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Deep Learning in Natural Language Processing 1st Edition
Li Deng
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So, what makes such NLP tasks so versatile and accurate for our
everyday tasks? The underpinning elements are "deep learning"
algorithms. Deep learning algorithms are essentially complex neural
networks that can map raw data to a desired output without
requiring any sort of task-specific feature engineering. This means
that you can provide a hotel review of a customer and the algorithm
can answer the question "How positive is the customer about this
hotel?", directly. Also, deep learning has already reached, and even
exceeded, human-level performance in a variety of NLP tasks (for
example, speech recognition and machine translation).
By reading this book, you will learn how to solve many interesting
NLP problems using deep learning. So, if you want to be an
influencer who changes the world, studying NLP is critical. These
tasks range from learning the semantics of words, to generating
fresh new stories, to performing language translation just by looking
at bilingual sentence pairs. All of the technical chapters are
accompanied by exercises, including step-by-step guidance for
readers to implement these systems. For all of the exercises in the
book, we will be using Python with TensorFlow—a popular
distributed computation library that makes implementing deep neural
networks very convenient.
Who this book is for
This book is for aspiring beginners who are seeking to transform the
world by leveraging linguistic data. This book will provide you with a
solid practical foundation for solving NLP tasks. In this book, we will
cover various aspects of NLP, focusing more on the practical
implementation than the theoretical foundation. Having sound
practical knowledge of solving various NLP tasks will help you to
have a smoother transition when learning the more advanced
theoretical aspects of these methods. In addition, a solid practical
understanding will help when performing more domain-specific
tuning of your algorithms, to get the most out of a particular
domain.
What this book covers
Chapter 1, Introduction to Natural Language Processing, embarks us
on our journey with a gentle introduction to NLP. In this chapter, we
will first look at the reasons we need NLP. Next, we will discuss some
of the common subtasks found in NLP. Thereafter, we will discuss the
two main eras of NLP—the traditional era and the deep learning era.
We will gain an understanding of the characteristics of the traditional
era by working through how a language modeling task might have
been solved with traditional algorithms. Then, we will discuss the
deep learning era, where deep learning algorithms are heavily
utilized for NLP. We will also discuss the main families of deep
learning algorithms. We will then discuss the fundamentals of one of
the most basic deep learning algorithms—a fully connected neural
network. We will conclude the chapter with a road map that provides
a brief introduction to the coming chapters.
E seguita il trescone
Con un sonetto che ne vien da poi,
Ch’abbiam mandato a certi vostri eroi.
Oh come è prepotente
E fiero in vista e savio a un tempo e matto
Un comento di poi ch’abbiamo fatto,
Da buoni italiani,
De’ politici nostri a gran dispetto,
Noi volemmo finir con un sonetto.
Il Franzi profumiere
Il Moro ed altri ve lo venderanno:
Rispetto al prezzo s’accomoderanno.
*
* *
Il Carducci moriva di voglia di vedere stampata la Giunta; e sperava
ch’io glie la portassi, andando a fargli la visita promessa; ma lo
stampatore tardava, ed io andai senza il libro.
Arrivai verso sera, e trovai, venuto ad incontrarmi a piè della salita
che conduce al paese, il padre di Giosue. Giosue, non ancora
interamente libero delle febbri, che gli s’erano messe addosso poco
dopo il suo ritorno in famiglia, era, per consiglio del padre, rimasto a
casa. Io feci allora per la prima volta la conoscenza del dottor
Michele e della sua famigliuola. Per quanto grande fosse la nostra
intimità, Giosue non me ne aveva mai parlato: il poco ch’io ne
sapeva, lo aveva appreso dal Nencioni e dal Gargani. Fatti molto alla
buona i convenevoli d’uso, il Dottore ed io ci avviammo per la salita:
egli parlava, ed io lo stava a sentire. Nel breve tempo che
impiegammo per arrivare a casa, egli mi aveva raccontata in brevi e
crude parole la storia delle tre o quattro principali famiglie del paese.
Per quel che ora posso ricordarmi, non mi fece grandi elogi di
nessuna. Mentre passavamo di sotto alle case ove quelle famiglie
abitavano, egli, con mia grande meraviglia, parlava ad alta voce, per
modo che la gente ch’era lì sulla via poteva benissimo sentire.
Avendogli io fatto qualche osservazione di ciò, mi rispose: Oh, non fa
niente, lo sanno tutti ciò ch’io penso di loro!
In quel ridente paesello, che Giosue salutava indi a poco
coll’affettuoso sonetto «O cara al pensier mio terra gentile,» che ora
è il XXI dei Juvenilia, avea trovato, dopo tanto errare, modesta e
quieta dimora la famiglia Carducci; quieta quanto consentivano il
carattere forte e un po’ autoritario del padre, e i caratteri forti e
indipendenti dei due figli maggiori, specialmente di Giosue. La
famiglia era amata e stimata in paese, specie dalla gente del popolo;
perchè il Dottore, nonostante i suoi modi un po’ bruschi, esercitava
l’ufficio suo con amore e conoscenza e la signora Ildegonda, la
moglie, era donna di una bontà rara, che si faceva conoscere e
apprezzare al primo avvicinarla. Tutti sapevano che nei pericoli, in
mezzo ai quali il Dottore si era più volte trovato durante i
rivolgimenti degli anni 1848 e 1849, essa avea dato prova di
coraggio e di forza d’animo singolari; tutti sapevano ch’essa era stata
ed era l’angelo tutelare della casa. Se l’ordine e la pace regnavano in
essa, era in gran parte merito di lei.
Qualche volta a tavola le conversazioni degeneravano in dispute, e le
dispute in questioni, specie se si parlava di cose letterarie, dove il
Dottore aveva le sue idee fatte, che non erano, sappiamo, quelle di
Giosue, e Giosue una competenza molto più grande, che gl’impediva,
dato il suo carattere, di tollerare ciò che parevagli errore; ma a
tempo e luogo interveniva la madre, per la quale Giosue ebbe
sempre una grande venerazione, e una parola di lei impediva che la
quistione degenerasse in vera e propria zuffa.
Il giorno dopo il mio arrivo, il Dottore mi menò a fare una
passeggiata per la campagna, facendomi da Cicerone. Parlammo di
molte cose, e naturalmente anche di Giosue, ch’era rimasto a casa,
della sua malattia, del suo ingegno, de’ suoi studi, della sua
prossima nomina a maestro nel Ginnasio di San Miniato al Tedesco.
Si capiva che il padre conosceva il valore del figliuolo, che gli voleva
bene, e in cuor suo n’era anche orgoglioso; ma non lo dava affatto a
divedere; parlava di lui come d’uno che quasi non gli appartenesse,
e manifestò anche l’opinione che avrebbe avuto corta vita. Se era un
presentimento, fortunatamente fu falso. Parlammo anche degli altri
figliuoli, specialmente del secondo, di Dante, il quale trovavasi un po’
a disagio in quel piccolo luogo, dove non era facile che si facesse,
come vivamente desiderava, una posizione.
Due giorni dopo, Giosue era affatto libero della febbre. Nel breve
tempo ch’io mi trattenni ancora a Santa Maria a Monte, passammo le
intere giornate passeggiando, conversando, leggendo. Leggevamo
fino alla sera tardi prima d’andare a letto. Una delle nostre letture
serali, o piuttosto notturne, furono i poemi didascalici del Rucellai e
dello Spolverini. Quelle letture fatte in compagnia del Carducci erano
per me di una utilità e di un piacere indicibili. Fin d’allora egli aveva
una conoscenza della nostra letteratura poetica veramente
meravigliosa.
*
* *
Ai primi di novembre tornammo a Firenze per dare l’ultima mano e
l’ultima spinta alla pubblicazione della Giunta alla derrata; ma ci
trovammo dinanzi un ostacolo impensato, che durammo molta fatica
a vincere: le sùbite paure del Targioni, che nientemeno voleva
sopprimere il libro, per risparmiare, diceva, a sè ed a noi un processo
e la prigione. Finalmente, come Dio volle, il libro uscì; ma il Carducci
non potè assistere alla pubblicazione e al chiasso che doveva
suscitare, perchè, venutagli appunto allora la nomina di maestro a
San Miniato, dovè subito recarvisi a cominciare la scuola. Gli
mandammo là il libro, ed egli rispondendomi dolevasi che non gli
avessi detto niente dell’accoglienza fattagli dai giornali. «E che
tacciono questi canterini dalle golette fangose? Che il libro fu forse
l’offa tremenda? Oh, oh, oh, direbbe Macbeth. Scrivimi subito, per
Iddio Apollo. Non imitar me tristo annoiato infelice.» Mandava tre
paoli per il libro, scusandosi di non potere di più perchè diceva: «Ho
solamente 77 lire il mese.» Era questo il suo stipendio di insegnante,
che ridotto dalle lire codine alle italiane, fa 64,68; cioè poco più di
due lire al giorno, la paga di un onesto facchino. In quei primi giorni
si trovò male a San Miniato: «Non ho voglia, mi scriveva, di parlarti
della mia vita, ch’è trista e goffa assai.» Ma non era il misero
stipendio che lo angustiava: era la novità del luogo, l’aver lasciato
Firenze, le biblioteche, i banchetti dei librai, gli amici. Tanto è vero
che qualche giorno dopo mostravasi più sereno, e scusandosi del
non aver risposto ad una lettera del Targioni, mi scriveva: «Gli dirai
che mi perdoni: ma in quel tempo che mi scrisse era impossibile mi
distornassi dalla mia scuola. Insegno greco: evviva: faccio spiegare
Lucrezio ai miei ragazzi: evviva me.»
Io non gli avevo scritto niente dell’accoglienza fatta al nostro libro
dai giornali, perchè questi non ne avevano ancora parlato. Ma non
tardarono molto; e le accoglienze, come era da aspettarsi, furono
tutt’altro che oneste e liete; ci fu però una notevole differenza fra
queste e quelle fatte alla Diceria.
Le intemperanze nostre avevano spaventato siffattamente i buoni
fiorentini, che i librai ebbero sulle prime paura del nostro libro, e,
quasi fosse appestato, non volevano prenderlo a vendere.
Ma quando, superate le prime avversioni, il libro fu conosciuto, molti
di quelli stessi che avevano vituperato la Diceria, e seguitavano a
non mandarla giù, resero giustizia, pur non approvando tutte le
nostre opinioni e la fierezza delle nostre polemiche, alla serietà dei
nostri studi e intendimenti: e l’ingegno del Carducci cominciò fin
d’allora, nella cerchia ristretta di una parte dei toscani così detti culti,
ad essere riconosciuto e rispettato.
*
* *
Per quanto l’autore nominale e occasionale della società degli amici
pedanti fosse il Gargani, il vero capo e ispiratore di essa era, si
capisce, il Carducci; la cui vita letteraria cominciò, si può dire, fin
d’allora, con quelli istinti di avversione ed opposizione ad ogni
volgarità e viltà e ciarlataneria, che hanno ispirato e diretto poi
sempre l’opera sua di scrittore. Tanto che, arrivato presso alla fine,
egli ha potuto affermare con piena sincerità, che i principii da lui
seguiti scrivendo, furono sempre gli stessi. «In politica, l’Italia su
tutto: in estetica, la poesia classica su tutto: in pratica la schiettezza
e la forza su tutto.» [17] Che è quanto dire l’italianità su tutto. Questo
era il programma degli amici pedanti: il Carducci che lo avea
formulato lui nella Giunta alla derrata, non fece che esplicarlo ed
applicarlo in tutte le sue opere come poeta, come prosatore, come
insegnante.
Non mette conto parlare di qualche giornalettucciaccio teatrale,
scritto da gente peggio che illetterata, il quale seguitò a blaterare
contro il Gargani e gli amici pedanti. Chi se ne ricorda più? Ma un di
quelli che andava per la maggiore, il Passatempo, seguitò anche lui e
peggio degli altri.
C’era la sua ragione. Il Passatempo era un giornaletto settimanale
umoristico, con caricature, fabbricato quasi clandestinamente in
Palazzo Vecchio, fra i Ministeri dell’istruzione e dell’interno, da Pietro
Fanfani ed alcuni accoliti suoi; i quali prima che uscisse la Diceria
avean fatto l’occhio dolce ad alcuni di noi, e qualche grazioso invito a
collaborare; perchè il Passatempo avea nel suo programma il
corretto scrivere italiano, anzi toscano, anzi fiorentino. Ma uscita la
Diceria, e mentre si preparava la Giunta, il Fanfani e i suoi compagni
capirono dall’atteggiamento nostro che noi eravamo dei rompicolli, il
cui contatto poteva essere pericoloso per impiegati fedeli del
Governo granducale, e che eravamo tomi da rivedere le buccie,
anche nel fatto della lingua, a vocabolaristi e linguisti famosi come il
Fanfani. Perciò si schierarono bravamente contro di noi. Il
Passatempo pubblicò subito nel suo n. 46 (29 novembre 1856) un
feroce articolo contro la Giunta alla derrata, che chiamava un
miserabile affastellamento di arroganti contumelie e di bizze
impotenti, dichiarando che si teneva onorato delle villanie degli amici
pedanti, e che non voleva dar loro il gusto di nessuna risposta; ma
viceversa rispondendo con l’articolo stesso. Del che accortosi,
terminava così: «Ma adagio adagio darei a queste parole aria di
risposta, e così la darei vinta a’ pedanti, dal che Dio mi guardi. La
risposta se la daranno da sè medesimi se mai avviene che mettan
giudizio, la qual cosa per altro è assai dubbia.»[Vedi le note a pag.
443] Pur troppo i pedanti non misero giudizio: seguitarono ancora a
scrivere e combattere con le medesime idee per le medesime idee; e
il Passatempo, che non voleva più occuparsi di loro, seguitò a
gratificarli de’ suoi vituperii, pigliando di mira in particolar modo il
Carducci, specie dopo ch’egli nel luglio dell’anno appresso ebbe
pubblicato il volumetto delle sue Rime.
*
* *
Della sua vita a San Miniato il Carducci ha dato da sè uno specimen
tale, che non permette ad un suo biografo, chiunque ei sia, di dirne
altro. Chi non ha letto in Confessioni e battaglie le Risorse di San
Miniato al Tedesco? Se qualcuno non le ricordasse, vada e le rilegga.
Io qui mi limiterò a rammentare da quello scritto qualche fatto più
notevole, usando, quanto mi sarà possibile, le parole stesse
dell’autore.
Insieme col Carducci andarono al Ginnasio di San Miniato gli altri due
normalisti raccomandati dal professore Pecchioli al proposto Conti,
Pietro Luperini e Ferdinando Cristiani. Pietro, il più anziano dei tre e
il più positivo, dice il Carducci, insegnava umanità (terza ginnasiale);
Ferdinando grammatica (seconda e terza); il Carducci retorica
(quarta e quinta); cioè faceva «tradurre e spiegare a due ragazzi più
Virgilio e Orazio, più Tacito e Dante che potessero; e buttava fuor di
finestra gl’Inni sacri del Manzoni.» [18]
Appena arrivati, i tre maestri «si accontarono con una brigata di
giovinotti, piccoli possidenti e dottori novelli, che passavano tutte le
sante giornate a mangiare e bere, a giocare, amare, dir male del
prossimo e del governo.» [19] Questi giovinotti andavano spesso a
trovare i maestri, che abitavano, tutti insieme e tutta loro, una
casetta nuova subito fuori Porta fiorentina, appigionata ad essi da un
oste, detto Afrodisio, il quale provvedeva ai maestri anche il
mangiare. La casa dei maestri, come il vicinato la chiamava,
cominciò presto ad aver «mala voce all’intorno per i molti strepiti che
vi si udivano di notte e di giorno, ogni qualvolta l’allegra compagnia
la invadesse.» [20]
«Qualche volta, scrive il Carducci, andavamo anche alla méssa, in
domo; e una di quelle mésse m’è ancora in memoria per la lieta
illustrazione di certi quadri o affreschi, che il capo più ameno della
brigata recitava, menandomi in giro per le navate, in istil
bergamasco, contraffacendo il parlare d’una venditrice di castagne
compatriotta del poeta Bernardino Zendrini, e con un sistema critico
di perpetua comparazione tra la figura di san Giuseppe e quella del
sotto-prefetto, che, tutto in nero, ascoltava il divino ufficio nella
prima panca.
»Hinc mihi prima mali labes. Da cotesta bergamascata e dalle mie
smargiasserie di antimanzonianismo mi si levarono intorno i
fumacchi, e ben presto mi avvolsero e tinsero tutto, d’una leggenda
d’empietà e di feroce misocristismo. Assai prima che l’imperatrice
Eugenia avesse a inorridire su i grassi venerdì santi del principe
Girolamo Napoleone e dell’accademico Sainte-Beuve, corse per
Valdarno una spaventosa voce, che io il venerdì santo del ’57 fossi
sceso da San Miniato alla taverna del piano, e all’oste sbigottito
avessi fieramente intimato: Portami una costola di quel p.... di Gesù
Cristo. È vero che in quell’anno io andavo pensando o andavo
dicendo di pensare un inno a Gesù con a motto un verso e mezzo di
Dante, Io non so chi tu sie nè per che modo Venuto se’ quaggiù; ma
è anche vero che quel venerdì santo io ero a Firenze, e quei mesi
studiavo appassionatamente Iacopone da Todi e annunziavo a tutti
la sua gran superiorità su ’l Manzoni e lo salutavo Pindaro cristiano, e
composi una lauda al Corpo del Signore. Il che tutto non impedì che
non mi fosse avviato un processo; e un processo di tal materia a
quegli anni in Toscana poteva menar lontani. Per fortuna che del ’57
anche c’era in Toscana, pur all’ombra della cappamagna di santo
Stefano, del buon senso parecchio e dell’onestà.» [21]
*
* *
Il Carducci parla poi delle visite che nelle belle domeniche d’aprile, di
maggio e di giugno gli andavano a fare da Firenze il Nencioni, il
Gargani e il Chiarini, del chiasso e delle bizzarrie che facevano, lui
specialmente e il Gargani; d’un suo amoretto, che non durò, dice lui,
cinque giorni; e finalmente della proposta di stampare le sue poesie,
fattagli un bel giorno dal Cristiani, per potere col guadagno ch’ei ne
sperava pagare i loro debiti all’oste e al caffettiere.
«Le poesie, scrive il Carducci, massime allora, io le faceva proprio
per me: per me era de’ rarissimi piaceri della mia gioventù gittare a
pezzi e brani in furia il mio pensiero o il sentimento nella materia
della lingua e nei canali del verso, formarlo in abozzo, e poi
prendermelo su di quando in quando, e darvi della lima o della
stecca dentro e addosso rabbiosamente. Qualche volta andava tutto
in bricioli; tanto meglio. Qualche volta resisteva; e io vi tornavo
intorno a sbalzi, come un orsacchio rabbonito, e mi v’indugiavo
sopra brontolando, e non mi risolvevo a finire. Finire era per me
cessazione di godimento, e, come avevo pur bisogno di godere un
poco anch’io, così non finivo mai nulla.» [22]
La risposta del Carducci al Cristiani aspettante, e che pur tacendo
parlava, fu un bel no; e il Cristiani se ne andò, scrollando la testa.
Ma l’oste e il caffettiere tempestavano coi loro conti; il tipografo,
messo su dal Cristiani, offeriva un’edizione economica e trattamento
da amico; e così andò a finire che il Carducci cedè, e la stampa delle
sue poesie fu deliberata.
Se gli amici nelle belle domeniche d’aprile, di maggio e di giugno
andavano a San Miniato a trovare il Carducci, anch’egli, quando avea
due o tre giorni di vacanza di seguito, andava a Firenze a trovare gli
amici. Il 19 febbraio mi scriveva da Santa Maria a Monte, dove fino
dal giovedì grasso era andato a cercare della caccia da portare a
Firenze per fare un desinaretto cogli amici: «Sabato il giorno sarò a
Firenze con quattro grossi e belli uccelli di palude, dei quali tre
moriglioni e un’arzavola da farne un umido stupendo. Voi preparate,
se si deve fare il pranzo domenica.» Mentre scriveva era di così
cattivo umore, che neppure l’idea del pranzo bastava a rasserenarlo.
«La inerzia mia, proseguiva, è grande: la noia della vita è giunta a
tal grado che io non posso sopportare più me stesso: io non faccio
più nulla: non farò più nulla: tutto è vanità, anche la letteratura e la
gloria. Perchè perdere il mio tempo e la mia salute a far commenti e
poesie? No, non faccio più nulla e non farò più nulla: e faccio bene.»
Era uno di quei momenti di scontentezza da cui il Carducci non di
rado era preso, ma che fortunatamente passavano presto: e
contribuiva sopra tutto a farli passare lo studio e il lavoro. Venne, si
fece il pranzo, che fu lietissimo, e passammo insieme lietamente gli
ultimi giorni di carnevale. Tornato a San Miniato, scrisse nel marzo
l’ode alla beata Diana Giuntini, e attendeva a correggere e finire le
altre poesie che voleva stampare.
Il primo d’aprile, mandandomi il manifesto per la pubblicazione del
volumetto mi scriveva: «Jacta est alea! Il manifesto per le mie Rime
toscane è stampato: nè posso più ritrarmi. Pensa a persuadere il
Targioni che la cosa non è fatta male, avuto riguardo a’ debiti grandi
ch’io mi ritrovo. Per l’amor di Dio, non mi fate rimprovero ora perchè
altramente troppo pensiero me ne piglierebbe.... Il libro sarà
composto di una prefazione in prosa lunga assai, di una prefazione
in versi: poi, 1º libro, sonetti: 2º libro, odi: 3º libro, ballate: 4º libro,
canti. — Due altri sonetti ho fatto, e finito secondo il costume
pagano l’ode alla beata Diana, che è la più di gusto antico fra le mie
odi oraziane. Il tutto sentirete a Firenze, chè ora non ho voglia di
scrivere più oltre.»
*
* *
Nel maggio lavorò moltissimo a compiere e correggere le poesie da
mettere nel volumetto, del quale aveva già cominciato la stampa, e a
comporne delle nuove. Prima del 20 aveva finito l’ode Agli Italiani, e
aveva scritto, fra altri versi, il principio del Canto alle Muse, che, mi
scriveva, «per l’anima d’Omero, sono i migliori versi ch’io abbia mai
fatto.» E anche a me quando poi me li mandò manoscritti, parvero
bellissimi, e glie ne scrissi lodandoli entusiasticamente. Ho voluto ora
rileggere il lungo frammento intitolato Omero, ch’egli accolse poi
nelle edizioni successive delle poesie; e (perchè non dirlo?) ho
trovato giustificabile e giustificato il mio giudizio entusiastico di
quarantacinque anni fa. Quei versi mi paiono ancora belli quanto i
più belli del Foscolo; ma si capisce che, se non ci fossero stati prima
il Foscolo, il Monti e il Leopardi, il Carducci forse non li avrebbe
scritti, certo non li avrebbe scritti a quel modo. Il 26 mi mandava le
prove di stampa dei sonetti, che allora erano 28, e furono ridotti a
25; il 6 giugno avea finito l’ode A Febo Apolline, cominciata il 25
novembre 1851 a Firenze, e ripresa soltanto a San Miniato nel
dicembre 1856.
Nel luglio ebbe per un momento l’idea di prender parte al concorso
allora aperto per la cattedra di eloquenza italiana nell’Università di
Torino. «Se vi fossero nomi famosi, mi scriveva, non avrebbero
aperto il concorso: io avrei caro di sapere se vi paresse audacia il
presentarmi anch’io.» Io non so che cosa gli rispondessi; ma
probabilmente l’idea gli passò via subito ed egli non ne fece altro.
Mentre attendeva alla stampa delle poesie, che fu compiuta in poco
più di due mesi, dal maggio al luglio (il volume fu pubblicato il 23),
era agitato da sentimenti diversissimi, ora di eccessiva depressione,
ora di esaltazione non meno eccessiva. L’8 di giugno mi scriveva:
«Poco importami vedere il mio nome stampato in cima a una ventina
di componimenti, che pochissimi intenderanno, due o tre leggeranno
sbadigliando senza intendere, tutti disprezzeranno, e più quelli che
meno li avranno intesi! Ahi stoltezza stoltissima tutto, e lo studiare e
il credere alla fama e il desiderarla, e più grande stoltezza stoltissima
il credere e pretendere di pensare bene soli fra milioni che ridono o
compatiscono, e dirlo in faccia a cotesti milioni, e pigliarci il
maledetto sdegno. Ragazzaccio impertinente, avrebbon ragione di
dirmi gl’italiani, e chi se’ tu che col latte ancor su le labbra pretendi
sedere a scranna e insultare noi venticinque milioni? Degna tua
punizione il sorriso e lo scappellotto. Sta bene! E io, siccome quegli
che fo un gran gridare con picciolette forze, a mo’ della rana e della
cicala, dovrei pigliarmi lo scappellotto, e buci. Presunzione da
ragazzi: per dire a un secolo intero, tu fai male, altre faccie voglionsi
che la mia, altri studi, per Dio! Or sia così, e gl’italiani mi deridano e
mi piglino a scappellotti; bene sta: nè io fiaterò. Orgoglio! come se
gl’italiani volessero curarsi del librettuccio mio, il quale dalle mani di
pochi ragazzi e giovanetti passerà, come dicea fra Gargani, a
formare aquiloni a’ fanciulli, e anime a dipanar gomitoli alle
signorine.»
*
* *
Con una lettera successiva, annunziandomi che la stampa del libretto
era finita, e giurando e spergiurando che, salvo il Mamiani, il
Gussalli, il Ferrucci, il Mordani, il Tommaseo e il Thouar (solo tra’
fiorentini), nessun altro dovea averlo in regalo, diceva tra le altre
cose: «O belve di trecentomila capi, Giosue Carducci non vi
presenterà il libretto suo, perchè gli diciate che è un giovane di
buone speranze, se si converte alla buona filosofia. No, bestioni, io
sputerò in faccia alla vostra filosofia: e vo’ credere nelle Muse e in
Apollo sempre: e quando sarò per morire mi farò leggere Omero: e
non sia vero che intorno a me siano preti. Mi farò bruciare sopra un
rogo di legna di pino, a cui sottostaranno tutti i miei libri. Sì, sì, viva
Apollo Febo lungioprante, Patareo, Delio, Cinzio, e moia chi dice di
no.... Per Iddio Apollo, di’ ch’io credo assolutamente nella religione
d’Omero, e che io non iscrivo di mitologia per imitazione o perchè sia
uno scolaretto, ma perchè credo che vera poesia, hai inteso, vera
poesia non è che là.»
All’ultim’ora il Carducci dimise il pensiero delle due prefazioni, una in
prosa e l’altra in versi, della divisione delle poesie in quattro libri e
d’una piccola introduzione esplicativa dei saggi del Canto alle Muse,
che doveva essere indirizzata al maestro suo Michele Ferrucci; e il
libretto uscì composto soltanto di venticinque sonetti, di dodici Canti
e dei detti Saggi di un Canto alle Muse. Tra i Canti erano comprese
due ballate di stile antico e la Lauda spirituale per la processione del
Corpus Domini. Una delle ballate, La bellezza ideale, era dedicata al
Padre Barsottini, l’altra, Ultimo inganno, a Francesco Donati delle
Scuole Pie, la Lauda spirituale a Giulio Cavalocchi; alcuni sonetti e la
maggior parte dei Canti erano indirizzati o dedicati ad amici (Chiarini,
Tribolati, Nencioni, Targioni, Buonamici, Pazzi, Cristiani, Gargani,
Panicucci); i saggi del Canto alle Muse erano dedicati a Michele
Ferrucci. Era premessa alle poesie questa dedicatoria: «A voi|
Giacomo Leopardi e Pietro Giordani| viventi| queste mie rime| come
ad autori e maestri| offerto avrei vergognando| le quali parmi ora
superbo| consecrare| alla memoria di voi grandissimi| io
piccolissimo.|»
Inutile dire che lo scopo del libro, quello cioè di pagare i debiti, non
fu raggiunto. «I debiti, scrive il Carducci, anzi che estinguere,
dilagarono,» tanto che dovettero intervenire i babbi e le mamme a
pagarli; «e le Rime rimasero esposte ai compatimenti di Francesco
Silvio Orlandini, ai disprezzi di Paolo Emiliani Giudici, agl’insulti di
Pietro Fanfani.» [23]
Alla fine d’agosto il Carducci abbandonò San Miniato, per andare a
passare alcuni giorni in famiglia a Santa Maria a Monte, e di lì si recò
nella prima metà di settembre a Firenze.
CAPITOLO IV.
(1858-1860.)
Il sonetto alludeva appunto agli errori che gli amici pedanti avevano
trovato in alcuni libri curati dal Fanfani per gli editori Ricordi e
Barbèra.
*
* *
La guerra accesa dalla Diceria e dalla Giunta, invece di posare, si era
rinfocolata più terribile e più accanita dopo la pubblicazione delle
Rime del Carducci, sulle quali i giornali e i giornalisti avversari degli
amici pedanti, con a capo il Fanfani, si erano gettati rabbiosamente,
facendone uno strazio bestiale.
Bestiale, perchè, pur ammesso che il giudizio dei critici potesse
essere in parte traviato dalle bizze personali, le più di quelle critiche
dimostravano l’assoluta incapacità nei loro autori d’intendere poesia.
E gli amici pedanti, i quali erano in buona fede convinti che nelle
Rime ci fosse la rivelazione di un ingegno poetico vero, e che ciò che
i critici vituperavano e schernivano fosse appunto la rivelazione di
quell’ingegno, non erano disposti ad ammettere che in quelle critiche
ci potesse essere niente di ragionevole.
Del Carducci è inutile dire se gli prudevano le mani. Egli aveva
specialmente allora una gran voglia di scrivere poesie satiriche, ed
era tutto contento quando gli se ne porgeva occasione.
Appunto in quel tempo, fra l’anno 1857 e il 1858, compose la
maggior parte dei sonetti burleschi, che sono ora raccolti nel libro V
dei Juvenilia, ed altri che, come ho accennato, rimasero inediti. Gli
stampati ad eccezione dei primi tre e di quello Sur un canonico che
lesse un discorso di pedagogia, si riferiscono tutti alle scaramuccie
degli amici pedanti col Fanfani e gli altri scrittori del Passatempo.
Il Fanfani pubblicò le sue critiche alle Rime del Carducci, invece che
nel suo giornale, in un altro, La Lanterna di Diogene, adducendo a
ragione del suo scrivere lo scandalo suscitato, diceva lui, fra le
persone serie da un articoletto laudatorio di esse Rime, nel quale il
Carducci era chiamato il miglior poeta italiano dopo il Niccolini e il
Mamiani. Quell’articoletto, firmato E. M., era stato scritto da un
avvocato Elpidio Micciarelli, amico del Targioni, e pubblicato nella
Lente; e pur nella Lente il Carducci rispose ai primi due articoli del
Fanfani; il quale rincarò la dose delle impertinenze negli altri.[Vedi le
note a pag. 453]
Oltre questi articoli, il Fanfani compose anche un lungo sonetto con
la coda parodiando le Rime del Carducci. Poichè il Carducci saettava
lui ed i suoi di versi satirici, anche i Passatempisti non vollero essere
da meno. Non ricordo o non ritrovo se il sonetto del Fanfani fosse
pubblicato; credo di no: noi ne avemmo copia da Giulio Cavaciocchi,
che bazzicando il Ministero della istruzione conosceva il Fanfani, e
faceva come da gazzettino fra i due partiti belligeranti.
*
* *
Ai tanti giornaletti settimanali, che pullulavano allora in Firenze,
l’avvocato Micciarelli ne aggiunse nel gennaio del 1858 un altro, che
battezzò col nome di Momo, e che mise a nostra disposizione. Nel n.
12 di questo giornale (26 marzo 1858) furono pubblicati i due sonetti
satirici del Carducci, A Messerino e A Bambolone, che sono i LXXVIII
e LXXX del libro V dei Juvenilia nella edizione delle Poesie. Ma nel
giornale furono stampati con qualche leggera variante e con
intitolazione diversa: Bambolone era chiamato Caracalla, e
Messerino, Rondellone; e c’era innanzi ai sonetti questa minacciosa
rubrica: «Sonetti due, cavati da un Ms. che sembra appartenere al
secolo XVI exeunte, e che si trova, a cercarlo, nella Biblioteca di
Parigi, dove altri molti ne sono di simiglianti.»
Sotto il nome di Caracalla si nascondeva uno dei consorti del Fanfani,
canzonato dal Carducci nell’altro sonetto, Il Burchiello ai linguaioli
(LXXVII, lib. V Juvenilia). Rondellone, o Messerino, era Giuseppe
Polverini, editore e proprietario del Passatempo, un buon diavolo,
mezzo letterato anche lui, che, fregandosi al Fanfani e agli altri
scrittori del suo giornale, s’era impolverato di letteratura e aveva
scritto e stampato delle prose e dei versi. Il Cavaciocchi ci era venuto
a riferire ch’egli andava dicendo di voler pagare dei ragazzi i quali,
prendendo a fischi gli amici pedanti tutte le volte che uscivano per le
vie, li costringessero a scappare di Firenze; e il Carducci aveva scritto
il sonetto.
Quasi in risposta ai due sonetti del Carducci pubblicati nel Momo, il
Passatempo nel suo n. 14, anno III (3 aprile 1858), pubblicava un
sonetto caudato con questo titolo: «Il trionfo di Farfanicchio
arcipoeta, o del Gigante da Cigoli, che abbacchiava i ceci con le
pertiche: diceria in versi di un poeta che non è poeta.» Farfanicchio
era, si capisce, il Carducci. Il sonetto, come gli altri scritti del
Passatempo, non portava firma; ma era stato composto (sapemmo)
da Antonio Fantacci, uno degli scrittori più ingegnosi e più culti del
giornale, e, a differenza di quello del Fanfani, non mancava di spirito.
[Vedi le note a pag. 453]
Lo stesso numero del Passatempo aveva in fine della quarta pagina
la caricatura degli amici pedanti, cioè del Carducci, del Targioni e di
me. (Il Gargani, da un pezzo fuor di Firenze, non aveva preso parte
alle nostre ultime lotte.) In una specie di quadro erano disegnati su
in alto i ritratti del Manzoni, del Gioberti, del Grossi, del Tommaseo, e
giù in basso gli amici pedanti, che inforcando dei cavallini di legno
movevano in guerra contro quei grandi; da un lato il Targioni con in
mano una targa, in mezzo il Carducci con in mano un cardo da
cardare la lana, dall’altro lato io con una trombettina dal collo lungo
e stretto.
Il Momo pubblicò più tardi, nel n. 26 (1º luglio), un articolo di lode
sulle Rime del Carducci, togliendolo dalla Rivista contemporanea di
Torino; e più tardi ancora, nei nn. 33 e 35 (19 agosto e 2
settembre), riprodusse un articolo, pure in lode delle Rime,
composto da Giuseppe Puccianti, e già stampato in un giornaletto
pisano, L’Osservatore. In questo giornaletto, compilato dal Puccianti
stesso e da altri amici di Pisa, scrivevamo di tratto in tratto anche
noi. Il Carducci vi pubblicò l’ode I voti con una mia breve
introduzione e l’ode A Diana Trivia.
Gli attacchi del Passatempo contro gli amici pedanti in quell’anno
1858 non si limitarono al sonetto su Farfanicchio e alla caricatura. E
prima e dopo, facendo la rassegna del Momo, ce ne diceva di tutti i
colori. Ciò, lungi dal turbarci, ci metteva di buon umore, dandoci
materia e occasione a proseguire la battaglia.
*
* *
Ma non la pensava come noi il buon Silvio Giannini, che, amico ed
estimatore del Carducci, vedeva di mal occhio quelli attacchi feroci
contro il giovane poeta. E sperando di farli cessare coll’intervento di
un giudice autorevole, scrisse al Guerrazzi domandandogli il suo
parere intorno alle Rime. Avuta la risposta, la mandò al Direttore del
Passatempo, con preghiera di pubblicarla: e il Passatempo la
pubblicò, per mostrare (così diceva un breve cappello premesso alla
lettera) «che le cose dette contro il Carducci non furono dettate da
animosità verso la sua persona, o da poca stima del suo ingegno,
ma dal cruccio di vedere che egli il suo ingegno spendeva in misere
dispute ed in servigio di una fanciullesca fazione letteraria che era lo
spasso e lo scherno di Firenze.» Quest’ultima era una pretta bugia,
poichè il Passatempo sapeva benissimo, e lo aveva detto e lo
ripeteva, che il Carducci era lui il capo della fazione (se fazione
poteva chiamarsi). La dichiarazione poi di stima al Carducci era tanto
poco sincera, che il Passatempo d’allora in poi seguitò a blaterare
contro di lui peggio di prima. Ne vedremo fra poco un saggio a
proposito dell’ultima e fiera polemica che il Carducci ebbe con esso
per una poesia di Isidoro Del Lungo.
Ecco la lettera del Guerrazzi al Giannini, che fu pubblicata nel n. 16,
anno III del Passatempo (17 aprile 1858).
«.... Ho scorso le poesie del Carducci. Che posso dirgliene io? Penso
che pessimamente adoperarono a suonargli le tabelle dietro: mi
maraviglio della insolita inurbanità e me ne affliggo pel mio paese.
Ormai della fama di gentilezza più poco gli avanza; voglia pertanto
tenerla cara. Di più: il giovane, il quale invece di commettersi alle
dissipazioni coltiva gli studii, e non pure si mostra schivo, ma
impreca ai vizii, facile e non irrimissibile peccato degli anni, merita
conforto, e di molto, massime considerati i tempi. Quanto a lingua e
a concetti, vuolsi adoperare carità e ammonimenti fraterni, non ira
nè scherno, anco avendo ragione: ma i critici l’hanno? Le più volte
no. Infatti, io mi sento poca cosa: non mi state a dire di no: io
conosco benissimo quanto peso: nondimeno la Italia condotta alla
liquidazione, mancatele le pezze di panno rosato, mette fuori i suoi
scampoli, fondi di magazzino, e di questa ragione ciarpe, e ci entro
anco io. Eppure, se lo rammenta, signor Silvio? A Livorno mi presero
a fischi. Cosicchè; se la natura non mi avesse regalato un’anima di
leccio, mi sarei ripiegato come un lombrico, e come lui, rannicchiato
sotto terra. Io al Carducci avvertirei: Bada, figliuolo mio, dubito che
tu erri in lingua, e in concetti; in lingua, che deve con lungo amore
ricavarsi dai Classici, non per rimetterla cruda nei tuoi scritti, bensì
per farne impasto il quale sia ben tuo, e fuso al tuo fuoco, e
plasticato alla tua maniera: altra cosa è imitare, altra è copiare; anzi,
neppure imitare mi garba, e tu copii, copiare è da scimmie; imita il
comune degli uomini; l’ingegno forte, piglia e fa suo.
»Alla servilità della parola dà incitamento la servilità del pensiero.
Imperciocchè, che abbachi mai con l’aura greca e con la latina? Io
temo forte, che il tuo maestro non t’abbia soffiato sul cervello
un’aura di pedanteria, e reso tale come una foglia di platano a
mezzo novembre. Che concetti meschini, che pensieri scemi sono
eglino questi? Tu non hai ad essere latino, nè greco, come nè anco
francese o tedesco, bensì italiano, e dei tuoi tempi; perchè ogni
letteratura deve porgere ai futuri testimonianza della età in cui fu.
Non sentire come Orazio, non pensare come Pindaro: da te senti e
pensa. Che grulleria è cotesta di spregiare quanto ignori? Inghilterra,
Germania e (mirabile a dirsi!) la Scandinavia e la Persia possiedono
tesori di poesia per splendore d’immagini, per squisitezza di
sentimento, tali, appo cui impallidisce quanto conosci di greco, di
latino, ed anco, ohimè! di italiano. Tutto guarda, tutto esamina;
allargati la mente: la mente umana, meglio del Panteon, deve dar
posto a tutti gli Dei. Medita, di nuovo medita; questo viene da
volontà: e poi senti; e questo altro ti darà natura; e quando spirano
dentro amore ed entusiasmo, nota, e sarai poeta; chè molto di
favore ti compartiva il cielo. Di questo mi contento: leggi, prima di
poetare da capo, il quarto canto del Fanciullo Aroldo di Byron; e poi
ci riparleremo.
»Ecco come avrei ammonito il suo amico Carducci. Ed Ella perchè
non lo ha fatto? E se nol fece, e perchè non lo fa? Lo avvisi, lo
conforti anche da parte mia, e rassicuri che le ali ei le ha; solo che
sappia volare. Ami e veneri il suo maestro Ferrucci, ma cammini da
sè.... Genova, 12 aprile 1858.»
*
* *
Nella lettera del Guerrazzi erano, come si vede, molte osservazioni
giuste; ed egli ebbe il merito di sentire l’ingegno del giovine poeta
anche attraverso le imitazioni dei classici; ma non capì e non poteva
capire come quelle stesse imitazioni fossero indizio di un ingegno
che in esse e per esse cercava la via di riconoscere ed esplicare la
propria originalità. Il povero Michele Ferrucci, sospettato dal
Guerrazzi di aver soffiato nel cervello del suo alunno un’aura di
pedanteria, era innocentissimo delle imitazioni oraziane del Carducci
e della sua idolatria per i classici. Quelle imitazioni poi erano tanto
poco effetto di pedanteria, che prepararono le Odi barbare; ciò che
intravide il Mamiani.
Dove il Guerrazzi aveva ragione era nel rimproverare al Carducci il
disprezzo per le letterature straniere; disprezzo forse più ostentato
che vero, del quale il poeta si guarì ben presto da sè, senza però
arrivar mai, credo, a persuadersi che la poesia scandinava e persiana
fossero superiori alla latina e alla greca.
Dodici anni più tardi il Carducci, parlando delle sue poesie giovanili, e
dichiarando che aveva riconosciuto quel che c’era di vero in alcune
delle critiche fattegli, così riassunse e giudicò le critiche stesse:
«Tutti si accordavano nell’accusarmi d’idolatria per l’antichità e per la
forma: pur taluno avrebbe usato misericordia all’aristocrazia del mio
stile, se gl’inni a Febo Apolline e le odi a Diana Trivia non fossero
apparsi in tanto folgorare di bello cristiano veri e propri peccati. I
giornali teatrali poi si detter faccenda per insegnarmi la lingua: un
maestro di scuola, che aveva dell’autorità in critica sbalordì la gente
empiendo mezza una pagina del novero di tutti i classici da me
imitati, fra i quali Pindaro, ch’io aveva così imitato com’egli letto: un
sopracciò dei modi di lingua, autore di scritti lepidi che egli chiama,
non si sa perchè, capricciosi, per certi versi sciolti nei quali ei
pretendeva ch’io scimmieggiassi i greci, mi paragonò, parmi, ad
Arlecchino: un terzo, molto affocato per la congregazione di San
Vincenzio di Paola e scrittore di strofette religiose che dell’evangelio
avevano l’umiltà e gli et, si affaticava a persuadermi come l’uomo
anche in poesia conviene mostrarsi qual è, nè più nè meno: e io ne
sarei andato d’accordo, ove non ci fosse stata di mezzo una
difficoltà, ch’ei voleva ch’io mi mostrassi qual era lui: un quarto,
critico e storico molto riputato, affermava fra amici che quel libretto
accusava il difetto assoluto d’ogni possibile facoltà poetica
nell’autore.» [24]
Il critico e storico molto riputato era Paolo Emiliani Giudici; il
sopracciò dei modi di lingua era (si capisce) il Fanfani; il maestro di
scuola non mi ricordo se l’Orlandini, o il Bianciardi; dell’altro, che
oggi nessuno ricorda, è inutile fare il nome.
*
* *
Nei primi giorni del suo arrivo a Firenze il Carducci si alluogò per
qualche tempo in alcune stanze a un primo piano di faccia alla casa
abitata dalla famiglia Menicucci in via Mazzetta: quelle stanze erano
state prese in affitto da uno della famiglia stessa; della quale Giosue
era spesso ospite quando si trovava a Firenze.
Francesco Menicucci, un bel tipo di popolano fiorentino, degno
d’essere vissuto ai tempi della repubblica, si era sposato in seconde
nozze con una Celli sorella della madre del Carducci, ed aveva, tra
altri figli del primo letto, una figliuola di nome Elvira dell’età presso a
poco di Giosue. Bazzicando questi per casa fin da quando andava
alle Scuole Pie, i due giovani si erano innamorati, e, poi, coll’assenso
dei parenti d’ambo le parti, fidanzati. Il Menicucci, buono e
brav’uomo, se altri mai, aveva nel suo salotto da pranzo, fra i busti in
gesso di Dante, del Machiavelli e d’altri grandi italiani, una piccola
biblioteca storico-politica, e nella testa un gran guazzabuglio
d’avvenimenti e d’uomini dell’antica Roma e di Firenze repubblicana;
nomi e avvenimenti che poco o molto entravano sempre in tutti i
suoi discorsi politici, e anche non politici. Egli aveva preso viva parte
ai moti rivoluzionari del 1848; nei quali la sua gigantesca figura e
l’anima bollente e irrequieta gli avevano naturalmente fatto
rappresentare la parte di capopopolo. Una volta, mi fu detto, trascinò
da sè solo un cannone dalla Fortezza da basso a non so quale altra
parte della città; e si trascinava dietro, con la voce tuonante, coi
gesti energici e con le grosse parole, il popolo, che a quei tempi era
sempre per le strade a fare dimostrazioni. Inutile dire ch’egli aveva
per Giosue un’ammirazione senza confini; e i discorsi di lui, ch’egli
ascoltava avidamente, andavano ad accrescere il guazzabuglio di
parole e d’idee che fermentava nella sua testa.
Gli amici pedanti erano soliti radunarsi la sera in casa dell’uno o
dell’altro a leggere, a conversare, a disputare. Una sera si
radunarono in casa Menicucci, dove Giosue aveva allora i suoi libri, e
dopo una breve discussione si stabilì di leggere Orazio. Il Menicucci,
ch’era presente, chiese il permesso di assistere alla lettura, dicendo:
Io non so il latino, ma quella bella lingua mi piace molto a sentirla
leggere. Andammo nella stanza dove erano i libri, e quando la lettura
stava per cominciare egli domandò sottovoce ad uno dei convenuti:
Sono le poesie di Orazio Coclite?
Per lui stare a sentire i nostri discorsi era un gran piacere; e noi, che
gli volevamo tutti un gran bene per la sua grande bontà, e per
l’adorazione ch’egli aveva per il Carducci, sopportavamo volentieri i
suoi discorsi anche quando, come spesso accadeva, non riuscivamo
a cavarne gran costrutto.
Io che stavo vicinissimo a lui di casa, in via Romana presso la
piazzetta di San Felice, lo incontravo spesso, ed egli mi fermava
sempre per parlarmi di Giosue. Quando questi ebbe a San Miniato
quell’amoretto del quale parla nelle Risorse di San Miniato al
Tedesco, [25] una leggera nube turbò momentaneamente le relazioni
di lui con la famiglia Menicucci. Durante quel breve tempo io credei
che il povero signor Francesco volesse impazzire. Egli veniva a
cercarmi quasi tutte le sere, aspettandomi quando io uscivo di casa,
e non sapeva parlarmi d’altro: nei suoi discorsi c’entravano sempre,
si intende, gli uomini di Plutarco, e qualche sentenza del Machiavelli,
che non mi rammentavo di aver mai letta nelle opere del Segretario
fiorentino. Io cercavo di acquetarlo e di assicurarlo che tutto si
sarebbe accomodato; e ciò gli faceva un gran piacere.
*
* *
Una mattina dei primi di novembre (1857) mi capita a casa il
Targioni, commosso e spaurito. Io era sempre in letto. — Vèstiti
subito, mi dice; dobbiamo andare da Giosue a dargli una triste
notizia: suo fratello Dante si è ucciso. — Io non avrei dato fede a
quelle parole, se la faccia di chi le pronunziava non ne avesse
confermata pur troppo la verità. Andammo. Sentendo la nostra voce,
Giosue saltò giù dal letto, e mezzo vestito venne ad aprirci: era ilare
e lieto, e ci accolse scherzando: ma al nostro turbamento e alle
nostre prime parole, si rannuvolò, capì che qualche grave sciagura
doveva essere accaduta, e appena uno di noi pronunziò il nome di
suo fratello, egli disse: Non mi nascondete la verità, è morto, si è
ammazzato.
Andò per alcuni giorni a casa, ove scrisse la canzone Alla memoria di
D. C.; e tornato a Firenze prese in affitto, nei primi del 1858, una
camera mobiliata in via Romana al secondo piano della casa, dove al
primo abitavo io colla mia famiglia.
Tornò triste e accorato, non pure della morte del fratello, ma delle
condizioni in cui aveva lasciato la famiglia, specialmente il padre, che
affranto dal tragico caso cadde malato e non si riebbe più.
Appunto per ciò bisognava vivere, bisognava cercare nel lavoro
l’oblio dei mali, e il modo di affrontare l’avvenire che si avanzava
scuro e minaccioso. Ciò sentì istintivamente il Carducci, e riprese la
sua vita di lavoro e di studio, con nessun altro diversivo che la
compagnia degli amici e i colloqui con la fidanzata.
Passava tutto il suo tempo nelle biblioteche, e in casa a studiare e a
scrivere, e dava qualche lezione. Una delle sue passioni più grandi
erano i codici e le edizioni rare delle poesie antiche. Veniva fin
d’allora preparando i materiali per quella mirabile edizione delle
poesie italiane del Poliziano, che potè perciò compiere anche stando
a Bologna. Noi ci vedevamo allora tutti i giorni, e le ore del
pomeriggio e la sera le passavamo sempre insieme. Quando aveva
scritto qualche cosa che voleva farmi sentire, picchiava nel
pavimento, ed io che avevo la mia camera sotto la sua, mi affacciavo
alla finestra, ed a lui già affacciato, dicevo: Ora vengo. Così sentii a
uno a uno, appena composti, la maggior parte dei sonetti satirici
contro i nemici degli amici pedanti.
Ho accennato alle nostre radunanze serali, a proposito di quella di
casa Menicucci. Queste radunanze si tenevano ordinariamente in
casa mia, e furono inaugurate il 17 febbraio 1858, prima sera di
quaresima, e prima del simposio dei sapienti, come fu scritto a piè di
certi versi burleschi composti in comune quella sera stessa; nella
quale, invece del ponce, ch’era la bevanda di rito, si bevve un certo
caffè, che doveva essere prelibato, e non fu niente di particolare.
*
* *
Ma, prima di quel tempo, e dopo, qualche radunanza fu tenuta a San
Giovannino nella cella del Padre Francesco Donati, il quale ci
preparava colle sue mani dei ponci che rimasero famosi. Il Carducci li
rammentava anche qualche anno dopo, andato a Bologna. In una
lettera del 7 febbraio 1861 rileggo queste parole, che mi risvegliano
molte dolci memorie. «Salutami di grandissimo cuore il gran Padre
Consagrata, e digli come io spasimo per lui, ed amerei essere,
piuttosto che qui in questo tristo giovedì grasso, nella sua cella a
bere quei famosi ponci, come nel felice 1856 e 1857.» Padre
Consagrata era il soprannome che il Carducci aveva messo per
ischerzo al Donati, facendogli un sonetto, che ora dopo tanti anni mi
rifiorisce nella memoria.
Al sonetto doveva seguitare una lunga coda, di cui non fu scritta che
la prima strofe, che non ricordo interamente.
Il Donati, nato a Serravezza nel 1821, e fattosi scolopio a 24 anni,
era stato chiamato nel 1856 a Firenze ad insegnare filosofia e
matematiche in San Giovannino. Uomo di larga cultura, non solo
letteraria, ma anche scientifica, coltivava, oltre gli studi matematici,
quelli di scienze naturali; ma la sua passione più grande in quelli
anni era la lirica toscana dei primi secoli. Studioso della bella lingua e
dei canti popolari della sua Versilia, nei quali trovava tanta analogia
con la lingua e la poesia toscana del trecento, scriveva sonetti,
ballate e canzoni, ma sopra tutto ballate all’uso antico, con qualche
contemperamento di moderno e di popolare. Ne scrisse molte, che
rimasero tutte inedite, ad eccezione di due o tre d’argomento sacro,
una delle quali sull’annunciazione della Madonna, stampata, parmi, a
pochi esemplari. Alludendo a questo suo amore per la poesia antica,
il Carducci, nella lettera con la quale m’incaricava di salutarlo,
soggiungeva: «Digli che se egli, purista ferocissimo, mi tien sempre il
broncio, a cagione dei decasillabi e dell’edizione del Rossetti (della
quale però ho le mie buone ragioni), gli preparo un volumetto di —
Rime di M. Cino e degli altri poeti del secolo XIV — raccolte da
moltissimi libretti, e confrontate su molti e varii e preziosi libri
stampati, e scelte con tal gusto, che beato lui quando le vedrà.»
A mostrare l’agilità dell’ingegno e la larghezza di cultura del Donati,
basterà ch’io dica ch’egli scriveva anche di filologia italiana con
sicurezza di dottrina ed acume di critica, che pubblicò un Saggio di
un glossario etimologico di voci proprie della Versilia, un Discorso
Della poesia popolare scritta, e con un suo libretto molto singolare e
ingegnoso propose una nuova maniera d’interpretare le pitture ne’
vasi fittili antichi.[Vedi le note a pag. 453] Anche lui, come il Gargani,
come il Cavaciocchi, come il Nencioni, il Targioni ed altri amici e
conoscenti nostri di quel tempo, non può leggere queste pagine, che
io per tale rispetto scrivo con un grande senso di rammarico.
*
* *
Oltre il Carducci, convenivano alle nostre radunanze del 1858 il
Nencioni, il Cavaciocchi e il Targioni: il Gargani era allora a Volterra
precettore in una casa privata. Leggevamo di preferenza l’Ariosto, il
Berni, i canti carnescialeschi ed altre poesie antiche; ma nelle sere
che la compagnia era al completo, oltre che leggere, si scherzava e
si faceva del chiasso, un gran chiasso: s’improvvisavano, a un verso
per uno, sonetti con la coda ed altre poesie satiriche dirette sempre
contro qualcuno dei letterati fiorentini, che avevamo già sferzati nella
Giunta alla derrata, e che ora si sfogavano a dir male delle poesie del
Carducci. In una delle sere di febbraio scrivemmo, ad imitazione dei
canti carnescialeschi, un Canto di Lanzi che vanno a distruggere San
Miniato, facendo così poeticamente le vendette dell’amico ch’era
dovuto scappar di là perdendo il suo misero impiego. Quando
eravamo il Carducci ed io soli, si studiava più sul serio, con piacere
non meno grande: ho sempre viva nella memoria la sodisfazione
ch’io provava traducendo con lui Omero.
In mezzo a questi svaghi, agli studi e alle polemiche letterarie, il
Carducci fece la conoscenza di Gaspero Barbèra, al quale fino dai
primi d’ottobre del 1857 aveva proposto una edizione di tutte le
opere italiane di M. Angelo Poliziano. Il Barbèra aveva fondato da
poco, in compagnia d’altri, una casa editrice, e cercava chi potesse
lavorargli per la parte letteraria. Cosicchè fu felice di trovare nel
giovane capo degli amici pedanti il collaboratore di cui aveva bisogno
e che subito riconobbe prezioso. Dopo qualche primo esperimento,
non molto fortunato, il nuovo editore aveva, per consiglio di un
libraio torinese, iniziato, con la ristampa dei quattro poeti in formato
e caratteri minuscoli, la sua Collezione Diamante, che fu accolta con
grandissimo favore.
L’accoglienza favorevole lo incoraggiò ad aggiungere ai quattro poeti
una giudiziosa scelta di scrittori classici italiani d’ogni età; ed offrì al
Carducci di curargli la correzione filologica e tipografica del testo,
annotando dove occorresse e facendo le prefazioni, mediante il
compenso di cento lire toscane per ogni volumetto. Fu una fortuna
per il Carducci e per il Barbèra. Il Carducci ebbe modo di indirizzare
ad un fine determinato e proseguire i suoi studi letterari, ritraendone
un lucro, benchè piccolo, a lui prezioso; il Barbèra fece lauti
guadagni, che diedero stabilità alla sua casa, e gli permisero di
allargare la sua industria con vantaggio della cultura. Due volumetti
pubblicò in quell’anno il Carducci, le Satire e poesie minori di Vittorio
Alfieri, e la Secchia rapita, iniziando con le due prefazioni che vi mise
innanzi quel nuovo metodo di critica letteraria, storico ed estetico ad
un tempo, del quale doveva indi a poco assurgere maestro a tutti, e
maestro sommo.
*
* *
Mentre stava scrivendo la prefazione alla Secchia rapita, ebbe quella
feroce polemica col Passatempo, che già accennai, per una poesia di
Isidoro Del Lungo intitolata il Trionfo della Croce. Non starò a riferire
ciò che in questo proposito scrive il Del Lungo in una lettera a me,
pubblicata nel fascicolo di maggio 1901 della Rivista d’Italia, [26] al
quale rimando i lettori. Dirò soltanto che l’autore anonimo degli
articoli del Passatempo rispondeva agli argomenti del Carducci
chiamandolo Iddiastro degli amici pedanti, e ridicolo Golia,
minacciandogli i Paralipomeni della Nanea, dicendogli che
stenterelleggiava, accennando alla sua audacissima dappocaggine, al
suo orgoglio smisurato, alla sua vergognosa arroganza, tacciandolo
di malafede, di sfoggiata slealtà, di abietti principii, trattandolo di
malnato, di mentitore impudente, e conchiudendo che voleva far
maciulla di lui. Certo il Carducci non aveva fatto delle carezze allo
scrittore del Passatempo; gli avea dimostrato ch’e’ s’era messo a far
lezione su materie delle quali non sapeva neppure gli elementi, e
aveva detto che questo era un po’ da ciarlatano; gli avea
squadernati sul viso gli spropositi suoi badiali e perciò lo aveva
chiamato uomo di dura cervice; aveva accennato al mistero onde il
Passatempo amava circondarsi e alle maniere da esso usate con certi
galantuomini, e gli avea dato dell’animale anfibio e del villanzone
tarchiato. Queste, diceva il Carducci, non sono ingiurie nè
impertinenze; perchè, secondo la definizione della Crusca, l’ingiuria è
una offesa volontaria contro il dovere, e l’impertinenza un detto o
fatto fuor di quel ch’appartiene al luogo al tempo e alle persone. Ma
ciò su cui il Carducci insisteva, ciò che lo disgustava e indignava era
la viltà dell’anonimo. Alla osservazione del Passatempo, che nel
nostro paese era accordato il diritto di non firmare gli scritti,
rispondeva che a ciò ripugnano il buonsenso e l’onore; ripugna il
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