Una giovinezza del secolo XIX/Parte terza
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Parte Terza
Temo che l'insufficienza della mia penna non mi abbia concesso di esprimere, come io la sento, la dolcezza della vita di provincia, quando non sia intorbidita dal pettegolezzo o resa manchevole per speciali aspirazioni dell'intelletto; l'uno e le altre non applicabili alle mie zie perchè, se la loro condizione apparteneva a quell'aurea mediocrità lodata dal saggio, non era tal ventura da suscitare l'invidia, cagione principale di discordia; non era nemmeno il caso di pettegolezzi galanti. Esse dunque avevano tratto dalla loro vita ogni possibile bene e potevano legittimamente pensare che avrebbero continuato fino all'ultimo. Il mio desiderio di far conoscere quanto fossero libere e felici è per far risaltare in tutta la sua grandezza il sacrificio d'amor fraterno, da esse compiuto, abbandonato casa, abitudini, relazioni, indipendenza assoluta, per venire a rinchiudersi fra i muri di una città ignota, dove non conoscevano nessuno, dove ogni volto incontrato per via era straniero e solo le cure affannose della famiglia riempivano i giorni altre volte così lieti del dolce passato. Il disastro finanziario del nonno di Caravaggio, che aveva inghiottita la dote di mia madre, contribuì a rendere più difficile il reggimento domestico gravato di tre figliuoli, per cui le generose donne, che se ne erano assunto il carico, dovettero sentirne per le prime il disagio e più cocente il rimpianto della perduta pace.
A consolarle un poco del brusco distacco, mio padre promise loro che saremmo andati tutti gli anni un paio di mesi a Casalmaggiore. Era allora un viaggio di non poca importanza. Si partiva alle dieci di sera colla diligenza Franchetti che stazionava in via Monte Napoleone; ricordo ancora l’impazienza mia e dei miei fratelli nell’attesa dell’ultima ora. Seduti tutti intorno alla sala da pranzo, al lume oscillante di una candela, colle braccia incrociate sul nostro rispettivo bagaglio, il tempo ci sembrava eterno. Il silenzio era un abitudine della nostra famiglia, che solo il mio minore fratellino si permetteva di rompere saltellando intorno alla zia Nina; ma in quella circostanza speciale arrischiavo anch’io di chiedere di tanto in tanto. - Sono suonate le nove? - Il gran momento giungeva alfine ed era allora come un accavallarsi di onde, urtandosi l’un l’altro, a chi faceva più presto, nel puerile timore di non arrivare in tempo. L’assicurazione di papà che i posti erano già presi e che la diligenza non sarebbe partita senza di noi riconduceva la calma. L’illuminazione di Milano non era mezzo secolo addietro così brillante come oggi e quando si giungeva dinanzi all’agenzia Franchetti la massa nera della diligenza ferma ad aspettarci non lasciava scorgere altro. Questa diligenza era composta qualche volta di due scompartimenti, ma più spesso di tre: il coupè a due posti, il centro a sei e la rotonda dietro, alla grazia di Dio. Era tanta la fretta di occupare il nostro posto che non si badava ad altro; ombre indistinte facevano come noi; entravano, prendevano possesso del loro cantuccio e scomparivano nelle tenebre; i cavalli scalpitavano, il mozzo di stalla con una lanterna in mano dava l’ultima occhiata alle ruote, il postiglione schioccava la frusta e via! Traballando la grossa mole attraversava la città, ma il bello veniva dopo, in aperta campagna, quando la diligenza inoltrava per vie maestre completamente buie colla sola guida dei due fanali, che gettavano fra le ruote un scialbo raggio giallastro.
Durava ancora il ricordo degli assalti briganteschi alla diligenza e la zia Margherita, che non conosceva paura, dilungavasi volontieri a narrare le gesta del celebre Strigelli, intorno al quale aleggiava una romantica leggenda di amore infelice propria a concigliargli la benevolenza del sesso gentile; si diceva anche che egli spingesse la cortesia fino a munirsi nelle sue aggressioni di acqua di Colonia, per soccorrere le signore che si fossero spaventate. Siccome però non tutti i briganti somigliavano a Strigelli e fosche storie correvano di non lontani assalti alla diligenza stessa in cui eravamo, non potevo impedire alla mia immaginazione di pensarci, e per un gruppo d’alberi, per un rialzo improvviso di terreno, trasalire quasi vi fosse nascosto un agguato. E lunga una notte intera trascorsa in un cassone buio insieme a compagni di viaggio dei quali non si è ancor vista la faccia. Si tentava di indovinare qualche cosa in un gesto, in una parola; qualcuno buttato in un angolo come un fagotto non si muoveva durante tutto il tragitto; qualche altro russava. C’erano invariabilmente delle donne che soffrivano per dover stare col dorso contro i cavalli: a una di queste una volta un soldato offerse una presa di tabacco. A tratti regolari la diligenza si fermava per il cambio; usciva allora da una osteria un mozzo mezzo assonnato traendosi dietro i cavalli freschi; due o tre viaggiatori scendevano, gli altri stendevano le gambe con un largo respiro di sollievo cacciando la testa fuori dello sportello. Si scambiavano alcune parole: — Dove siamo arrivati? Manca molto? Che ore sono? — Intanto le bestie staccate dalla diligenza passavano a testa bassa, col dorso che fumava, avviandosi alla stalla. Il cassone nero traballando riprendeva la sua corsa nella notte. Quando finalmente l’alba imbiancava l’orizzonte si sapeva di essere ancora lontani dalla meta, ma uscendo dalle tenebre ci sembrava di rivivere. Borghi e paeselli si disegnavano nitidi nel chiarore del sole nascente, si riconoscevano i luoghi, si salutavano con una tenerezza di vecchi amici. A mezzogiorno apparivano le torri e le cupole di Casalmaggiore; battevano i cuori, battevano i piedi impazienti; il postiglione impettito nella sua divisa a mostre rosse e bottoni dorati schioccava la frusta ornata di peli di tasso e imboccando la cornetta — te re tè, te re tè, teretè — con una svolta più sapiente ancora di quella del vecchio Nicola faceva la sua entrata trionfale nell’albergo della Croce Verde a due passi da casa nostra.
Uno o due anni, non più, Casalmaggiore fu la nostra villeggiatura; ma nella prova del tempo gli inconvenienti della lontananza si mostravano sempre più gravi; spesa di viaggio per sei persone, la casa per una decina di mesi abbandonata, l’impossibilità di sorvegliare quel po’ di terreno che si aveva, queste e forse altre riflessioni persuasero mio padre della necessità di vendere e tutto fu venduto; i vigneti testimoni di tante allegre vendemmie, la casa con tutti i suoi fiori, coi panciuti cassettoni a riporti di metallo, colle placche civettuole ancora nei loro platonici amori fra lo specchietto arrugginito e il candelabro spento. Tutto; anche il susino di S. Anna, anche le belle incisioni della camera da letto, rappresentanti le scene pietose della rivoluzione francese e quella povera regina che scontò in un modo così atroce le leggerezze di una società intera. Il dolore, che deve essere costato alle mie zie la generosa rinuncia, è segno di una magnanimità che, vieppiù distanziandosi nel tempo, mi appare in tutta la sua grandezza. La zia Nina anche in tale eccezionale circostanza non uscì da quella sua attitudine apparentemente passiva che non la metteva mai sul primo piano dell’azione, che è in fondo l’istintiva prudenza dei deboli; anche la zia Margherita, forse per non far pesare su altri il sacrificio, tentava di mostrarsi rassegnata, ma io la udii nel colmo della notte la sua voce piena di schianto urlare colla bocca sotto le coltri: "Non ho più nulla! Non ho più nulla!.." Cara ed eroica donna, che cosa erano le sue asprezze, le sue collere, i suoi lampi d’ira, se non l’ombra della gran luce del suo cuore?
Più piccolo cuore, senza dubbio, era al confronto quello della zia Nina, ma se io, sua vittima appena adolescente, avessi dovuto giudicarla solo dal male che mi fece mi sarei grossolanamente ingannata. Io non la giudicai allora, soffersi in stupore e in silenzio una avversione che non comprendevo. Ora che la scienza della vita mi ha insegnato a leggere nei cuori, compiango ancora la fanciulla che, per una fatale deviazione del sentimento, nella persona che doveva proteggerla ebbe conturbati gli anni primi e sacri della giovinezza, ma compiango anche colei che il mancato destino aveva trasformata da creatura d’amore in creatura d’odio. La verità che io imparai è questa. Ella era nata per l’amore; non l’amore fantastico, nè l’amore passionale, i quali esigono doti di intelligenza che mancavano a lei, ma l’amore semplice, l’amore per l’amore. Ho pensato qualche volta come la sua indole passiva e silenziosa si sarebbe accomodata alle abitudini della donna orientale, alle lunghe soste su un morbido divano, seguendo con gli occhi le spire dei profumi accesi nei braceri d’argento, immobile, senza alcun pensiero tranne quello dell’arrivo del suo signore. È però quasi certo che la zia Nina non spinse mai la sua immaginazione così lontano e i suoi sogni d’avvenire non oltrepassarono il benessere materiale di una comoda casa e di un buon marito. Tale modesta felicità non le fu concessa; la sognò sempre, la sognò fino ai limiti della vecchiaia e il sogno aveva un nome. Si era innamorata di un giovane senza professione e senza beni di fortuna il quale, lasciandole credere che l’avrebbe sposata quando gli si fosse aperta una carriera, aveva calcolato bene su quel suo temperamento remissivo, molle, che non parlava, che non faceva strepito. Ma la vana attesa di tutta la vita, lavorando inconsapevole dentro di lei, accumulava acredine, invidia, spasimo di sensi insoddisfatti, di amor proprio ferito e un sedimento di veleni si era fatto strada nel suo cuore aspettando una occasione per traboccare. L’occasione sono stata io.
Un semplicismo troppo elementare vorrebbe dividere gli uomini in due distinte categorie, i buoni e i cattivi; ma non vi è nulla di assoluto là dove il movimento è continuo e la trasformazione legge di natura. La zia Nina era buonissima, buona con tutti, pronta sempre a rendere servizio. Bastava guardarla, quando accarezzava il mio minore fratello e si scambiavano tra loro a bassa voce paroline e baci, per riconoscere la donna nel suo istinto primitivo di amante e di madre, l’Eva dal gesto morbido e consenziente, dal grembo fecondo. Se ella avesse potuto compiere la sua missione il veleno corruttore non l’avrebbe neppure intaccata. È con profonda soddisfazione che posso affermare: ella era buona. Durante gli anni del mio martirio i suoi atti, le sue parole, i suoi torbidi silenzi cadevano sull’obbiettivo della mia mente non in modo diverso dei paesaggi che il viaggiatore accumula sugli obbiettivi della sua kodak ma che sviluppa più tardi. La mia mente, inesperta allora, accoglieva ciò che solo gli acidi e i reattivi dell’esperienza mi hanno permesso di classificare secondo il loro valore. Il mio orecchio udì l’orrenda confessione: - Non la posso soffrire, la odio. - Ma è tutta l’anima mia maturata dal dolore, che mi fa ricordare lo schianto della sua voce nel pronunciare quelle parole. Era la voce compressa di una grande sofferenza.
Può a tutta prima non sembrare molto visibile il nesso tra la sua vita mancata e l’odio per la mia che sorgeva; gli è che questa fanciulla, sorta improvvisamente al suo fianco, nel momento in cui forse stava per dimenticare, le rimetteva davanti tutte le sue aspirazioni, i suoi spasimi, i suoi disinganni. Credendo di odiarmi si ingannava; odiava confusamente in me la forma derisoria del suo destino, la rivale, l’usurpatrice giovane, del bene che le era sfuggito. La mia presenza le sembrava una sfida, la mia supposta felicità un insulto. Se non poteva più toccare i miei capelli, se non voleva più uscire con me al suo fianco, era perchè la sua carne martoriata provava al mio contatto una ripugnanza che doveva farla soffrire nelle sue fibre più profonde. Povera donna! Vorrei ella sapesse ora, che mai in nessun momento io le ho voluto male e sono così fiera e sono così felice di aver preso il suo odio sulle mie braccia portandolo in alto alla luce della verità che gli ha reso il suo vero nome: dolore.
È in queste lontane impressioni che si deve cercare l’origine delle molte pagine da me scritte in favore della donna che ha fallita la sua missione. Certo il caso della mia zia non è dei più comuni, ma come fondamento della tesi è tipico e il fatto di averlo potuto esaminare in tutte le sue forme e gradazioni prima, di averlo vagliato poi attraverso anni ed anni di esperienze, mi dà la piena sicurezza del mio asserto. Sarebbe giudizio grossolano il credere che dal solo atto materiale di unirsi ad un uomo dipenda la felicità della donna; essa dipende da una logica concatenazione di cose, ma è pur vero che il desiderio del fiore implica la ricerca della semente. Questioni così delicate vengono purtroppo manomesse da persone superficiali e guaste di spirito che non sarebbero degne neppure di avvicinarvisi; sono costoro che gettano una volgare ombra di ridicolo su ciò che avvi in natura di più santo, di più vicino a Dio. Io dirò ora una cosa che potrà scandalizzare qualche coscienza austera; prego di rammentare l’ammonimento di S. Paolo: La lettera uccide e lo spirito vivifica. Dunque dico che piacere è l’istinto più importante che il fattore dell’universo ha messo nella donna. Non importa se lungo la corruzione dei secoli e dei costumi deviò dallo scopo fino a sopprimere lo scopo stesso; esso è la voce del Creatore che affida con questo mezzo alla donna l’alto dovere di imporre all’uomo la continuazione della specie, al quale il suo egoismo lo sottrarrebbe immancabilmente se non vi fosse l’esca di un diletto. La più frivola delle donne, che si illude di infiocchettarsi e di civettare per seguire la propria vanità, ubbidisce senza saperlo a questa legge suprema; ma la donna che sente nobilmente di sè, che è pronta a tutti i doveri del suo sesso, ne esige pure i diritti e vuole amare e vuole essere amata, perchè le sue labbra non devono chiudersi per sempre senza aver conosciuto il bacio dell’uomo, nè il suo grembo isterilirsi prima di avere comunicato i misteri del suo essere alle generazioni future. Nessuna vera donna sottoscrive a questa rinuncia senza soffrire; talvolta la sofferenza è spasimo e disperazione, tal’altra è profonda mestizia o rassegnazione malinconica od anche fierezza di silenzio, o vertigine di oblio; ma qualunque sia il velo pudico che cela la sofferenza, guardatele bene queste vergini canute e, salvo rare eccezioni, sollevando un lembo di quel velo, troverete la lagrima, congelata fra ruga e ruga.
Alle eccezioni apparteneva forse la zia Margherita. Temperamento virile, abbiamo visto con quanta risolutezza si era opposta al matrimonio con un uomo che pure amava, evidentemente perchè in lei era scarso l’istinto del sesso e il bisogno sentimentale. Mente agile ed arguta, procliva alla critica, all’ironia, al sarcasmo (diceva di leggere volontieri il Fanfulla - il Fanfulla delle prime battaglie - perchè era sarcastico) tutta scatti e violenza, come avrebbero potuto trovar posto in lei i divini abbandoni dell’amore? Non riesco nemmeno a immaginare un tenero bambino sulle braccia della zia Margherita senza tremare per la sua sicurezza. I fautori estremi del femminismo, che vorrebbero emancipare la donna dalla casa, dal marito e dai figli spingendola sulla via delle conquiste maschili col sofistico pretesto che non tutte possono avere una casa, un marito e dei figli, dimenticano che la felicità non si trova che nel pieno esercizio delle proprie attitudini. Le iniezioni di mascolinità, che essi vogliono fare alla donna, se potranno offrire qualche frutto sporadico alle poche eccezioni che sono in grado di profittarne, ben maggior danno recherebbero alla donna e alla società portando il turbamento in migliaia e milioni di animuccie le quali si persuadono facilmente di innalzarsi meglio a sgonnellare negli Uffici pubblici, anzichè raccogliersi vigili e silenziose sopra una culla. Madamigella della Ramèe, nota per diversi racconti pubblicati sotto il pseudonimo di Ouida, chiese un giorno a un giovinotto, che le si protestava ardente ammiratore, se la ammirava come scrittrice o come donna. — Oh! come scrittrice! — disse lui convinto di farle la più gradita delle lodi. — Quanto avrei preferito — esclamò lei — essere ammirata come donna! — Sono perfettamente del parere di madamigella della Ramèe. E per mio conto soggiungo che se, nella ipotesi di un rinnovamento di vita, mi si promettesse la maggior gloria letteraria in cambio dell’amore, rinuncerei subito, essendo donna, al lauro di Dante, ma non a un sospiro di Beatrice.
Incominciando a scrivere questi ricordi della mia giovinezza ero molto preoccupata dalla necessità di dire quanto le mie zie fraterne l’abbiano resa triste e quanto al confronto dei nonni e delle zie materne, tutti così buoni con me. Ma accanto a questa necessità di fatto si ergeva pure dalla mia coscienza il dovere imprescindibile di difenderle contro i fatti stessi; esempio singolare di una verità non da tutti riconosciuta, quelle mie zie, che per cuore e per amore di famiglia non erano inferiori a nessuno, riuscirono a rendermi infelice perchè, se il male fosse un esclusivo prodotto di coloro che deliberatamente lo vogliono fare, assai meno ve ne sarebbe al mondo, ed infinito invece è il male che si fa senza saperlo, senza volerlo. Se ognuno di noi si esaminasse a fondo troverebbe una quantità di circostanze che lo indussero a fare questo male involontario, molte volte credendo di far bene. Nel caso delle mie zie, la poca conoscenza della vita e la nessuna attitudine educatrice non le rendeva adatte certamente al difficile impegno che era loro caduto sulle spalle, quando, già vecchie, avevano da tempo inquadrata la loro esistenza in forme e modi che non si potevano spezzare impunemente. Lasciate nella loro casetta, con le loro abitudini, le loro amicizie e la santa libertà di due esseri che vanno perfettamente d’accordo, nessun lievito avrebbe fermentato nei cuori che non indietreggiarono davanti al sacrificio. Le forze non furono pari allo slancio, ma il naufrago, che è stato salvato dal maggior pericolo, farà colpa al salvatore di avergli lasciato qualche unghiata sulla pelle?
Io ero una fanciulla un po’ diversa dalle altre, bisogna dirlo; diversa nelle qualità, diversa nei difetti. A parte le ragioni di antipatia che poteva avere per me la zia Nina, mancavami affatto quella festevole leggerezza della gioventù che si fa perdonare tutto. Quando penso che io non ridevo mai, che anche nei divertimenti la serietà non mi abbandonava; seria e timida e tutta rivolta dentro di me a cercare la ragione di ogni cosa, devo convenire di essere stata una adolescente, priva delle seduzioni naturali di quell’età. Non ero nè graziosa, nè spiritosa, nè amabile; in una parola non davo ciò che normalmente si poteva pretendere da me. Se la mia estrema sensibilità avesse avuto pascolo di carezze e di buone parole come hanno quasi tutte le fanciulle, anche la grande timidezza che mi paralizzava si sarebbe sciolta; ma tra l’ironia della zia Margherita e l’odio della zia Nina, senza altri parenti vicini, senza sorelle, senza amiche, conducendo una vita rinchiusa, in un ambiente contrario a tutte le mie aspirazioni non ancora sviluppate, ma latenti in tutto il mio essere, che mai potevo fare se non rinchiudermi in me stessa, asilo sempre pronto ad accogliermi? Questa mia solitudine spirituale, questa astrazione da fatti e detti e persone che non mi interessavano venne chiamata a volte aristocrazia, a volte egoismo. È singolare la deviazione di significato che queste due parole assumono nelle menti incolte. Io non so perchè si debba chiamare egoista la persona che vive delle proprie risorse e non quella che povera d’animo e di intelletto va mendicando con graziette e sorrisi l’alimento che non trova in sè. Questo santo, sacro, divino egoismo è l’economia di forze che il poeta, il pensatore, il veggente tengono in serbo per l’opera loro, ben più proficua agli uomini che non la vana dispersione di sorrisi e di grazie fatta da coloro che hanno la testa vuota e il cuore freddo. Non discuto qui dell’ingegno; molti sono i chiamati che non potranno sedere fra gli eletti; ma è certo che quando una vocazione si presenta imperiosa allo spirito, il dovere è di staccarsi dalla strada maestra nella quale si cammina in drappelli, per inoltrare, sia pure povero e nudo e solo, sul sentiero dove la voce misteriosa chiama. Io non sapevo ancora che cosa avrei fatto e dove volevo andare, ma un contrasto inesplicabile fra me e gli altri si accentuava ogni giorno più profondo; mi sentivo isolata, separata, con una sensazione di imbarazzo e di fuori posto che doveva rendermi abbastanza goffa. Era questo che chiamavano la mia aristocrazia?
Un rettangolo di carta lungo sette centimetri che bacio e ribacio con accorata tenerezza è il biglietto da visita di mio padre: Arch. Fermo Zuccari. Egli era anche consigliere e assessore comunale e socio onorario della Accademia di Brera. Nella semplicità di questo biglietto, in cui nemmeno la sua professione era scritta per intero, ritrovo tutta la sua semplice e modesta vita; eppure è con un sentimento di ammirazione che mi fa tremare la mano che mi accingo a parlare di lui, a condurre la sua nobile personalità sulla scena di piccoli avvenimenti e di piccole persone fra le quali sono cresciuta. Nell’articolo di quella mia amica trentina che io venni a conoscere qualche anno dopo che fu stampato, ritrovo con gioia le parole che a proposito di mio padre scrivevo in una lettera privata; esse sono là a testimoniare della sincerità della mia ammirazione. Tuttavia in quegli anni di nebbia per il mio intelletto e di sovrumana tristezza, ricevevo di lui, come ricevevo dalle mie zie, il solo obbiettivo fotografico. Esse mi facevano soffrire, lui no. Dolce, malinconico, distinto in ogni suo gesto, sobrio di parole, io lo veneravo, ma lo sentivo lontano. Sulla mia timidezza agiva anche la sua superiorità. Ne avevo un grande rispetto, alimentato dall’opinione e dal rispetto che ne avevano tutti quelli che lo avvicinavano; ma l’ottuso bacherozzolo, che io ero sempre, non lo conosceva ancora. Furono tutti gli uomini incontrati lungo i sentieri della vita che mi rivelarono veramente chi fosse mio padre, il suo valore morale, la purezza de’ suoi sentimenti, la tempra adamantina della sua coscienza. Non è che manchino uomini di incorrotta moralità, sentimenti puri e coscienze oneste; quello che non ho trovato più dopo mio padre (o in numero di sola eccezione) è l’uomo intero, l’armonia assoluta fra ingegno e costumi, in una parola l’esemplare. Io vidi, e ancora il cuore ne soffre, talenti insigni guasti dalla vanità, dall’invidia o dalla sete dell’oro o dalla tabe del vizio; vidi in anime gentili incredibili leggerezze; in promettenti intelligenze assenza di ideali; e sempre e dovunque nei curatori delle vergini anime infantili, padri e maestri, l’insufficenza di ogni criterio educativo soffocato nella volgarità, nel materialismo, nel non saper dominare le proprie passioni.
Mio padre era un silenzioso, ma nelle poche parole che profferiva non perdeva mai di vista i figliuoli che udivano, per cui posso dire che la nostra educazione morale, mia e dei miei fratelli, venne fatta non a mezzo di prediche, ma con pochi assiomi saldamente imperniati sull’esempio. È appunto questo esempio, non mai in difetto, che lo solleva al di sopra della folla e tanto alto nel mio cuore. Le vere qualità di un uomo meglio che in pubblico si giudicano fra le pareti domestiche. Quanti appaiono educati in società che in famiglia si abbandonano ai loro istinti volgari! Le conosciamo tutti, io credo, le famiglie danarose che, fra le eleganti suppellettili dei loro appartamenti, si abbandonano a discorsi da trivio e dinanzi ai figliuoli, che hanno già la loro fortuna assicurata, non sanno parlar d’altro che del modo di accumulare ricchezze e tengono in gran conto A. perchè ha molti soldi e disprezzano B. che è povero. Ah! vivaddio, noi non eravamo ricchi, ma di denari non si parlava mai e quelle celie di cattivo gusto e quei bassi intercalari di gente che porta addosso un patrimonio in brillanti non varcarono mai la soglia di casa nostra. E questo non solo per la innata signorilità di mio padre; anche le sue sorelle erano provinciali, erano ignoranti, ma volgari no; neppure la zia Margherita nei suoi impeti di collera; e non lo erano i miei fratelli, eredi delle migliori qualità del nostro genitore.
Potrebbe per avventura chiedere qualcuno de’ miei lettori come mai un uomo simile non avesse influito meglio sulla felicità dei miei giovani anni. Qui si dimostra l’alta missione della donna in famiglia, che solo i miopi di intelletto credono esaurita nello sferruzzare calze e quindi inutile agli evoluti tempi moderni, mentre essa è di tale ed elevata importanza che il migliore degli uomini, ove ella fosse da meno al compito, non potrebbe surrogarla. Ne fanno fede nella cronaca giudiziaria di tutti i giorni il fatto delle matrigne che seviziano i figliastri senza che il padre se ne accorga o sia in grado di porvi rimedio, mentre assai raramente o quasi mai ciò avviene per colpa dei patrigni. Egli è che i figliuoli e specialmente le ragazze stanno colla madre, non col padre; nella casa la vera padrona è la donna. La donna saggia — dice la Bibbia — edifica la propria casa, la stolta la distrugge. E dell’uomo non si parla. Solo il matrimonio ideale, che fonde due anime in una, può dare il risultato di una volontà unica. Chi può dire che cosa sarebbe stato di me se mia madre non fosse morta? Nella condizione dolorosa in cui tutti noi fummo posti per tale perdita, mancava l’elemento primo della felicità, che è l’intesa perfetta. Ognuno di noi faceva soffrire gli altri senza volerlo, ed a sua volta soffriva, ma le zie erano due, i miei fratelli due; mio padre ed io soli alle due estremità della vita.
Non mi sarei accinta a questo esame retrospettivo delle cause che, più o meno, influirono sullo sviluppo della mia mentalità, se non vi avessi scorto una situazione psicologica meritevole di studio, non per quanto riflette la mia piccola persona, ma per gli anelli che la congiungono a problemi di generale interesse. È questa anche una delle ragioni che mi distolsero dal farne soggetto di un romanzo a fine di non alterarne la rigorosa verità. L’intima unione di marito e moglie non poteva esistere fra mio padre e le sue sorelle, è evidente. Egli rimaneva durante il giorno nel suo studio, abbastanza lontano dalle altre stanze, per non sapere nulla di quanto vi accadeva. Se veniva tratto tratto a farci una visitina, ci trovava intente alle nostre occupazioni; se anche un momento prima vi fosse stato un diverbio, al suo apparire tutti tacevano. Per parte mia non so che cosa avrei sofferto piuttosto che portare a lui le mie recriminazioni; e questo, non solo per la soggezione che ne avevo, ma anche e più per un sentimento di dignità superiore ai miei anni e per quell’istintivo abborrimento delle azioni volgari che mi valse tante accuse di aristocrazia. Sotto questo aspetto anche mio padre era aristocratico e lo attestano i suoi modi educativi. Avendo io una volta negato, era la verità, di avere commesso non so più che fallo, stavo per dargliene la prova quando egli mi arrestò di botto dicendomi: "La tua parola mi basta, non aggiungere altro". Ah! che largo respiro! Perchè non ho avuto allora il coraggio di gettargli le braccia al collo? Che delicatezza di tocco! Quale profondo intuito delle anime!
Un ritratto a olio di mio padre, che nel nostro salotto faceva di riscontro a quello della mamma dipinto da Moriggia, lo rappresenta nel costume da atelier dei giovani allievi delle scuole artistiche romane: blusa sciolta, largo risvolto della camicia, berretto di velluto nero detto alla Raffaella. Sotto l’ombra che tale berretto getta sulla fronte, gli occhi di mio padre appaiono bellissimi, pieni di fuoco e di pensiero e bello il volto improntato a grande nobiltà. Gli ultimi dolori della sua vita però avevano spento il fuoco delle pupille; egli è rimasto nella mia memoria come il superstite di se stesso, malinconico, abbattuto, vinto. Il silenzio, velo pudico della sua tristezza, doveva certo popolarsi per lui delle tante immagini del passato. Quando veniva ad appoggiare la persona stanca sul divanuccio della nostra sala da pranzo, sembrava che una nuvola lo sottraesse alla indiscrezione degli altrui sguardi. Che cosa pensava allora? Che cosa vedeva nella folla dei ricordi? È abitudine dei giovani il non occuparsi della gioventù dei propri genitori; così come li vediamo ci pare che siano sempre stati. Brevi frasi, vaghe allusioni, mi guidarono più tardi a comprendere quanto deve essere stata interessante la gioventù di mio padre. Egli non ne fece mai il minimo accenno, non parlava mai di sè; ma là, su quel piccolo divano, nella penombra della stanza poco illuminata, somigliava alla statua del dolore china sull’urna delle illusioni perdute. Troppo tardi io andai cercando nella vecchia Roma le traccie del giovane studente, soffermandomi con intensa commozione nei luoghi dove immaginavo egli avesse maggiormente fermato l’attimo fuggitivo della felicità. E una volta, prima che si vendesse la casa di Casalmaggiore, da certe vecchie carte discese dal solaio dove regnava la signora Tintimillia, sfuggì un piccolo brano sul quale riconobbi subito la calligrafia minuta e regolare di mio padre; era evidentemente l’ultimo foglio rimasto di un diario che egli teneva quando studiava disegno 1913 a Roma e vi lessi: "L’oste vedendo i neri nostri barbigi e i nostri cappellacci ci prese per briganti". Sul foglietto la frase spezzata non aveva seguito e invano lo cercai altrove. La perdita di quel diario, scritto da lui nella antica Roma papale, la narrazione di quella gita fatta coi compagni nella vasta e maestosa campagna del Lazio dove era ancora possibile incontrare dei briganti, forse la relazione di un idillio in alte sfere, romanticamente troncato dal potere di un cardinale zio, (che questo ci fosse stato sapevo dalla solita archivista della famiglia) furono in tutti questi anni ed oggi più che mai oggetto per me di grande rammarico. È così dolce ritessere su documenti autentici la vita di coloro che abbiamo amato! Non è quasi un vivere ancora insieme? E vivrei colla mia anima d’oggi tanto vicino alla sua che non lo fosse nei giorni della ignara giovinezza.
Eravamo due tristezze vicine, ma egli era la tristezza del tramonto, io quella dell’alba e tuttochè vicini i nostri dolori ci dividevano. Ho pensato tante volte, quando mi guardava in silenzio, ed alla mestizia della sua pupilla saliva un’ansia inquieta, che egli pure sentisse vagamente il malessere della mia posizione di fronte alle zie; ma poichè nessun fatto positivo lo confermava ed egli aveva ben a ragione piena fiducia nelle sue sorelle, la mestizia rimaneva fluttuante nel cerchio grigio della fatalità che era piombata su tutti noi colla morte della mamma. Una sera eravamo rimasti soli nel tinello ed era quell’ora della mezza stagione in cui il giorno muore e non è ancor scesa la notte. Mi trovavo seduta, non so come, in un angolo del piccolo divano; papà venne a sedermi vicino ed a me, che nel turbamento di aver preso il suo posto stavo per alzarmi, appoggiò dolcemente la fronte sulla spalla. Io non so che cosa avvenne nel mio cuore rinchiuso e dolorante cinto da una corazza di spine. Trasalii smarrita nella mia nullità. Erano così straordinari quel gesto e quelle parole che tremai tutta, presa da umiliazione per la mia spalla tanto magra, con la paura e la vergogna di pungerlo, di fargli male, si che mi ritrassi lentamente nell’angolo del divano, rattenendo il fiato. Egli allora disse: — Non ami il tuo papà? — Oh! — feci — e non mi fu possibile aggiungere altro, e non compresi che anch’egli, povero d’amore come me, era venuto al buio a cercare la mia carezza!... Vi è cosa più triste di questo dramma di due anime? Sorvegliata, spiata, oggetto continuo di un mal volere che svisava ogni mio atto e incapace di reazione, le qualità di slancio e di ardore, che erano in me, giacevano soffocate al punto di non sapere io stessa decretarmi qual fosse il mio valore. Andavo avanti ad occhi chiusi, barcollante, impacciata, timorosa sempre dell’ironia che mi feriva con veri colpi di pugnale e in tale contrasto l’affetto per mio padre si rattrappiva in una forma di tenerezza che portava l’abito del mio dolore. Povero vecchio, lo vedevo aggirarsi con passo di fantasma in quelle stanze dove era solo, accanto a me, sola. E me ne veniva uno struggimento, una malinconia piena di rimorsi impotenti. Come il riso era straniero alle mie labbra, anche il pianto non era facile in me. Pure una volta che avevo il cuore gonfio di tutti questi sentimenti in lotta, fermando lo sguardo su di lui che più accasciato del solito giaceva sul divano, rigido e pallidissimo, fui presa da tanto affanno che fuggii in camera, dove la zia Margherita, venuta a raggiungermi, mi trovò immersa in una crisi di lagrime. Alle sue domande risposi schiettamente che piangevo pensando al giorno in cui papà sarebbe morto. Uno scricchiolio di mobili mossi nel salotto attiguo e l’ombra di papà fra uscio e uscio mi fecero capire che anch’egli mi aveva seguita.
Lagrime invece di baci?... Ahimè! se scrivessi il mio panegirico dovrei mostrare la fanciulla intelligente e amorosa, la forte Antigone che sorregge il padre cadente, ma scrivo pagine di assoluta sincerità e per disgrazia non ero nulla di tutto ciò, allora. Poche persone rimasero lungamente acerbe quanto me. Avrei l’aria di mancare a questa dichiarazione di sincerità, se volessi sottrarmi al merito di una certa intelligenza e di una forza nelle battaglie posteriori della mia vita; ma allora, ripeto, ero una povera creatura embrionale. Le sciocchezze, che feci e che dissi nel lunghissimo tempo della mia formazione, sono incredibili. Quel po’ di strada, che mi sono fatta nel mondo, me la sono scavata da me graffiandomi ai rovi e lacerandomi ai sassi. Tutte le mie facoltà, anche quello del sentimento, si temprarono nel dolore. È solo dolorando che ho potuto amare mio padre quando era con me; è ancora con un doloroso rimpianto che penso a lui, che vi ho sempre pensato dal dì che lo perdetti. Una o due volte all’anno andavamo insieme a far visita a qualche signora che era stata amica della mamma. Erano brevi oasi di piacere, anche dalle quali non sapevo trarre tutti i vantaggi che avrei potuto nel libero abbandono di me stessa, poichè il mio spirito non era mai libero dalla ossessione delle zie. Un po’ di colpa era mia? Me lo domando almeno. Perchè non ho saputo uscire dalle strettoie nelle quali avevano inceppato ogni mio movimento paralizzandomi al punto che non osavo abbracciare mio padre? Perchè non sono stata superiore agli avvenimenti? Mi sa male credere che tutto il male mi sia venuto dagli altri. Conosco una quantità di fanciulle che poste nel mio caso ne sarebbero uscite con una risata. Io invece non avevo nessuna delle grazie dell’età; mancavo anche di quella elasticità di spirito che sa capovolgere una situazione. Ero tutta di un pezzo. Troppo seria, prendevo tutto sul serio. Anche in età inoltrata, anche adesso, il primo che capita può farmi credere qualunque cosa. Una di quelle amiche di mia madre che vedevo a rari intervalli, mi trattenne un giorno a pranzo. Abitava nella casa di Luciano Manara in via S. Andrea e dopo pranzo un fratello di Luciano, Achille Manara, venne a far visita alla signora. Io stavo a un tavolino appartato sfogliando un libro quando udii la signora che parlava di me accennando alla morte prematura della mia mamma. Manara mi guardò un momento e abbassando la voce disse: "Elle a les yeux assassins". Evidentemente la sua intenzione era di non farsi intendere da me, ma io che non ero sorda e che sapevo il mio francese rimasi grandemente conturbata. Rammentando che alcuni anni prima uno zio mi aveva detto che i miei occhi erano tinti di carbone, non dubitai più di essere una creatura assai disgraziata. Ad onta di questo stato di mortificazione perpetua non posso dire che mi sentissi infelice; di che natura fosse la forza che mi sosteneva lo ignoravo affatto, ma è certo che non conobbi mai quegli accasciamenti, sotto i quali confessano di essersi abbattuti tanti uomini di ingegno e uomini di cuore.
Giovanni Segantini, che ebbe una infanzia tristissima, mi diceva di avere provato questa stessa sensazione. Io non conoscevo il poema di Dante, che nessun professore non mi ha mai spiegato e che ero troppo ignorante per comprendere da me, ma essendomi venuti sott'occhio due versi mi piacquero tanto che li scrissi sopra un mio quaderno e sempre rileggendoli poi mi sentivo invasa da una gran forza e da una sicurezza come se qualcuno mi portasse. I versi sono questi:
"Sta come torre fermo che non crolla
"giammai la cima per soffiar di venti".
E mi compiacevo tutta a notare che Fermo era il nome di mio padre.
Non parmi esagerata l’applicazione a mio padre dei versi danteschi. Egli era veramente la torre incrollabile, la torre d’avorio significazione di ogni altezza. Tutti i parenti lo riconoscevano; alla sua morte si disse che anche gli avversari rendevano giustizia alla nobiltà della sua vita, alla saldezza de’ suoi principi. Tale saldezza appunto lo rendeva intransigente, poco atto a seguire le vie comuni che conducono alla fortuna. Gli ultimi anni gli furono forse amareggiati anche dalla ingiustizia della sorte la quale preferisce gli intriganti ossequiosi e pieghevoli, all’uomo onesto che non discende a patti servili. Il maggior lavoro di mio padre fu il disegno, scelto fra molti concorrenti, e la messa in opera della grande chiesa abaziale di Casalmaggiore dedicata a S. Stefano titolare della città. Eretto sull’area di una antichissima chiesa distrutta, ampliato per la generosa cessione di località limitrofe, il nuovo tempio si presenta isolato e imponente su tredici gradini di elevazione; un pronao ad archi introduce all’interno che ha forma di croce greca, decorato per ogni lato da un ordine di colonne corinzie. Somiglia un poco, fatte le debite proporzioni, alla chiesa di S. Alessandro in Milano; non ha, per esempio, di questa numerosi e ricchi affreschi, quantunque ne fosse fatto fatto invito ai giovani pittori concittadini allievi del Diotti. In complesso manca a questo tempio troppo giovane la suggestione delle preghiere salite per anni e per secoli al trono di Dio insieme agli aromi dell’incenso ed ai singhiozzi ed alle lagrime sparse ai piedi dell’altare, o soffocate nell’ombra dei confessionali, che tanto fascino di mistero dànno a certe vecchie chiese. Ma invecchieranno le pietre, i marmi, gli argenti; il tempo stenderà il suo mantello bruno sulla rosea nudità delle pareti; nuovi peccati e nuove lagrime deporrà l’uomo bisognoso di fede e altre generazioni cogli stessi amori, cogli stessi dolori, verranno qui a cercare il fascino del mistero. Un curioso episodio sconosciuto e che mi piace di conservare a giustificazione del coro e dell’abside giudicati da qualcuno troppo ristretti in confronto alla mole del tempio, è che sul disegno di mio padre le proporzioni erano più ampie, appunto per conservare l’armonia dell’insieme, e che dovette cedere con grande malavoglia alle pretese di Monsignore Abate, al quale faceva comodo lo spazio per transitare i carri che al tempo della vendemmia portavano le tinozze cariche d’uva nelle sue cantine. Per tal modo la ragione superiore del tempio la vinse sulla ragione meschina dell’uva di Monsignore ed i cittadini che avevano ceduto con slancio i propri stabili pur che il monumento religioso usufruisse della maggiore ampiezza, dovettero accontentarsi di sapere che le vendemmie prelatizie non sarebbero disturbate.
In Milano, oltre a lavori secondari per diverse case, mio padre eresse il teatro Fossati, ben diverso però dall’attuale che venne ampliato e modificato in seguito. Era un teatrino popolare, senza pretese architettoniche, con una vivace decorazione floreale ricorrente lungo i palchi e una abbondanza di tappi di gazose che andavano alle stelle. Fu inaugurato, mi pare, dalla compagnia Moro — Lin con Angelo, tiranno di Padova. Il teatro era gremito fino al soffitto. Grandi piene vi fece anche il Preda, l’ultimo dei Meneghini, e vi recitarono il Bellotti Bon, la Marini, la Celestina Paladini esordiente nelle parti di ingenua. Anche Tommaso Salvini fece una comparsa nei Masnadieri. Quella sera noi eravamo in un palco di proscenio e proprio lì venne a fermarsi il Salvini con una faccia truce e minacciosa. Come non bastasse, gli viene in mente di chiedermi a un palmo di distanza: "Ha paura lei di un colpo di pistola?" Mi affrettai ad accennare di no col capo, perchè di voce non ne avevo neppure un filo; ma che grossa bugia avevo detta! Le fortunate vicende del cinquantanove, che liberarono Milano dalla dominazione austriaca, portarono sul palcoscenico del Fossati le rappresentazioni patriottiche e il direttore dell’orchestrina, un tipico vecchietto, che tra un atto e l’altro teneva a bada il pubblico coll’inno di Garibaldi era ben preparato a sentirselo chiedere tre, quattro, cinque volte. Appena taceva, dalla platea e dalle gallerie era un grido solo: L’Innoo! L’Innooo! Pareva il finimondo. Il vecchietto sorrideva e, dimenando il capo da destra a sinistra con un’aria di contentezza come se gli applausi fossero per lui, alzava la bacchetta del comando. Avendo narrato più su l’episodio di Monsignore a proposito della chiesa di S. Stefano non voglio tacere quest’altro relativo al teatro Fossati. Chiunque passa da corso Garibaldi può osservare sul portone del suddetto teatro una statua rappresentante l’eroe di Caprera sul punto di sfoderare una scimitarra sollevata in alto con gesto bellicoso; orbene, quel Garibaldi, comperato a prezzo d’occasione, teneva originariamente una spada; ma al momento di metterlo in opera i proprietari si accorsero che la spada non entrava nella nicchia del frontone. Che fare? Non era possibile privare un soldato della spada lasciandolo colla mano vuota ad acchiappare mosche nell’aria. Si tenne consiglio di famiglia e il più furbo propose di cambiare l’arma a lama diritta colla scimitarra, la cui lama curva segue a puntino la cornice della nicchia. Ed ecco in qual modo Garibaldi divenne turco.
Pochi de’ miei lettori ricorderanno il Circo Ciniselli eretto al posto dove ora vediamo il teatro dal Verme; esso ebbe un’esistenza breve ma brillantissima. Destinato ad un uso di pochi anni, perchè l’area era già accaparrata dal teatro attuale, il Circo Ciniselli presentava nel suo genere una semplicità elegante che piacque subito; tutto in legno, fresco, leggero, coi palchi scoperti che pieni di belle signore somigliavano a canestri di fiori, fiancheggiati da un corridoio che permetteva agli eleganti di vedere e di essere veduti, fu trovato nuovo, geniale. Gli spettacoli equestri erano allora in gran voga; i signori dell’aristocrazia vi andavano ad esaminare da vicino il cavallo regalato dal Re, e un poco, io penso, la figlia e la nuora di Ciniselli, bellissime entrambe — la figlia, amazzone impeccabile di puro stile inglese; la nuora, audace volteggiatrice sul destriero in corsa. Eseguìvano poi col concorso di tutta la compagnia quadriglie e caccie presentate con molto lusso di vestiari. Il gusto per questi spettacoli mi sembra assolutamente tramontato, nè io me ne dolgo certo, chè non sono mai riuscita a farmeli piacere, specie quando veniva il turno dei pagliacci e, peggio ancora, quello dei ginnasti che sopra una corda tesa o sopra un trapezio arrischiavano ogni sera la vita. C’era un’altra compagnia rivale di questa, la Guillaume, che ebbe due celebrità: il moro Muller, il quale cavalcava a bisdosso senza sella e senza redini, sicuro come se fosse nella più comoda delle poltrone e miss Ella, da molti supposta un uomo per la forza straordinaria de’ suoi garretti; saltava senza interruzione trecento cerchi sfondandone la carta a corsa del cavallo e poi dal medesimo cavallo balzava sovra un palco eretto all’altezza della prima loggia. Una specialità di miss Ella era il breve abito di velo semplicissimo invariabilmente bianco e la sorella, che non la lasciava mai standosene in mezzo al circo con una lunga frusta in mano a dirigere il passo del corridore, ufficio riservato abitualmente agli uomini. In complesso la compagnia Ciniselli era più elegante e giustificava le preferenze dell’alta società. Negli ultimi anni cambiarono gli spettacoli e il piccolo teatro decadde, ma a’ suoi tempi buoni fu durante l’estate un ritrovo scelto. Opera anche questo di mio padre, vi si andava qualche volta ed era per me come uno spiraglio aperto sul mondo. Le signore dell’aristocrazia, gli uomini politici, i giornalisti, vi si davano convegno. Naturalmente non conoscevo nessuno, ma una volta che mio padre mi mostrò Leone Fortis in colloquio con Paolo Ferrari apersi tanto d’occhi a rimirarli. Due scrittori?! Nemmeno il Re mi avrebbe fatto battere il cuore a quel modo.
L’idea di pubblicare non mi era venuta ancora, non pensavo affatto a divenire scrittrice, ma i libri e coloro che li scrivevano esercitavano sulla mia mente un fascino singolare. Un opuscolo che trovai nella libreria di mio padre con questa dedica: Al carissimo amico Fermo Zuccari, Tullio Dandolo, mi sorprese come se avessi scoperto un titolo di nobiltà nella mia famiglia; e in casa della signora Cirilla Cambiasi, una delle superstiti amiche della mamma, mi accadde di vedere il manoscritto di una poesia che Giovanni Prati aveva scritta per lei; ricordo i due primi versi: "Dal molle serto delle tue chiome — . Sull’arpa, o bella, gettami un fior" e me ne venne tanta esaltazione per cui quella signora mi pareva un essere straordinario. Ispiratrice di un poeta! Vi poteva essere fortuna maggiore? Noto anche una sera in cui mi avvenne di parlare con un vecchio avvocato e la conversazione, innalzandosi dal campo ristretto dei fatti quotidiani al volo delle idee, mi lasciò in un tale stato di orgasmo che per molte ore non potei prender sonno. Conobbi più tardi altre estasi, ma posso dire che la commossa impressione di quella sera non ne rimase offuscata; prima ancora che all’amore il mio cuore si aperse a questo bisogno di intellettualità, che contribuì per molta parte all’isolamento in cui dovevo trovarmi per tutta la vita. Nella modestia delle aspirazioni che già parte della mia naturale timidezza si faceva sempre più ritrosa per la mancanza di incoraggiamenti e dalla ironia e dallo scherno spesso, nei migliori dei casi da un silenzio indifferente, non mi sono mai creduta un solo istante superiore agli altri; ma che fossi diversa tutto me lo diceva, ad ogni passo, ad ogni parola. E perchè ero diversa mi trovavo sola. E perchè essendo sola mi nutrivo di me stessa, non cadevo nel languore che a taluni fa ricercare evidentemente un sostegno nella compagnia altrui. Questo fatto di bastare a me stessa era la forza che mi impediva di essere infelice fino in fondo. In fondo del mio pensiero, in fondo della mia coscienza, una flora misteriosa ed occulta, come quella che si forma negli abissi del mare, dava fosforescenze di luce e incanti di forme all’anima rinchiusa. Non odiavo, non mi vendicavo, non facevo nè volevo male ad alcuno; mancando intorno a me l’ossigeno di vita vivevo altrove, nell’ideale, nel sogno che erano per me la sola verità, la sola felicità, qualche cosa di indivisibile dalla mia carne e dal mio sangue.
Il nostro appartamento era ampio e per buona metà aperto sulla vista di tre o quattro giardini soleggiati: lo studio di mio padre si trovava da questa parte e la camera da letto anche; ma la mia giornata si svolgeva tutta intera nella sala da pranzo che era la più brutta, angusta, con una sola finestra a tramontana, col parato dei muri di un colore fosco che aiutava a renderla tetra e malinconica: essa fu per me il carcere di quelli che chiamano i più begli anni della vita. Seduta fin dal mattino, agucchiavo senza posa, tenendo qualche volta un libro sui ginocchi, nascosto dietro il cuscinetto che, a quei tempi ignoti alla macchina da cucire, serviva per appuntare orli e sopragitti. Oh! le giornate d’inverno trascorse in quel salottino dalla tappezzeria cupa, davanti al tavolinetto dove ammucchiavo i miei cuciti, i rammendi che non finivano mai.... Quanta neve ho visto cadere, un’ora, due ore, tante ore di seguito, da quella sedia dove avevo sempre freddo. La stufa era accesa, portavo due paia di guanti, i piedi ravvolti in una sciarpa di lana, ma avevo freddo, sempre freddo, incommensurabilmente freddo. E l’anima ardente volava!... Aveva ragione la zia Margherita.
Quando qualcuno vuol sapere gli studi preparatori che feci per scrivere la trentina di volumi da me pubblicati, rispondo: calze e camicie, camicie e calze. Questa vita sedentaria e rinchiusa non favoriva certo il mio sviluppo fisico; lo peggiorava la mia repulsione per qualsiasi esercizio dei muscoli, fosse pure scopare una stanza o saltare una sbarra; anche la passeggiata domenicale, la sola in tutta la settimana, mi riusciva di peso; se si aggiunge che parlavo pochissimo, è presto concluso che la mia esistenza si riassumeva nel pensiero e nessun igienista ha mai detto che sia questo la cura di una fanciulla sul crescere. Certe ore del giorno e dell’anno le ricordo anche oggi con un brivido. In febbraio, passato S. Antonio, nel qual tempo al dire delle mie zie, il giorno si allunga di un’ora, non si accendeva la lucerna a pranzo e dopo pranzo non la si accendeva ancora perchè, dicevano le zie, non era necessario vederci. Era l’ora in cui mio padre stava più a lungo sul divano, immerso in quel suo riposo melanconico che nessuno di noi osava disturbare. Pareva che dormisse; e non dormiva, perchè tra il chiaro e lo scuro i suoi sguardi cadevano su di me; io li vedevo bene ed erano sguardi inquieti e soavi dove la tenerezza si mesceva a qualche cosa di accorato, come un dubbio. Le zie, sedute l’una di fianco all’altra, ritte contro il muro a guisa di due marmoree cariatidi, recitavano mentalmente le loro orazioni. La luce moriva a poco a poco, fuggendo prima dagli angoli, lambendo gli ottoni della stufa, le cornici dei quadri, le bullette del divano, fermandosi un istante tra le pieghe bianche delle tendine, alle quali dava una flessuosità vaga di fantasmi, finchè le tenebre cadevano improvvisamente sul nostro silenzio. Non si scorgeva più nulla, nè mobili, nè persone, ma al posto delle zie si accendeva un piccolo punto luminoso, come un occhio di fuoco. Era il sigaro della zia Nina che passava poi alla zia Margherita. Ora la brutta moda delle donne che fumano è purtroppo entrata nei nostri costumi; non così allora, si che questa abitudine delle mie zie, faceva parte della loro originalità, ed era esente da qualsiasi civetteria, molto più che non si trattava di eleganti sigarette, ma di veri virginia, aspri e forti. Esse però non fumavano in pubblico; è una attenuante.
Dolce è il crepuscolo della sera ai vaneggiamenti delle anime felici; ma io, nonchè felice, non ero nemmeno libera. Per la soggezione che mi dominava sempre non avrei ardito di accendere un lume e rimanevo così, àpata, nella tristezza snervante delle tenebre, immobile anch’io e silenziosa. S’avrebbero potuto udire i nostri quattro respiri. Mi domando ora che cosa sarebbe avvenuto, se non fossi stata supinamente ligia a quella specie di regola conventuale che strozzava in germe ogni mia volontà e sono convinta che non sarebbe avvenuto nulla, come non avvenne nulla ai miei fratelli che, più o meno, facevano quello che volevano. Ma io avevo già preso l’abitudine di ripiegarmi su me stessa, avversa per istinto alla lotta, che mi avrebbe sottratto tempo ed energia. Da quando abitai la mia anima come si abita una fortezza, e ciò avvenne prestissimo, il piano della mia resistenza si tracciava da sè e non mi accorgevo che uscendo da una prigione entravo in un’altra, tagliando i ponti che dovevano congiungermi alla vita.
Altre ore ricordo. D’estate, nei tramonti afosi di luglio e di agosto, spalancavo le finestre verso i giardini e là, accoccolata accanto ai ferri del balconcino, lasciavo errare lo sguardo sulle sale aperte di un appartamento signorile, dove uno sciame di fanciulle ridenti scherzavano con alcuni giovani amici sotto gli occhi carezzevoli delle madri, con quella sicurezza di gesti e di parole, colla libertà di movimenti e la fede in sè e la gioia di vivere, quale hanno solamente le fanciulle che si sentono amate. In altre stanze vedevo persone che si adornavano per il passeggio, donne davanti allo specchio, uomini che leggevano il giornale sdraiati nelle poltroncine, fumando. Poco a poco le abitazioni si facevano deserte, la frescura della sera attirava fuori, al largo, ai concerti delle piazze; la vita notturna si sovrapponeva alla vita giornaliera. Alle finestre apparivano e sparivano lumi, vagolavano ombre incerte, ondeggiavano ventagli, fluttuavano gonne. La brezza faceva dondolare nappe di coltroncini, veli di culla e nella penombra luccicava la sponda nitida di un letto, la maiolica fiorata di un lavabo; dolci intimità di alcova che si abbandonavano alle tenebre nascenti diffondendo nell’aria un profumo sottile di voluttà. Oltre i tetti, tra le sagome dei fumaioli, altri bagliori di lucerne invisibili, note di cembalo, trilli di canzoni, un nome, un grido, allargavano la cerchia del brulichio umano, tutto quel mondo di passioni che si agitava intorno a me, così vicino, così lontano!...
Tra me e i miei fratelli non vi fu mai il menomo screzio. Ma essi vivevano la loro libera esistenza di maschi; non erano obbligati come me a stare giorno e notte sotto la sorveglianza delle zie. Avevano in comune gli studi, i giuochi, le tendenze. Appena usciti dall’adolescenza si trasferivano all’università; quando venivano a casa erano accolti in festa. Nostro padre si occupava di loro con grandissima cura e sempre con quel suo sistema di pedagogia elevata, che mirava a sviluppare i più nobili sentimenti, innalzando la dignità della coscienza a mezzo della fiducia, anzichè deprimerla con sospetti ingiuriosi o ferirla con grossolani castighi. Ed anche verso di loro covava quell’ansia inquieta, quella preoccupazione dell’avvenire che tanta ombra spargeva sul malinconico tramonto della sua vita. Presentiva forse di doverci lasciare prima che si compisse il giro dei nostri destini. Per questo i suoi sguardi erano sempre carichi della tristezza del suo cuore; e non ebbe, povero padre, la soddisfazione così meritata, di vedere in qual modo i miei fratelli continuarono la tradizione della nostra famiglia mostrandosi degni del suo esempio.
La parola aristocrazia è troppo di sovente usata in senso contrario al suo vero significato; mi si permetta di ricondurla alle sue vere origini fissando il motto che ne riassume tutto lo spirito: Nobiltà obbliga. Che cosa vuol dire in fondo aristocratico, se non uomo superiore, uomo migliore? E far suo l’obbligo degli avi per conservarsi superiori, per diventare migliori, non è raccogliere un ideale di bellezza e diffonderlo nel mondo? Solamente un cervello ben meschino può credere che il prestigio dell’aristocrazia consista in un titolo sonoro o in uno stemma variopinto, mentre questi non sono che segni esterni privi di valore e di significato, ove manchi il principio conservatore dei caratteri di una razza. Tutte le supremazie che, abbiamo visto decadere, religiose, politiche o aristocratiche che fossero, decaddero per abuso di potere non per difetto del principio. Al principio di ognuna di esse sta una verità immortale che solo passando attraverso le mani impure degli uomini, degenera in colpa. Il bel cavaliere che moveva incontro alla morte, professando fedeltà a Dio, alla sua donna, al suo re, creava un codice dei doveri dell’uomo del quale possono alla lunga cambiare i nomi, non l’essenza vitale. La borghesia, raccogliendo il potere sfuggito alla classe aristocratica, fece suo l’obbligo e, se volle vincere, dovette ripristinare in tutto il loro vigore le virtù dell’avversario, traversando fiumi di sangue, perchè il dovere, la famiglia, la Patria, tornassero a splendere fra le idealità umane. Ed è giusto riconoscere i meriti della borghesia in un tempo in cui il senso di questa parola è stato svisato e corrotto per farne arma sleale di combattimento. Ognuno di noi che abbia la fortuna di una tradizione risalga il corso degli anni e saluti con rispetto, con riconoscenza, la memoria dei precursori che primi scrissero sullo stemma simbolico della loro famiglia la parola = dovere = che nel probo esercizio delle loro cariche, custodirono religiosamente quel tesoro di fede che donò all’Italia gli uomini del suo risorgimento. La tradizione, questa specie di sanità morale che imprime un passato dolcemente radioso alle generazioni uscite dal suo grembo, non è un sentimento fittizio ideato per il vantaggio di una casta; noi la vediamo continuata in certe famiglie di montanari, di semplici contadini vissuti lungi dai centri corruttori; tradizione rudimentale di ricordi, di abitudini, di successivamente sovrapposti, pari agli strati di terreni preistorici insaldati nella roccia. È fra queste persone modeste e fiere che noi troveremo l’attitudine severa e religiosa del patriarca, il gesto umile e pur dignitoso, rivestito di intima nobiltà, che certe vecchie donne conservano ancora come riflesso di una antica corona.
Se io cerco sul dizionario il significato della parola aristocrazia, trovo: "forma di politico reggimento nella quale il potere è in mano dei nobili". E sarà benissimo detto. Io però penso ad un’altra missione dell’aristocrazia, quella, che avendo creato il motto nobiltà obbliga, creò in pari tempo una tradizione conservatrice di bellezza. Coll’affievolirsi della tradizione molte forme di bellezza scompaiono; nè serve il dire che altre nascono. Noi siamo attaccati da secoli alla bellezza degli astri e dei fiori e se scomparissero, non credo che gli aeroplani e le macchine agrarie ci compenserebbero; l’uomo assetato di bellezza rimpiangerebbe pur sempre le stelle e le rose.
Vi è inoltre un genere di bellezza, che non si improvvisa, nata da millenni di civiltà, che nessuna scoperta per quanto intelligente può sostituire. I ritratti del patriziato antico sono una guida interessante per studiare i segni delle razze che si sono conservate pure; quelle donne dal collo lungo e sottile, dalla fronte liscia, dalle mani perfette, hanno nell’espressione del volto e nella dignità del portamento, nel fine sorriso e nello sguardo dominatore, un non so che di sovrano, che si impone anche ad un esame superficiale. E come si comprende che esse sole possano adornarsi di quelle trine, di quegli abiti sontuosi, di quei broccati, di quegli ermellini sui quali poggiano i gioielli fantasiosi degli orafi del cinquecento! Par di vedere lo stuolo delle ancelle intente al complicato edificio di quelle chiome divise a ricci, a onde, a treccioline, con giri di perle, con svolazzo di nastri e di nodi da richiedere parecchie ore di lavoro. Perfino le bimbe di cinque anni in abito scollato e guardinfante rivelano la principessa educata per tempo al contegno nobile, al gesto e al riserbo delle corti. Produzione artificiale, lungamente elaborata attraverso filtri di raffinatezza e di gusto, questo tipo della gran dama agì da fulcro elevatore e ispiratore in tempi lontani ma non dimenticati. Anche oggi subiamo il fascino di queste creature d’eccezione, che ci guardano dalle vecchie cornici colle loro pupille estatiche e sentiamo la malinconia di una bellezza che muore, che forse è già morta.
Infatti torna inutile cercarla questa bellezza nelle generazioni sorte ieri, portate in alto dai rapidi guadagni, sotto le quali piegarono vinte le antiche famiglie, ma che non riusciranno neppure coll’aiuto del tempo a formare la misteriosa catena della tradizione, poichè non esiste più il sentimento di essa. Il progresso per sua natura distruttore, ha bisogno di abbattere per edificare; la sua marcia trionfale procede fra mucchi di rottami. L’altera principessa che si faceva dipingere dal Van — Dyk o da Leonardo era conscia di affidare la propria bellezza ai secoli futuri in un esemplare unico; la milionaria d’oggi non sdegna di posare, magari in veste da camera, davanti all’obbiettivo fotografico che la riprodurrà in dozzine di copie per la soddisfazione delle sue cameriere. Ho qui un giornale quotidiano, uno dei più diffusi, dove è riprodotto il gruppo fotografico più recente della famiglia imperiale germanica; e mi domando se mai, invece di una fotografia autentica e legalizzata, non sarebbe questa una caricatura immaginata dal più feroce nemico degli Hoenzollern; tanto la volgare espressione dei personaggi armonizza colla sciatteria della posa. Sono sei i campioni, tre principi e tre principesse, che si presentano di fronte infilati tutti e sei a braccetto l’uno dell’altro, quasi per sorreggersi a vicenda, come operai che ritornano alticci dalla fiera; gli uomini insaccati in certi panni che sembrano lo spoglio del basso personale di una compagnia equestre; le donne spettinate, senza busto... Oh! ritratto di Beatrice d'Este così severamente agghindata in una rete di perle; gemme sfolgoranti e trine meravigliose di Maria de' Medici; pettinatura da dea che sorreggi le chiome fluenti di Lucrezia Tornabuoni, che figura faranno accanto a voi nelle pinacoteche dell’avvenire le sembianze ultra democratiche di questi ultimi rappresentanti dell’imperialismo ad oltranza?
Una delle buone qualità antiche era anche il giusto senso del risparmio praticato serenamente come un dovere, non solo, ma anche con quell’amore della tradizione che ci affezionava alle argenterie di famiglia, ai mobili, ai ritratti come a un tenero e sacro ricordo. "La spada di mio padre, la croce di mia madre" è una frase che ora fa sorridere; ma si ha torto, poichè essa conteneva un principio di felicità e di sicurezza che le famiglie moderne non conoscono. Nata alla metà di un secolo, che divise nettamente due società e cresciuta in un ambiente di provincia, il quale arretrava il progresso di venti o trent’anni almeno, sono certo un ben raro testimonio sopravissuto al morire di usi e costumi che, se avevano dei difetti, nutrivano pure forti virtù. La mia famiglia, composta di sei persone con un reddito modesto e il solo lavoro di un uomo declinante, viveva su un piede di economia, sto per dire, naturale, in cui non vi era nessuna privazione, perchè i nostri desideri oltrepassavano difficilmente la possibilità di soddisfarli. Inoltre mancava in casa mia, parmi averlo detto, quell’assillo della ricchezza, quel continuo parlar di denaro, giudicare una persona su quanto denaro possiede, scegliere moglie e carriera in base al maggior denaro che rappresentano e col denaro pesare la considerazione e riporre nel denaro la somma del bene, cose tutte che, a mio giudizio, oltre la volgarità insopportabile per uno spirito delicato, conducono all’invidia al malcontento, al pessimismo, veleno dell’anima. Per il fatto di avere minori bisogni non v’ha dubbio che si era allora più felici o, per lo meno, era maggiore il numero dei felici, potendolo estendere anche a coloro che non avevano grandi fortune; nè si giudicava minore il piacere di stare insieme bevendo un bicchiere di vino bianco o un siroppo di lamponi perchè non si usavano tovagliette di pizzo e rinforzo di marrons glacès. L’esempio della semplicità veniva dall’alto e da tutti i paesi. Lady Giorgiana Fullerton, nota filantropa e una delle più grandi dame dall’aristocrazia inglese, lasciò scritto che lei e i suoi fratelli non avevano mai a colazione più di una tazza di latte con pane raffermo; pane raffermo era pure il sistema generale delle nostre famiglie e dei nostri collegi; in molte case poi, alle persone di servizio veniva misurata anche la quantità, sì che per dimostrare l’agiatezza di una casa, dicevano che il pane vi era libero. In alcune città della Francia famiglie milionarie offrivano ai visitatori serali un piatto di mele delle loro campagne; e a Venezia, dalla contessa Albrizzi, che riceveva le più alte personalità d’Europa, il trattamento usuale era una guantiera di ciambelle fatte in casa. Il conte Alessandro Verri da Roma esortava il fratello, rimasto a Milano, a non risparmiare passi affinchè il sarto gli restituisse le pezze avanzate da un certo draghetto consegnatogli per fare un vestito e soggiunge ad avvalorare la raccomandazione: "Così vuole la buona economia delle nostre entrate".
Voglio dire qualche cosa di più. L’economia praticata per tradizione e con piacere era un elemento di forza e di serenità. Io l’ho conosciuto largamente il piacere di ridurre a nuovo una vecchia gonna e di ammucchiare nel cassettone tante e tante paia di calze fatte da me punto per punto. C’è in questi umili lavori un orgoglio di creazione, di lotta superata, di tempo bene speso, che è per sè stesso un premio e un incitamento. Gusto ancora, dopo tanto tempo trascorso e tante vicende, la soddisfazione di avere composto e cucito io stessa gli abiti di mio figlio fino ai dieci anni e compiango (non disprezzo forse anche un poco?) le giovani madri di mezzi limitati che non sanno preparare neppure il camicino per il pargolo che deve nascere. Non si dica che questo è un argomento di nessun conto. Non è vero! La donna, che ama i lavori femminili e li applica all’economia della famiglia, trova in casa tanto da occuparsi che non sente il bisogno di fondare comitati e associazioni per ingannare la noia e illudersi di fare qualche cosa. E anche questa tradizione di lavoro rimonta alle classi aristocratiche. Ai ricevimenti della duchessa di Chartres le dame, imitando la duchessa, portavano con sè un lavoro; Maria Luisa, seconda moglie di Napoleone I, quando era ancora fanciulla si sferruzzava allegramente da sè una maglia di lana per star calda, e c’è un ritratto poco noto della marchesa di Pompadour che la rappresenta mentre sta ricamando con un telaio sui ginocchi.
Non ci sarebbe che da regolare la vita un po’ troppo rinchiusa delle donna di una volta, col frenetico sgonnellare fuori di casa delle modernissime, per trovarsi nella giusta via di mezzo; ma purtroppo indietro non si torna. La vecchia borghesia saggia, economa, dalle abitudini semplici ha disertato i provinciali palazzi aviti, le pingui fattorie dove la vita era comoda e dolce; attratta dal miraggio delle grandi città, ruppe il contatto immediato colla terra, i rapporti giornalieri coi contadini e, giunta nei grandi centri dell’industria, si trovò in mezzo alla nuova borghesia dei rifatti privi di tradizione, di esempi, di memorie, frettolosi di distruggere fino il ricordo del loro passato, avidi di lusso e di gioia, intenti solo ad arricchire. I figli delle grandi rivoluzioni, coloro che avevano conservato intatto il patrimonio di secoli, si trovarono improvvisamente accerchiati e per forza delle cose travolti nel turbine della democrazia distruggitrice di tutto ciò che fu. Alcune famiglie resistono ancora, ma non sarà per molto tempo. Le donne si mostrano particolarmente accanite alla distruzione dei domestici lari, perchè non so chiamare in altro modo quella specie di orrore per la casa che le spinge nel cuore dell’inverno a prendere il treno per l’una o per l’altra città, per un paese, per un monte, per un lago, o anche per un ghiacciaio, pur di non passare in casa propria, anzi per annientarla, la dolce e pensosa poesia del Natale. Anche le nozze, questa festa intima fra tutte, è ora di moda esibirla alla triviale curiosità dei servitori d’albergo . . . . . . . . . . . . . .
A nuova conferma della mia teoria sul valore della tradizione, abbiamo un detto popolare che ne mette in rilievo la grande importanza per l’individuo e la Società, ed è quello di colui che ad una cattiva azione risponde: "Il figlio di mio padre non farà mai ciò". Posso citare per controprova il fatto di una di quelle disgraziate orfane di parenti vivi, abbandonata alla carità cittadina, una esposta. Io la esortavo a crearsi indipendente col suo lavoro per mantenersi onesta; ella mi ascoltò un poco, e poi disse crollando il capo con un cinismo quasi ingenuo, tanto era sentito: "È inutile sa, noi siamo figli della colpa, come ha fatto nostra madre faremo anche noi". Questi problemi educativi e sociali mi hanno sempre interessata moltissimo, ed essi e altri, a cui diedi la mia attenzione, più che sui libri mi piacque studiarli alla viva fonte dell’umanità. Se poi trovavo in un libro gli argomenti in appoggio alle mie osservazioni, amavo quel libro come un amico, e tanto più lo amavo in quanto non avevo materialmente nè amici nè amiche; ovvero qualche amica potevo contarla, ma tutte fuori di Milano, e anche le poche volte che ci riusciva di stare insieme, i nostri cuori erano vicini, i nostri pensieri no. Esse pensavano come tutti, ma io non so come chiamare quel tarlo che lavorava nel mio cervello assorbendo ogni mia attività, rendendomi sempre più incapace di contatto cogli altri, fuggendo ciò che gli altri ricercavano.
Chi non ama le passeggiate campestri in lieta compagnia? Io non le potevo soffrire; sia per la passeggiata che mi riusciva di fatica, sia per la compagnia, allo spirito della quale non sapevo unire il mio. Vagheggiavo allora di trovarmi con una persona di mia fantasia, triste e selvaggia come me, al pari di me sola e andarcene insieme sul sentiero più appartato e dirci tutto quello che non avevamo mai detto a nessuno, e ridere e piangere e cogliere fiori e ringraziare Dio di essere nati.... ma quella persona non l’ho trovata mai. Mi condussero invece un giorno a visitare un’officina di non so che cosa, e non lo so perchè appena posto piede sulla soglia di un camerone dove stavano allineate macchine e uomini e donne tra un assordante rumore di manubri e di pulegge, presa da una repulsione istintiva come se avessi visto un mostro, mi aggrappai disperatamente ad una ringhiera che dava verso il verde dei prati, scongiurando che mi lasciassero a quel posto. Ero allora poco più che adolescente, ma la mia particolare sensibilità, anticipando l’intuizione, mi dava nel quadro che avevo dinanzi agli occhi la sensazione materiale dell’idea per la quale dovevo più tardi combattere non poche battaglie. Null’altro che una sensazione, ma, come sempre, una sensazione che mi appartava dagli altri; che non andò tuttavia perduta se a tanti anni di distanza la ritrovo intatta alla base delle mie idee sulla santità della tradizione famigliare violentemente minata dal crescere delle officine, progresso forse necessario ma pauroso, che strappa la donna dalla casa e distrugge brutalmente le care intimità del focolare.
La disgressione mi è riuscita più lunga che non volessi e sopratutto che il lettore desiderasse; ma è pur necessario che tenti di spiegare, e non sono sicura di riuscirvi, il lavoro caotico della mia mente, non secondato e non guidato da chi mi stava intorno; nessuno dei quali poteva immaginare neanche lontanamente le aspirazioni che giacevano soffocate in me, che non conoscevo io stessa.
Uscita dalla scuola poco meno che ignorante, la volontà di studiare non mi venne neppure dopo. Tanto il pensiero mi attirava colle sue divine libertà, altrettanto detestavo la meccanica dell’insegnamento freddo, pedante, ammalato di miopia cronica, vecchio corpo disfatto che deve la sua resistenza all’appoggio che gli danno tutte le mediocrità. Leggevo con passione, ma pur che fossero libri divertenti e romanzi e poesie d’amore. Mio padre si allarmava qualche volta di questa mia passione, esortandomi a scegliere bene e di abbandonare i romanzi, ma non ebbe il gesto assoluto di indicarmi lui i libri che dovevo leggere, forse in omaggio al suo grande rispetto della libertà individuale od anche perchè sapeva che il miglior mezzo per ottenere buoni risultati da figliuoli moralmente sani è quello di mostrare fiducia in essi. Libri cattivi in verità non ne leggevo, ma inutili quasi tutti e nocivi in rapporto a quelli che dovevo poi scrivere io stessa perchè, presi a casaccio, mi traviarono nella lingua, nello stile, in tutto ciò che dovrebbe formare il buon scrittore. Ma di ciò allora non mi curavo affatto, paga di poter dare attraverso alle pagine di quei volumi uno sguardo nel mondo che non conoscevo. Desideravo anche molto di avvicinarlo questo mondo pieno di belle cose a me ignote, desideravo specialmente con ardore soffocato di poter andare ad una festicciuola da ballo. Amavo il ballo con passione, ma dove battere il capo se non avevamo relazioni? E andare con chi? Non certo colle vecchie zie di provincia che non avevano mai visto un ballo. Il mio buon padre si sacrificò accettando l’offerta di un conoscente che ci avrebbe presentati in una famiglia; ma sorse subito una grossa questione. — Che vestito metterai? — mi chiese papà con una certa inquietudine. Io che temevo di perdere l’occasione, che non avevo alcuna idea di abiti da sera, mi affrettai ad assicurarlo che non mi mancava nulla. E i guanti? — soggiunse mio padre. — Ho anche i guanti. Allora, felice, combinai la mia toeletta colla zia Margherita.
Premetto che manco di buon gusto naturale. Se sono riuscita, molto tardi, a vestirmi press ’a poco convenientemente, mi ci vollero grandi sforzi; nè le mie zie attempate non avrebbero potuto in capitolo moda aiutarmi di consigli. Incominciai dunque a stringere i miei lunghi e folti capelli in due trecce fitte fitte che me li ridussero a metà; indossai poi un abito di mussolina bianco e celeste, accollato come il soggiolo di una monaca, che era stato della mia mamma e che lasciai tale e quale benchè non avessimo la stessa corporatura; ma a me, poichè era stato della mia mamma, sembrava una meraviglia. Per la stessa ragione mi piantai in testa una camelia bianca che aveva servito alla mamma nel ritratto che le fece Moriggia e che riposava da anni in una scatola di cartone fiancheggiata di carta velina. Infine pescai alla stessa fonte un paio di guanti nuovissimi, mai messi, che portavano a farlo apposta il mio numero e che erano di un bel color giallo zampa d’oca. La zia Margherita mi ammirò e strinse un po’ più le mie trecce, così, diceva, non c’era pericolo che si sciogliessero danzando. Volevo farmi vedere da papà, ma la solita vergogna mi trattenne e mi ravvolsi subito nel mantello. Appena entrata nell’appartamento di quella famiglia, che non conoscevamo, ci passò davanti, attraverso gli usci aperti, in uno sfolgorio di lumi, una eterea apparizione vestita di bianco colle bionde anella incipriate sparse sull’omero nudo. — Oh! oh! — fece mio padre al quale avevano assicurato che si trattava di quattro salti alla buona. Io non dissi nulla, ma inoltrandomi nelle sale osservai che nessuna delle signore presenti era pettinata come me, nessuna aveva fiori in testa e tutte portavano guanti candidissimi. Verificata così la mia zotica figura, senza impressionarmene troppo, andai tranquillamente a sedermi nell’angolo meno in vista aspettando gli eventi. Dico subito che essi non furono all’altezza di quelli che leggevo nei romanzi, ma ballai tutta notte, quantunque non conoscessi alcuno, e per una ragazza così mal vestita ce n’era d’avanzo.
Le occasioni di trovarmi in società continuavano ad essere molto rare, e dicendo società abuso un poco dell’elasticità del vocabolo. Dovunque però il malinteso fra me e il mio prossimo mi isolava. La titubanza, che irrigidiva i miei(19) movimenti, toglieva ad essi la grazia della gioventù; non ero più una bimba e non ero ancora una giovane donna; l’abitudine quotidiana dei colloqui con me stessa mi rendeva inetta alla conversazione; mancavo poi in modo assoluto dello spirito di società, della risposta pronta, del motto che fa ridere, di quello che provoca e che istiga. Il terribile dono dell’osservazione non mi permetteva di restare indifferente; vedevo bene con quali poveri mezzi le reginette mondane ottenevano i loro trionfi; e mentre esse avranno disprezzata in me l’insulsa creatura che non sapeva nè vestirsi, nè muoversi, nè parlare, io, dal mio posto isolato, studiavo sul vero il loro piccolo cuore. Era questo il solo piacere che ricavassi quando mi trovavo in compagnia: piacere acre, ma non privo di moderato orgoglio sotto la modestia del mio aspetto. Non affrettiamoci a denigrare l’orgoglio, sentimento di natura elevata pur che sia circoscritto entro i limiti di una giusta conoscenza di noi stessi. Non si può ammettere che la modestia, doverosa verso il prossimo e più ancora verso l’ideale, debba giungere al punto di una completa ignoranza quando si tratta di riconoscere le nostre forze. Se non fosse così, chi si metterebbe a capo delle grandi imprese che rivoluzionarono il mondo? Ed anche non bisogna confondere il nobile orgoglio di colui che tende a una meta superiore colla vanità dello sciocco e colla superbia del farabutto. Tacceremo l’aquila di orgoglio perchè fende i più alti cieli, mentre il passerotto si limita a svolazzare sui tetti? Chi salta un fosso ha sentito prima la forza di poterlo saltare.
Tutti questi paragoni, da prendersi colle debite distanze, li trovo ora per spiegare il meglio che mi sia possibile quella singolare resistenza quella specie di corazza che mi permetteva di rimanere impassibile e ferma, quantunque non indifferente, nella mia solitudine e perchè certi stati di accasciamento, di avvilimento, di prostrazione morale io non li ho provati mai. Ho pensato tante volte in qual modo mi si potrebbe avvilire ed ho concluso che nessuno lo potrà perchè non mi sono mai avvilita io stessa. Posso ingannarmi, ma credo che difetti e qualità procedano in gruppi e chi ha una qualità ha pure la qualità sorella e lo stesso dicasi dei difetti. La mia unilateralità, chiamata qualche volta egoismo, faceva il paio colla mia pretesa aristocrazia, un sentimento tutto ideale che meglio delle parole spiegano le perle della mia nonna. La mia nonna materna aveva tre collane di perle delle quali, per disgrazie della mia famiglia, non una sola giunse fino a me. Ebbene, io non mi fregerei a nessun patto di uno stemma comperato, ma le tre collane di perle della mia nonna me le sono sentite tutta la vita intorno al collo.
Non ho ancora finito di enumerare le doti negative delle quali ero provvista per brillare in società. Erano tante e tante, che probabilmente ne dimenticherò qualcuna, e qualcuna anche può essermi sfuggita, se è vero quel che affermano i saggi sulla difficoltà di conoscere se stessi. Mi felicito intanto di aver scelto per queste memorie il sistema di una semplice e veritiera esposizione dei fatti, per tal modo il lettore perspicace potrà fare da giudice nel caso che io mi dipinga troppo in bello, chiamando complici gli altri della mia manchevolezza, quando forse la causa va ricercata solamente in me. Comunque noto che ero di una straordinaria distrazione la quale, congiunta a una smania di verità assolutamente puerile, mi faceva apparire a volte leggerina, a volte impertinente, a volte, e più spesso, sciocca. È certo che una condizione indispensabile al vivere sociale è quella piccola, ma importante, qualità che si chiama tatto; io ne avevo quanto un negro della Zululandia.
Peccato che mio padre, dal quale vivevo troppo separata, non fosse testimonio dei miei sfarfalloni che li avrebbe, così fine com’era, immediatamente repressi, come una volta fece con un semplice corruscar delle ciglia. E un’altra bella, quantunque indiretta, lezione di tatto, mi diede a proposito di un vecchio signore suo cliente che veniva per affari in casa nostra. Non avendomi veduta da molto tempo mi disse un giorno che mi trovava ingrassata; e siccome dall’accento e dall’espressione del suo viso traspariva l’intenzione di avermi fatto un complimento, appena si fu allontanato papà ebbe a notare che si era espresso male; perchè non poteva sapere se quella osservazione potesse piacermi e che ad ogni modo non era delicata. — Doveva allora tacere? — chiesi io. — Non è questo — rispose mio padre — ma se proprio voleva fare un complimento doveva limitarsi a dire: La trovo bene. — Egli possedeva in sommo grado quest’arte delle sfumature, delle critiche sottili e profonde; ma io compresi subito che l’appunto non era stato fatto per criticare l’amico, bensì per insegnare a me. Era d’altronde il suo sistema educativo; poche parole quando si presentava l’occasione, ma tali che non si dimenticavano. Un’altra volta la lezione fu più diretta. Qualcuno, non ricordo più chi, ebbe a dire che ero simpatica, e quella specie di elogio, a me che non ne ricevevo mai, fece una così lieta impressione da indurmi ingenuamente a riferirglielo, persuasa, per il bene che mi voleva, di far piacere anche a lui. Sorrise il mio buon padre alla innocente fanciullaggine, e volendo nello stesso tempo frenare il possibile sorgere di una vanità intempestiva: "Quando — ammonì dolcemente — non si può dire ad una donna che è bella, la si conforta chiamandola simpatica".
Quale scuola di perfezione avrei avuto, se mi fosse stato possibile di vivere sempre insieme a mio padre! Tutto invece concorreva a dividerci; il sistema della famiglia, le sue e le mie occupazioni, i suoi e i miei dolori non consentirono mai l’intimità dell’abbandono. Forse, è un dubbio che mi venne qualche volta, che sta ora mutandosi in certezza, sentiva anche lui l’ostacolo che, alla libera espansione dei nostri sentimenti, poneva la presenza delle due sorelle. Forse era anch’egli un timido come me e sarebbe bastato che uno di noi due non lo fosse, per rompere la barriera, per cadere nelle braccia l’uno dell’altro. Se quella sera in cui venne, tacito e lieve, ad appoggiare la sua fronte sulla mia spalla avesse detto: — Sono infelice! — Se lo avessi detto io a lui?...
Ma le due donne esuli dalla dolce casa, esse che avevano abbandonato tutto per lui, per noi, che ci davano il loro rustico, ma sincero cuore, la loro opera maldestra, ma così generosa, così disinteressata, non potevano venire anch’esse colle loro mani vuote dei beni che ci avevano sacrificati, coi loro occhi che solo alla notte conoscevano il pianto a ripetere: Anche noi siamo infelici? Situazione veramente crudele questa di persone tutte buone che senza volerlo, senza saperlo, si facevano reciprocamente soffrire. E ancora le mie zie, avendo il vantaggio di sorreggersi a vicenda e di rievocare in due un medesimo passato, sfuggivano al pericolo dell’isolamento che anche mio padre poteva nella sua professione e nella libertà de’ suoi atti per qualche ora almeno evitare.
Io diventavo invece sempre più distratta, estranea a quanto mi circondava, estranea alla vita. Delle mie balordaggini segnerò qui un esempio che potrà difficilmente trovare un riscontro altrove. Una delle ultime volte che andammo a passare le vacanze a Casalmaggiore, fui invitata a festeggiare Santa Teresa da una cara vecchietta amica delle mie zie, che abitava quasi tutto l’anno un suo podere in vicinanza del Santuario della Fontana. Buon pranzo, semplicità antica, visita al giardino colmo di frutta nonchè di fiori, e da ultimo, poichè la compagnia era in maggioranza composta di nipoti, tutti giovani, si ballò sull’aia al suono di un organetto e al blando lume di una lanterna sospesa a un palo. C’era anche un dilettante di chitarra che variava il trattenimento con alcune romanze sentimentali. La padrona di casa ebbe un successone ballando una danza de’ suoi tempi detta la furlana, avendo per accompagnarla il più attempato de’ suoi domestici, che solo tra i presenti, ne ricordava i passi arcaici. A mezzanotte prendemmo tutti la via del ritorno, un po’ sbandati sulle prime, indi mettendoci in fila a due a due. Per parte mia fui lieta nel riconoscere nel compagno che mi si pose al fianco, quello fra i danzatori che mi aveva maggiormente interessata. La notte era serena, piena di stelle; dagli alberi del viale, dove ci eravamo inoltrati, gli arabeschi d’argento della luna disegnavano sulla terra asciutta un tappeto fantastico. In simile cornice la mia immaginazione quindicenne stava fabbricando un romanzo in azione, quando alla luce improvvisa di una radura tra i rami, mi accorsi di un grosso involto che il mio cavaliere teneva sotto il braccio. — E che diamine ha lì? — Che ho? la mia chitarra. — Un’altra chitarra?! — Non un’altra, la mia. — Ma allora lei non è X.! — Certamente, sono Y. E tutto ciò che le dissi finora lo credette di X.?!... — Io penso ora le risposte che avrei potuto dare, spiritose, gentili, ingegnose, vaghe, sfuggenti per mettere un rimedio alla mia balordaggine e le trovo. In quel momento però, fedele alla mia smania di verità e al mio puerile fui tanto sciocca da non saper rispondere nulla. Nessuno, fuor che le stelle e la luna di quella notte, seppe questo incredibile caso di distrazione, che rivelo oggi a’ miei lettori, perdendo forse un poco nel concetto che essi potevano avere della mia intelligenza, ma rendendoli sicuri almeno della mia sincerità. Avevo parlato più di un’ora con una persona senza accorgermi che era un’altra!