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Thiago Motta ha fatto suo il Bologna
28 feb 2023
Dopo anni di grigiore la squadra è tornata a giocare bene.
(articolo)
14 min
(copertina)
Giuseppe Maffia/IMAGO
(copertina) Giuseppe Maffia/IMAGO
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La prima volta che l’abbiamo visto in veste d’allenatore indossava la tuta del PSG. Era l'estate del 2018, aveva smesso di giocare solo da poche settimane, ci faceva strano vederlo così. Ma Thiago Motta era già convincente. In un video pubblicato dai canali social del club parigino lo si vede dirigere un allenamento della Under 19. Durante la partitella chiama il pressing, chiede a uno dei suoi giocatori di far correre la squadra avversaria, poi si mette in mezzo ai suoi giocatori per cercare di fargli capire cosa vuole da loro. Pressione, transizione, riorganizzazione. «Quando perdiamo la palla non possiamo fermarci. Se ci fermiamo corriamo di più».

La partitella finisce, ma Thiago Motta ha ancora qualcosa da dire. «Ci sono diversi giocatori, che guardano gli altri, “Non è colpa mia, è colpa degli altri”. Questo non lo ammetto, non sto scherzando». Thiago Motta si piega sulle ginocchia, ha uno di quei momenti mistici che sembrano essenziali per svolgere il mestiere da allenatore. Accarezza l’erba, sembra indicare un punto fisico sul campo in cui tutti i suoi pensieri stanno per cadere, un giocatore in prima fila guarda proprio lì, come se potesse vederli fluire. «Sono stato nei vostri panni e so cosa significa. Voglio dire, la competizione tra voi è normale. Ma dovete mettere alla prova voi stessi sul campo. “Non metto i miei compagni in difficoltà, mai”. Non con i gesti, non con i passaggi, né con la comunicazione. Se perde il pallone: “Ah ha perso la palla, non fa niente”. Sì che fa, invece. Mi arrabbio con chi perde palla, ma ancora di più con chi si ferma».

Ancora prima di sedersi sulla panchina del PSG Under 19 aveva già parlato ai giornali della sua idea di calcio. In una conversazione avuta con la Gazzetta dello Sport nel novembre del 2018 aveva immaginato come avrebbe dovuto giocare la sua squadra. Un gioco basato sul possesso in cui «essere sempre una soluzione per quello che porta la palla», dove i movimenti quindi sono più importanti dei moduli disegnati alla lavagna. L’intervista che ne viene tratta ricircola quando il Genoa, a sorpresa, decide di chiamarlo durante la stagione 2019/20, dopo l’esonero di Aurelio Andreazzoli. Diventa virale la dichiarazione sul 2-7-2, una provocazione che Thiago Motta aveva fatto per relativizzare l’importanza dei moduli, cavalcata da giornali alla disperata ricerca di click. Inizia un rapporto di incomprensione con il calcio italiano che sembra ricalcare quello che già aveva da calciatore. Thiago Motta, un allenatore che cerca di crescere rimanendo fedele a sé stesso all’interno della giungla delle società italiane di bassa classifica: un idealista naïf per il pubblico, una scommessa pericolosa per i club.

L’ex presidente del Genoa, Enrico Preziosi, che l’aveva esonerato dopo appena 10 partite, dirà che «a Genova non c’è mai tempo». Quando va a La Spezia, nell’estate del 2021, deve raccogliere la pesante eredità di Vincenzo Italiano. Ha una prima metà di stagione in chiaroscuro ma la squadra non è mai davvero coinvolta nella lotta per non retrocedere, che teoricamente dovrebbe essere il suo posto. Eppure Thiago Motta viene messo costantemente in discussione, l’atmosfera è tesa. Si parla di esonero già negli ultimi mesi del 2021, quando circola la notizia, mai verificata, che pur di evitare questa eventualità si sia fatto mettere nel contratto una clausola che costringerebbe la società a pagargli 400mila euro nel caso venisse esonerato prima dell’inizio del 2022. Poi comincia l’anno e le nubi si diradano. Lo Spezia batte prima il Napoli, poi il Milan. A fine stagione totalizza 36 punti, solo tre in meno rispetto all’anno precedente. Nonostante questo, la società e l’allenatore si accordano per sciogliere il contratto. Passa l’estate a spasso, cioè disoccupato, finché a Bologna non viene esonerato Sinisa Mihajlovic. Non è nemmeno la prima scelta, perché Roberto De Zerbi prima di lui ha declinato l’offerta per evitare di sostituire un allenatore gravemente malato. Nei pezzi che commentano la notizia si parla di “scelta ‘umana’”. Questo secondo virgolettato, su “umana”, non è mio ma di qualcuno che forse ha suggerito la notizia e che credo ritenga che accettare l’offerta del Bologna fosse quindi una scelta non umana.

In soli tre anni di Serie A - tre anni che coincidono con l’inizio della sua carriera da allenatore tra i professionisti - Thiago Motta ha quindi già visto quasi tutto il peggio che il nostro calcio ha da offrire, ma questo non sembra averlo cambiato poi tanto. È molto facile connettere il buon momento di forma che il suo Bologna sta vivendo oggi a quell’inizio in tuta nelle giovanili del PSG. Oggi la squadra emiliana è proprio ciò che quattro anni fa chiedeva a quei diciottenni che l’avevano visto togliersi la maglietta da calciatore solo poche settimane prima: una squadra che gioca «in modo offensivo, ma con equilibrio», «che reagisce appena perde palla e attacca l’avversario», come ha detto nella sua conferenza stampa di presentazione da nuovo allenatore rossoblu. La nostra cultura calcistica esalta il pragmatismo, la capacità di sapersi adattare annuendo a dirigenti che pensano di saperne più di tutti gli altri, ma la storia di Thiago Motta sembra dimostrare il contrario. Avere le idee chiare, e crederci fino in fondo, aiuta a trovare una direzione in mezzo al caos dirigenziale, alla povertà tecnica ed economica, a rose disastrate da un player trading che ha una data di scadenza sempre più ravvicinata.

Oggi è a sei punti dal sesto posto occupato dall’Atalanta, viene da cinque vittorie nelle ultime sette partite di campionato, ma al di là dei risultati contingenti, che possono essere determinati anche da fattori fuori dal proprio controllo, il lavoro di Thiago Motta si vede in primo luogo dal fatto che il Bologna, dopo anni di grigiore e mediocrità, è una squadra che ha una forma. Non più la somma di scelte sbagliate, talenti che avevano perso la strada, giovani che credevamo avessero ormai svelato il loro bluff ma una squadra con un’ossatura, punti di forza e debolezza, giocatori che sappiamo finalmente distinguere in mezzo alle consonanti dei cognomi del nord Europa. Thiago Motta ci ha ricordato perché eravamo esaltati per Riccardo Orsolini, quando era esploso in Serie B, che Roberto Soriano rimane uno dei migliori centrocampisti della classe media della Serie A, che è meglio tenere d’occhio i giocatori portati in Italia da Giovanni Sartori. Ma come ha fatto?

I presupposti da cui è partito per approdare all’identità tattica che vediamo oggi credo siano stati molto concreti. Il Bologna concentra gran parte del talento della propria rosa al centro del campo, mentre ha debolezze evidenti sia nella propria retroguardia che nella trequarti. Ancora oggi, nonostante il buon momento di forma, è una squadra che concede molto (è sotto la media della Serie A sia per Expected Goals concessi che per clear shot subiti) e che fa grossa fatica a superare l’uomo nella trequarti avversaria (è la seconda peggiore squadra per numero di dribbling tentati e riusciti a partita, meglio solo dell’Inter). A questo, poi, vanno aggiunto i numerosi problemi fisici, che hanno impedito al Bologna prima di avere a disposizione il suo miglior attaccante, nonché leader tecnico offensivo, Marko Arnautovic, e poi il suo sostituto, Joshua Zirkzee, che pure stava iniziando a ingranare (ottima la sua prestazione, per esempio, nella vittoria esterna contro la Fiorentina). In questo contesto, puntare su un’identità tattica che permettesse al Bologna di difendere lontano dalla propria porta e di utilizzare il possesso e il pressing come fonti di gioco alternative non era un atto di fede ma una scelta logica per mascherare i limiti e massimizzare i punti di forza di una rosa non certo perfetta.

A proposito di punti di forza della rosa, forse non è un caso che il lavoro di Thiago Motta sia andato più a fondo proprio per quanto riguarda il pressing. La possibilità di schierare un trio di centrocampo dinamico e intenso come quello composto da Jerdy Schouten, Lewis Ferguson e Nico Dominguez, e la decisione di spostare sull’esterno una mezzala altrettanto atletica come Roberto Soriano, ha reso il Bologna una delle squadre più aggressive della Serie A. La squadra è oggi (dati StatsBomb aggiornati a lunedì 27) quarta per PPDA dietro a Fiorentina, Milan, Napoli; quinta per numero di pressioni dietro a Lecce, Cremonese, Spezia e Milan; e addirittura seconda per palloni recuperati in fase di pressing e gegenpressing dietro al solo Milan.

Domenica l’Inter ci ha messo poco, nemmeno due minuti, per capire che sarebbe stata un pomeriggio difficile per la sua circolazione bassa. Il pressing del Bologna cercava di spingerla da un lato del campo, con le due ali rossoblù che chiudevano la linea di passaggio dai braccetti agli esterni, Schouten che saliva altissimo su Brozovic, e Barrow che scalava fino al portiere. Nell’azione che vedete qui sotto Onana è costretto a lanciare in fallo laterale pur di non perdere il pallone.

Che il Bologna cerchi di recuperare il pallone al centro del campo, invitando gli avversari in un imbuto sulla trequarti, indica la volontà da parte di Thiago Motta di utilizzare il pressing come arma offensiva, per recuperare palloni in zone pericolose che possano trasformarsi velocemente in occasioni da gol. Una strategia razionale, come abbiamo detto, ma anche rischiosa se gli avversari riescono ad eludere la pressione e a risalire il campo. Contro la Sampdoria, per esempio, già al sesto minuto del primo tempo il Bologna ha rischiato di prendere gol su una circolazione bassa che l’ha vista salire sul campo in ritardo. Gabbiadini è stato quindi lanciato facilmente in profondità alle spalle di Sosa, ritrovandosi da solo davanti a Skorupski. In questo caso l’attaccante della Samp ha tirato alto, forse impaurito dall’ottima uscita del portiere polacco, un altro il cui talento sembra definitivamente fiorito (per differenza tra post-shot Expected Goals e gol effettivamente subiti è secondo al solo a Szczesny).

La nuova identità del Bologna e la sua efficacia poggiano sulle qualità di alcuni dei suoi giocatori migliori, che a loro volta vengono esaltate da questo modo di giocare. Jerdy Schouten, finora talento impalpabile di cui si poteva solo intuire l’evoluzione, è finalmente diventato il centrocampista difensivo a tutto campo che in alcune partite aveva promesso di essere. Tra i centrocampisti della Serie A nessuno vince più contrasti e intercetti di lui (6.57 per 90 minuti, dati aggiustati per possesso). Allo stesso tempo la natura aggressiva della squadra di Thiago Motta ha messo in mostra il talento di Lewis Ferguson, arrivato la scorsa estate dall’Aberdeen senza che se ne accorgessero in molti, oggi uno dei centrocampisti più dinamici e intelligenti senza palla del nostro campionato.

Se per Ferguson e Schouten questo abito tattico sembra calzare a pennello, è invece sorprendente che stia bene sulle spalle di Nico Dominguez, forse tra i tre il giocatore con l’evoluzione più inaspettata. Centrocampista squisitamente sabatiniano sia negli alti che nei bassi, con un primo controllo di seta e una visione di gioco a tratti fulminante, con Thiago Motta è diventato un giocatore in grado di coprire enormi porzioni di campo e di ripulire decine di palloni. Secondo in Serie A per aggressive actions (cioè la somma di pressioni, contrasti e falli entro due secondi dalla ricezione avversaria) e ottavo per palle recuperate in pressione, Dominguez è stato di gran lunga il migliore in campo dei suoi contro l’Inter, e secondo il bordocampista di DAZN a fine partita si è sbracciato nei confronti della panchina per non essere sostituito nonostante i crampi.

I tre rappresentano il cuore del Bologna anche nella sofisticata fase di possesso, che ogni partita che passa occupa sempre più spazio nel suo gioco (per possesso palla medio il Bologna è inferiore solo a Napoli, Fiorentina, Monza, Inter e Torino). Il punto di forza del centrocampo di Thiago Motta è la sua fluidità quasi totale, che rende difficile per gli avversari leggere in anticipo i movimenti dei suoi componenti e per noi da casa capire chi sia il vertice basso e chi le due mezzali. Contro l’Inter, ad esempio, il Bologna era arrivato al gol già al 12esimo del primo tempo arrivando sulla trequarti grazie a una bellissima triangolazione a sinistra (il gol di Barrow verrà poi annullato per fuorigioco). Ferguson inizialmente si era avvicinato a Cambiaso da regista ma poi gli ha restituito palla e si è inserito in verticale sulla fascia. Alle sue spalle si è proposto Schouten, prontamente servito da Cambiaso, che lo ha lanciato di prima. Ferguson è stato ripreso dall’Inter dopo pochi passi ma a quel punto alle spalle del centrocampo nerazzurro si era liberato Nico Dominguez.

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Il Bologna è passato così da sinistra a destra, dove in posizione da mezzala di fatto attendeva la palla il centrale Posch, un’altra rivelazione di questa stagione. Il giocatore austriaco ha controllato la palla, alzato la testa e ha servito Ferguson con un altro cambio di campo, di nuovo a sinistra, dove lo scozzese aveva sfondato in area (teoricamente da mezzala destra). Il tiro di Ferguson poi è stato ribattuto, ma il suo movimento senza palla continuo ha comunque permesso al Bologna di tirare verso la porta da dentro l’area.

Questo è solo un esempio, ma in ogni partita il lavoro senza palla dello scozzese è impressionante e non è raro vederlo nella stessa azione aiutare l’uscita del pallone sulla propria mediana e poi, pochi secondi dopo, inserirsi in area per battere a rete. Nella partita precedente, contro la Sampdoria, il gol decisivo di Orsolini, ancora prima che dal grande suggerimento in profondità di Nikola Moro (un altro la cui evoluzione va tenuta d’occhio), nasce da una sua discesa in mediana al 90esimo per gestire il pallone sotto pressione. Quando Thiago Motta parla dell’importanza di essere sempre una soluzione per chi porta palla credo che oggi pensi a lui.

Ferguson però non è Atlante che si carica il mondo sulle spalle, i suoi movimenti ricalcano una struttura che rende il Bologna una squadra che sa cosa fare e come farlo. La costruzione dell’azione comincia spesso a sinistra, dove a dare un ulteriore linea di passaggio ai due centrali ci sono anche i movimenti a venire dentro al campo di Andrea Cambiaso - ultima, insospettabile personificazione del ruolo di falso terzino. Cambiaso è il primo dentello di una catena di sinistra che è molto complessa, perché include come abbiamo visto le rotazioni dei tre centrocampisti, ma anche i movimenti a venire incontro di Roberto Soriano, che si aggiunge a questa già folta schiera di giocatori per facilitare la risalita della palla.

La densità che il Bologna fa a sinistra in questa prima fase serve da una parte ad avvicinare i giocatori e quindi facilitare la circolazione della palla, ma anche a liberare spazio a destra, dove sempre molto largo attende la palla Riccardo Orsolini. Il grande momento di forma dell’ala ascolana (4 gol nelle ultime 5 partite), da questo punto di vista, non è casuale: tutta l’azione del Bologna è pensata per permettergli di puntare l’avversario in uno contro uno, rientrando sul sinistro per tentare il tiro sul palo più lontano (come ha fatto in maniera splendida contro la Sampdoria) o allargandosi sul destro per cercare il passaggio al centro. Oltre a questa versione più classica da ala, che già conoscevamo, nelle ultime partite abbiamo visto anche una seconda versione di Orsolini, più da seconda punta, che si inserisce alle spalle della prima. Il gol contro l’Inter, in questo senso, è praticamente identico nella sua costruzione a quello segnato quasi esattamente un mese prima contro lo Spezia, con la palla recuperata sull’out di sinistra e immediatamente lanciata in avanti verso il numero 7, infilatosi nello spazio lasciato libero dalla difesa avversaria aperta in fase di costruzione.

Orsolini è la naturale conclusione di tutto ciò che costruisce il Bologna, il collo dell’imbuto, e questo peso sulle spalle anziché schiacciarlo sembra lo stia facendo finalmente maturare. «Adesso mi sento più responsabilizzato», ha dichiarato recentemente «[Thiago Motta] è riuscito a darmi la giusta importanza che volevo e che mi mancava, ora mi sento al centro del progetto».

A questa squadra, poi, manca ancora la sua punta di diamante, Marko Arnautovic, e sarà interessante in questo senso vedere come Thiago Motta riuscirà a inserire un attaccante così attratto dal pallone in una squadra che sta finalmente imparando a muoversi senza. L’attaccante serbo è stata una delle poche buone notizie la scorsa stagione, ma riuscirà a rimanere tale anche adesso che il Bologna è sembrato poter fare a meno di lui?

Che il più grande interrogativo rimasto sia come si inserirà il miglior attaccante della rosa al suo ritorno in campo la dice lunga sulla strada percorsa dal Bologna in questi ultimi tempi. Nel calcio il tempo scorre diversamente, e a volte le settimane ci sembrano anni. Nemmeno sei mesi fa, quando Thiago Motta si è seduto per la prima volta sulla sua panchina, avremmo fatto fatica a dire quali erano i suoi titolari e quali le riserve, in che modo giocava. Ora, invece, il Bologna ha una direzione.

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