Eneide (Caro)/Ai lettori
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AI LETTORI.
Ogni studioso che acquista un’edizione nuova di un libro vecchio, ha il diritto di sperare che questa nuova edizione vinca di pregio tutte le precedenti; ed ha pure il diritto di conoscere quali cure vi siano state spese attorno, perchè la sua giusta speranza non fosse delusa. È mio dovere pertanto di soddisfare a questo secondo diritto, per indurre nell’animo dei lettori la persuasione che anche al primo si è cercato di soddisfare.
Da un attento esame delle più pregiate fra le molte edizioni di questo libro, mi venne fatto di scorgere che qua e là in più luoghi esse discordavano essenzialmente; tanto che a voler dare un’edizione più genuina che fosse possibile, era mestieri di risalire alle fonti; cioè all’edizione principe, fatta in Venezia dal Giunti l’anno 1581, ed assistita da Lepido Caro, nepote di Annibale. Ma per mala sorte cotesta fonte era avuta in conto di molto impura dagli uomini di lettere; onde il ritornare ad essa, e riprodurla tal quale, non sarebbe stato altro che un ripristinare gli errori. Volli nondimeno toccar con mano, e mi avvidi che il giudizio dei letterati non era ingiusto. Ma insieme conobbi che ciò era bastato per isbrigliare l’arbitrio degli editori, la cui licenza erasi andata esercitando in molti e molti mutamenti, suggeriti ora dal desiderio di far troppo bene, che torna a male, e ora dall’ignoranza della nostra lingua e di certe sue forme invecchiate.
La fama di scorretto nuoce ad un libro, come la fama di bugiardo ad un uomo: «Anche se dice il ver non gli è creduto». Tale mi è sembrata la sorte di questa edizione Giuntina; che se non è delle più accurate, ha veduto però nascer da sè figlie molto più trascurate di lei. Quanto a me, io non ho voluto che questa sua mala fama facesse velo alla più severa imparzialità; e dove l’errore non era manifesto, alla Giuntina mi sono attenuto piuttosto che ad altra qualunque edizione. Ma come discernere il vero dal falso? In ciò appunto credo che consista l’ufficio e lo studio di chi invigila ad una ristampa. Il riscontro dell’originale latino, l’esame del contesto, l’investigazione delle proprietà di nostra lingua, sono stati i miei criteri. Ma questi criteri qualche volta sono fallaci, e spessissimo insufficienti; onde io posso bene essermi ingannato. Il lettore ne giudichi da qualche saggio:
Libro I, verso 123, G.:1 Eolo a rincontro: a te, regina, disse, Conviensi che tu scorga i tuoi desiri; Al.:2 scopra. Che scorgere significhi anche scoprire, manifestare lo dice anche il vocabolario, e chi al vocabolario non credesse troverà in Marcello Adriani il giovane (Trad. di Plutarco, Vita di Aristide, § 3) Si scorse in senso di Si palesò, si manifestò, avendo il greco la voce ἐφαίνετο. — I, v. 144, G.: Le sarti; Al.: le sarte. Quantunque non vi sia alcuna difficoltà a credere che il Caro scrivesse le sarti, come il Machiavelli disse le pianti, il Berni le spesi, il Boccaccio le erbetti, ed infiniti altri similmente,3 pure il leggersi poi sempre sarte in tutto il resto dell’Eneide mi ha fatto forse pentire di aver lasciato le sarti. — I, v. 328, G.: Per vari casi e per acerbi e duri Perigli è d’uopo a far d’Italia acquisto; Al.: è d’uopo far d’Italia acquisto. Quell’a pare abbia dato molta noia agli editori, perchè tutti la vollero bandita, e con questo ci regalarono un verso molto cadente e slombato. Supponendo, quel che essi doveron supporre, che quell’a faccia le veci di per, a fine di, certamente non se ne cava senso: ma supponiamo che stia invece della particella di; nessuno avrà difficoltà d’intendere queste parole: È d’uopo di far acquisto d’Italia per vari casi e pericoli. Resta però sempre a provare che l’a stia invece del di, e che si possa indistintamente dire: È d’uopo a fare una cosa. Io credo che una tal prova si abbia in questi esempi dello stesso Caro, VI, v. 1115: Indi a venir n’è dato Negli ampi elisii campi; e XII, v. 1167: Stan dubie a cui di lor marito e donno Sia de l’armento a divenir concesso; nei quali casi ora diremmo, ne è dato di venire, o, ne è dato venire; concesso di divenire, o concesso divenire: mentre invece lo stesso Caro, VII, v. 433, ha detto: Incominciava d’alzar gli alberghi e di fondar le mura, ove noi ora comunemente diremmo, Incominciava ad alzar gli alberghi e a fondar le mura. — I, v. 596, G.: O Dea, se da principio i nostri affanni Io contar ti volessi e tu con agio Udiste una da me si lunga istoria, Non finirei, che fine avrebbe il giorno. Nella parola udiste a tutti gli editori è sembrato di scorgere un errore, ed anche a me sembra; poichè, supponendo pure che udiste sia in luogo di udisti, non è questo il modo e il tempo del verbo che il contesto richiede. Gli altri editori vi hanno sostituito udir; io, per osar meno, ho mutato il t in s, e ne ho fatto udisse. – I, v. 1031, G.: Enea, cui la paterna tenerezza Quetar non lascia, a le sue navi innanzi Spedisce Acate; Al.: Enea, la cui paterna tenerezza Quetar non lascia, ec. Una tale trasposizione, oltrechè dà un verso fiacchissimo, distrugge a mio credere la sintassi. – III, v. 698, G.: Sovr’a tutto io l’assenno, ti predico, Ti ripeto più volte e ti rammento; Al.: ....t’accenno; Virg.: Unum illud tibi, nate dea, proque omnibus unum Praedicam, et repetens iterumque iterumque monebo. – III, v. 895, G.: È.... capace Di molti legni il porto ove sorgemmo; Al.: ove giugnemmo. Il verbo sorgere ha il significato di approdare, e glielo danno anche i vocabolarietti ad uso delle scuole. Eppure qui gli editori hanno creduto di negarglielo, mentre poi glielo hanno concordemente concesso al L. VI, v. 1042: A la riva Del mar Tirreno il mio navile è sorto. — IV, v. 733, G.: Or poi che la meschina Fu da tanto dolor da tanto affanno Appresa e vinta; Al.: Oppressa; Virg.: Ergo ubi concepit furias evicta dolore. — V, v. 1016: E tu de’ tuoi Ciò che t’avanza.... a lui si lasci. Così leggono tutte le edizioni; e noi per dar sintassi al periodo eravamo tentati di scrivere a lui qui lascia, o, a lui si lascia: ma non abbiamo osato. — VII, v. 975, G.: tirar lame d’acciaio fila d'argento; Al.: d’acciar. Come noia, gioia e simili sono monosillabi nei versi di molti poeti, e fin del Parini, così acciaio qui è bisillabo, quantunque in altri luoghi il Caro stesso lo faccia trisillabo. — VII, v. 1018, G.: Con la madre il poderoso iddio Quivi si mescolò quando di Spagna, Da Gerione estinto (cioè, dopo avere estinto Gerione) ai campi venne Di Laurento; Al.:... Di Spagna, Estinto Gerione, ai campi venne ec. Io non so se possa farsi mutazione più temeraria. - IX, v. 177, Quante.... Eran le navi, tante di donzelle Si vider per lo mar sereni aspetti. Così, dietro alla Giuntina, tutte le edizioni: io ho creduto di dover mutare il tante in tanti. - IX, V. 986, G.: tonò dal manco Sereno lato; Virg.: De parte serena Intonuit lævum; Al.: Tonò dal manco Sinistro (!) lato. - IX. v. 1117, G.: Il grave sasso.... Da l’alto ordigno, ov’era dinanzi appreso, Si spicca e piomba; Al.: appeso. Mi pare che il testo dia ragione alla Giuntina: Saxea pila cadit, magnis quam molibus ante constructam ponto iaciunt. - X, v. 1249, G.: E ’l tuo fatto; Al.: E ’l tuo fato: VIRG.: Factaque.
L’addurre i molti altri esempi che potrei, e l’additare i luoghi in cui ho creduto dovermi scostare dalla Giuntina e seguire le altre edizioni, riuscirebbe non meno grave al lettore che a me. E già le mie parole son troppe. Mi occorre però ancora di dire che non m’è piaciuto d’imitare l’esempio degli altri editori, i quali hanno ammodernato molti vocaboli. Ed ho lasciato il suffocare, il Bora, il fulgurò, il vertú, lo sbergo, l’occisione, l’occiso, l’effigi, il profetezza, le redine, il sossidio, l’essequire, il Volcano e moltissimi altri. Ma come l’uso di queste forme non era costante della Giuntina, così anche qui si è mantenuta la stessa incostanza e vi si legge pure sussidio, uccise, folgorare, Vulcanoec. ec. Queste minuzie mi pare che giovino alla storia delle parole.
Quanto all’ortografia ho tenuto questa regola, che, trattandosi di versi, mi è sembrata la più sicura: se l’uso odierno non induceva alcuna variazione di armonia, di accenti, di suoni o di consonanze, ho seguito l’uso odierno: e così di a i, de i, ne i, e simili ho fatto ai, dei nei; ma dove per seguire quest’uso era mestieri aggiungere o togliere una qualche lettera, onde ne usciva qualcuna delle dette variazioni, l’uso antico mi è parso da preferire: e però di si come, di poi che, di a le, di ne la, non ho fatto siccome, poiché, alle, nella.
Dirò per ultimo che ad utilità degli studiosi è stato fatto precedere il poema dagli argomenti che dettò in latino Dübner per la elegantissima edizione del Virgilio di Didot, e che tradotti e così riuniti in principio del libro, formano una succinta narrazione dei fatti d’Enea. Si è creduto pure di provvedere al comodo dei lettori mettendo nel margine superiore di ciascuna pagina la numerazione dei versi italiani, e nell’inferiore quella dei versi latini corrispondenti.
1860.
- Testi in cui è citato Lepido Caro
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