Postgresql 155 Documentation 155 The Postgresql Global Development Group
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6. CAPITOLO VII
Desolazione dell'Italia — S. Benedetto fonda il suo Ordine
La guerra, che doveva ancora continuare in Italia, era già durata
cinque anni, ed aveva desolato, esausto il paese in modo da
superare ogni immaginazione, riducendolo in condizioni tali da non
essere sperabile, per lunga pezza, di vederlo più risorgere. Procopio
descrive gli effetti che nel 538 la morte, la carestia e la fame
avevano portato specialmente nella Toscana, nella Liguria e
nell'Emilia. La cultura dei campi, egli dice, era stata da due anni
abbandonata del tutto, ed il poco e cattivo grano, che
spontaneamente vi nasceva, era spesso lasciato imputridire. Gli
abitanti della Toscana si erano ritirati ai monti, dove si cibavano di
ghiande; quelli dell'Emilia si recarono nel Piceno, sperando di trovare
presso il mare di che sfamarsi. Ma la desolazione era tale colà che si
parlava di 50,000 contadini morti per mancanza di nutrimento. Lo
stesso scrittore ci descrive, come testimonio oculare, il modo e la
natura di queste morti. Per eccesso di bile, egli dice, ingialliva il
colore della pelle, che aderiva come cuoio alle ossa, essendosi la
carne consumata affatto. Il giallo mutavasi poi in rosso cupo, in
nero, con una espressione da maniaci negli occhi; e così quegl'infelici
morivano. Perfino i corvi e gli uccelli di rapina non volevano cibarsi
dei loro corpi disseccati. Quando poi quegl'infelici affamati trovavano
per caso del cibo, ne mangiavano con tale avidità e in così gran
misura, che ne morivano, avendo per debolezza perduto ogni forza
digestiva. Si giunse a tale, che gli uomini divennero qualche volta
addirittura cannibali. Procopio ricorda due donne, che rimaste sole
presso Rimini, accoglievano i viandanti e li uccidevano nel sonno, per
poi divorarli. E così, egli afferma, ne divorarono diciassette; ma il
diciottesimo riuscì a scampare, ammazzandole invece ambedue. Si
vedeva la gente trascinarsi carpone pei campi, mangiando come
7. capre le erbe; spesso, non avendo più la forza di estirparle dal suolo,
morivano estenuati, e restavano insepolti. In mezzo a tanti esempi di
desolazione e ferocia lo stesso scrittore ci racconta un caso assai
pietoso. Traversando l'Appennino per andare a Rimini, egli vide un
bimbo abbandonato, affettuosamente nutrito da una capra, che
accorreva al pianto e non voleva che altri s'avvicinasse a lui, il quale
a sua volta ricusava il latte offertogli dalle donne del vicino borgo.
Pare che la madre, al passaggio dell'esercito di Giovanni rimanesse,
fuggendo, separata a un tratto dal figlio, senza poterlo più ritrovare.
Nè altro si seppe più di lei, rimasta forse prigioniera, o uccisa nei
campi.
Il disordine, lo sconforto e la spaventosa desolazione, sin dal
principio portati da questa guerra, andarono, per la sua
continuazione, crescendo sempre più. Ed in mezzo a così prolungate
calamità, non è da meravigliarsi che il pensiero si volgesse a Dio, e
che un fatto nuovo, già da più tempo cominciato, ricevesse uno
straordinario incremento. Il monachismo d'Occidente ebbe ora
appunto una così rapida diffusione da parer che divenisse quasi
contagioso. Suo definitivo riformatore, che parve perciò nuovo
fondatore, era stato un uomo veramente straordinario e santo, il
quale ad una grandissima bontà univa una profonda conoscenza
dell'umana natura e del proprio tempo. Egli compiè la trasformazione
del monachismo, rendendo nei monasteri dell'Occidente più
tollerabile ed umana la vita religiosa, che gli anacoreti della Tebaide
avevano spinta ad una esagerazione che confinava qualche volta
colla follia, e trovava in Italia ostacolo insuperabile nell'indole del
popolo. Il suo merito principale apparisce chiaro nella Regola
monastica del suo Ordine, che fu da lui formulata. Per sette secoli,
fino cioè a S. Francesco ed a S. Domenico, i Benedettini furono quasi
i soli monaci nel mondo occidentale, e si diffusero dalla Polonia al
Portogallo, dalla Gran Brettagna alla Calabria, obbedendo tutti al loro
capo in Monte Cassino, che fu come la nuova Roma, la nuova
Gerusalemme, la Mecca dei Cristiani. La leggenda, la poesia, la
pittura italiana hanno in mille modi illustrato la vita del Santo e de'
suoi discepoli. Dalle mura dei chiostri, dagli affreschi, dalle tele dei
8. pittori, dai versi dei poeti, che vennero ispirati da questi monaci, i
quali vissero in tempi di feroci passioni, in mezzo agli orrori d'una
guerra che faceva scorrere il sangue a fiumi, discende ancora oggi
su di noi il loro spirito di pace, di fede, di carità, di tranquillo e
costante lavoro, che in tutto il Medio Evo fu sorgente perenne d'arte,
di poesia e di civiltà.
La nuova Regola, in settantatrè articoli, rispondeva certo ad un
bisogno del tempo, e mantenendo rigorosa obbedienza, rifuggiva da
ogni eccesso. Le sostanze di quelli che divenivano monaci, e tutto ciò
che più tardi i parenti avessero voluto lasciar loro, andava
integralmente al monastero, nel quale spariva ogni proprietà
individuale. L'ozio era proibito, come dannoso alla salute dell'anima
(otiositas inimica est animi). Questi religiosi infatti pigliavano
direttamente parte al lavoro dei campi, a tutto ciò che era necessario
alla comune esistenza. Un articolo assai notevole, utile e pratico
nello stesso tempo, voleva che prima d'essere ammessi nel
convento, si dovesse con un periodo di noviziato dar prova di vera
vocazione alla vita monastica. S. Benedetto non faceva distinzione di
sorta fra ricchi o poveri, coloni o schiavi, Romani, Bizantini o barbari.
Dinanzi alla sua Regola tutti gli uomini erano, come dinanzi a Dio,
uguali; e ciò spiega la rapida, la straordinaria diffusione che essa
ebbe nel mondo.
La vita di questo, che fu il più grande monaco che sia mai vissuto, ci
venne narrata da Gregorio I, forse il più grande dei papi, che da
taluno si volle credere nato il giorno stesso in cui moriva S.
Benedetto (21 marzo 543). Sebbene la sua narrazione sia piena di
miracolose leggende, essa ci fa pur comprendere quale era il vero
carattere del Santo. Nato a Norcia (480), nei monti della Sabina, a
venti miglia da Spoleto, a duemila piedi sul livello del mare, da un
nobile romano, circa quattro anni dopo che Odoacre fu signore
d'Italia, cominciò a studiare in Roma. Ma ben presto lasciò tutto, per
ritirarsi nella solitudine e nella contemplazione, verso le sorgenti
dell'Arno. La sua balia, che lo aveva accompagnato a Roma, lo
accompagnò ancora adesso, dominata da quel nobile ascendente
morale, che egli esercitava maravigliosamente su tutti. Ben presto i
9. miracoli da lui compiuti, e la fama della sua santità affascinarono,
attirarono un così gran numero di seguaci entusiasti, che egli pensò
di rifugiarsi a Subiaco, dove erano solo alcuni pochi anacoreti. Ivi fu
vestito dell'abito monacale, da un tale che si chiamava Romano; e si
ritirò in una grotta, dove questi, a giorni fissi, gli portava dal suo
convento il cibo necessario a vivere, facendolo con una fune, dall'alto
d'una rocca discendere nella grotta. Ma Romano scomparve a un
tratto, senza che più se ne sapesse nulla; ed allora il cibo fu portato
prima da un santo uomo, che viveva assai lontano; poi da alcuni
pastori miracolosamente ispirati dal Signore. Essendo ancora nel
vigor degli anni, il Santo venne assalito dagli stimoli della carne, e
per attutirli si gettò nudo sulle spine e sui pruni della foresta, che,
lacerando le sue carni, furono fecondati dal sangue che ne scorse, e
ne sbocciarono rose, le quali dopo sette secoli S. Francesco vide
tuttavia fiorire, ed il viandante le vede fiorire anche oggi.
Essendo intanto grandemente cresciuta la fama di S. Benedetto, i
monaci di Vicovaro, che avevano perduto il loro abate, pregarono lui
d'assumerne l'ufficio. E quando egli d'assai mala voglia si lasciò
indurre ad accettare, furono subito scontenti della severa disciplina
da lui imposta, e pensarono d'avvelenarlo. Liberato che fu
miracolosamente da questo nuovo pericolo, si ritirò sdegnato nella
solitudine. Ma anche colà la gente, attirata dalla fama della sua
bontà, accorse numerosissima, e così tra il 500 ed il 520 si
formarono intorno a Subiaco 12 monasteri, con capi da lui eletti. Egli
se ne stava ritirato nel sacro speco, con pochi de' suoi, presso
Subiaco, al di sopra della sua antica grotta. Nonostante però questa
sua riserva, questo gran seguito, la gelosia di quelli che facevan
parte del clero regolare non lo lasciava in pace. Ed uno di essi fece
andar donne di mala vita a tentarlo, cosa di cui S. Benedetto fu così
disgustato, che se ne andò via a Monte Cassino. Ivi trovò la statua
d'Apollo con un altare, e li fece subito demolire, fondando sullo
stesso luogo il suo principale convento, nel quale risiedette
quattordici anni (529-543). Colà venne a visitarlo Totila re dei Goti
(542), prostrandosi ai suoi piedi; ed il Santo gli rimproverò i mali
recati all'Italia, annunziandogli vicina la morte. Un anno dopo questa
10. visita morì anche lo stesso S. Benedetto. Poco prima era morta la
sorella Scolastica, che lo aveva seguito a Subiaco ed a Monte
Cassino, menando anch'essa vita religiosa, non molto lungi da lui,
che andava a visitarla una volta l'anno, e che volle essere sepolto
vicino a lei, là dove era stato l'altare di Apollo.
Una prova che l'opera di S. Benedetto era la creazione d'un uomo di
genio, e rispondeva ad un vero bisogno dei tempi, noi l'abbiamo
nella grande e rapida diffusione che essa ebbe, nel fatto assai
notevole che, quasi nello stesso tempo e indipendentemente da lui,
Cassiodoro, il quale aveva passato tutta la sua lunga vita negli affari
politici, iniziò anch'egli qualche cosa di simile nel suo paese nativo. A
tempo di Vitige, quando già da un pezzo Imperiali e Goti erano
violentemente venuti a conflitto fra loro, egli s'era dovuto accorgere
che il concetto di Teodorico, al quale anch'egli così lungamente
aveva dedicato tutte le forze, di fondere cioè in uno Italiani e Goti,
era un sogno contradetto dalla realtà. Essendo adunque pervenuto
all'età di 60 anni, quando aveva già raccolto le sue lettere e scritto il
suo Trattato sull'anima, si ritirò nel paese nativo, dove fondò vicino a
Squillace due conventi. Uno di essi era un semplice eremitaggio sul
colle, per chi voleva assoluta solitudine; l'altro, il vero e proprio
Convento, venne istituito poco più lungi, a Vivarium, presso il fiume
Pellena (539). E come S. Benedetto, nel fondare i suoi monasteri,
aveva voluto unire il lavoro manuale alla contemplazione, così
Cassiodoro unì a questa il lavoro intellettuale, dandone egli stesso
l'esempio. Infatti colà scrisse molte delle sue opere, fra le quali il
comento ai Salmi, e quello alle Epistole degli Apostoli; la Historia
tripartita, la quale è un compendio di tre storie della Chiesa, che per
sua commissione Epifanio tradusse dal greco. Scrisse ancora alcune
regole del ben vivere, ed il suo libro De ortographia, in cui sono
precetti sull'arte del comporre. Cassiodoro era di certo più un
letterato ed un retore, che un santo; non aveva le qualità d'un vero
fondatore di Ordini religiosi. Pure il suo concetto d'introdurre nei
monasteri il lavoro intellettuale, rispondeva, come quello del lavoro
manuale imposto da S. Benedetto, talmente ad un bisogno dei
tempi, che venne anch'esso accolto dai Benedettini. E così questi
11. trascrissero molte delle più preziose opere antiche, le quali per opera
loro vennero salvate dalla distruzione, cui sarebbero altrimenti
andate incontro. Monte Cassino divenne come un faro di civiltà, la
cui luce, riflettendosi in tutti quanti i conventi benedettini, potè in
mezzo alla oscura notte del Medio Evo rischiarare la via ad un
migliore avvenire.
12. CAPITOLO VIII
Totila re dei Goti — Belisario torna in Italia, ed occupa Roma
— Suo ritorno a Costantinopoli e sua morte
L'anno 540 in cui i Persiani presero Antiochia, Belisario arrivava a
Costantinopoli alla testa di 7000 uomini della sua guardia, menando
seco il tesoro dei Goti, con Vitige e gli altri prigionieri. Era il secondo
re barbarico che egli conduceva nella capitale orientale. Aveva allora
36 anni; era quindi nel pieno vigore della sua forza, come era nel
colmo della fortuna e della gloria. Ma pur troppo si cominciavano a
vedere i non lontani prodromi di quelle sventure che dovevano
lacerargli il cuore, avvelenarne l'esistenza, invecchiandolo prima del
tempo. Non gli fu concesso un trionfo ufficiale, come quello avuto al
ritorno dall'Africa, sebbene il popolo lo accogliesse di fatto come un
vero trionfatore, quale egli era certamente. La sua prima sventura fu
il sospetto della infedeltà della moglie, la quale amareggiò molto la
sua esistenza. Partendo per la guerra persiana, con quest'atroce
tormento nell'animo, perseguitato da Teodora, che proteggeva
Antonina, non potè concludere gran cosa. Tornato a Costantinopoli,
e non essendogli possibile avere più dubbi sulla sua domestica
sventura, dovè decidersi ad imprigionare la moglie infedele, che pure
amava. Ma il peggio era, che Antonina aveva saputo con grandissima
arte guadagnarsi l'animo di Teodora, secondandola ne' suoi intrighi,
aiutandola a perseguitare i suoi nemici.
Da un pezzo era nella Corte divenuto potentissimo Giovanni di
Cappadocia, uomo dato a tutti i vizi, divorato dall'ambizione, ma
attissimo a riscuotere tasse, ricorrendo per esse anche ai tormenti
più crudeli: dicevasi che per evitarli, qualcuno si fosse perfino
impiccato. Giustiniano lo proteggeva, quale strumento utilissimo ad
aumentare le entrate dello Stato, e Teodora invece l'odiava per la
13. sua ambiziosa prepotenza. Antonina, che voleva conquistare sempre
più il favore dell'Imperatrice, riuscì, con singolare accorgimento, a
fargli confessare i suoi ambiziosi disegni, le sue mire segrete contro
lo stesso Imperatore. In conseguenza di che, Giovanni fu mandato in
esilio, ridotto alla miseria, costretto a vestir l'abito ecclesiastico, ad
andare limosinando. Pare anzi, come osserva l'Hodgkin, che questa
sua fine infelice desse origine alla leggenda che fece poi attribuire a
Belisario una fine non molto diversa. Certo è che Teodora sempre più
grata ad Antonina, sempre più avversa a Belisario, l'obbligò a
liberare la moglie infida ed a riconciliarsi con essa, nè si stancò mai
di tormentarlo e di umiliarlo.
Intanto, dopo la partenza di Belisario dall'Italia, donde aveva menato
seco la sua guardia ed i migliori capitani, le cose andavano nella
Penisola di male in peggio. Non v'era un capo autorevole che
potesse comandare, non s'era ancora ordinata una nuova
amministrazione. Tutto rimaneva affidato a capitani militari, sparsi
coi loro soldati, in diverse città, ed ai riscuotitori delle imposte. Le
entrate andavano rapidamente diminuendo, nè si poteva sperare
danaro da Costantinopoli, dove bisognava provvedere alla guerra
persiana, ed a mantenere, con sussidi continui, tranquille le vicine e
minacciose popolazioni barbariche. Si ricorreva quindi in Italia ad
ogni più misera e meschina arte per risparmiare. Si tosavano le
monete; si ritardavano le paghe e le promozioni dei soldati; si
vendevano gli uffici; si lasciavano in abbandono le opere pubbliche
più necessarie, come gli acquedotti; si trascuravano per tutto le più
urgenti riparazioni. Lo scontento era quindi divenuto grandissimo nei
soldati, che cominciavano a disertare, o cercavano rifarsi sulle
popolazioni, che avevano assai contribuito al trionfo delle armi
imperiali. Ridotte ora all'estremo d'ogni miseria, esse finivano col
rimpiangere i tempi in cui erano state sotto il dominio dei Goti, la
fortuna dei quali cominciava perciò rapidamente a risorgere.
Ildibaldo infatti, che era rimasto con soli 1000 uomini, vide a un
tratto accrescere il suo esercito, e fu padrone di quasi tutta l'Italia
settentrionale. Ma neppur tra i Goti le cose procedevano senza gravi
disordini. Essi, che non avevano mai potuto formare in Italia una
14. vera e propria nazione, apparivano sempre più come un esercito di
ventura, sotto il comando di capitani che non andavan d'accordo fra
di loro. Tra la moglie di Uraias, il quale aveva ricusato il comando
supremo, e quella d'Ildibaldo, che lo aveva accettato, la gelosia era
divenuta tale che si comunicò ai mariti. In conseguenza di che il
primo venne ucciso dal secondo, e questi fu poi, a sua volta, ucciso
nella primavera del 541. Insieme coi Goti erano in Italia venuti
parecchi Rugi, i quali non s'erano potuti mai interamente
amalgamare coi loro compagni; ed ora innalzarono sugli scudi
Erarico, che fu dai Goti accettato. Ma questi non seppe far altro che
trattare con Costantinopoli, tentando di costituirsi un piccolo Stato
nell'Italia settentrionale, tra i Franchi ed i Bizantini, ponendosi alla
mercè dell'Imperatore, tradendo così tutte le speranze de' suoi
soldati, i quali, dopo cinque mesi d'inglorioso governo, lo uccisero,
avendo prima offerto la corona a Baduila, noto nella storia col nome
di Totila. Questi era parente d'Ildibaldo, ed accettò a condizione che
levassero di mezzo Erarico, il che essi fecero.
Totila rialzò il destino dei Goti, alla testa dei quali si trovò per undici
anni, combattendo sempre gloriosamente. Egli fu il più nobile fiore
del valore ostrogoto, dimostrandosi costantemente capitano non solo
assai coraggioso, ma ancora di molta capacità strategica e politica.
Mentre infatti i Bizantini, per sostenersi in Italia, taglieggiavano,
saccheggiavano le popolazioni, favorendo così i latifondisti, che
formavano il loro sostegno, sebbene poi scontentassero anche questi
colle continue tasse, Totila invece s'appoggiava sul popolo, sui
contadini e coloni, trattandoli meglio che poteva, accogliendo nel suo
esercito gran numero anche di schiavi. «Ai contadini, dice Procopio,
egli in tutta Italia non recò alcuna molestia; ma invitolli a lavorare
liberamente la terra, secondo il consueto, pagando a lui i tributi, che
già prima solevano dare all'erario ed ai proprietari» (III, 13).
Aggravava invece la mano sui latifondisti, che spesso espropriava;
s'impadroniva delle loro rendite, ed anche di quelle della Chiesa, che
era già fin d'allora uno dei principali latifondisti, e che perciò fu a lui
doppiamente avversa, essendo i Goti di religione ariana.
15. I generali imperiali, radunati a Ravenna, decisero d'avanzarsi con
12,000 uomini per assalire Verona e Pavia; ma dopo un primo
fortunato successo, dovettero retrocedere a Faenza. Totila, che
aveva potuto raccogliere già 5000 uomini, prese allora l'offensiva,
passando il Po, e con abile strategìa riuscì ad infligger loro una vera
disfatta, obbligandoli a ricoverarsi nella città. Dopo di che traversò
risolutamente l'Appennino, con l'intendimento d'impadronirsi
dell'Italia meridionale, dove poteva sperare maggiore facilità di
trovar vettovaglie, aiutato anche dalla vicinanza della Sicilia. Di là
avrebbe potuto minacciare Roma, costringendo il nemico a dividere
le sue forze. Ma intanto un primo tentativo d'assediare Firenze con
parte dei suoi, fallì, perchè i Bizantini, avuto soccorso da Ravenna,
uscirono dalle mura e lo respinsero. Furono però poco dopo disfatti,
e così Totila potè procedere sicuro fino a Napoli (542). Gl'Imperiali si
trovavano allora padroni solamente di Firenze, Spoleto, Perugia,
Roma, Ravenna e Napoli. La presa di quest'ultima città avrebbe
avuto pei Goti una grandissima importanza, sia perchè era una delle
principali dell'Italia meridionale, ed in relazione colla Sicilia, sia
perchè di là potevano facilmente cominciare le operazioni contro
Roma. Totila portò quindi presso Napoli il suo quartier generale,
inviando nello stesso tempo alcuni de' suoi verso le Puglie, la
Basilicata e le Calabrie. Napoli aveva solo una guarnigione di 1000
fanti; e però Giustiniano, riconoscendone l'importanza strategica, vi
spedì alcune navi con soccorso di uomini e di vettovaglie. Totila però
seppe tener testa a tutto, e favorito da una tempesta, che ritardò
l'arrivo d'una parte dei soccorsi, sconfisse il nemico e costrinse la
città ad arrendersi (543). La guarnigione fu lasciata libera, e nulla
soffrirono gli abitanti, avendo egli, con ordini severissimi, mantenuta
la più stretta disciplina fra i suoi Goti, coi quali si apparecchiava ora
all'assedio di Roma.
A Totila pareva d'esser vicino ad impadronirsi di tutta Italia, giacchè i
Bizantini possedevano ora solo alcune poche città, i loro generali non
andavano d'accordo, e già scrivevano a Costantinopoli, come se lo
stato delle cose fosse disperato. Egli invece, pieno di fiducia, scriveva
al Senato e spargeva ovunque proclami, invitando le popolazioni a
16. fare con lui causa comune. Tutto ciò finì col decidere Giustiniano a
rimandar di nuovo in Italia Belisario (544), che non era però più
quello d'una volta: infinite erano state le sue traversie, le ingiuste
persecuzioni da lui sofferte. Affranto dai dolori e dalla più nera
ingratitudine, costretto ad umiliarsi dinanzi alla moglie che lo aveva
tradito, accusato d'aver rubato parte del tesoro goto, per sopperire
alle sue spese eccessive, era stato richiamato dall'Oriente, dove,
oppresso da tanti dolori, non gli aveva arriso la fortuna della guerra.
Oltre di ciò la sua guardia era stata disciolta, ed egli privato d'ogni
ufficio, d'ogni emolumento. Era vietato agli amici d'avvicinarlo; e
quindi, abbandonato da tutti, si vedeva girar solo e pensoso per le
strade di Costantinopoli, col sospetto di potere da un momento
all'altro essere assassinato. Ed ora che la peste aveva desolato
l'Impero, che lo stesso Imperatore ne era stato colpito, ed a fatica
era scampato dalla morte; ora che tutto anche in Italia pareva
andasse a rovina, bisognò di nuovo ricorrere a lui, restituirgli parte
della sua fortuna, ridargli il comando supremo delle forze nella
Penisola. Non potè però riavere la sua guardia, che era stata già
disciolta; non gli si potè costituire un nuovo esercito, nè dar danari:
doveva a tutto provvedere da sè; la guerra doveva alimentare la
guerra. Ciò nonostante, dimenticando ogni cosa, si rimise con ardore
all'opera, e raccolse a sue spese nella Tracia un corpo di 4000 Illirici,
che condusse subito nella Dalmazia, dove li organizzò ed esercitò. Di
là riuscì a far pervenire qualche soccorso di uomini e vettovaglie alla
guarnigione assediata e pericolante in Otranto, per avere in sue
mani un punto da cui ricominciare la conquista dell'Italia
meridionale. Ed infatti i Goti che assediavano la terra, quando videro
che di mezzo alle loro file erano potuti passare i soccorsi, si ritirarono
per andarsi a ricongiungere con Totila. Questi s'era intanto avviato
verso Roma; aveva preso Tivoli, facendo strage della popolazione, e
poteva di là impedire che pel Tevere scendessero vettovaglie nella
Città eterna. Belisario avrebbe dovuto e voluto soccorrerla subito, se
avesse avuto il danaro e gli uomini, che invece gli mancavano
affatto. S'avviò quindi verso Ravenna, con la speranza di raccogliere
colà i veterani sbandati; ma l'antico entusiasmo e l'antica disciplina
più non esistevano. Impadronitosi infatti di Bologna, invano aspettò
17. che i veterani tornassero sotto le sue bandiere. E i nuovi soldati
illirici, che seco aveva e che intanto non ricevevano le paghe, avuta
notizia d'un assalto che gli Unni movevano al loro paese, se ne
partirono senz'altro. Totila allora, avanzandosi per la Via Flaminia,
prese parecchie delle città rimaste ancora ai Bizantini (545); e la
guarnigione di Spoleto non solo s'arrese, ma si unì a lui. Egli così
potè impedire al nemico ogni comunicazione fra Ravenna e Roma,
che fu subito da lui assediata. Belisario, convinto della estrema
necessità di rialzare le sorti della guerra, ardeva del desiderio di
tentare un colpo ardito, per liberare l'antica capitale del mondo; ma
non aveva modo. Con grande insistenza chiese a Costantinopoli aiuto
d'uomini e danaro; domandò sopra tutto d'avere la sua guardia,
esponendo lo stato disperato delle cose in Italia, dove non c'era da
aspettar più nulla dalle popolazioni esauste e disgustate. Corse poi
con pochi de' suoi a Durazzo in Dalmazia, per andare incontro ai
soccorsi che dovevano finalmente arrivare da Costantinopoli.
Erano passati già dodici mesi, nei quali egli nulla assolutamente
aveva potuto concludere. Roma era assediata dai Goti, che
occupavano da padroni il paese circostante, riscuotendo le imposte,
raccogliendo il prodotto delle terre. Dentro le mura la guarnigione
imperiale assai debole cominciava a mancare d'ogni cosa; la fame si
faceva già crudelmente sentire; e quello che era anche peggio,
alcuni dei capitani, specialmente il comandante Bessa, avendo
raccolto grano per l'esercito, ne vendevano ai privati, facendovi lauti
guadagni, e cercavano perciò di mandare le cose in lungo. Molti,
esausti dalla fame, si trascinavano a fatica, come spettri, per le vie
della Città. Fu quindi necessario mandar fuori delle mura i non
combattenti, che spesso venivano uccisi dai nemici, quando li
vedevano lentamente traversar la Campagna.
Non è perciò da maravigliarsi se appena arrivati da Costantinopoli gli
aiuti così lungamente attesi, Belisario che già ardeva del desiderio
d'andare a soccorrere Roma, si mosse senza indugio. Ma di nuovo
trovò ostacolo grandissimo in quella mancanza di disciplina, che
pareva omai divenuta epidemica. Il generale Giovanni, che per la sua
parentela aveva potenti relazioni nella Corte, era stato sempre
18. nemico di Belisario, che per avere gli aiuti necessari aveva dovuto
pur decidersi a mandar lui a Costantinopoli. E Giovanni adesso
voleva dalla Dalmazia avanzarsi coi suoi nell'Italia meridionale, per
combattere i Goti, i quali erano colà sparsi e deboli. Dopo averli vinti,
egli diceva, sarebbe stato più facile ottener vittoria sotto le mura di
Roma, dove egli e Belisario avrebbero nello stesso tempo potuto
assalire il nemico da due lati, cooperando all'impresa comune anche
la guarnigione con una vigorosa sortita. Ma Belisario, che riteneva
invece non doversi metter tempo in mezzo, voleva recarsi
direttamente per mare alla bocca del Tevere, e risalendolo, avanzarsi
senz'altro a soccorrere Roma d'intesa con Bessa. Non essendo stato
possibile mettersi d'accordo con Giovanni, si dovette finire al solito
coll'appigliarsi al peggiore dei partiti: operare cioè ognuno per conto
proprio. Così egli andò per mare a Porto, e Giovanni sbarcò a
Brindisi, entrandovi dopo aver battuto i Goti, sottoponendo poi
l'antica Calabria (Terra d'Otranto), le Puglie e la Lucania. Di là,
invece di pensare a raggiungere Belisario, s'avviò nel paese dei Bruzi
(Calabria), ed occupò Reggio, sbaragliando i pochi Goti che v'erano,
favorito dai latifondisti coi loro contadini. Così fu padrone dello
Stretto di Messina, e potè annunziare a Costantinopoli, che aveva
riconquistato l'Italia meridionale. Quanto ad avanzarsi verso il nord,
come voleva Belisario, pare che non ci pensasse neppure. E quindi i
pochi Goti, mandati da Totila nella Campania, erano più che
sufficienti a tenerlo d'occhio.
Belisario intanto si trovava con poche genti a Porto, invano dolendosi
d'esser lasciato solo. Ad Ostia, che egli poteva quasi toccar con
mano, erano sempre i Goti, e per mancanza di uomini, non poteva
cacciarli, sebbene anch'essi fossero colà in assai piccolo numero. A
quattro miglia di distanza, là dove il Tevere è più stretto, Totila aveva
potuto chiudere il fiume, mediante una catena ed un ponte
galleggiante, difeso da due torri di legno, costruite sulle opposte
rive. Pure Belisario era deciso a soccorrere Roma, sperando di farvi
entrare le vettovaglie, e di penetrarvi poi egli stesso, giacchè
neppure dopo tanti disinganni il valoroso capitano s'era perduto
d'animo. Mandò quindi due finti disertori a misurare l'altezza delle
19. torri; e poi, congiunte due barche con tavole, su di esse costruì una
torre di legno, sulla quale pose una piccola barca con materie
infiammabili, che erano una mescolanza di zolfo, di pece, di resina,
qualche cosa di simile a ciò che più tardi fu chiamato fuoco greco.
Alle due barche che lentamente s'avanzavano, teneva dietro una
piccola flottiglia carica di grano, con uomini armati, accompagnata
da altri a piedi ed a cavallo, i quali s'avanzavano sulle due rive, in
compagnia di coloro, che colle corde su pel fiume tiravano le navi.
Prima di partire, Belisario aveva lasciato Isaace d'Armenia a guardia
di Porto, con ordine espresso di non abbandonar mai quel posto,
neppure per soccorrere lui stesso, quando si fosse trovato in
pericolo. Avvertì dei suoi movimenti Bessa, invitandolo ad uscir dalle
mura in tempo, per potere ambedue contemporaneamente assalire i
Goti, di fronte ed alle spalle. Ma Bessa, occupato più che altro de'
suoi propri guadagni, non dette segno di muoversi, ed i Goti
poterono liberamente andar contro Belisario, che sembrava avanzarsi
con buona fortuna. Era infatti riuscito a levare la catena, ad
incendiare una delle due torri, quando sopraggiunsero i Goti, coi
quali venne subito a battaglia, e li respinse dopo averne uccisi 200. Il
ponte galleggiante era rotto, il fiume pareva ormai libero al
passaggio delle vettovaglie, quando a un tratto la ruota della fortuna
girò a suo danno. Nè Bessa, nè Isaace d'Armenia, sebbene per
diverse ragioni, avevano obbedito agli ordini ricevuti, e questo fu
causa della rovina dell'impresa nel momento stesso in cui Belisario
pareva che avesse già in pugno la vittoria. Giunta a Porto la notizia,
che i Bizantini s'avanzavano vittoriosi verso Roma, Isaace non potè
più stare alle mosse, e con 100 cavalieri traversò l'Isola Sacra, che
divide Porto da Ostia, la quale egli prese senza difficoltà. Ma
sopraggiunsero allora i Goti, che poteron facilmente disfare i 100
cavalieri, uccidendone la più parte, e facendo prigioniero Isaace, che
li comandava in persona. La notizia assai esagerata di tutto ciò,
arrivò a Belisario, come un fulmine a ciel sereno, nel momento
appunto in cui egli si credeva decisamente vittorioso. E fu questa la
prima volta in sua vita, che perdè veramente la testa. S'immaginò
che Porto fosse stato occupato dal nemico, che sua moglie, la quale
20. pur sempre amava, fosse prigioniera, che i nemici potessero
attaccarlo alle spalle e di fronte; ordinò quindi senz'altro la ritirata.
Ma quando giunse a Porto, e vide come stavano veramente le cose,
fu pel dolore della perduta vittoria, preso da una febbre che per
qualche tempo lo rese affatto inabile a proseguire la guerra.
Bessa se ne stava intanto tranquillo in Roma, pensando a
guadagnare sulla fame che aveva ridotto all'estremo i cittadini,
irritatissimi perciò nel momento in cui l'opera loro era più che mai
necessaria alla difesa delle mura. I soldati erano assai pochi ed
anch'essi scontentissimi per essere trascurati affatto dal loro capo,
che li lasciava senza paghe e senza vettovaglie. La conseguenza fu
che quattro Isaurici, messi a guardia di Porta Asinaria, la tradirono al
nemico. E così il 17 dicembre 546 i Goti entrarono nella Città, che i
Bizantini abbandonarono, uscendo nello stesso tempo da un'altra
porta in tal fretta, che Bessa dovè lasciare tutto il danaro da lui così
disonestamente guadagnato. Vi fu allora come una fuga generale da
Roma, dove, secondo Procopio, sarebbero rimaste appena 500
persone, che si ricoverarono nelle chiese, temendo la crudeltà dei
Goti. Questi infatti cominciarono subito la strage; ma quando ebbero
ucciso 26 soldati e 60 cittadini, furono con ordini severissimi fermati
da Totila, il quale venne indotto alla clemenza anche dalle preghiere
del diacono Pelagio, che in Roma faceva ora le veci di papa Vigilio, il
quale trovavasi nella Sicilia in via per Costantinopoli.
Totila, che era vittorioso, e si sentiva sicuro del fatto suo, disse allora
alle sue genti queste notevoli parole: — In principio della guerra
200,000 Goti furono vinti da 7000 Bizantini; ma oggi invece 20,000
Bizantini, che tanti se ne trovano sparsi in Italia, furono vinti dai
deboli e disprezzati avanzi dei Goti. Ciò è avvenuto, perchè allora i
Goti si condussero ingiustamente verso i Bizantini, e vennero puniti;
ma ora che abbiamo invece osservato la giustizia, siamo stati da Dio
remunerati colla vittoria. — Entrato poi in Senato, rimproverò ai
Romani la loro condotta favorevole agl'Imperiali, che li avevano
spogliati di tutto. — Che male, egli esclamò, vi hanno mai fatto i
Goti? — Mandò poi a Costantinopoli il diacono Pelagio, per
concludere una pace definitiva. «Io, egli scriveva a Giustiniano, ti
21. rispetto come un figlio deve il padre, e sarò sempre tuo fido alleato.
Ma se tu non accetti la pace, distruggerò Roma, perchè da essa non
possa venir nuovo danno ai Goti.» E Giustiniano a tali minacce non si
degnò neppur di rispondere, rimettendosi in tutto e per tutto a
Belisario, il che voleva dire alla sorte delle armi. Non c'era quindi da
far altro, che apparecchiarsi a continuare la guerra.
Totila si vedeva ora costretto a recarsi nell'Italia meridionale, dove i
Bizantini in buon numero occupavano molte terre, e rendevano
sempre più difficile il fornire Roma di vettovaglie. Partendo, egli non
poteva, per mancanza di uomini, lasciarvi una guarnigione
sufficiente; cominciò quindi a demolirne le mura, con animo di
distruggere addirittura la Città. Ma quando procedeva in quest'opera
nefasta e di vera barbarie, ricevette una lettera di Belisario, che gli
fece una profonda impressione. «Non sai tu dunque, questi gli
scriveva, che le ingiurie fatte a Roma, sono ingiurie ai trapassati, ai
posteri; sono una vera profanazione? Vuoi tu rimanere nella storia
come il distruttore, piuttosto che come il preservatore della più
grande e magnifica città del mondo?» Totila, secondo Procopio, restò
da tali parole siffattamente colpito, che smise la mal cominciata
demolizione, e parti senz'altro pel Mezzogiorno, menando seco in
ostaggio i Senatori, ordinando che tutti abbandonassero Roma, che,
secondo lo stesso scrittore, rimase davvero per qualche tempo
deserta. Lasciò sui monti Albani una piccola guarnigione, come a
guardar da lontano la desolata Città, in cui sperava di tornare ben
presto, dopo aver vinto i Bizantini. Questo racconto può sembrare
una leggenda; è certo però che da una parte Totila non aveva modo
di tenere occupata la Città eterna, e da un'altra il fascino
grandissimo che essa esercitava ancora sui barbari era sempre tale,
che le dava ai loro occhi qualche cosa di sacro e d'inviolabile: il
distruggerla doveva quindi parere a tutti un delitto contro gli uomini
e contro Dio. Si aggiungeva poi che Totila non voleva romperla
addirittura coll'Impero, e chiudersi così ogni possibilità di nuove
trattative.
Comunque sia, Roma si trovò ora per sei settimane affatto
abbandonata, restando, così almeno si narra, addirittura deserta. E
22. Belisario, lasciata una piccola guarnigione in Porto, respinti i pochi
Goti che, scesi dai monti Albani, gli vennero incontro, entrò dentro le
mura e si pose subito a restaurarle. Molti tornarono allora dalla
Campagna, ed insieme coi soldati s'adoperarono a tutt'uomo per
riparare i guasti portati ad esse. Mancavano però gli operai capaci di
rimettere a posto gli usci delle porte, che erano stati abbattuti. Si
provvide quindi alla meglio, chiudendole in fretta, essendosi saputo
che Totila, avuta notizia dell'entrata di Belisario, tornava indietro a
gran passi. Tre volte infatti diede l'assalto; ma fu sempre respinto ed
inseguito, fino a che si ritirò a Tivoli. E Belisario allora potè trovar
modo di far rimettere gli usci alle porte della Città, di cui mandò le
chiavi a Costantinopoli. Correva l'anno 547, dodicesimo della guerra
bizantina, terzo della seconda campagna.
I Goti erano sempre assai potenti in Italia. Padroni nel Settentrione,
dove si trovavano ancora i Franchi venuti in loro aiuto, essi
occupavano la Venezia, e s'erano avanzati nell'Italia centrale, che
tenevano quasi tutta, ad eccezione di Ravenna, Perugia, Ancona,
Roma e Spoleto. Nel Mezzogiorno invece dominavano i Bizantini,
sebbene anche colà non mancassero Goti, disseminati in diversi
punti, qualcuno dei quali strategicamente importante. Certo per
gl'Imperiali riusciva di grande vantaggio morale e materiale il
possesso delle due capitali, Roma e Ravenna. Ma l'opera di Belisario
era paralizzata dal disaccordo persistente con Giovanni; nè
l'Imperatore mandava aiuti di sorta. Così corsero ancora due anni,
nei quali i Bizantini non fecero altro che accrescere sempre più il
malcontento delle popolazioni, con vantaggio dei Goti, i quali perciò
andavano ripigliando nuove terre, fra le altre Rossano e Perugia.
Belisario era quindi in uno stato di sconforto disperato, tanto che sua
moglie Antonina si decise a partire per Costantinopoli, sperando
d'ottenere per lui i necessari aiuti, mediante la protezione che aveva
sempre avuta di Teodora; ma, arrivata colà, trovò invece che questa
era già morta il 1º luglio 548. E non potendo far altro, chiese ed
ottenne il ritorno del marito, che nel 549 era da capo a
Costantinopoli, carico al solito di ricchezze accumulate nella guerra,
ma con la sua antica gloria molto offuscata, giacchè nulla
23. d'importante aveva potuto concludere in questa seconda campagna
d'Italia. E tutto ciò appariva anche assai più evidente, se si faceva il
paragone cogli strepitosi successi ottenuti nella prima. Egli restò a
Costantinopoli, sempre onorato, ma senza mai più avere, per dieci
anni continui, il comando dell'esercito.
Nel 559 però gli Unni, essendo entrati nella Media e nella Tracia,
cominciarono a fare stragi crudeli, minacciando la stessa città di
Costantinopoli. Ed allora Giustiniano, che era già vicino ai 77 anni, e
s'era per modo spaventato, che voleva fuggire dalla capitale, ricorse
di nuovo all'ormai vecchio, ma pur sempre glorioso capitano. Questi
aveva già superato i 54 anni, e i dolori patiti lo avevano assai
fiaccato; pure, senza esitare, corse alle armi, raccolse alcuni de' suoi
veterani e parecchi contadini; formò così un piccolo esercito, e con
un nuovo miracolo d'audacia, di accortezza e di valore strategico,
respinse un nemico assai più numeroso, che lasciò 400 morti sul
campo di battaglia. E fu allora appunto che Giustiniano, sopraffatto
dalla puerile o per dir meglio senile gelosia, lo richiamò, preferendo
accordarsi definitivamente col nemico mediante danaro, piuttosto
che ottenere una pace onorevole che avrebbe fatto rivivere l'antica
gloria del suo invidiato generale. Questi fu di nuovo accolto dal
popolo come un trionfatore, ma restò poi sempre lontano dagli affari
e dal comando dell'esercito. Ciò dette ai suoi nemici tanto ardire, che
lo accusarono di cospirazione contro lo stesso Imperatore, il quale da
capo lo privò d'ogni suo avere, ponendolo anche sotto sospettosa
vigilanza. Ma alcuni mesi dopo, forse ravveduto o pentito, restituì ad
esso gli emolumenti di cui lo aveva privato (luglio 563). Nel 565 il
valoroso capitano trovò finalmente pace nella tomba, circa nove mesi
prima che morisse l'Imperatore, da lui così fedelmente servito. La
leggenda, secondo la quale egli avrebbe finito la sua vita, cieco,
povero, seduto alla porta d'una chiesa, con una scodella di creta in
mano, chiedendo limosina, Date obolum Belisario, si formò tra i
secoli xi e xii; ma di essa nulla sanno i contemporanei, i quali
tacciono quasi affatto degli ultimi suoi anni infelici. Assai
probabilmente, come fu già osservato, si fece confusione con quello
24. che avvenne a Giovanni di Cappadocia, che realmente finì
limosinando, non però cieco.
25. CAPITOLO IX
La disputa dei Tre Capitoli — Ritorno di Narsete in Italia —
Disfatta di Totila e di Teja — Fine del regno ostrogoto
La definitiva ritirata di Belisario dagli affari segna la fine, anzi si può
dire il fallimento della politica estera di Giustiniano. Da ogni parte
infatti i barbari sembravano ora avanzarsi di nuovo. Più di tutti
orgogliosi e sicuri del loro avvenire parevano i Franchi; la fortuna di
Totila sembrava anch'essa rapidamente risorgere. In Roma v'era una
guarnigione di soli 3000 soldati imperiali, poco o punto pagati, privi
di tutto, e però scontentissimi, i quali avevano ucciso il generale
Conon, che sembrava voler come Bessa, in mezzo alla comune
calamità, far guadagno colla vendita del grano. Li comandava ora
Diogene, stato già della guardia di Belisario, e che alla testa de' suoi
aveva respinto gli ultimi ripetuti assalti di Totila. Questi potè tuttavia
occupar Porto, di dove riuscì ad affamare la Città, fino a che alcuni
soldati isaurici, stanchi di soffrire senza mai avere le paghe, la
tradirono al nemico, aprendo la Porta S. Paolo, per la quale esso
entrò, facendo strage della guarnigione. Diogene si salvò con parte
de' suoi; altri 400 si chiusero nella tomba d'Adriano, ma dovettero
poi anch'essi arrendersi per fame, unendosi ai soldati di Totila (549),
che si mostrò generoso verso di loro, giacchè si riteneva omai sicuro
di vincere, e cercava perciò di vivere in armonia colla popolazione
romana. Diverse città s'andavano infatti ogni giorno arrendendo a lui
come fecero Rimini e Taranto, come promettevano di fare, se non
venivano presto soccorse dagl'Imperiali, anche Civitavecchia ed
Ancona. Egli pensò quindi d'andare verso il sud, prendere le isole, e
colla flotta rendersi padrone del mare, per interrompere le
comunicazioni degl'Imperiali con Costantinopoli. Passato quindi il
Faro, sbarcò in Sicilia, e trovando resistenza a Messina, penetrò
nell'interno dell'isola, e ne occupò facilmente la campagna.
26. Questo sarebbe stato per Giustiniano il momento di provvedere con
energia alla guerra, se non voleva addirittura rinunziare all'Italia.
Sfortunatamente però egli, già assai vecchio e più o meno invaso
sempre da una manìa religiosa, s'era da qualche tempo siffattamente
immerso nella teologia, che per essa trascurava i bisogni più urgenti
della guerra e dello Stato. Aveva l'ambizione d'essere il sostenitore
della vera fede, il restauratore della unità non solo dell'Impero, ma
anche della Chiesa. Se non che l'Oriente e l'Occidente non riuscirono
mai ad andar pienamente d'accordo sul concetto fondamentale della
suprema autorità religiosa. Nelle cose della fede il Papa non poteva
ammettere nè superiori, nè uguali, qualunque fossero d'altronde i
meriti e i servigi che altri avesse resi alla Chiesa. Giustiniano invece,
che faceva derivare la sua autorità politica non dal popolo, dal
Senato o dall'esercito, ma direttamente da Dio, sebbene
riconoscesse la superiorità del potere spirituale sul temporale,
riteneva che l'uno e l'altro dovessero metter capo all'Imperatore. E
però voleva, anche nelle cose della fede, stare alla testa della
Chiesa, dei sacerdoti e dei credenti. «La nostra principale
sollecitudine, così egli scriveva, è rivolta ai veri dogmi di Dio, alla
onestà del clero.» Condannava perciò gli eretici e le dottrine
eterodosse; non voleva riconoscere valore definitivo ai decreti dei
Sinodi e del Papa, ma solo a quelli del Concilio ecumenico, convocato
da lui, che ne sanzionava e promulgava le deliberazioni. A tutto ciò
Roma non poteva mai consentire.
Animato costantemente da siffatti pensieri, Giustiniano s'era da un
pezzo stranamente esaltato per la scoperta che era stata fatta
d'alcuni errori o piuttosto inavvertenze in cui era caduto il Concilio di
Calcedonia, e voleva avere la gloria di correggerli: a tal fine si
chiudeva assai spesso nel suo studio a meditare, a discutere
ardentemente con preti e con frati. La questione di cui da qualche
tempo s'occupava, è nota sotto il nome dei Tre Capitoli o sia tre
punti controversi. Essa era molto oscura, molto intricata, e senza
grande valore teologico; ma aveva per lui anche una importanza
politica. Ora come sempre l'Imperatore desiderava piena concordia
con Roma; ma questa concordia, appena veniva conclusa, suscitava
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