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Abissinia/Capitolo VIII

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Capitolo VIII

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CAPITOLO VIII.

Da Adua a Axum. — Panorama della città. — L’obelisco. — Avanzi antichi. — La chiesa. — Ritorno in Adua. — Costumi degli Abissinesi. — Rito religioso. — Caste sociali. — Carattere della popolazione. — Clima. — Visite noiose. — Un ordine reale. — Amministrazione. — Tradizioni. — Agricultura. — Carovana dello Scioa. — Una refezione all’abissinese.


Per riprendere il filo del nostro itinerario montiamo a cavallo la mattina di mercoledì 19, e seguiti da poche provvigioni ci interniamo in direzione ovest in un labirinto di alture aride e quasi spopolate, delle quali alla vetta delle più alte sorge quasi sempre una chiesa. Avanti a noi, un po’ a sud, nella poco limpida atmosfera si distingue a quando a quando il profilo dell’imponente gruppo del Semien. Facciamo breve sosta presso un pozzo naturale, scendiamo in un vasto piano che alcuni miserabili stanno preparando alla coltivazione, lo attraversiamo, e una colonna rettangolare che scorgiamo ai piedi delle estreme falde di una altura che fronteggiamo, ci indica vicina la meta. Girando infatti sulla destra e oltrepassando un’incassatura fra rocce, ci si presenta distesa ai piedi di un catena di alture, Axum, le cui capanne riposano all’ombra di gruppi di tamarindi e tuje pendule.

Nel mezzo, nascosto dalle fronde, appare come l’avanzo di un castello merlato, a nord-ovest l’obelisco fiancheggiato da un enorme sicomoro. [p. 132 modifica]

A mezzogiorno mettiamo piede a terra in un ricinto in cui è una capanna che ci è destinata, desiderosi di rassicurarci della impressione simpatica che abbiamo dell’insieme di questa città, e ravvivati dal desiderio di rivedere che cosa l’arte e la civiltà hanno potuto in altri tempi.

Siamo subito pregati di una visita, e percorsa poca strada entriamo nel recinto sacro del tempio e per una viuzza giungiamo ad una capanna che dalle altre si distingue per capacità e proprietà. È l’abitazione del Cighié, titolo che si conviene al capo religioso e civile di questa provincia, e che fa le parti dell’Abuna, quando, come ora, questi manca in Abissinia. Il personaggio è assente, trovandosi al campo del re, ma i suoi figli, nipoti e servi ne fanno gli onori. Tutti sono accovacciati al suolo e ci accolgono cortesemente; noi pure sediamo come loro su tappeti e stuoie. Poco dopo recano un gran vaso di tecc coperto da stoffa rossa, come usano i grandi, lo posano su uno sgabello e ne versano il liquido in grandi bicchieri di corno, per poi riversarlo nelle solite bottiglie a cipolla col primitivo imbuto di due dita, e offrircelo. Recano poi un paniere con pane di teff e un vaso di berberi o peperoni rossi essicati poi impastati con cipolle, e adottando gli usi e le posate del paese dovemmo ingoiarne e assaporarne. Consumato questo sacrificio e risposto ad una vera tempesta di domande, si accommiatammo.

Accompagnati da Zaccaria che ci fa da interprete e da cicerone passiamo a visitare l’obelisco che rettangolare e leggermente rastremato al vertice si eleva di circa 25 metri: alla facciata è tutto scolpito e diviso con linee orizzontali e disegni strani e ripetuti. Alla base ha scolpito una finta porta cui non mancano i particolari delle serrature: misura metri 1.50 di larghezza e 1.15 di spessore, e sorge fra due grosse lastre ora sconnesse, ma che si vede dovevano perfettamente abbracciarlo e formargli come un pianerottolo all’ingiro: il tutto di granito [p. - modifica] Obelisco d’Axum
Vertice posteriore                                                  Dettaglio delle sculture
[p. 133 modifica] grigio scuro. La pietra che sta sul davanti porta tre forature, come mortai, parallele all’obelisco stesso, ed una quarta al centro avanti alle altre. Rende poetica ed artistica la posizione un secolare sicomoro, di cui il tronco è quindici metri in circonferenza, e che fra le sue sporgenti radici tiene abbracciato un’altro obelisco minore. Nei dintorni molti altri ne stanno di colossali e lavorati, ma caduti e fatti a pezzi: molti riposano presso le stesse pietre che li circondavano, e che portano le stesse forature. Parecchi ne stanno ancora nella loro posizione verticale, ma di minore importanza; alcuni appena regolarmente tagliati o levigati, altri rozzi pezzi di granito a forma di lingua, qualche volta con rigature orizzontali o calotte sferiche in leggero rilievo. Lascio allo studioso il decifrare questi muti testimoni della civiltà d’altri secoli, e mi permetto solo di aggiungere che dalla poca esperienza fatta visitando altre reliquie sorelle, mi pare questo abbia tutta l’apparenza di una necropoli o di una località consacrata al culto. Gli Abissinesi, non potendosi spiegare con quali mezzi siansi potuti innalzare pezzi così grandi e pesanti, ne attribuiscono il merito al diavolo che voleva costruire una gran torre per dare la scalata al cielo. Il nostro bravo Zaccaria, che fra i suoi è certo il più istrutto, non può credere a questo lavoro diabolico, ma non sa neppur immaginare che vi abbiano riuscito uomini come lui, e pretende che a quei tempi si sapesse sciogliere poi rimpastare il granito, e con questo sistema si costruissero gli obelischi a pezzo a pezzo. L’ingenuità è per lo meno ingegnosa. Proseguendo a nord è un recinto circolare destinato ad erigervi una chiesa, poi quasi a terminare la città da questo lato, un altro spazio circolare racchiuso da una cinta, sede reale. Si accede per un’apertura coperta da una tettoia di paglia a metà rovinata. L’interno è diviso in due parti da un piccolo muro. Al centro sorge un’edificio circolare di una dozzina di metri di diametro, sormontato [p. 134 modifica] da un tetto conico in paglia; è la sala del trono e delle udienze.

Un giro di rozzi tronchi che fanno ufficio di colonne aiutano a sopportare il tetto ben fatto con canne e corde intrecciate, e talora avvolte con stoffe a colori. Come mobilia, nulla, tranne il trono che servì all’incoronazione, semplice sedia sormontata da un baldacchino con corona e qualche ornato, poggiando su una piattaforma alla quale si accede per cinque o sei gradini. Nelle pareti alcuni semplici forti per dar luce, da un lato la porta d’ingresso, e opposta a questa l’altra da cui esce S. M. quando vuole andarsi a riposare nel vicino palazzo. Sorge questo a pochi metri nello stesso recinto, in forma rettangolare con un piano superiore che tutto è costituito da una rozza camera. Nel locale inferiore abita il custode, e la scala che accede agli appartamenti superiori è esterna e mostra per la sua costruzione che i giorni del re non si reputano troppo preziosi pel suo popolo. Quando il re vi abita, ci si disse che vi si portano degli angareb, e le pareti si coprono con stoffe.

Rimpetto a tutto questo è un’altura che finisce con roccia nuda, e la cui base forma parete ad una vasca semicircolare lunga una trentina di metri, larga la metà e profonda forse sei, in cui all’epoca delle piogge si raccoglie l’acqua. È detta maiscium o acqua dei principi. Dal lato dell’altura sono due vie scavate nella roccia che dagli estremi della vasca vanno elevandosi sopra il centro, dove trovansi quattro o cinque gradini disposti ad anfiteatro. Avanzi di antiche gradinate scendono pure fin sul fondo della vasca. In un avvallamento di fianco a questa altura sta un grosso sicomoro, dove per antica tradizione, il giorno dell’Epifania, si piantano due tende, di cui una è regalo del re, vi si celebrano solenni messe, vi si fanno grandi feste e si benedice l’acqua.

Da qui verso sud continua la catena di alture che stanno rimpetto alla città da cui sono divise per pochi metri [p. - modifica]Chiesa d’Axum nel castello portoghese [p. 135 modifica] dall’incassatura di un piccolo torrente in cui scorre acqua solo al tempo del carif. Alla vetta di una di queste, ove salimmo, Zaccaria ci mostrò alcune tracce di un antico edificio in pietra da taglio, distrutto dal tempo ed ultimamente dall’avidità del materiale. In diversi punti avanzi di antiche opere, per lo più finte porte scolpite nella roccia.

Passiamo, invitati, a visitare il Nebrid, l’autorità ecclesiastica che viene subito dopo il Cighiè in via gerarchica. Abbiamo uno dei soliti ricevimenti con trattamenti, e vi troviamo una cordialità senza pari e una persona franca, intelligente, simpatica quanto mai.

Da qui alla chiesa, che è entro un curioso edificio merlato, rettangolare, che ha tutto l’aspetto di un castello medioevale, ciò che mi fa ritenere per certo essere un avanzo di fortificazione della dominazione portoghese. Sul davanti è un rozzo porticato con pilastri. L’interno è diviso in tre navate, ed a circa metà della sua lunghezza diviso da un muro che rinserra così la parte riservata ai preti. Qui dentro si conserva il trono di gala che il re fece fare a Naretti e che modestamente si intitola trono di Salomone. Dieci gradini in legno, fiancheggiati da una balaustrata, portano ad una piattaforma, sulla quale, dietro la sedia reale si innalza un assito sormontato da una gran corona, intagliato a disegni fra cui al centro i leoni d’Etiopia ed una iscrizione che porta il nome del re, la data dell’incoronazione e il nome dell’artefice.

In uno speciale cortiletto, a fianco alla chiesa, sorge un piccolo edificio nel quale si pretende siano state deposte e conservate le tavole della legge: ora vi stanno positivamente due cannoni di bronzo presi agli Egiziani a Gura, e che il re in atto di devozione offrì alla chiesa quale ringraziamento della vittoria. Attorno alla chiesa è un gran recinto sacro, popolato da molte piante, nel quale non possono entrare donne; sparse vi sono [p. 136 modifica] parecchie capanne che per tradizione si ritengono inviolabili, e quindi vi tengono deposti i loro tesori i grandi personaggi. Avanti la chiesa è una lunga gradinata, larga sessanta metri, che aggiunge imponenza a questo edificio che in mezzo a tante abitazioni e templi in paglia figura già come gigante. Sortendo dal primo recinto in direzione ovest si trova una massa di rovine, e fra queste ancora perfettamente riconoscibili le sedie dei giudici che la tradizione vuole sedessero a pubblico tribunale rappresentando le dieci tribù d’Israele. Sono basamenti in pietra che sopportano massicci sedili pure in granito, nei quali restano le tracce delle incisioni dove si assicuravano il dorsale e i bracciali che dovevano forse essere in metallo o ricoperti da ricche stoffe.

Altri avanzi si trovano in diversi altri punti della città: resti di grosse muraglie: grossi dadi in pietra, disposti in linea retta, che mostrano l’esistenza di un edificio di qualche importanza, e perfettamente all’estremo sud una gradinata di sei gradini, lunga una quindicina di metri. Resti parlanti della antica civiltà sono due lapidi, o meglio frammenti di lapidi, delle quali una in caratteri greci rimonta al 330 della nostra era e narra i fasti di un imperatore Aizana.

L’elevazione di Axum mi risulta di 2170 metri circa.

Un altro obelisco caduto e spezzato ci fu mostrato presso alcune abitazioni: è il più grande, parmi, e misurato a metà dell’altezza circa, mi diede metri 3.50 × 2.05: la lastra che doveva fargli piattaforma sul davanti è metri 6 × 17.20.

Passati un paio di giorni a visitare questi interessanti avanzi ed a cavarne qualche schizzo che ce ne possa ricordare le linee principali, riprendiamo la via del ritorno per Adua.

Proseguiamo per poco verso nord ove anche dopo le ultime capanne si continuano ad incontrare avanzi di obelischi più o meno rozzamente lavorati. Questo mi conferma nella mia [p. - modifica]Abitazione reale in Axum [p. 137 modifica] opinione che trattasi di una necropoli o di un santuario, essendo gli obelischi maggiori, che tutti portano presso a poco le stesse incisioni, dedicati ai singoli membri della dinastia regnante, od innalzati come fari del culto e della fede. Non potrebbe quella porta che sta scolpita ai piedi di molti degli obelischi, avere allusione all’ingresso nella nuova e forse miglior vita? Vediamo tanti monumenti moderni che vorrebbero esprimere lo stesso concetto! E quelle forature nella piattaforma, non potevano servire ad accendere fuochi per tener viva la memoria del trapassato, o a ricevere offerte che gli amici e i parenti deponevano in omaggio al defunto, e che i poveri raccoglievano? Sono usi che vediamo ancora oggi praticati in alcuni paesi. E non c’è a stupire se di una città, anzi di una civiltà, non restano che poche tracce di lavori dedicati alla fede e ai morti. La stessa cosa vediamo negli avanzi di quasi tutte le città romane, nei giganti dell’antico Egitto, nei colossali templi dell’India, dove quasi nessuna traccia ne resta che ci dia idea della vita privata di quelle popolazioni che vivevano forse sotto meschine capanne o entro grotte, ma lasciarono quei ricordi davanti ai quali noi ci sentiamo pigmei, quegli edificii che per culto alla fede o per rispetto ai trapassati furono arditamente innalzati colla vita di migliaia di schiavi e colle ricchezze di intiere provincie.

Noi abbiamo raggiunto, almeno a quanto pare, un grado molto superiore di civiltà, e per ottenere questo intento abbiamo trascurate le tradizioni per far trionfare l’egoismo, ma credo che molti plaudirebbero al giorno in cui il faro che ci guida nella vita fosse meno l’interesse, ma meglio le affezioni.

Volgiamo ad est, saliamo un’altura dalla quale diamo l’ultimo addio ad Axum e dopo mezz’ora ci fermiamo per visitare alcune grotte. Un’apertura di poco più di un metro di larghezza per due di altezza dì accesso ad un corridoio le cui pareti sono in blocchi di granito squadrati: l’entrata è in discesa e la sof[p. 138 modifica] fitta pure in blocchi di granito sovrapposti come gradini di scala rovescia.

Dopo sette o otto metri s’incontra un corridoio trasversale: rimpetto all’entrata una specie di camera di quattro metri circa di profondità, e ai lati di questa due corridoi dall’apparenza paralleli continuano in direzione dell’entrata. Mi inoltro per qualche metro, ma sgraziatamente la mancanza di luce naturale ed artificiale non mi permette di verificarne nè la direzione nè la profondità.

Nelle vicinanze se ne vedono altre simili, ma l’accesso ne è quasi completamente proibito da pietre che lo ingombrano, e solo vi hanno rifugio jene e sciacalli.

Per una via molto più variata e simpatica di quella percorsa venendo, ce ne torniamo alla nostra dimora di Adua, dove gli amici rimasti ci avevano preparato di che rifocillarci; ma mentre tutti quanti stiamo col piatto sulle ginocchia, entra un corriere speditoci da Massaua.

Tacque la fame, ognuno dimenticò quanto aveva sul piatto e alle nostre narrazioni, al tintinnio delle posate subentrò un silenzio sepolcrale interrotto solo dal fruscio di qualche pagina che dava posto ad un’altra.

Bisogna averlo provato, per poterlo immaginare, cosa sia di consolazione ricevere nuove della propria famiglia, e inaspettatamente, in simili circostanze.

Il costume generale dell’Abissinese è lo scemma, specie di lenzuolo bianco attraversato da una striscia scarlatta di cinquanta centimetri di larghezza: il bianco si ottiene da cotone coltivato in alcune provincie, filato e tessuto in paese, il rosso è filo importato d’Europa, e come per questo motivo è la parte più costosa, i poveri lo sopprimono e più si avanza nell’interno, più si restringe, diventando maggiormente caro pel trasporto. Il genere dell’abbigliamento e l’eleganza del modo di indossarlo [p. - modifica]Costume da donna abissinese [p. - modifica]Soldato abissinese [p. 139 modifica] portata dall’abitudine, lo rendono quanto mai pittoresco: le persone più agiate o che occupano alte cariche vi aggiungono una semplice camicia od un paio di calzoncini in tela bianca: il povero è meschinamente coperto da un cencio qualunque o qualche volta da una semplice pelle alla cintura: i bambini spesso come natura li fece. Le donne si fanno una piccolissima treccia che gira sul fronte e scende dietro le orecchie, e pettinano il resto della testa con una massa di treccine che partendo dal fronte, nel senso longitudinale del capo, scendono a radunarsi alla nuca. Gli uomini portano capelli corti, o in segno di distinzione cinque grosse trecce che pure scendono dal fronte alla nuca, e questo serve a dar loro aspetto assai marziale. Le prime spesso, i secondi qualche volta, uno spillone d’argento conficcato nei capelli. Le ragazze, in segno della loro verginità, portano una larga tonsura che tutta occupa la nuca e lascia solo un anello di capelli all’ingiro. Il costume comune alle donne è una camicia di tela ricamata a strani disegni con fili colorati, sul davanti, attorno al collo e alle maniche. Spesso hanno braccialetti anche ai piedi, piccoli orecchini e originalissime collane in argento. Alle dita molti anelli grossi ma lisci. L’uomo porta raramente monili: alle volte qualche anello d’argento alle dita: spesso però gli pende dal cordone azzurro, che in segno di cristianesimo porta al collo, un grosso anello in bronzo od argento, e, cosa curiosissima, uno spazza-orecchie alle volte abbastanza elegante, ma del quale credo che l’uso sia poco meno che ignoto. Comunque sia è strana la presenza di questo unico strumento da toeletta che sia conosciuto in paese.

Il D’Abbadie appoggia molto sul modo di vestirsi e sulle conseguenze almeno apparenti che ne derivano nei costumi per trovare un certo nesso fra gli Abissinesi e gli Etruschi, i Romani e i Greci, e come i Romani distinguevano la Gallia togata, la Gallia bracata e la Gallia comata, vorrebbe che l’Etiopia [p. 140 modifica] fosse quella che dal costume potrebbe dirsi Africa togata. Finamente poi osserva come anticamente i soldati, acquistavano diritto a farsi una treccia per ogni nemico ucciso o fatto prigione, e dieci fatti simili permettevano di fare a trecce tutta la testa e vede nell’attuale uso abissinese una tradizione di questo costume.

Non si coprono mai il capo e marciano sempre scalzi, solo usando dei sandali quando hanno i piedi piagati. Vivono molto parcamente, chè il loro nutrimento abituale è pane con berberi, pastina ottenuta da peperoni rossi essicati e cipolle pestati insieme, che qualche volta riscaldano con farina di ceci e ne fanno così una pietanza assai forte nella quale intingono il pane. Solo in circostanze particolari mangiano carne, quasi sempre da bue, e la preferiscono cruda, di animale appena ucciso. Sono ghiottissimi di questo pasto selvaggio che chiamano brundò: qualche volta abbrustoliscono le carni sulla bragia. Indolenti per carattere, il loro primo scopo è il dolce far niente, ma l’attività non manca loro e in caso di necessità sono capaci di fatiche e di privazioni straordinarie. Con pochi pugni di farina vivono e camminano intiere giornate, e il giorno che possono sgozzare un bue lo divorano materialmente, empiendosi fino al punto di non potersi quasi più muovere.

Come bibite hanno la birra, liquido torbido ed acidulo che si ottiene dal fermento di acqua con pane o grano abbrustoliti. Più usato è il tecc ottenuto dal fermento di acqua, miele e foglie di ghessò o radici di teddò, arbusti che crescono allo stato selvaggio e che qualche volta si coltivano all’uopo. Il più delicato è quello che si ha dalle foglie di ghessò: come usano questa bevanda nel momento della sua maggiore fermentazione, assai facilmente se ne ubbriacano.

Qualche arabo ha introdotto in paese l’uso di distillare il grano di dagussà, dal quale ricavano una specie di acquavite, di che sono assai ghiotti, e che chiamano arachi. [p. - modifica]La nostra abitazione in Axum [p. 141 modifica]

La dura è il grano più usato dalla popolazione: i benestanti usano molto il teff, che somiglia al nostro miglio, e col quale fanno dei pani simili a grandi ostie tutte a piccoli fori come un merletto, sempre molle come pasta cruda, anche se stracotto. Hanno buon frumento, ma raramente lo usano. Le capanne loro sono meschinissime e tutto quello di più sudicio che si può immaginare: è un lusso concesso a pochi l’avere un angareb, chè la maggior parte dorme per terra rannicchiata su una pelle da bue che difende dall’umido e dagli insetti. È gente del resto contenta del suo stato, che con poco potrebbe procurarsi qualche miglioramento nelle abitudini e nel vivere, ma che non ne sente il bisogno e non se ne cura.

Il sapone vegetale è un arbusto curioso che prende volontieri forma d’arrampicante nelle siepi: produce dei fiocchi di fiori biancastri, dei quali i semi si usano come sapone e ottengono benissimo l’intento producendo molta schiuma.

L’abissinese non si lascia mai vedere quando mangia, e facendo questa indispensabile operazione, si raccolgono a piccoli crocchi e si coprono stendendo uno scemma sulle teste. Così pure quando parlano, lo fanno spesso sotto voce e alzando il manto a coprire la bocca. È gran lusso l’avere delle bottiglie europee in cristallo a forma di cipolla, e di queste si servono come da bicchiere. Hanno poi bicchieri e bottiglie di fabbrica nazionale, che consistono in grosse corna da bue ridotte all’uopo.

Si pretende sia conseguenza dell’uso delle carni crude la frequenza del tenia, che curano con una decozione di cussò, albero che vegeta splendidamente in molte località. Del resto la loro farmacia si riduce a qualche rimedio empirico, sempre vegetale, e nel confidare nel tempo e nel lavoro di natura. Per le ferite e le piaghe applicano assai facilmente il fuoco con un ferro rovente; e frequentissimi sono gli individui che al petto, al dorso o alle braccia ne portano le tracce. [p. 142 modifica]

Secondo il rito abissinese v’ha un battesimo pei neonati e un matrimonio per chi vuole regolarmente crearne. Battezzando, il prete passa al collo del bambino un cordone tricolore in segno della Trinità: questo si riduce in seguito ad un cordone azzurro, che si usa portare come distintivo, dai cristiani. Pochi adempiono alla formalità del secondo sacramento: la separazione è frequente e il divorzio ammesso anche religiosamente qualora si provi che la donna ha bastanti mezzi per la sua sussistenza, o che il marito può fornirglieli. I maschi restano al marito, le femmine alla moglie. Sono cristiani, ma separati dalla chiesa cattolica e dipendenti direttamente dal loro patriarca che siede in Alessandria d’Egitto. Il loro rito è il cofto, che ebbe vita verso la metà del quinto secolo da Eutichio, monaco di un monastero in vicinanza di Costantinopoli, il quale si dichiarò oppositore alle vigenti credenze sulla doppia natura di Gesù Cristo. Il nuovo dogma non piacque al cattolicismo, e radunato un primo Concilio per ordine di papa Leone Magno, Eutichio fu dichiarato eretico, ma riammesso a far parte della chiesa cattolica dai voti di un secondo Concilio convocato per ordine dell’imperatore Teodosio II. I proseliti si divisero per altro in due fazioni favorevoli alle contrarie decisioni dei due Concili, per cui per por fine ai dissidii ne fu convocato un terzo in cui gli Eutichiani furono irrevocabilmente dichiarati eretici, e per questo si separarono completamente dalla chiesa di Roma, e propagarono le loro credenze in Oriente. Credono alla Trinità riconoscendo in Cristo una sola natura, perchè pretendono che la divina ha assorbito l’umana. Il loro culto d’adozione è quello della Vergine che come madre di Cristo ha, secondo loro, maggiori titoli alla venerazione dei fedeli. Osservano il culto delle immagini. Hanno due quaresime; una di quaranta giorni che precede la Pasqua, e una di dieciotto durante l’Advento: entrambe si osservano scrupolosamente, facendo un solo pasto [p. - modifica]Prete cofto d’Abissinia [p. 143 modifica] ogni ventiquattro ore e dopo il tramonto: la carne, il latte, le uova sono proibiti in queste epoche, e si tollerano solo i legumi. Nessuna concessione è fatta, neppure, per malati e moribondi.

Per speciali divozioni, il re può far proclamare altri digiuni. Le funzioni religiose hanno luogo generalmente la notte, e nelle feste speciali con gran pompa. La popolazione è molto religiosa in apparenza, ma mi pare assai poco nella sostanza, come pure sono fieri d’esser cristiani, ma in realtà lo sono di nome più che di fatto. I preti devono saper leggere, è un lusso se sanno scrivere, e dando un piccolo esame davanti al vescovo od a chi ne fa le veci, vengono investiti del sacro ordine: nelle chiese insegnano poi a leggere e commentare le sacre scritture a dei ragazzi che a loro volta diventano i successori. È loro concesso di ammogliarsi, ma in caso di vedovanza non possono passare a seconde nozze.

Per vivere è loro destinato un tributo sui terreni appartenenti al villaggio cui sono addetti, e ricevono offerte private. Vestono uno scemma tutto bianco e un turbante pure bianco, rare volte giallo. Portano sempre una croce in ferro colla quale si fanno il segno della croce. Conoscono la propria ignoranza e temono il confronto di qualunque altro sacerdote, per cui sono i più terribili nemici di qualunque influenza europea, immaginando che dietro l’ambasciatore o il commerciante, venga subito il ministro della fede. Nella celebrazione della messa stanno racchiusi nel camerino interno della chiesa, talchè non sono visibili agli occhi del pubblico: all’esterno però vi sono sempre altri preti e chierici che coll’originale turibolo tutto a campanelli, col loro speciale campanello, con canti e gridi fanno un baccano che somiglia più ad una ridda infernale che ad un sagrificio religioso.

Nella società non vi sono grandi distinzioni di classi. Solo [p. 144 modifica] ai tempi di D’Abbadie e di Ruppel esisteva ancora una certa organizzazione, si usavano certe etichette nei ricevimenti, nei costumi trasparivano principi di eleganza, di effeminatezza: si parlava allora di tinture agli occhi, di profumi sulla testa, si adoperava un elegante ed originale bornus da signora in seta azzurra e gialla con ricami caratteristici a colori. Cose tutte che oggi sono quasi scomparse perchè le continue guerre hanno devastato il paese, e la miseria generale ha portato la trascuratezza del superfluo e la svogliatezza dell’attendervi.

Oggi mi pare che l’abissinese può dividersi in tre categorie: quelle dei così detti grandi che hanno cariche civili, militari o religiose: quella dei benestanti, se così si possono dire, che corrispondono al nostro medio ceto, e che per eredità di famiglia, per speciali favori o per ricompensa ebbero dal re il dono di terre, e dal ricavo di queste vivono: l’ultima classe è la povera, anzi poverissima, quella degli agricoltori, se così si possono chiamare quelli che grattano un po’ di terreno per spandervi del grano e senz’altro raccoglierne i frutti qualche mese dopo. Questa classe, che infine è quella che pensa alla sussistenza di tutti quanti gli Abissinesi, è ritenuta l’infima e quasi tenuta in conto di spregio, chè in paese considerano il coltivare la terra come il più basso grado di avvilimento per un uomo. E pensare che sono i soli individui, si può dire, che in Abissinia lavorano. Chi vi si adatta sono i pochi che annidano sentimenti umani nel cuore e preferiscono le affezioni della famiglia alle emozioni delle armi, e della vita errante, oppure quei disgraziati seminudi e semi-schiavi che non poterono mai giungere a procurarsi un cencio ed un’arma tanto da rendersi capaci di seguire un corpo qualunque d’esercito. Questo è la vera piaga del paese, che essendo il soldato mantenuto e godendo del beato far niente tutta la giornata, il sogno d’ogni abissinese è di diventarlo, e tutte le braccia robuste sono così tolte all’agricultura. [p. 145 modifica]

Il carattere dell’abissinese varia molto a seconda delle province e delle classi sociali. Così nel Tigré è più fiero e ardito, nell’Amara calmo e serio, nello Scioa cortese ed elevato, almeno a quanto potei giudicare da parecchi scioani venuti în Adua.

La più alta classe sociale, sia per natura, sia per ambizione, sia perchè lo ritiene un dovere, volendo farsi credere educata con degli Europei, è generalmente affabile, ospitaliera. Il ceto medio vorrebbe esserlo, ma non può o non sa esserlo, e tutte le gentilezze, i tratti di generosità che per lo più vi usa, cerca di averli materialmente compensati ad usura. La classe povera è piuttosto buona e sarebbe ospitaliera se non la trattenesse dall’esserlo la gran miseria e la paura costante d’esser vittima degli abusi del paese. Quando viaggiano carovane per ordine o servizio del Governo o del re, che è poi la stessa cosa, oppure compagnie di soldati, hanno diritto d’essere mantenuti in ogni villaggio che si trova sulla loro via, e come hanno una certa impunità e nessuna riservatezza, non si accontentano di vivere, ma dove toccano portano la devastazione.

Entrano nelle case, fanno sgombrare gli uomini, obbligano le donne a far pani, tecc, a dar loro miele, latte e tutto quel poco che si può avere, poi spesso abusano di questa ospitalità forzata e non rare volte si divertono ad insaccare o buttar via per malvagità o dispetto le provviste che a questi miserabili dovevano servire fino alla fin d’anno. Da questo deriva che la povera popolazione è diffidente, quando vede arrivare una carovana scappa, nasconde le provvigioni, rifiuta ogni cosa, e spesso dovemmo durar fatica a persuaderli che eravamo galantuomini e che volevamo pagare quanto cercavamo.

In complesso non vedono di buon occhio l’Europeo, perchè non sanno concepire per qual ragione viaggi nei loro paesi e subito sospettano in lui mire religiose: ne sono poi diffidenti [p. 146 modifica] vedendo in ogni bianco un turco, e turco ci chiamano per sprezzo: non hanno per altro coraggio di farci del male, temendo il castigo del re, e ci rispettano quando ci sanno protetti dal loro sovrano. Sono generalmente onesti, e questo credo in parte si deve anche alla mancanza di tante formalità e quindi all’abitudine di tener sacra una parola data o giurata su una vaga formola qualunque. La gravità delle pene fa sì che sono galantuomini, e raramente commettono rubalizi: ha portato invece l’altro inconveniente, che non osando appropriarsi, cercano, e sono di tale insistenza da mancare alla propria dignità e da far perdere la pazienza a qualunque santo. Tranne il re e uno o due dei principali capi, del resto tutti quanti gli Abissinesi peccano di questo grave difetto, vengono a farti visita con mille protestazioni d’amicizia, poi cominciano a domandarti tutto quello che vedono dattorno, poi quello che desiderano nella loro fantasia, e invece di avvilirsi alle continue negative, pare prendano maggior lena a cercare di colpire nell’oggetto del quale per indifferenza o per levarti la noia sei disposto a privarti. I più educati, se così si possono dire, sono quelli che invece di chiedere assolutamente ti propongono una vendita, ma si può ben star certi che il corrispettivo non arriverà mai più.

Noi avevamo moltissime medicine che furono distribuite a chi ne mostrava necessità o desiderio, ma la maggior parte, invece di malati, erano gente che voleva piuttosto la boccetta o la scatolina che non il farmaco, e i più trovavano che sì piccola dose di questo era impossibile potesse guarire uomini e mali così grandi.

Le prigioni furono edificate da madre natura in questo paese: i prigionieri si mandano a vivere su un altipiano tutto circondato da pareti verticali basaltiche e dove l’unico accesso possibile si fa guardare da pochi soldati: i condannati devono fabbricarvi la propria capanna e coltivarvi il grano necessario alla loro sussistenza. [p. - modifica]Palazzo reale presso Adua [p. 147 modifica]

A nord-ovest di Adua, a circa un chilometro dalla città, è una palazzina reale, l’unica in Abissinia che abbia l’aspetto un po’ diverso delle solite abitazioni e ornata da griglie che fece Naretti. All’interno tutt’affatto rozzo.

Invece di perdermi in descrizioni, che ormai sarebbero ripetizioni, credo meglio darne un disegnino fatto sul vero.

Il clima in Abissinia è eccellente e solo dopo le piogge si sviluppano alle volte alcune febbri nelle vallate più basse e lungo i corsi del Mareb e del Taccaze. La temperatura varia nell’anno dai 18° ai 25°, nelle altitudini medie: certo che nelle alte montagne il termometro scende ben più basso. Il sole è cocente, chè per quanto elevati non dimentica d’esser sole tropicale e piomba i suoi raggi verticali, ma l’aria rarefatta e spesso mossa dovuta all’altitudine e alla natura montagnosa, fa che raramente s’abbia a soffrire del più terribile tormento dei climi caldi, l’afa. È però facile pigliarsi un colpo di sole.

In aprile cominciano i primi annunci dell’avvicinarsi dell’autunno, o epoca delle piogge, che gli Arabi chiamano karif. La notte e la mattina il cielo è serenissimo, ma verso le due o le tre i venti di nord-ovest lo coprono di nubi spintevi dalla costa: qualche volta fanno una semplice visita poi scompaiono, spesso invece danno origine a lampi e tuoni, poi ad acquazzoni torrenziali, dopo i quali torna il più splendido sole. Dura così una quindicina di giorni, per poi rimettersi al bello fino alla metà di giugno, ed a quest’epoca comincia la vera stagione delle piogge che si protrae per quattro mesi, piovendo dapprincipio due o tre volte per settimana, durante qualche ora, poi aumentando fino a continuare giorno e notte nel mese centrale, poi decrescendo nella stessa ragione. È allora che tutto il suolo si copre di uno smalto verde intarsiato da splendidi fiori, che le foreste riprendono nuova vita per rafforzarsi ad affrontare gli altri mesi di siccità, che le campagne diventano produttive e si ripopolano [p. 148 modifica] d’ogni genere di selvaggina stanata dalle oasi che vivono dell’umidità dei terreni bassi, dei depositi d’acqua o delle piccole sorgenti od infiltrazioni.

A nuovo direttore delle dogane in Adua fu nominato un giovane dall’aspetto simpatico che viene un giorno a trovarci accompagnato dai suoi fedeli e seguito da una massa di soldati con lance, fucili, sciabole, scudi e una folla di seguaci inermi e curiosi. È questa ancora una prova della vanità di questa gente che non cerca istruzione nè educazione, nè soddisfazioni di amor proprio, ma si crede e forse si sente ingigantita dall’aver sempre uomini e armi dietro di sè. L’annuncio della visita era a titolo d’amicizia, ma lo scopo era di annoiarci, sperando cavarci qualche cosa pei pretesi suoi diritti. «Noi non siamo commercianti e andiamo al re, quindi siamo esenti da tali imposte» e con della fermezza e minacce di protestare presso S. M., lo mandammo in santa pace. Guai a chi si mostrasse debole con questi importuni, che non sarebbero mai sazii di carpire balzelli. Bisogna esser risoluti e non dimenticare che chi la dura la vince.

Siamo al sabato 29 e il piazzale è animato dal solito mercato: sentiamo un grande strepito, grida di gioia, e vediamo spuntare una grossa comitiva entro una nube di polvere. Alcuni cavalieri avanzano alla carriera, facendo fantasia, donne e ragazzi gridano a squarciagola, una grossa carovana fra cui spiccano il rosso, il luccicare di fucili e lance e qualche ombrellino, li segue. Chi dice essere Ghedano Mariam, chi il figlio del re che vive a Macalé a tre giorni da qui. È infatti il primo che torna da una visita al secondo, e appena giunto all’altezza del mercato scende dalla mula, e attorniato dal seguito dichiara aperto il tribunale. Finita la seduta i tamburi chiamano il pubblico a raccolta e si proclama la nomina del figlio del re a governatore generale del Tigré, e di Ghedano Mariam a suo wachil o rappresentante.

Abbiamo poi l’alto onore di ricevere una sua visita e di [p. 149 modifica] dover dare da bere ad una massa di seguaci che non sono mai sazii, e con una ingordigia schifosa continuano a far capire che la parola ancora e il loro ventricolo sono sempre all’ordine del giorno. Quando è servito il liquido ad un personaggio importante, questi ne versa qualche goccia nel palmo della mano di chi lo offre, il quale lo beve, come a prova che non c’è pericolo di veleno, Il più fedel servo, fatto sgabello delle proprie ginocchia a Sua Eccellenza, durante tutto il tempo della visita gli andò grattando e strofinando piedi e gambe, ciò che prova la grandezza dell’individuo e forse anche che non sono del tutto deserte quelle ascose parti degli alti dignitarii dello Stato.

Metà della popolazione venne da noi; la nostra unica camera fu letteralmente invasa e con tutta calma il governatore cominciò a trattare affari particolari coll’uno e coll’altro, come fosse a casa sua. Sarà uso del paese, ma per noi che intanto eravamo schiacciati come sardine fra tutta questa gente che non pecca certo per troppa pulizia, non era un gran divertimento. E la seduta si prolungava sempre, e l’ora del pranzo era passata, il sole volgeva al tramonto e mia era in quel giorno la responsabilità della cucina e temevo che quella brava gente di soldati che stavano nella corte, colla nota loro discrezione mi facessero pulita la pignatta. Finalmente potemmo liberarcene e il frutto della mia arte culinaria servì a chi era destinato.

Il giorno 30 arriva una carovana dallo Scioa, con incarico di fare acquisti di oggetti a Massaua; da questa possiamo avere buone nuove dei nostri amici della spedizione geografica, che in parte sono in Ankober, in parte proseguono per Kaffa, ma di tutti le notizie sono eccellenti.

Siamo sempre perseguitati dall’alto onore di visite del governatore che si direbbe preso da speciale simpatia per noi, ma alla fin dei conti scoppia la bomba e finisce per farci domandare una cassa con chiave, un orologio, un fanale, delle candele, una camicia e non ricordo cosa altro. [p. 150 modifica]

Malgrado questo, quando si acconsente a qualche loro richiesta o si fanno dei regali, non fanno mai atti di stupore per la novità dell’oggetto, nè segni molto evidenti di riconoscenza. Un paio di inchini, portando la destra da terra al fronte, ma con tutta freddezza, quasi mostrando che la cosa è meno di quanto si aspettavano e che era dover vostro il privarvene per loro.

Un intercalare, se così si può dire, di tutti gli Abissinesi, è la parola Isci che pronunciano in segno di adesione, di aggradimento e quasi di approvazione a quanto dice un altro. È tanto comune e ripetuta questa parola, che subito l’osserva chi si trova in paese, e per questo mi piace ora ricordarla.

Uno degli inconvenienti delle frequenti visite che si hanno a subire, oltre certi piccoli ma molesti compagni che lasciano in abbondanza, è quello che nell’adempiere una semplicissima funzione, per la quale noi adoperiamo un fazzoletto, loro si servono delle dita che poi puliscono nel primo coso che capita sotto mano. Il re volle una notte andarsene incognito in una chiesa per spiare se si compivano con tutta formalità i sacrificii, ed ebbe ad osservare che i fedeli che entravano, facilmente insudiciavano le sacre pareti, senza riguardo alcuno alle pitture che spesso le ornano. Indispettito, fece subito pubblicare la proibizione del tabacco sotto pena del taglio del naso. Vuolsi per altro sia stata questa una finezza, tanto d’avere un pretesto di togliere l’utile all’Egitto, da dove per la maggior parte si importava il tabacco stesso.

In Abissinia esiste un sistema di spionaggio veramente modello. Qualunque cosa si dica od avvenga, subito ne corre la voce ed il re ne è immediatamente avvertito. Invece del telegrafo, accendono fuochi alle vette dove sono villaggi, e con voci acutissime si trasmettono le notizie da un punto all’altro. Ci dicevano i missionarii di Keren che seppero della battaglia di Gura molto più presto di quello che avrebbe potuto impiegare qualunque corriere a percorrere la strada. [p. 151 modifica]

In qualche capanna d’ogni villaggio si conserva sempre del fuoco durante la notte, e la mattina da questo hanno vita tutti i focolari del villaggio stesso. In caso di estinzione completa, si ottiene fuoco colla forte confricazione di due legni, uno assai secco, l’altro altrettanto duro.

Abbiamo ancora il governatore per prendere una lezione sul modo di caricare l’orologio e di distinguerne le ore. Ci volle del buon tempo e della buona pazienza a fargliela entrare, poi scommetto che il giorno dopo la molla sarà rotta. Alla catena pendeva un fischietto ed era proprio miserabile, più che ridicolo l’effetto di un alto funzionario, governatore di una provincia, rappresentante di un re dei re, alter ego di un principe ereditario, che con riso ed espressioni di contento infantile si trovava soddisfatto di sè e in pari tempo sorpreso per aver soffiato in questo strumentino e averne ottenuto l’acuto suono.

Tutti questi capi, governatori e simili dignitari e funzionari non hanno paghe fisse, ma a loro si destina una provincia e da questa devono riscuotere i tributi, tenerne i loro appuntamenti, mantenere la loro casa e la loro truppa, e dare un tanto al re che se ne serve pel mantenimento del suo seguito, della sua armata, per fare qualche dono a delle chiese, ecc. Ogni governatore è capo civile e militare, tiene tribunali e può sentenziare fino a pene di sangue o di morte, per le quali si deve ricorrere al supremo tribunale del re. In caso di guerra seguono colle loro truppe quelle del sovrano.

La conseguenza di questo sistema di amministrazione, dove non ci sono tasse fisse, è che ognuno cerca di cavare da ogni villaggio il più che può, così che i pochi uomini abili alle armi preferiscono fare il soldato, ed all’agricoltura restano donne, bambini e vecchi nella più squallida miseria, soffrono persino di fame e qualche volta anche ne muoiono.

L’assassinio è punito colla morte, che hanno diritto d’in[p. 152 modifica] fliggere i parenti dell’assassinato, ai quali è pure riservato l’altro diritto di mercanteggiare il delitto commesso e il sangue di chi dovrebbe subire il castigo.

Io ritengo il carattere abissinese incapace di adattarsi a qualsiasi civiltà, e lo vedemmo infatti dimenticare tutta l’antica, e restare completamente indifferente alle invasioni portoghesi e al contatto dei tanti viaggiatori europei. È come una pietra che anche lasciata dei secoli in fondo a un lago, non ne assorbirà mai goccia d’acqua. E a conferma di questa mia supposizione ho il fatto che tre Abissinesi che ho conosciuti, che vissero per degli anni in Europa o in India, ritornarono in Abissinia per diventarvi più Abissinesi di prima. Niente ispirò loro la civiltà, neppure un poco di attività e di amore alla pulizia, e quasi indifferenti restarono a tutto quello che hanno visto. Strano poi come della civiltà che ebbero, conservarono qualcosa per tradizione nel modo di reggersi, nei sentimenti e in qualche arredo sacro e d’ornamento, nulla affatto di quello che serve alla vita giornaliera. E sia che non ne sentano il bisogno, sia che si credano superiori a noi, non cercano per nulla di imparare qualcosa da chi, come devono pur vedere, sa rendersi l’esistenza un po’ più piacevole. Essi vivono allo stato poco meno che selvaggio, non hanno assolutamente alcun utensile casalingo, all’infuori di alcuni vasi grossolanamente fatti in terra, nessun mobile, nessuna industria, ma conservano e fabbricano i monili d’argento dei quali il tipo è venuto dall’Arabia, alcuni utensili e ornamenti per chiesa, e fra questi i turiboli assolutamente belli e di stile bizantino. Hanno alcuni ponti lasciati dai portoghesi, ma li lasciano cadere in rovina, non pensano farne altri ad imitazione e bisogna passare i loro fiumi a guado od a nuoto, col pericolo della corrente che vi trascini o dei coccodrilli che vi piglino alle gambe. Hanno l’esempio di alcune chiese, come quella d’Axum, piantate entro costruzioni portoghesi, e i stupendi palazzi di Gondar, ma nes[p. 153 modifica] suno pensa a prenderli a modello e migliorare la propria abitazione.

In quello che può soddisfare la loro vanità, invece, hanno conservata buonissima memoria, e il sentimento dell’aristocrazia è inveterato quanto ridicolo in loro. Basta venire sul discorso e tutti vi diranno di discendere da stirpe reale o principesca, d’aver dominato in famiglia intere provincie per dei secoli, d’aver posseduto centinaia di villaggi, di avere i loro avi guidati, sempre alla vittoria, potenti eserciti, d’aver portati i primi titoli di nobiltà abissinese. Una stilla del sangue di Salomone dovrebbe essersi sparsa nella linfa d’ogni albero genealogico di questa buona gente, felice forse più di noi e forse troppo ragionevole di volersene star lontana dalla civilizzazione.

Abbiamo oggi, è vero, l’esempio di un popolo che in pochi anni abbracciò tutto quanto trovò di bene nella civiltà europea, svestendosi, con raro esempio di abnegazione, da tutti i pregiudizii inveterati dalle antiche usanze del sistema feudale che da secoli lo reggeva. Ma l’Abissinese non farà certo quanto fece il Giapponese, per quanto la tradizione dell’antica civiltà non gli dovrebbe essere che stimolo, mentre nel Giapponese la sostituzione di un’altra alla civiltà propria dovette forse essere se non un inciampo, certo un ritardo al suo progredire.

La razza abissinese è bella, il tipo lanciato, snello, elegante. La tinta varia dall’olivastro al marrone, più chiara verso la costa e sempre più cupa nelle province dell’interno. L’uomo è piuttosto alto, non secco nè pingue, ma muscoloso, raramente ha barba, l’occhio vivo, i denti bellissimi, il naso spesso leggermente aquilino, sempre, come le labbra, regolare. Le donne hanno tutte le belle qualità dell’uomo, aggiungendovi che la bellezza delle forme e la semplicità del costume le rende assai provocanti: mani e piedi piccolissimi e bellissime attaccature. Anche nel maschio è spesso ammirabile la piccolezza della mano e del [p. 154 modifica] piede e la finezza delle dita e dei tratti in generale. La moralità è molto al basso, chè la ragazza gode di piena libertà, e chi vuol prender moglie la sceglie generalmente fra quelle che hanno consumati i primi anni della loro bellezza, facendone mercato nelle città della costa, dove le belle etiopi sono molto cercate e rinomate, e hanno raggranellato così un piccolo gruzzolo di talleri. È poi costume nel paese, che il padre prima di sposare la figlia, se bella, ne vende al maggior offerente il primo fiore.

In fatto d’agricoltura credo che il suolo abissinese sarebbe capace di qualunque produzione, se il popolo non fosse indifferente a tutto quello che è non strettamente necessario per vivere, il grano, e non stimasse un avvilimento il coltivare la terra. La temperatura quasi costante, il suolo fertile e poco meno che vergine, i diversi gradi di elevazione, non chiederebbero che pochissimo lavoro per ridurre tutto quanto il paese un vero giardino: non trovate invece assolutamente mai un frutto nè un legume, tranne i pochi che crescono allo stato selvaggio. Nei collas la temperatura non permette la coltivazione del frumento, ma vi si trova il cotone, l’indigo, tamarindi, ricini, zafferano, canna a zucchero, palme, banani, gommieri, baobab, piante medicinali molte, mimose, la dura e il dagussa. Nei woina-deuga la temperatura vi è sempre primaverile e quindi costituiscono la zona la più ricca; vi si trova orzo, avena, fave, lenti, teff, il kolqual o euforbia, l’ulivo, il cusso, la vigna, l’arancio, il limone, il pesco. Tutti questi alberi vi potrebbero essere coltivati e produrrebbero stupendi frutti, ma vi si trovano invece solo allo stato selvaggio, e i frutti che producono non sono mangiabili.

I deuga sono i terreni più alti, quindi la vegetazione vi è meno ricca: l’orzo e l’avena sono i soli che vi attecchiscano, e come alberi il cusso è quello che sfida le più alte regioni: dopo un certo punto però, voglio dire oltre circa 3500 metri, non si trovano più alberi, e lo spazio è occupato solo da praterie natu[p. 155 modifica] rali che forniscono il pascolo a truppe di buoi, capre e montoni. In queste regioni, durante il karif, si ha spesso neve e ghiaccio, e mentre questi, nella stagione secca si limitano a circa 4400 metri, nell’inverno discendono fino a 3500 metri sul mare.

Nell’opera di Ferret e Gallinier trovo la spiegazione allo strano fenomeno che da giugno a settembre, epoca del freddo nelle montagne e delle pioggie nell’altipiano, non una goccia d’acqua cade verso la costa, ed il motivo si è che essendo allora quest’ultima regione enormemente riscaldata dal sole, la colonna d’aria che si eleva dal suolo impedisce alle nubi di condensarsi e di precipitarsi in pioggia. Da ottobre a marzo, invece, che la temperatura alla costa è molto meno elevata, le nubi trovano libera la loro via nell’atmosfera e portano il loro contingente a quelle desolate contrade.

L’attuale re è severo assai col suo popolo, e non transige sulle pene che devono infliggersi ai colpevoli, ma alieno dal trascendere ad atti brutali come la tradizione, o meglio l’uso impone, è sempre proclive a mitigare le condanne. Come esempio al popolo, i pretesi avvocati lo consigliano però spesso ad atti veramente barbari, pretendendo che l’Abissinese è tanto indifferente alla morte, e la affronta con tale coraggio e freddezza, che il condannarvelo non basta a trattenerlo dal commettere delle nefandità, e quindi per prevenirle è indispensabile commetterne altre che infiorino la condanna a morte dei più terribili tormenti.

Citerò, ad esempio, un fatto occorso or fa qualche anno: una banda di insorti che univa le due qualità di rivolta al Governo e di brigantaggio, fu sconfitta in un incontro e fatta prigioniera: per evitare un massacro e accappararsi l’affezione con un tratto di generosità, il re perdonò e diede piena libertà al grosso della comitiva, ma ai quattro capi si tagliarono i polpacci a sottili fette, come si trattasse di giambone, finchè si arrivò all’osso, poi si lasciarono a disanguare. [p. 156 modifica]

Così mi raccontava Naretti d’esser stato testimonio del seguente fatto avvenuto sulla piazza del mercato di Adua. Una donna aveva commessi delitti senza esempio e che sarebbe troppo lungo ripetere: si scavò una fossa, vi si seppellì la condannata, in posizione verticale, fino al petto, e i dettagli della freddezza con cui sopportò l’operazione, preparandosi alla tragica fine, sono cose da far rabbrividire, poi coram populo, con un grosso fucile le si diede l’ultimo colpo alla testa. Tutto il giorno stette così esposta, e la mattina dopo era ancora triste spettacolo, e per di più aveva una guancia rosa dalle jene nella notte.

E il pubblico assiste, si diverte, applaudisce a questi delitti ufficiali, e intanto pretende a dirsi cristiano.

Così le esecuzioni semplici del taglio della testa si fanno in luogo pubblico, come un duello fra un armato e un inerme, e spesso accade che fallendo almeno in parte il primo colpo, che le lame non sono delle più fine, nè delle più taglienti, si ha una vera lotta fra il carnefice e l’altro mezzo tagliuzzato, fra un circolo di curiosi.

Il venerdì 4 aprile corre la festa del Salvatore, per cui andiamo ad assistere alle grandi funzioni che si celebrano nella chiesa di questo nome.

Per vero dire il tintinnio dei turiboli e dei campanelli, il canto di una infinità di preti e inservienti, e il loro andirivieni continuo entro e fuori i diversi cerchi del santuario, mi hanno tanto sbalordito, che ben poco potei raccapezzare sull’ordine delle funzioni. Ho visto che si presentavano dei gran messali, in lingua del paese, ai preti che ne leggevano delle preghiere, rivolgendosi di quando in quando al pubblico in atto di benedire, ed ho ammirato alcune stupende e grandi croci in argento, dei bornus in seta azzurra: ricamati a colori e adorni di originalissimi ornamenti d’argento, portati dai sacerdoti: dei baldacchini in forma d’ombrello in stoffe damascate pure con ornati [p. - modifica]Antica chiesa del Salvatore in Adua [p. 157 modifica] in argento, e un originale berretto portato dai chierici, costituito da un cerchio d’argento che abbraccia la testa, finito a visiera, portante alcune fettucce d’argento che si raccolgono al vertice, sormontato da una palla adorna di piccoli campanelli e di una croce pure in argento.

Abbiamo frequenti visite dei delegati dello Scioa che sono gente per bene, molto affabile e cortese, e hanno un principio di educazione e di sentimenti di delicatezza, come, mi è forza dirlo, non abbiamo ancora incontrato in questo paese. Tengono nota di tutto quanto vedono e di ogni particolare delle strade e del paese, ciò che unito a quanto alle volte trapela dai loro discorsi, mi fa supporre che meglio che gli acquisti, lo scopo del loro viaggio è di impratichirsi di queste regioni che in un giorno forse non lontano, il loro sovrano pensa di occupare. Sono fini e intelligenti e fanno le cose per bene, ma non hanno ancora imparato che per esser diplomatici bisogna saper fingere di non esserlo, parlar poco e spesso mentire.

Noi siamo sempre in attesa del ritorno del corriere spedito al re, ed oltre alla noia di questo soggiorno si aggiunge ora l’inquietudine, perchè l’epoca delle piogge si avvicina, e se questa ci sorprende all’interno resta chiusa la via al ritorno, e non deve esser certo divertente passar qualche mese in una capanna senza occupazioni e senza potersi divagare con escursioni e caccie. Il piccolo cherif è già cominciato e spesso verso sera ci troviamo chiusi fra tuoni, lampi e dense nubi che si risolvono in acquazzoni torrenziali, passando da un sole cocente e piccante ad un vento freddo più che fresco. Finestre, porta e tetto della nostra abitazione non sono certo tali da difenderci dalle furie degli clementi, e spesso abbiamo l’incomoda visita della pioggia che ci viene a trovare nei nostri appartamenti.

I pretesi grandi signori in Abissinia sono generalmente possidenti di vaste estensioni di terreni e di bestiame, che non es[p. 158 modifica] sendovi in paese industria, nè gran commercio, non v’ha capitale circolante ed è ignoto l’interesse che da questo si può cavare, per cui quando realizzando i prodotti insaccano dei talleri, li impiegano aumentando le loro proprietà, oppure li sotterrano. Vengono generalmente nominati capi, non governatori però, della provincia in cui vivono, e dal re sono autorizzati alla riscossione delle imposte dei minori tenenti nella provincia stessa. Le imposte sono poca cosa, ma non mi riuscì sapere a quanto ammontino: riscosse, le depongono nelle mani del re e ne percepiscono un tanto che parmi circa il dieci per cento: se qualcuno ricusa di fare la dovuta consegna, gli si mandano dei soldati che pensano a farsi mantenere, finchè il danno arrecato sia pari alla somma dovuta, più la multa inflitta. Dai proprii coloni si usa ritirare tutti quanti i prodotti e distribuire poi il necessario al sostentamento di ogni famiglia, restando quanto avanza totalmente al proprietario. Le abitazioni di questi signori sono un po’ meglio costrutte delle comuni, e nel recinto in cui stanno ne sorgono altre minori per ricoverare i servi, macinarvi il grano, prepararsi il pane, tenervi le provviste. Del resto ben poco più distinto dalla massa in fatto di comodità: il loro gran lusso è di avere molti servi armati, delle mule, qualche cavallo, degli angareb, tappeti, bottiglie in cristallo per bevervi il tecc, del quale tengono in pronto grandi vasi. La cucina non annovera molta varietà di intingoli, neppure per le tavole principesche. Ai figli nessuna educazione, e tutt’al più imparano a leggere e raramente a scrivere da un prete. Morendo non si usa di far testamento, ma solo agli ultimi istanti il padre dice: lascio i miei poderi a dividersi fra miei figli; e questi in seguito si dividono l’eredità in parti uguali, maschi e femmine.

Un uso strano hanno nel mangiare la carne cruda. Staccano solo a metà il pezzo che vogliono mettere in bocca, poi preso questo fra denti e tenendo il grosso pezzo in mano, finiscono di [p. 159 modifica] staccarlo con un taglio dal basso all’alto rasente le labbra. Se si pensa che spesso il coltello è la sciabola, si potrà immaginare quanto sia poco rassicurante trovarsi fra due che mangiano con questo sistema.

L’Abissinese mangia la vera carne muscolosa del bue e ne getta quasi con ribrezzo il cuore e il fegato, mentre, per esempio, il Patagone e il gaucho della pampa preferiscono queste parti a tutto il resto, e spesso ammazzano un bue semplicemente per soddisfare questa ghiottoneria.

Passiamo la Pasqua in Adua, e quattro cose sono a rimarcarsi a quest’epoca: il baccano infernale che si fa la notte in tutte le chiese: l’uso che i preti vanno a deporre in tutte le case dei mazzetti di fusti di un’erba palustre, che poi ognuno si mette attorno al fronte come lo spago di un ciabattino: gli anelli molto ingegnosamente fatti con foglie di palma intrecciate, e tutti ne vanno fabbricando, tutti ne regalano reciprocamente e tutti ne hanno coperte le dita: la fine del digiuno quaresimale, fa che ogni casa quasi diventa macelleria, e per la sera tutti indistintamente sono pieni di brondò e di tecc, e se ne vedono e sentono dovunque le conseguenze.

Per carattere l’Abissinese querela facilmente, ma, quantunque sempre armato, difficilmente viene al punto di far uso serio delle sue armi. Quando uno s’intesta a sostenere un argomento, o lancia un’offesa ad un compagno, la parte avversaria non ricorre a mezzi troppo energici in sua difesa, ma fa un nodo sullo scemma e battendovi un pugno esclama: scommetto tanto che non puoi provarmi la verità di quanto sostieni, Yohannes imut: per la morte di Giovanni. Se l’altro disfa il nodo, è segno di ritrattazione, se lo lascia è accettata la scommessa, e il patto è sacro.

Sempre perseguitati dal governatore che un giorno esprime stupore, vedendo delle forchette e dei cucchiai coi quali noi stiamo facendo colazione: le sue domande, le sue osservazioni [p. 160 modifica] sono fatte con tale insistenza e con tanta fanciullaggine che davvero mette pietà, pensare che un individuo simile possa avere un’autorità in paese. Sempre già finisce col domandare qualche cosa, finchè un bel giorno manda un suo servo a farci la confessione che dopo i lunghi digiuni quaresimali s’era permesso un po’ troppo di baldoria e le sue funzioni naturali s’erano un po’ alterate nel loro regolare corso. Gli mandammo buona dose di pillole rinomate pei pronti effetti, ma dopo solo mezz’ora mandò ancora un servo a dire che stava in aspettativa, ma non si era ancora dichiarata nessuna azione.

Il Nebrid di Axum è venuto in Adua per le feste di Pasqua e gli andiamo a fare una visita. Ci accoglie colla sua solita cordialità e lo facciamo felice, regalandogli qualche oleografia di soggetti sacri, che colle lagrime agli occhi dalla consolazione, baciò e ribaciò, mentre ripetutamente andava ringraziandoci. Voi siete buoni cristiani, ci disse, e il vostro popolo è grande e potente, ma la via di Gerusalemme a noi è chiusa dai Turchi. Anche noi siamo cristiani, e perchè dunque non pensate a difenderci e aprirci quella via sacra? Ci fece servire il tecc, poi volle assolutamente che accettassimo un piccolo banchetto e un bue fu sgozzato in nostro onore fuori dalla capanna. Ci risparmiò la carne cruda, sapendo che non è la cosa più gradita da noi, ma ci fece servire grossi pezzi di bue, nei quali si fanno delle incisioni trasversali piuttosto profonde, poi si abbrustoliscono sulle bragie. Il sapore è molto gustoso e il solo inconveniente è la cenere e qualche pezzetto di carbone che di quando in quando capitano come intingolo.

Noi stavamo seduti in circolo attorno un paniere con pane e berberia, e i servi allungando le braccia sopra le nostre teste tenevano sospesi al centro questi roast-beef di nuovo genere, dai quali ognuno andava staccando le proprie porzioni con un coltello. Altri servi intanto preparavano dei piccoli pezzi che ci ve[p. 161 modifica]nivano ad offrire con delle mani che Dio sa da quando non videro acqua e cosa toccarono nel frattempo, e Naretti ci assicura che il rifiutare è una vera offesa.

La sera intanto s’era avvicinata e il tucul non brillava per troppa luce, che chi ne spandeva di molto fioca era uno stoppino infitto in una pallottola di grasso conservata in un avanzo di vaso. In complesso la scena era alquanto originale; e più che un banchetto da sacerdote lo avrei detto un festino da falsi monetarii.

Abbiamo frequenti emozioni di notizie, che fu visto a poca distanza il nostro corriere, che gente venuta dal campo reale ve lo vide e le disse sarebbe partito qualche giorno dopo, che il re venga a svernare in Adua e che pensi di riceverci qui; tutta una massa di fiabe che al momento ci danno qualche speranza, ma poi ci lasciano subito ricadere nell’avvilimento.

L’Abissinia poi è il paese delle fiabe, e dove non si può mai sapere nulla di vero. Credo assolutamente che la verità vi sia ignota o proibita. Qualunque cosa domandate al primo che vi capita fra piedi, mai questi vi risponderà: non so o dubito, ma sempre con tutta fermezza, e quello che non sa, inventa.

La mancanza di interesse a quanto si passa nella vita e l’ignoranza di qualunque strumento od osservazione che possa dar idea di misura e di tempo, fanno poi che i giudizii sono differentissimi e impossibile vi riesce avere informazioni, non precise, ma tali almeno da raccapezzarne qualche cosa. Domandate, per esempio, la distanza di un villaggio dove volete andare; chi ve la dirà di poche ore, chi di parecchie giornate, e tutta gente che ha percorso quel cammino o che abita quei dintorni. Ne abbiamo fatta esperienza nel nostro viaggio, che non una sola volta ci è riuscito di farci un giusto criterio di quello che si doveva fare l’indomani, o della durata di un dato tragitto.