmetterla, una percezione del paesaggio antico molto distante da quella da cui si è partiti. Forse proprio da questo processo evolutivo di ricerca, che altro non è che un continuo costrui-re per poi smontare e poi ricostruire di nuovo, nasce il senso del relativisme des civilisations e quindi della relatività del paesaggio stesso. Sensazione che ha ben riassunto Roger Bastide nel sentiment tragique de notre insularité
, scrivendo a proposito del travaglio drammatico del lavoro di ricerca di Alfred Métraux[1]. Un’immagine che si ispira, inconsciamente ma di certo non a caso, ad una dimensione geografica utilizzata come metafora del modo di sentirsi dello studioso e forse in generale di chi lavora alla ricerca in maniera libera ed incondizionata. In Métraux, si coglie accanto al pieno coinvolgimento nella ricerca, che non era solo mero studio ma impegno verso l’altro, une violente ardeur de vivre jointe à una coscience impitoyable de ce qu’il y a là de dérisoire
, come Michel Leiris ulteriormente sottolineava[2].
La criticità dell’anelito di conoscere, di uscire dalla propria cultura e di acquisire una dimensione più ampia la troviamo come motivo nel Philoctète di Andrè Gide: l’eroe proprio nel suo isolamento matura la distanza dai compagni e quindi dalla grecità. Anche questa volta il distacco deriva da un ampliamento della conoscenza. La permanenza sull’isola rende Filottete meno greco e più uomo: moi, dans cette île, je me suis fait de jour en jour moins Grec, de jour en jour plus homme
[3], andandosi a contrapporre a Ulisse quale rappresentante della grecità per eccellenza.
La variazione della percezione dello spazio si manifesta in modi e tempi diversissimi da un contesto geografico all’altro, ma anche in rapporto alla condizione sociale del soggetto attore; nello stesso tempo l’osservatore porta con sé i parametri della propria formazione e delle proprie abitudini, lasciando aree di insondabilità, più o meno ampie, che possono essere campo di ulteriori investigazioni. È anche vero che, sulla base dei principi di Bateson[4], cervello ed ecosistema si specchiano l’uno nell’altro
[5].
Scoprire paesaggi significa in primo luogo conoscere persone, anche se si tratta di paesaggi antichi. C’è però una differenza sostanziale che separa i paesaggi vivi dai paesaggi scomparsi: nei primi, infatti, vediamo agire direttamente l’uomo, nei secondi questa possibilità la si può soltanto ricostruire attraverso le fonti documentarie e l’immaginazione scientifica. È un po’ come osservare la vita di un accampamento di nomadi e poi rivederlo dopo che si sono spostati; che cosa resta in fondo di loro? Tracce, nient’altro che tracce da analizzare e da connettere ad altre.
L’uomo moderno, lontano erede di paesaggi scomparsi, può conservare elementi ereditati dal passato, ma vive nel suo tempo e nel suo spazio specifico. Eppure, non si può fare ricerca archeologica prescindendo dagli uomini che sono cristallizzati nei manufatti, nelle tracce. Citare Métraux potrebbe dunque non essere un mero esercizio letterario, quanto piuttosto una esemplificazione dello stretto rapporto che lega discipline diverse nella comprensione dell’uomo quale costruttore di culture e di paesaggi diversi. Il paesaggio diviene un tutto dove antropologia, storia, archeologia, arte ed architettura si fondono in legami non sempre perspicui, ma strettamente collegati nell’unità profonda del sapere e della conoscenza.
È proprio questo legame tra presente e passato che difficilmente può portare a scindere la ricerca in due compartimenti temporali nettamente separati: l’interazione dei fenomeni antichi e moderni sul territorio è tale che se non si comprendono gli uni, difficilmente si capiscono gli altri. Ecco allora la necessità di amalgamare gruppi di ricerca interdisciplinari, laddove possibile, o quantomeno di affrontare i progetti con un approccio, direi una forma mentis, aperto allo studio diacronico e di lunga durata, in grado anche di comprendere dagli esiti i punti di partenza, dal dopo il prima. Il metodo che gli storici chiamano regressivo[6] e che gli archeologi riassumono nello studio della stratigrafia dei paesaggi[7].
Quanto scritto implica l’esigenza di parlare anche del rapporto difficile tra l’antico e il moderno, della tutela ma anche della valorizzazione. Temi estremamente attuali, qualche volta risolti in maniera controversa e contraddittoria, spesso fonte di problemi causati da limiti culturali nella gestione dei territori, ma anche dall’assenza di politiche culturali ed educative. Si vuole intendere la politica, in qualsiasi forma attuata, quale strumento imprescindibile di democrazia e civiltà, esattamente come la intendeva con semplicità Giacomo Ulivi, a diciannove anni, in una lettera, senza tempo, agli amici[8].
Tra gli intenti della Collana vi è quello di far dialogare ricerca, tutela e valorizzazione; aspetti che sono tra loro inscindibili, ma che risultano frammentari per la separazione istituzionale degli ambiti e la loro scarsa comunicabilità, anche per difetti di impostazione metodologica.
In questo momento storico, non ci si può esimere dal guardare come la dialettica tra East and West, richiamando la nota rivista fondata da Giovanni Gentile e Giuseppe Tucci, si sia in buona parte compromessa, missioni di ricerca e viaggi per la conoscenza sono diventati impossibili in paesi che ora attraversano vicende politico-religiose che l’Europa sembra ormai da tempo aver lasciato alle spalle. In quelle stesse regioni il dialogo sembra negato e così anche il rapporto con il passato. L’uccisione di migliaia di innocenti e la distruzione del passato, operata in maniera intenzionale, rappresentano un grave indicatore di nuovi tempi di barbarie. Interi paesaggi storici sono spazzati via senza pietà alcuna. I Buddha di Bamiyan, distrutti dai talebani nel 2001, non sono stati che un inizio poi proseguito in altre zone del Vicino Oriente e del Nord Africa.
A Giuseppe Tucci spettò il merito enorme, sotto il profilo scientifico e culturale, di aver dato un impulso straordinario alla conoscenza delle culture asiatiche: Campagne di scavi, viaggi di esplorazione e simili ricerche, intraprese con più vasto raggio e con maggiore impegno, dovrebbero continuare l’antica nostra tradizione umanistica, ardente e disinteressata, che fu ponte spirituale tra Oriente e Occidente e a poco a poco far cadere l’illusione che il sole splendesse solo in Europa e quivi unicamente l’uomo fosse privilegiata creatura nella quale, in perfetto e quasi divino equilibrio, l’immaginazione si congiunge alla sottigliezza logica ed il fuoco dell’estasi mistica viene mitigato da una spensierata bramosia di vivere
[9]. Erano altri tempi, stupefacenti e fecondi – pur se tremendi perché preludevano alla Seconda guerra mondiale – che portarono a conquiste culturali incredibili nell’avvicinare e comprendere l’Oriente, progressi di cui bisogna fare tesoro, ma lontani ormai dai nuovi tempi che hanno visto imporsi sulla scena il fondamentalismo cruento, capace solo di produrre paesaggi di distruzione e di desolazione.
Lo sguardo rivolto al passato non dovrebbe far dimenticare che le generazioni future erediteranno dei paesaggi, certamente non frutto del caso, forse anche, ma programmati e voluti nel bene e nel male. Friedrich Nietzsche scriveva, in una sua opera, che un eccesso di storia uccide l’uomo e che soltanto chi costruisce il futuro ha il diritto di giudicare il passato[10]; credo sia una affermazione da accogliere in buona parte ancora oggi. Non conoscere la storia significa rinunciare a progettare un futuro degno di essere vissuto, così come solo conoscendo la storia dei paesaggi si può programmare il futuro dei territori e degli uomini che li vivranno.
Bibliografia
Bastide 1964: R. Bastide, Hommage à Alfred Métraux, in L’Homme IV, 1964, 2, p. 8.
Bateson 1972: G. Bateson, Steps to an Ecology of Mind. Collected Essays in Anthropology, Psychiatry, Evolution and Epistemology, New York 1972.
Bateson 1979: G. Bateson, Mind and Nature. A Necessary Unity. Advances in Systems Theory, Complexity, and the Human Sciences, New York 1979.
Cambi-Terrenato 1994: F. Cambi-N. Terrenato, Introduzione all’archeologia dei paesaggi, Roma 1994.
Gide 2001: A. Gide, Philoctète, in Le retour de l’enfant prodigue, Paris 2001.
Leiris 1964: M. Leiris, Hommage à Alfred Métraux, in L’Homme IV, 1964, 2, p. 12.
Malvezzi-Pirelli 2003: P. Malvezzi-G. Pirelli (a cura di), Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943-25 aprile 1945), Torino 2002.
Meschieri 2010: M. Meschiari, Terra Sapiens. Antropologie del paesaggio, Palermo 2010.
Nietzsche 1874: F. Nietzsche, Unzeitgemässe Betrachtungen, Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, Leipzig 1874.
Tosco 2009: C. Tosco, Il paesaggio storico. Le fonti e i metodi di ricerca, Roma-Bari 2009.
Tucci 1953: G. Tucci, Tra giungle e pagode, Roma 1953.
[1]Bastide 1964, p. 8.
[2]Leiris 1964, p. 12.
[3]Gide 2001, p. 105.
[4]Bateson 1972, 1979.
[5] Meschieri 2010, pp. 56-62.
[6]Tosco 2009.
[7]Cambi-Terrenato 1994.
[8][…] Invece dobbiamo guardare ed esaminare insieme: che cosa? Noi stessi. Per abituarci a vedere in noi la parte di responsabilità che abbiamo dei nostri mali. [...] Ma soprattutto, vedete, dobbiamo fare noi stessi: è la premessa per tutto il resto. [...] Ma, credo, lavorare non basterà; e nel desiderio invincibile di ‘quiete’, anche se laboriosa, è il segno dell’errore. Perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi il più possibile da ogni manifestazione politica. [...] Credetemi, la ‘cosa pubblica’ è noi stessi: ciò che ci lega ad essa non è un luogo comune, una parola grossa e vuota, come ‘patriottismo’ o amore per la madre che in lacrime e in catene ci chiama, visioni barocche, anche se lievito meraviglioso di altre generazioni. Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda. Al di là di ogni retorica, constatiamo come la cosa pubblica sia noi stessi, la nostra famiglia, il nostro lavoro, il nostro mondo, insomma, che ogni sua sciagura è sciagura nostra, come ora soffriamo per l’estrema miseria in cui il nostro paese è caduto: se lo avessimo sempre tenuto presente, come sarebbe successo questo? [...] Come vorremo vivere domani? No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere. Pensate che tutto è successo perché non ne avete più voluto sapere! […]
. Si veda: Malvezzi-Pirelli 2003 [1952], pp. 320-323.
[9]Tucci 1953.
[10]Nietzsche 1874.
Introduzione
Paolo Brocato
Il volume racchiude sei studi di archeologia su alcune zone della Calabria settentrionale. Dunque, non un approfondimento su un tema ben preciso, ma alcune riflessioni e scoperte sull’archeologia italica, su quella romana e sul modo di valorizzare i beni culturali locali. Insomma, soltanto alcune notizie, frutto di ricerche e scoperte diverse, che lasciano intravedere quanto sia ancora necessario fare per questi territori. Non vi è dubbio che lo stato degli studi è ben lungi da una ricostruzione del paesaggio antico; vanno ancora raccolti dati e informazioni per la storia del passato più remoto da intendersi in senso globale. Soprattutto, è necessaria una ricerca che si muova tra archivi e territori, in un alternarsi di reciproche corrispondenze che solo l’analisi di lungo periodo può pienamente far fruttare. Emilio Sereni, riferendosi al paesaggio, ricordava: Quel dato paesaggistico stesso diverrà, insomma, per noi una fonte storiografica solo se riusciremo a farne non un semplice dato o fatto storico, ancora una volta, bensì un fare, un farsi di quelle genti vive: con le loro attività produttive, con le loro forme di vita associata, con le loro lotte, con la lingua che di quelle attività produttive, di quella vita associata, di quelle lotte era il tramite, anch’esso vivo, produttivo e perennemente innovatore
[1]. Verso questo tipo di prospettiva dovrebbero muoversi le ricerche, avendo cura però di valutare quei vuoti, quelle assenze che rappresentano anch’esse un incontrovertibile limite di cui è necessaria la piena consapevolezza. Ancora appare estremamente significativo, soffermandosi sullo studio del paesaggio, quanto scrisse Eugenio Turri a tale proposito: «… una ricerca sul paesaggio dovrebbe mettere in luce – cosa che di solito non fa mai – il significato di certe permanenze non meno che quello di certe assenze, di elementi visibili e di elementi invisibili che dovrebbero essere visibili ma non lo sono. Ad esempio certi buchi
sul territorio, certe concentrazioni di elementi, certe assurdità distributive trovano ragione nell’adesione o meno del presente ai segni del passato, nella tendenza a cancellare o rendere invisibile il passato nel suo rapporto con il presente»[2]. La valle del Crati, parte preponderante del paesaggio della Calabria settentrionale, appare essere cruciale per gli esiti storici; alle sue estremità, infatti, Sibari e Cosenza segnano, con un cammino diverso, i due epicentri dello sviluppo urbano dell’area: Sibari, seguita da Thurii e Copia[3], e Cosenza, prima metropoli brettia e poi centro romano. Eppure entrambe le città, un tempo grandi metropoli, sono ad oggi due realtà pressoché sconosciute. La prima sepolta da strati alluvionali e dalla falda acquifera, che ne rende difficoltosa l’indagine, la seconda dimenticata del tutto se non per qualche occasionale contributo di ‘cronaca di scavi di salvataggio’, eseguiti diversi anni orsono, ed editi con estremi ritardi e in versione del tutto preliminare[4]. L’archeologia urbana di Cosenza rappresenta un vuoto, un vero e proprio ‘buco’ nella storia della ricerca e di conseguenza anche nell’identità della popolazione residente. Il suggestivo centro storico appare trascurato, abbandonato, degradato, privato in altre parole delle proprie radici e forse inseribile in quella categoria dei non luoghi
così come definiti da Marc Augé[5]. Sembra quasi che le ricche testimonianze archeologiche, affioranti in moltissimi edifici del tessuto urbano, non siano importanti e non costituiscano il ‘cemento ideale’ su cui fondare l’identità della comunità moderna[6]. Il caso di Piazza Toscano, che qui viene presentato, è illuminante in questa direzione. Nessun cittadino o visitatore può facilmente capire che cosa significhi l’audace realizzazione architettonica e che cosa si celi realmente al di sotto di essa. Il risultato finale è l’aver prodotto un nonluogo
all’interno di un nonluogo
, un’area degradata, che si intendeva valorizzare, tornata ad esserlo quasi come all’origine. Ecco la tendenza a cancellare e a rendere invisibile il passato
di cui parlava Eugenio Turri ma, in questo caso, ottenendo obiettivi opposti rispetto a quelli programmati. The Past is a Foreign Country[7], ma forse è anche qualcosa di peggio se è vero che la nostra società soffre nel definire e distinguere lo spazio pubblico da quello privato, trasportando all’interno dell’agorà deserta l’oikos, secondo la prospettiva di una società intimista. Ad una società liquida corrispondono identità liquide[8]. Le nuove tendenze della globalizzazione, la diffusione di internet e in particolare tutte le trasformazioni subite dalla società a partire dagli anni novanta, hanno diametralmente modificato il senso e il modo di intendere la comunità e i valori identitari ad essa connessi. Se è vero che nel pubblico diversi sono i casi in cui il senso dello Stato vacilla, è altrettanto vero che nel privato l’associazionismo, politico e culturale, non trova più un terreno fertile su cui svilupparsi. Dunque, il contesto storico e sociale può essere letto in una prospettiva di questo tipo, ma quanto detto non giustifica le scelte che le amministrazioni locali e periferiche dello Stato fanno o meglio non fanno, trovando il più potente alleato, per fortuna non sempre, nell’assenza di una coscienza civica che tuteli quanto deve essere tramandato alle generazioni future.
La crescita della sensibilizzazione verso i beni culturali in un simile contesto conosce, quindi, punte di arretratezza inimmaginabili che spesso non si fondano su carenze di ordine finanziario, quanto sull’incapacità di pianificare adeguatamente non per l’oggi ma per il domani.
La reazione a tutto questo non può essere il silenzio, ma la volontà di ricordare, di narrare ciò che è avvenuto. Quello che non è stato fatto a Piazza Toscano. Come ha scritto Antonella Tarpino, raccontare un luogo vuol dire quindi animare i suoi perimetri fisici: ritagliarne il profilo nello spazio indifferenziato e inerte che lo circonda
[9].
Il recente passato ha consegnato agli italiani, e nello specifico ai calabresi, per gli argomenti di archeologia di cui ci occupiamo, un paesaggio di frequente deturpato e distrutto dal cemento, dove spesso il bene culturale non è ormai che un’isola assediata. Ben pochi sanno che nel centro di Cosenza si trovano importanti stratigrafie archeologiche che consentirebbero di ricostruire
tutta la storia della città, se soltanto si potesse operare con metodologie adeguate e con progetti finalizzati e condivisi.
L’assenza di sensibilità verso il bene culturale tende a sottrarre una enorme quantità di dati alla ricerca. Laddove la sensibilizzazione verso il bene
archeologico non si sviluppa, lì dimora la terra di nessuno, dove ogni cosa è lecita e dove non c’è spazio per costruire su solide basi il futuro. La vera tutela si può raggiungere solo con la partecipazione attiva dei residenti, altrimenti ogni cosa si riduce a una battaglia persa in partenza.
Dispiace sapere che l’Università della Calabria è probabilmente stata costruita, in parte, su un sito archeologico di età romana, noto fin dal 1887[10]. Fa un po’ impressione e forse poteva essere evitato. Eppure l’elenco potrebbe essere infinito, ma voglio limitarmi a ricordare alcuni episodi che fanno meditare molto sulla questione della conservazione e fruizione. Ho già scritto qualcosa, in relazione allo stato della tutela del sito indigeno di Francavilla Marittima/Timpone della Motta[11], eppure non mi sono soffermato a sottolineare, come invece hanno fatto alcune mie allieve[12], che due delle aree archeologiche della necropoli sono scomparse pur essendo documentate e pubblicate. Le ho cercate invano sul terreno con l’aiuto delle persone che da sempre abitano i casali vicino alla necropoli; le zone di Vigneto e di Uliveto, edite anche con l’ausilio di planimetrie da Paola Zancani Montuoro[13], sono sparite lasciando evidentemente il posto alle arature e all’incuria degli uomini e dello Stato[14]. D’altronde, come ci si può stupire in un territorio dove, come ha ricordato, pochi anni or sono, Salvatore Settis uno studio reso pubblico dalla regione Calabria (giugno 2009) ha registrato 5210 abusi edilizi nei 700 chilometri delle coste calabresi, mediamente uno ogni 135 metri di cui «54 all’interno di Aree Marine Protette, 421 in Siti d’interesse comunitario e 130 nelle Zone a protezione speciale», incluse le aree archeologiche
[15].
Completano il quadro alcuni episodi emblematici sull’uso dei beni culturali calabresi, questa volta indotti dall’esterno. Il primo riguarda la piccola chiesa della Madonna del Carmine di Montegiordano. L’edificio religioso, prima smontato e poi imballato, doveva essere esposto al MoMA PS1 di New York per una realizzazione dell’artista Francesco Vezzoli, ma le forze dell’ordine ne hanno bloccato i containers nel porto di Gioia Tauro. Questo tipo di utilizzo del passato è derivato, oltre che dalla scarsezza di identità culturale e dalla disattenzione verso i beni culturali, anche evidentemente da una richiesta
‘onnivora’ che tende a sciogliere qualsiasi legame contestuale dell’opera architettonica con il paesaggio di cui fa parte. Anche i bronzi di Riace, nel Museo di Reggio Calabria, sono stati oggetto di una vicenda molto discutibile: lo scorso inverno Gerald Bruneau ha proceduto alla vestizione con velo da sposa e tanga delle due statue. Di nuovo si resta attoniti: l’opera viene piegata