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Franco Bandini

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Franco Bandini (1921 – 2004), giornalista e storico italiano.

Il Piave mormorava

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Lo scoppio della prima guerra mondiale colse l'Italia assolutamente di sorpresa ed in una fase molto delicata della sua politica estera, quella stessa che Giolitti aveva chiamato del «ballo sulle uova», il tedesco principe di Bulow, con ironia, «dei giri di valzer», altri «del cane del giardiniere», e tutti, in Italia, nel comune linguaggio parlamentare «dei due ferri al fuoco». Da circa tredici anni, infatti, la solidità sostanziale della Triplice Alleanza che ci legava all'Austria ed alla Germania dal 1882 era andata diluendosi e prendendo colori tanto sfumati, che già alla fine del primo decennio del secolo Guglielmo II doveva esclamare: «Il Re d'Italia ne ha abbastanza della nostra Alleanza!»

Citazioni

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  • Entrammo in guerra, nel «maggio radioso», con trentacinque Divisioni di fanteria, una di bersaglieri, quattro di cavalleria e due raggruppamenti alpini. Sotto le bandiere, nei primissimi giorni di operazioni, si trovavano 852.000 uomini, con 23.000 ufficiali: ma bisognava aggiungerci 344.000 uomini della Milizia Territoriale e 44.000 che si trovavano in Libia. Soltanto un mese dopo, però, l'esercito attivo era arrivato a un milione e 50.000 uomini: cosicché la prima estate di guerra vide alle armi poco meno di un milione e mezzo di italiani. (Capo III, p. 37)
  • [I soldati italiani a Caporetto] Si batterono meglio che poterono, inchiodati all'insuccesso da una situazione tattica e strategica che non erano essi ad aver voluto: si consumarono come cera al fuoco tentando l'impossibile, compagnia per compagnia, battaglione per battaglione, batteria per batteria. Furono travolti da un tipo di attacco al quale nessuno li aveva addestrati, semplicemente perché nessuno lo riteneva possibile: e quando si accorsero di questa assoluta carenza di comando, quando la realtà bruscamente balzata dalle nebbie di Caporetto fece loro di comprendere in un lampo che abissale distanza correva tra le parole rimbombanti dei bollettini e la verità del nemico, allora caddero in preda di uno «choc» dal quale non era per nulla facile risollevarsi. (Capo VII, p. 106)
  • Tra gli ufficiali dell'«Alpenkorps» tedesco all'attacco [nella battaglia di Caporetto], c'era un giovane Oberleutnant[1] dagli occhi azzurri e dallo sguardo intento: si chiamava Erwin Rommel. La futura «volpe del deserto» imparò in quei giorni tre cose fondamentali, che gli dovevano servire prodigiosamente bene ventitré anni dopo. Il cospicuo dividendo pagato dall'audacia e dalla velocità in campo strategico, il valore del soldato italiano fino al Comando di reggimento, e la completa disistima per i Comandi superiori. Era una diagnosi assolutamente esatta: la guerra del 1940 l'avrebbe provata ad usura. (Capo VII, pp. 106-107)
  • [...] Cadorna, pur nel mezzo della bufera politica che gli si stava addensando sulla testa [dopo la disfatta di Caporetto], ebbe il grande merito di studiare e disporre la linea del Piave in modo perfetto, con una conoscenza da grande maestro di ogni particolarità della regione, ed una oculatissima disposizione delle truppe. (Capo VIII, pp. 123-124)
  • A noi che lo riguardiamo da tanta distanza, il 1918 pare l'anno della vittoria per l'Intesa. Un anno senza grandi problemi, messo al riparo da sgradevoli sorprese per mezzo del sempre più frequente afflusso alle linee delle forze americane, per cui la rotta nemica venne come naturale conseguenza. Ma non fu affatto così: ad osservarlo bene, il 1918 fu l'anno veramente tragico degli Alleati, ed i fatti che si verificarono in esso dal 21 marzo alla fine di luglio ebbero una pesante influenza sul «tipo» di vittoria che si conseguì, e sul genere di pace che le fece seguito. (Capo XI, p. 159)
  • Quando eravamo entrati in guerra, il bilancio dello Stato oscillava intorno ai due miliardi, nel 1915 era salito a 5,2, nel 1916 a 10,5, per balzare a 30 miliardi l'ultimo anno di guerra. La moneta, contemporaneamente, si era svalutata di circa sei volte ed il debito che lo Stato aveva contratto o con l'estero, o con le banche o con i suoi stessi cittadini, era salito alla vertiginosa cifra di oltre 95 miliardi, che nessuno sapeva come si sarebbero potuti pagare. Il costo complessivo di quella guerra, che era stato valutato, all'atto della firma del Trattato di Londra[2], in due miliardi, non fu reso noto che nel 1930, quando il Tesoro comunicò che, stando ai suoi conti, esso era salito a 148 miliardi di lire, cioè 74 volte di più. In sostanza, la Nazione aveva potuto condurre una guerra così lunga e distruttiva soltanto ipotecando largamente i suoi redditi futuri. (Capo XIII, pp. 189-190)

A Versailles si fece l'errore di ritenere che una Potenza disarmata fosse anche imponente, e che il numero delle Divisioni fosse l'unico metro capace di distinguere, in avvenire, le Nazioni secondo un rango prefissato.
Nessun errore fu più funesto di questo, in una misura che non può essere valutata nemmeno oggi, proprio nel momento cioè in cui ci troviamo immersi in una situazione che è figlia diretta di quegli errori. E nessuno fu visto, per paradosso, più chiaramente di questo: furono moltissimi coloro che si resero conto di quanti e quali semi di guerra fossero stati sparsi nei saloni in cui, quasi cinquant'anni prima, era stato proclamato l'Impero tedesco. Ma nessuno parve poter far nulla. Vi è qualcosa negli errori commessi dall'umanità, che induce a ritenere che essi siano necessari, per qualche misterioso disegno.

Note

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  1. Grado militare dell'esercito tedesco, corrispondente a quello di tenente.
  2. Il Trattato (o Patto) di Londra fu un accordo segreto firmato il 26 aprile 1915, stipulato tra il governo italiano e i rappresentanti della Triplice Intesa, con il quale l'Italia si impegnava a scendere in guerra contro gli Imperi Centrali.

Bibliografia

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  • Franco Bandini, Il Piave mormorava, Longanesi, Milano, 1965.

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