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Fonti e storiografia su Augusto

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Voce principale: Augusto.
Statua di Augusto detta "Augusto di Prima Porta" o "Augusto loricato" , custodita ai Musei Vaticani.

Per fonti e storiografia su Augusto si intendono le principali fonti (letterarie, numismatiche, archeologiche, ecc.) contemporanee alla vita dell'imperatore romano Augusto, nonché la descrizione degli eventi di quel periodo e l'interpretazione datane dagli storici, formulandone un chiaro resoconto (logos), grazie anche all'utilizzo di più discipline ausiliarie. Augusto ha lasciato una grande eredità storica e culturale studiata nei secoli successivi fino ad oggi e a volte distorta per propaganda politica.

Fonti biografiche

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Monumentum Ancyranum. Il tempio di Augusto e della dea Roma ad Ancyra sulle cui pareti sono incise le Res Gestae Divi Augusti.

Le principali fonti per la vita e il ruolo di Augusto e degli altri membri della famiglia imperiale sono rappresentate prima di tutto dalle Res gestae divi Augusti, ovvero un dettagliato resoconto delle opere del princeps, fondatore dell'Impero romano, sotto forma di testamento morale. Svetonio racconta che una volta morto, lasciò tre rotoli, che contenevano:

  • il primo, le disposizioni riguardanti il suo funerale,
  • il secondo, un riassunto delle opere che aveva compiuto,
  • il terzo la situazione dell'Impero romano, da quanti soldati vi erano sotto le armi e dove erano dislocati, quanto denaro vi era nell'aerarium e quanto nelle casse imperiali, oltre alle imposte pubbliche.[1]

Il testo dell'opera ci è giunto trascritto in un'iscrizione sia in latino che nella traduzione greca, rinvenuta nel 1555. Era incisa sulle pareti del tempio, dedicato a Roma e ad Augusto, situato ad Ancyra (l'odierna Ankara, la capitale della Turchia) e pertanto è stata denominata Monumentum Ancyranum. Secondo il volere di Augusto, il testo era stato inciso originariamente su tavole di bronzo, collocate all'ingresso del suo Mausoleo. Altre copie, molte delle quali sono giunte frammentarie, dovevano essere incise sulle pareti dei templi a lui dedicati. Augusto riportava gli onori che gli erano stati via via conferiti dal Senato e dal popolo romano per i servizi da lui resi; le elargizioni e i benefici concessi con il suo patrimonio personale allo stato, ai veterani di guerra e alla plebe; i giochi e le rappresentazioni dati a sue spese; infine gli atti da lui compiuti in pace e in guerra. Il documento non menziona il nome dei nemici e neppure quello di qualche membro della sua famiglia, ad eccezione dei successori designati: Marco Vipsanio Agrippa, Gaio Cesare e Lucio Cesare, oltre al futuro imperatore Tiberio.

Altre fonti valide sono le biografie di Svetonio (Vite dei dodici Cesari), oltre a Appiano di Alessandria (Historia Romana), Sesto Aurelio Vittore (De Caesaribus), Cassio Dione Cocceiano (Historia Romana), Publio Cornelio Tacito (Annales) e Velleio Patercolo (Historiae Romanae).

Augusto nella storiografia e ritrattistica antica

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Ritratto di Augusto (Museo del Louvre).

Amò profondamente il suo popolo, tanto da rifornirlo di ogni comodità possibile, a partire dalla costruzione di numerosi acquedotti a Roma:

«Ma è risaputo che fosse un principe più rivolto al bene pubblico che ambizioso, quando il popolo si lamentava della mancanza di vino e del suo prezzo, lo redarguì severamente a voce: da suo genero Agrippa, si era abbastanza provveduto alla costruzione di molti acquedotti affinché nessuno avesse sete.»

ma non risparmiò allo stesso le necessarie critiche ai costumi dell'epoca, come quando

«si impegnò per far riprendere la moda e il costume di un tempo: un giorno, vedendo in un'adunanza del popolo una folla di gente malvestita, indignato esclamò: "Ecco i Romani, padroni del mondo e il popolo che indossa la toga", e diede incarico agli edili, dopo ciò, di non tollerare che nel Foro e nei dintorni si fermasse qualcuno se non avesse prima abbandonato il mantello che copriva la toga.»

Il popolo lo amò, a sua volta, immensamente:

«Quando si dovette ricostruire la casa di Augusto del Palatino, che era stata distrutta da un incendio, i veterani, le decurie, le tribù ed anche gli uomini di tutte le classi sociali, gli donarono somme di denaro in proporzione a quanto ciascuno poteva; Augusto però passò sopra ai vari gruzzoli di monete e prese da ciascuno al massimo un denario. Quando tornava dai viaggi nelle province romane, la folla lo scortava esultante non solo con buoni auspici ma anche con preghiere armoniose. Venne seguita la regola di non eseguire alcuna sentenza tutte le volte che tornava a Roma.»

Augusto ebbe un ottimo rapporto con l'ordine senatorio. Svetonio racconta che, nei giorni di seduta del Senato, egli salutava i senatori solo all'interno della curia e dopo che si fossero seduti, chiamando ciascuno con il suo nome, senza alcun suggerimento. E quando se ne andava, salutava tutti allo stesso modo, senza costringerli ad alzarsi.[2] Coltivò relazioni con molti di loro e spesso fu presente alle solennità celebrate dagli stessi, almeno fino a quando non fu troppo vecchio. Si racconta che:[2]

«Sebbene il senatore Gallo Terrinio non fosse uno dei suoi migliori amici, quando venne colpito da una malattia agli occhi e decise di morire di fame, Augusto stesso lo consolò e lo trattenne alla vita.»

«Quando vennero selezionati i senatori, ciascuno doveva scegliersi un collega ed Antistio Labeone designò Marco Emilio Lepido, un tempo nemico di Augusto e quindi in esilio. Sentendosi chiedere da Augusto se non ritenesse ve ne fossero altri più degni, rispose che ognuno aveva le proprie opinioni. Malgrado ciò, nessuno fu punito per la schiettezza o per la propria ostinazione.»

non fu da meno il rapporto che ebbe con l'ordine equestre, tanto che i cavalieri, spontaneamente e di comune accordo, celebrarono ogni anno la data della sua nascita, per due giorni consecutivi.[3]

Ritratto equestre di Augusto in bronzo (Museo archeologico nazionale di Atene).

Riguardo al rapporto che ebbe con i suoi generali:

«Solo coloro che trionfavano, sebbene fossero compagni delle sue spedizioni e partecipi delle sue vittorie, mai ritenne di dover concedere loro dona militaria, poiché riteneva che questi avessero già ottenuto il diritto di venirgli riconosciuto ciò che volevano. Credeva, d'altra parte, che nulla fosse meno indicato per un buon generale della fretta e della temerarietà. Di conseguenza pronunciava frequentemente il detto: "Affrettati lentamente! Per un comandante è meglio la prudenza piuttosto che l'ardimento," e anche: "si fa abbastanza rapidamente ciò che si fa sufficientemente bene". Negava si dovesse assolutamente ingaggiare una battaglia o dichiarare una guerra, se la speranza di successo non fosse stata maggiore del timore di averne un danno. Sosteneva infatti che fossero simili a dei pescatori che osavano molto per guadagnare assai poco, servendosi di un amo d'oro, la cui perdita, nel caso si fosse rotto il filo, non poteva compensare nessuna buona pesca.»

«Fu molto generoso nel distribuire onori al valore militare: decretò il trionfo completo a più di trenta comandanti militari (ducibus) e a molti di più assegnò le insegne trionfali

Volle che i suoi amici, per quanto potenti, venissero giudicati allo stesso modo di tutti gli altri, e sottomessi alle comuni leggi. Quando Nonio Asprenate, con il quale era in grande amicizia, dovette difendersi contro dall'accusa di avvelenamento mossagli da Cassio Severo, Augusto chiese al Senato come dovesse comportarsi. Egli infatti era incerto sul da farsi, poiché temeva che aiutando Nonio, potesse evitargli una condanna in caso di colpevolezza, astenendosi, avrebbe dimostrato di abbandonarlo e lo avrebbe così condannato in anticipo. Allora con il consenso di tutti, si sedette al banco della difesa per numerose ore, in silenzio e senza testimoniare.[4]

«Non concesse facilmente la [sua] amicizia ma le tenne saldamente con grande costanza e non solo trattò degnamente i meriti e le virtù degli amici, ma ne sopportò i vizi e gli errori, purché li valutasse di modica entità. [...] Pretese per se stesso dagli amici una vicendevole benevolenza, tanto quando fossero morti, quanto da vivi.»

Si mantenne fedele ai patti stipulati con le popolazioni alleate:

«Non fece mai guerra a nessun popolo senza un motivo legittimo o senza necessità; fu estraneo al desiderio di ingrandire l'Impero con qualsiasi pretesto o di accrescere la sua gloria militare, tanto da costrinse alcuni capi barbari a prestare giuramento nel tempio di Marte Vincitore che sarebbero rimasti fedeli alla pace, dagli stessi richiesta. Da alcuni [capi] pretese una nuova tipologia di ostaggi: costrinse loro a consegnargli alcune donne, poiché aveva capito che essi non davano importanza ai maschi lasciati ostaggi. Lasciò comunque a tutti al possibilità di recuperare gli ostaggi tutte le volte che lo desideravano. Quando questi ripresero le guerre con un'elevata frequenza, senza curarsi della parola data, la sua rappresaglia non andò oltre il fatto di vendere [gli ostaggi] come [comuni] prigionieri, dando ordine che diventassero schiavi in un paese lontano e non fossero liberati prima di trent'anni. E così la fama delle sue virtù e della sua moderazione portò Indiani e Sciti, di cui si conosceva solo il nome, ad mandargli spontaneamente ambasciatori per chiedere la sua amicizia e del popolo romano.»

Cameo di Augusto, conservato presso il British Museum di Londra.

Di lui Svetonio racconta che fosse un uomo senza scrupoli:

«Un giorno, mentre arringava i soldati davanti a una folla di civili che avevano potuto avvicinarsi, osservando un certo Pinario, cavaliere romano, che prendeva appunti, pensò fosse indiscreto e una spia, e diede ordine di ucciderlo in sua presenza. Un'altra volta, poiché Tedio Afro, console designato, aveva criticato un suo atto con parole molto dure, [Augusto] lo spaventò con tali minacce che questi si gettò nel vuoto. Il pretore Quinto Gallio si era recato a salutarlo con due tavolette doppie nascoste sotto la toga: Augusto sospettò che avesse una spada nascosta [...], lo fece condurre dai suoi soldati e dai centurioni davanti al suo tribunale, lo torturò come se fosse uno schiavo e visto che non confessava niente, ordinò di ucciderlo, dopo avergli strappato gli occhi con le sue stesse mani. Scrisse in seguito che quest'uomo gli aveva chiesto un'udienza privata, aveva cercato di ucciderlo, era stato messo in prigione, poi rilasciato con il divieto di rimanere a Roma, era quindi morto in un naufragio o in un attacco da parte dei briganti.»

ed anche sprezzante del pericolo,

«[…] durante uno spettacolo dei suoi nipoti, quando apprese che il popolo era spaventato dal timore di un crollo e non si poteva né trattenerlo né rassicurarlo, si alzò dal suo posto e andò a sedersi in quella parte che era massimamente esposta [al possibile crollo].»

«Quando fu console andava quasi sempre a piedi tra il popolo, spesso facendosi portare su una lettiga coperta.»

Difese il proprio potere in numerose circostanze:

«[...] in diversi periodi [del suo governo], soffocò numerose rivolte, diversi tentativi rivoluzionari e parecchie congiure, scoperte dalla sua guardia prima che potessero rovesciarlo. Prima [ci fu] il complotto del giovane Lepido, poi quelli di Varrone Murena[4] e di Fannio Cepione, più tardi quello di Marco Egnazio Rufo, di Plauzio Rufo e di Lucio Paolo. [...] Lucio Audasio e Asinio Epicado avevano deciso di far evadere sua figlia, Giulia, e suo nipote, Agrippa, dalle isole (di Ventotene e Pianosa), dove erano stati relegati e portarli presso gli eserciti; lo schiavo Telefo, convinto che il destino gli avesse riservato il potere assoluto, progettò di colpire sia Augusto, sia il Senato. E non termina qui [la lista dei tentativi di uccidere Augusto]: una volta un vivandiere dell'armata illirica, che era riuscito ad eludere la sorveglianza delle guardie, venne sorpreso di notte presso la sua camera da letto, con un pugnale da caccia. Nessuno comprese mai se fosse pazzo o se fingesse di esserlo, poiché nessuna informazione gli venne carpita, neppure sotto tortura.»

Vero è che, in molte altre circostanze, fu clemente e semplice, comportandosi come un cittadino qualsiasi. Non a caso accordò il perdono a numerosi membri del partito avversario, concedendo loro salva la vita e permettendo anche di occupare importanti incarichi nell'amministrazione della Res publica.[5]

Statua in bronzo di Augusto (h 2,50 m) (Museo Archeologico Nazionale di Napoli).

A lui non vennero risparmiate anche pesanti accuse da parte dei suoi avversari politici, come quella di Sesto Pompeo che sosteneva fosse effeminato; o di Marco Antonio che gli imputava di essersi meritato l'adozione dello zio, Gaio Giulio Cesare, per le sue compiacenze sessuali; o anche del fratello di Marco, Lucio Antonio, il quale raccontava che in Spagna si fosse prostituito anche ad Aulo Irzio, per trecentomila sesterzi.[6] Lo stesso popolo romano, un giorno nel corso di giochi pubblici, interpretò come un'ingiuria contro Augusto, quando un attore parlando di un sacerdote di Cibele esclamò:

«Non vedi come lo svergognato governa il mondo con il dito?»

Anche gli amici non poterono negare che egli abbia praticato l'adulterio, giustificando il fatto che lo abbia commesso non tanto per libidine, ma per fini politici, nel tentativo di carpire più facilmente le trame dei suoi avversari, interrogando le loro mogli.[7] Svetonio aggiunge che Antonio gli rimproverò, non solo il suo matrimonio precipitoso con Livia, ma anche il fatto di aver fatto alzare dal triclinio la moglie di un consolare, davanti al marito, conducendola nella camera da letto e poi riconducendola tra i commensali con le orecchie rosse e i capelli in disordine; di aver procurato relazioni illecite ad amici, i quali facevano spogliare madri di famiglia e vergini adulte.[7] Fu accusato anche di essere molto avido nei confronti dei mobili preziosi e dei vasi di Corinto, oltre ad amare il gioco.[8] Svetonio lo scagiona però aggiungendo:

«[...] riguardo all’avversione verso il lusso, egli poté respingere l’accusa perché, al tempo della conquista di Alessandria, tenne per sé poco o nulla di tutto il tesoro regio, se non un solo vaso mirrino, e più tardi fece fondere tutti i suoi vasi d'oro che usava spessissimo. Riguardo invece alla libidine continuò a rimanere anche più tardi, come dicono, la sua passione, deflorando le vergini, le quali anche sua moglie gli faceva giungere da ogni parte. In nessun modo ebbe paura per la sua reputazione riguardo al gioco, e continuò a giocare semplicemente e pubblicamente, perché si divertiva anche quando era vecchio, e non soltanto in dicembre ma anche in tutti gli altri mesi, nei giorni lavorativi e feriali.»

Scrivendo alla figlia le diceva:

«Ti ho inviato duecentocinquanta denari, somma che ho distribuito a ognuno dei miei convitati, pregando di giocarli tra loro durante la cena, sia ai dadi, sia a pari e dispari

I suoi luoghi preferiti di villeggiatura furono le coste e le isole della Campania, o anche le città vicine a Roma, come Lanuvium, Praeneste, Tibur, dove amministrò la giustizia in numerose occasioni, sotto i portici del santuario di Ercole Vincitore. Non amava le case di campagna troppo grandi o lussuose. Non a caso fece abbattere anche la casa che sua nipote Giulia si era fatta costruire nel lusso. Le sue, anche se modeste, furono abbellite con statue, quadri, porticati, boschetti, oltre ad oggetti curiosi per antichità e rarità, come i resti giganteschi di bestie mostruose scoperti a Capri e chiamati "ossa dei giganti" e "armi degli eroi".[9]

«Le sue suppellettili e il suo arredamento erano semplicissimi, come si può vedere dai letti e dai tavoli rimasti ancora oggi, la maggior parte dei quali a stento appartengono ad una eleganza privata. Dicono che dormisse su un letto con modeste coperte.»

Augusto in età avanzata (Museo Pio-Clementino-Musei Vaticani, Roma).

L'abbigliamento era estremamente semplice:

«Non portò altra veste che una per uso domestico, confezionata da sua sorella, sua moglie, sua figlia o dalle sue nipoti; le sue toghe non erano né strette né larghe, la sua striscia di porpora né grande né piccola, le scarpe erano piuttosto alte, per apparire più alto di statura. Aveva sempre nella sua camera vestiti di campagna e calzature, pronto per i casi improvvisi e repentini.»

Era di bell'aspetto, ma spesso era negligente nella sua cura:

«Era di una bellezza notevole e fu ricco di fascino per ogni fase della sua vita, benché fosse indifferente ad ogni forma di attenzione personale; era tanto negligente nella cura dei capelli, che si affidava frettolosamente a diversi parrucchieri e riguardo alla barba ora se la faceva tagliare, ora se la faceva radere e contemporaneamente o leggeva qualcosa o anche scriveva. Il suo viso era, sia quando parlava, sia quando stava zitto, talmente calmo e sereno, che un nobile dei Galli confessò ai suoi che, quando egli attraversava le Alpi, fattosi mettere vicino a lui, fingendo di avere una conversazione, con l'intenzione di farlo cadere in un precipizio, non ne fu capace e fu paralizzato dalla sua vista.»

Raccontano che il suo corpo fosse coperto di macchie, sul suo petto e sul suo ventre, che riproducevano curiosamente per numero e disposizione la figura dell'Orsa. Aveva, inoltre, callosità e croste un po' ovunque, generate del prurito sul corpo e dall'abitudine a grattarsi con una spazzola. La sua anca ed il suo femore, oltre alla sua gamba sinistra risultarono più deboli, tanto da zoppicare, ma vi trovava rimedio con cinghie e pezzi di legno. Soffriva anche alla vescica e di calcoli che spesso espelleva con l'orina.[10]

Fu spesso soggetto, nel corso dell'intera sua vita, a numerose malattie, gravi e pericolose. Si racconta ad esempio che dopo aver domato i Cantabri, soffrì di eccessi di bile e poiché i balsami caldi non lenivano a sufficienza i dolori, il medico Antonio Musa gli prescrisse di curarsi con lenitivi freddi. Soffriva di malattie annuali: il giorno del suo compleanno spesso non stava bene, oppure all'inizio della primavera soffriva di infiammazioni intestinali. Ed il suo corpo debilitato difficilmente sopportava freddo o caldo.[11]

Riusciva a porre rimedio ad una salute tanto precaria, per prima cosa lavandosi poco, facendosi poi frizionare spesso, sudando vicino al fuoco, immergendosi nell'acqua tiepida o scaldata al sole. Ma tutte le volte che poteva ricorreva a bagni di mare o alle cure termali di Albula, sedendosi su uno sgabello di legno e agitando mani e piedi con movimenti alterni.[12]

Egli, leggendo sia gli autori in lingua greca, sia quelli in lingua latina, cercò i giusti insegnamenti ed esempi utili per la vita pubblica e privata; questi insegnamenti li raccoglieva, parola per parola, e li inviava molto spesso sia ai componenti della sua famiglia, sia ai comandanti delle armate e delle province, sia ai magistrati in Roma, a seconda degli ammonimenti che ciascuno aveva bisogno.[13] Ed anche lesse in Senato o rese noto al popolo, per mezzo di un editto, interi libri, come le orazioni di Q. Metello «Sull'aumento della prole» e quelle di Rutilio «Su come costruire gli edifici», per persuaderli maggiormente di non essere stato il primo a notare queste due questioni, ma che già gli antichi si erano interessati a ciò.[13]

Era superstizioso e provava per tuoni e fulmini un terrore quasi cieco, tanto da portare con sé la pelle di una foca per trovarvi riparo. Egli infatti di fronte alla minaccia di temporale si nascondeva in un luogo riparato, fatto a volta, poiché in passato, durante una marcia notturna, era stato spaventato da un fulmine.[14] Non trascurava poi i sogni, né i suoi né quelli che gli altri facevano di lui. Era poi soggetto, durante la primavera, a visioni terrificanti, mentre durante la restante parte dell'anno erano più rare.[15]

  1. ^ SvetonioAugustus, 101.
  2. ^ a b SvetonioAugustus, 53.
  3. ^ SvetonioAugustus, 57.
  4. ^ a b SvetonioAugustus, 56.
  5. ^ SvetonioAugustus, 51.
  6. ^ SvetonioAugustus, 68.
  7. ^ a b SvetonioAugustus, 69.
  8. ^ SvetonioAugustus, 70.
  9. ^ SvetonioAugustus, 72.
  10. ^ SvetonioAugustus, 80.
  11. ^ SvetonioAugustus, 81.
  12. ^ SvetonioAugustus, 82.
  13. ^ a b SvetonioAugustus, 89.
  14. ^ SvetonioAugustus, 90.
  15. ^ SvetonioAugustus, 91.
Fonti antiche
Fonti storiografiche moderne