Fundamentals of Advanced Accounting 6th Edition All Chapter Instant Download
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salute deperiva. Fenomeni isterici, dicevano i medici, ed alla madre,
all’amica Adele, consigliavano di darle marito.
Ciò che la contessa Sicuri non aveva indovinato, nè tampoco
sospettato, non era un mistero per la madre, al cui occhio sagace, al
cui affetto infinito non era sfuggita la causa della mestizia, dei
turbamenti, del malessere fisico di Stella.
Non un fatto, non una prova materiale avvalorava la sua certezza;
ma mille indizî, che alla seconda vista dell’affetto materno avevano il
valore di prove irrefragabili.
Stella pure aveva letto nel cuore materno e per tentare di dissiparne
i sospetti simulava qualche volta allegrezze non sentite; ma se la
fanciulla sapeva tacere, non sapeva fingere. Se il nome di Ruggeri
veniva pronunziato davanti a lei, le vampe del rossore le salivano al
volto; guai se qualcuno si attentava di dirne meno che bene... La
madre le parlava spesso di matrimonio come di un’assoluta
necessità.
— Sono avanti negli anni; s’io venissi a mancare, rimarresti sola...
Tale pensiero mi turba l’esistenza, mi rende infelice, è la spina della
mia vecchiaja...
Stella tentava deludere le insistenze materne, mutando indirizzo al
discorso, colmando di carezze la buona mamma, o simulando una
giocondità infantile; ma spesso le lacrime appannavano lo splendore
bruno della pupilla di Stella, ed allora erano scene di tenerezza
strazianti; madre e figlia confondevano in un abbraccio le loro
lacrime.
— Perchè piangi, Stella?
— Tu mi parli di morire, e non vuoi ch’io pianga!
— Tutti, o mia cara, dobbiamo morire, ed ogni cristiano, alla mia età,
deve essere preparato.
— Oh, no, mamma! Sono io che devo precederti.
— Non bestemmiare, Stella!
Lunghi silenzî seguivano tali scene, che lasciavano sempre uno
strascico di tristezza e come una specie di imbarazzo fra madre e
figlia.
La madre si sentiva meno amata; Stella si indispettiva, indovinando
di essere sospettosamente sorvegliata.
Un giorno, qualche mese prima dell’andata di Ruggeri a Miralto, la
signora Gabelli fu esplicita con sua figlia. Chiamatala nella propria
camera, con solennità insolita, dopo lungo preambolo, che Stella
aveva subito compreso ove sarebbe andato a parare, le disse che
l’avvocato Benuti di Milano, una celebrità, lontano parente loro,
aveva chiesta la mano di lei per suo figlio.
— Stella, tu lo conosci, perchè ogni anno viene con suo padre a
villeggiare a Miralto... Vennero qualche volta da noi. Un bel giovane,
ricco, colle promesse di una magnifica carriera, preparatagli dal
padre. Lo ricordi?
— Se lo ricordo! Quella caricatura di figurino di mode. Azzimato,
impomatato, profumato; fatuo, pretensioso, che sembra dire a tutti:
Guardate, ammirate, come sono bello e ben vestito, neppure una
grinza che non sia di moda! Guardatemi, ammiratemi!
E Stella scoppiò in una risata, un accesso convulso di ilarità, che da
prima irritò la madre, poi la spaventò. Stella si era lasciata cadere su
d’una poltrona, e gli scatti di riso parevan colpi di tosse.
La povera donna a scotere la figlia:
— Stella, non ridere così, mi fai paura. Sei impazzita? Per carità,
Stella... basta.
E tirò con furore il cordone nel campanello. Accorsero i domestici:
— Presto, presto, dell’aceto, dell’etere, dell’acqua di colonia...
Gli scrosci di riso erano cessati e s’eran mutati in pianto dirotto.
Stella ne fu malata per parecchî giorni, amorosamente vegliata dalla
madre alla disperazione.
Il primo giorno che sedette a pranzo colla mamma, Stella con gravità
affettuosa la prevenne per l’avvenire.
— Mamma, tu sai se io ti adoro. Ma non parlarmi mai più di
matrimonio, di pretendenti, di fidanzati... Mi obbligheresti a lasciarti
ed a ritirarmi in un convento; i miei ventun anni li ho compiuti ed ho
diritto di disporre di me.
«Non ho nessuna idea di maritarmi; qualora ne avessi l’intenzione, il
marito vorrei scegliermelo io.
La parola convento terrorizzò la madre.
— In un convento, tu, Stella! Sarebbe delitto. Non dir più simili cose.
Farai ciò che vorrai. Di matrimonio non te ne parlerò. Ma non
minacciare di abbandonarmi, per seppellirti viva... Tu, tu, il più bel
fiore di Miralto.
Stella scattò dalla sedia e corse ad abbracciare la buona vecchia.
Quanta tristezza da quel giorno in quella casa!
Per contro, Stella aveva conquistata la piena libertà di azione.
La parola convento, il terrore delle madri affettuose, era stata
magica. Ma la freddezza istintiva che la signora Gabelli nutriva per
Ruggeri, causa sospettata della follìa di sua figlia, si era mutata in
odio... Odio mal represso dalla carità cristiana della santa donna, mal
simulato le rare circostanze nelle quali con Ruggeri si era incontrata.
Qualche volta rinveniva, e più indulgente pensava:
— Poveretti! Entrambi sono infelici!
Poi la gelosia materna, il dispetto riprendevano il loro dominio, ed al
pallore delle guancie della figlia pensosa, malediceva, se non a
Ruggeri, alle combinazioni fatali che avevano fatto nascere quella
passione insensata.
Maledire è privilegio speciale, intangibile, della chiesa; maledire non
è ribellarsi alla provvidenza?
Se ne confessava al reverendo padre Abbiati, e questi, pur
deplorando, assolveva.
È vero che il padre Abbiati, miraltese di nascita, ritornato semplice
sacerdote in patria dopo la soppressione del suo convento, aveva un
debole speciale per Ettore, figlio di un amico d’infanzia... Quasi
ottantenne, considerava Ruggeri come un giovinotto, e la differenza
di età fra i due innamorati, che impauriva la signora Gabelli, non gli
sembrava ostacolo insuperabile alla loro unione.
È ben vero ch’egli non sospettava la causa prima di quell’amore:
l’identità di Stella colla morta, e la convinzione della fanciulla di
essere stata fidanzata ad Ettore in un’altra esistenza.
L’eccellente padre avrebbe gridato all’eresia, al sacrilegio, e certo,
non avrebbe accordato l’assoluzione a Stella se fosse stata sua
penitente e se Stella avesse confessato il proprio amore, i vaghi
ricordi d’oltre tomba, che ogni giorno le sembravano più chiari, più
precisi, certi.
*
* *
Quando Ettore risalì, le imposte della cameretta di Stella erano
spalancate. Stella, nell’interno, per non essere scorta dalla strada,
stava appoggiata ad un mobile, lo sguardo intento al balcone di
Ettore, in atteggiamento di attesa.
Appena Ettore apparve, la fanciulla, raggiante, lo salutò, inviandogli
un bacio colla candida mano e un sorriso divino.
Tutta una mimica giuliva di «ben venuto!» di «t’amo!» di «oh quanto
sono felice!»
Alla vista di quella creatura divinamente bella, fatalmente adorata,
Ettore fu colto come da vertigine. Ancor più divina gli apparve nel
pallore, del quale egli si accusava, punto dal rimorso di aver
suscitato una passione senza speranza, che convertivasi in tormento.
La contemplava ammaliato, mentre in cuor suo si accusava di aver
turbata la pace della povera fanciulla...
Ad un tratto, Stella, come sorpresa da qualcuno che fosse entrato
nella sua camera, fece segno ad Ettore di ritirarsi e di attendere. Egli
si mise in vedetta dietro una cortina; dopo pochi minuti, Stella
riapparve, alzò le manine aperte segnando il numero dieci, poi due
coll’indice ed il medio della destra, poi un gesto che pareva volesse
indicare una località lontana.
Ettore comprese. Stella voleva dire: «Alle dodici, dalla contessa!»
Quando fu certa, per il gesto d’assentimento di Ettore, di essere
stata compresa, inviò ancora un bacio e segnalando prudenza e
pazienza, chiuse le imposte; un ultimo saluto attraverso i cristalli, e
la tendina cadde impenetrabile.
Non è necessario aver letto le scene della vita di provincia di Balzac,
per spiegarsi come Stella fosse avvertita dell’arrivo di Ruggeri. Dalle
otto del mattino tutta Miralto commentava il di lui arrivo inopinato,
che certamente doveva collegarsi agli scandali giornalistici degli
scorsi giorni.
Gli impiegati ferroviarî ne avevano parlato; i questurini avevano
raccontato la spedizione notturna; la visita mattutina del prefetto era
stata notata. Sono tanto rare le distrazioni nella monotonia di una
città di provincia; si va a letto tanto presto e ci si alza di sì buon’ora!
Stella però conobbe l’arrivo dell’amico al suo svegliarsi.
Ettore si era affacciato al balcone, la fantesca di Stella l’aveva
riconosciuto e subito susurrato nell’orecchio alla padroncina:
— Sa, signorina, è arrivato il signor Ruggeri. Alloggia all’albergo della
Croce di Malta.
Fortunatamente la camera era ancor buja, e dell’emozione di Stella
non apparve nulla.
Poco dopo, quando ebbe ricuperata la calma, simulando la più
grande indifferenza raccomandò alla domestica di non dirne nulla
alla signora.
— Si metterebbe di cattivo umore. Sai che essa non ama il signor
Ruggeri...
— Oh! si figuri! Sono discreta io! rispose con sussiego misterioso.
Stella, seccata dal fare confidenziale della fantesca, finse non
avvertirlo e la congedò, per balzare dal letto, indossare un
accappatojo e mettersi in sentinella, certa che Ettore non avrebbe
tardato. Questi, meravigliando dell’intuizione arcana di Stella, si
confermò nella credenza della veracità dei presentimenti, nella realtà
della misteriosa corrispondenza dei cuori, tramite la corda degli
amanti, il cantino dell’amore.
Da molto, Ettore, lo scettico inconvertibile, viaggiava nell’ideale e nel
soprannaturale, ed ormai inconsciente, si era tuffato in pieno nel più
irragionevole misticismo amoroso.
— Da chi aveva potuto sapere, Stella, il mio arrivo se non dalle voci
segrete del cuore? Misteri dell’amore, impenetrabili come i misteri
della vita. La ragione vi si perde. Ed io l’ho perduta, come la volontà,
come ogni energia!
Monologando passeggiava concitato per la vasta e nuda camera; ad
un tratto si arrestò davanti lo specchio dell’armadio. Stette
lungamente a considerarsi.
— Potessi carpire all’inferno il segreto di Fausto, darei mille eternità
per un anno, un anno solo di giovinezza. Le rughe! la canizie! Ed ella
in tutto lo splendore della giovanile bellezza; la primavera e l’inverno,
un anacronismo ripugnante!... il gufo e la colomba!
«Pure il sacrificio è superiore alle mie forze. Ed ho io il diritto di
compierlo nella certezza che sarebbe anche il sagrificio suo? Se non
mi amasse più, morrei disperato; ma essa sarebbe salva e potrebbe
essere felice.
L’annunzio di una visita lo distolse dalle dolorose considerazioni; era
il giovane Guglielmi, il segretario in crisi, il burocratico artista.
Nulla di nuovo poteva narrare ad Ettore, che ormai, dopo le
confidenze del sottoprefetto, ne sapeva quanto Guglielmi. Interpose
il proprio consiglio per ottenere la desistenza dalle dimissioni.
— Si dimetterà poi. Se, come dice, l’accaduto è pretesto presso suo
zio per ritornare all’arte, di pretesti ne troverà sempre; ora non
farebbe che fomentare commenti e pettegolezzi su fatti che meglio è
lasciar morire nell’oblio.
«Se si trattasse soltanto del prestigio, così detto, del Governo e del
commendatore Cerasi, le direi d’accomodarsi; ma vi sono di mezzo
amici nostri, signore.
Guglielmi stese la mano a Ruggeri ringraziandolo e promettendo di
aspettare, per ritornare alla sua arte diletta, occasione più propizia.
Su quella promessa si lasciarono.
A mezzogiorno in punto, Ettore, varcava la soglia del palazzino
Sicuri, già Gabelli.
Non so se nel corso di questo racconto io abbia avuto occasione di
dire che alla morte della madre, la contessa Adele consigliò al marito
ed ottenne di ritornare ad abitare la casa paterna, cara alla giovine
sposa per le dolci memorie d’infanzia, santuario de’ suoi poveri morti
e meglio abitabile, per la sua modernità, del palazzotto medievale
dei conti Sicuri, dalle bugne di granito, annerite dai secoli come lo
stemma sovrastante il tetro portone, adito all’austero cortile, dal
quale la luce era sì parcamente distribuita nei severi appartamenti
dalle immense sale istoriate, che Adele, all’imbrunire, era spesso
invasa da una specie di terrore. Il piccolo Gustavo aveva bisogno di
luce e di aria, e il giardino pensile, intraveduto da noi la sera del
ventiquattro giugno, cinque anni prima, al chiarore dei palloncini
accesi in onore del santo, era un eden delizioso per il bambino, come
già lo era stato per la mamma.
In quella splendente giornata autunnale, nessun paesaggio più
pittoresco nella sua calma serena e malinconica di quello che si
svolgeva dal giardino.
La balaustrata marmorea, parapetto al giardino, dominava a picco
l’aperta campagna, attraversata dalle limpide correnti del Ticino,
serpeggiante fra boschi e campi devastati dal mietitore, alternati a
scacchiera coi prati artificiali, perennemente verdi, perennemente
fecondi.
Le foglie ingiallite dei platani, dei faggi, dei larici giganti, dei vetusti
gelsi, nani grotteschi, delle quercie imponenti, illuminate dai fulgidi
raggi, tremolanti al soffio mite di una tramontana purificatrice,
avevano riflessi d’oro nel fondo azzurro, intraducibili dal pennello del
pittore, indescrivibili dalla penna del romanziere...
Da lungi, soffuse nei vapori, sollevantisi dalla terra feconda,
riscaldata ai raggi tepenti, le colline dell’Oltre Po, inghirlandate di
pampini rosseggianti nella loro periodica agonia, dominate dai turriti
castelli appollajati sulle vette. Alla pianura lo spesseggiare di ville e
villaggi dagli snelli campanili, che salutavano lietamente cogli squilli
bronzei il meriggio festante; i lontani confusi rumori delle opere degli
agricoltori affaccendati sulle glebe per preparare il letto invernale alle
feconde sementi; i muggiti lamentosi delle mandrie pascolanti, lo
squillante nitrito de’ puledri; ed i cigolìi dei pesanti carri, procedenti
al lento passo de’ buoi rassegnati, infaticabili cirenei.
Al raffronto colle nebbie dei giorni precedenti, ancor più ridente era
quel risveglio della natura; la gioja d’una realtà felice dopo
l’oppressione affannosa di un lungo incubo.
Le due donne, Adele e Stella, i gomiti appoggiati al parapetto del
giardino, nell’atteggiamento gentile dei putti della raffaellesca
madonna di Dresda, in silenzio, appena interrotto da qualche
osservazione mormorata a bassa voce, contemplavano quel giulivo
spettacolo. Esse pure, nella loro bellezza, sì differente, ma
egualmente sublime, degne del pennello del divino urbinate. Stella,
nell’aspettazione febbrile, abilmente simulata; Adele ripensando al
suo caro lontano, lo sguardo perduto nel lontano orizzonte.
— Roma deve essere là, susurrò Adele, additando a mezzogiorno....
Dopo breve silenzio:
— Tu verrai, non è vero? Tu verrai a trovarci?
— Come! Lasciar qui la mamma sola!
— Verrete insieme. Essa non visitò mai Roma.
— Progetti fantastici! Come deciderla a lasciare le sue abitudini, ad
affrontare i disagi del viaggio?
— Qual viaggio! Poche ore di ferrovia.
— Che farò di me, quando sarai partita? Qui, sola in questa triste
città, sarà la desolazione. Oh! i partenti non conoscono lo schianto di
coloro che restano!
— Lo dici a me, Stella?
— È vero. Nel mio egoismo sono ingiusta. La tua lontananza sarà lo
squallore. Senza di te e del tuo Gustavino, il mio figlioccio, mi parrà
di essere nuovamente in una tomba.
— Nuovamente? chiese Adele sorridendo.
— Sono ubbie! Qualche volta mi pare di aver già vissuto. Mi
ritornano vaghe ricordanze di un’altra esistenza. Ora, mentre
contemplavamo il paesaggio, osservandolo attentamente, mi pareva
di averlo già veduto in tempi lontani, lontani... Prima assai che
nascessi.
— Stella, impazzisci!
— Forse...
La voce della governante del piccolo Gustavo interruppe il dialogo
delle due amiche, richiamando la loro attenzione.
— Signora contessa! Signora contessa, è arrivato il signor Ruggeri; è
là nel salone che attende.
— Il signor Ettore! Ci recherà notizie di Giuliano.
Stella, apparentemente impassibile, balbettò:
— Il signor Ruggeri?
Non si mosse. Tentò, invece, reprimere colla mano i violenti battiti
del cuore, che la soffocavano... La contessa, preceduta dalla
governante, corse incontro al benvenuto.
— Oh, signor Ettore! qual buon vento? chiese Adele accogliendo
l’amico col suo più bel sorriso biondo ed offrendogli entrambe le
mani. È una visita tanto più cara, quanto meno aspettata... E
Giuliano?
— Sta bene. Saluta, sperando ritornar presto, per rifare il viaggio di
Roma con lei.
— Quando è giunto a Miralto?
— Stanotte.
— Ed ha tardato tanto a venire da noi? E non è sceso a casa nostra?
— Se ci fosse stato Giuliano, certamente. Ma ella è vedova,
contessa.
— È vero! Ma vi sono sì poco abituata!
— Per altro, la mia prima, la mia sola visita a Miralto fu per lei.
— Venga! Venga in giardino. C’è Stella, che la saluterà con piacere
eguale al mio. E Gustavino, che sarà contento di rivedere il suo
padrino... La bella matrina lo vede ogni giorno, anzi tutto il giorno,
perchè Stella è una vera stella, è la mia suora, la mia sola
compagnia.
Adele ed Ettore mossero al giardino; Stella li attendeva ai piedi della
gradinata.
Lì, in quel punto, Stella ed Ettore si erano incontrati la prima volta;
ad entrambi balenò il medesimo pensiero, lo stesso ricordo, e
vicendevolmente se lo comunicarono collo sguardo.
La mano che Ettore porgeva era tremante; a stento egli conteneva
l’emozione. Stella aveva riacquistata la calma, e, marmorea, con un
sorriso indefinibile, pieno d’amore, lo sguardo fiammeggiante:
— Ben arrivato, signor Ruggeri!... Parlavamo di Roma quando ella è
stata annunziata. Giunge in buon punto! Ci darà notizie dell’assente.
Ettore stesso, se la eloquente fisionomia non avesse parlato un
linguaggio di indefinito amore per lui solo comprensibile, sarebbe
stato ingannato dall’apparente freddezza.
Gli stranieri, per vecchio vezzo, per tradizione antica, per un
pregiudizio secolare che ormai i fiaschi della nostra diplomazia
avrebbero dovuto sfatare, ci chiamano figli di Machiavelli, e la
finesse italienne è sempre di moda, come i briganti irreperibili del bel
paese... Machiavelli lasciò forse continuatori in Vaticano; fuori di lì, la
donna; ma non la donna italiana soltanto: la prima diplomatica fu
Eva.
Una fanciulla innamorata è più forte del cardinal Rampolla e di tutto
il Sacro Collegio. Se la contessa Adele, che, per contro e per
eccezione, era di una ingenuità sublime nella sua bontà infinita,
avesse nutrito sospetti sulla passione di Stella, l’accoglienza fatta a
Ruggeri l’avrebbe completamente disingannata.
— Vede, signor Ettore, soggiunse Adele, il bel cielo d’Italia l’abbiamo
anche noi a Miralto.
— Lo vedo, ed il giardino è un incanto. La stessa cosa non avrei
potuto dire stanotte. La nebbia era talmente fitta, che mi sarei
perduto nel piazzale della stazione se il sottoprefetto non avesse
avuto la cortesia di mandarmi ad incontrare.
— Il sottoprefetto? Ella dunque sa tutte le nostre tribolazioni. È forse
venuto per ciò?
— Appunto. Giuliano non poteva assentarsi da Roma. Venni in sua
vece. Si tranquillizzi, contessa; tutto è finito, ed anche questo
uggioso episodio avrà giovato, anticipando la sua partenza per
Roma.
— Fosse vero!
— E il piccolo Gustavo? Il mio... il nostro figlioccio, disse Ettore,
rivolgendosi sorridente a Stella.
— Più capriccioso che mai.... Ora dorme; fra un quarto d’ora andrò a
prenderlo, e vedrà, vedrà che amore. Tutto Giuliano; ma assai più
bello, disse con orgoglio, la giovine mamma.
Passeggiando lentamente, eran giunti all’albero d’alloro.
Stella, rivolgendosi ad Ettore:.
— Anche noi abbiamo gli alberi sempre verdi, come loro nei dolci
climi. Vede? Il lauro s’è fatto rigoglioso quanto una quercia. Coi
crisantemi è il solo a protestare contro il triste inverno.
— Non per nulla l’alloro fu scelto per emblema della gloria, della
immortalità.
— Strano! soggiunse Stella, come parlando a sè stessa. I crisantemi,
invece, sono i fiori delle tombe!
Il sole, senza essere cocente, diveniva molesto. Si assisero su d’un
banco all’ombra del lauro.
La contessa Adele, rallegrata dalla visita gradita, divenne espansiva,
ridisse i suoi presentimenti infausti, maledicendo alla politica, narrò
la sequela de’ suoi dispiaceri, tempestò l’ospite di mille questioni sul
marito, sulla di lui condizione parlamentare, sciorinò i rimpianti per la
elezione malaugurata, confidò i suoi terrori che la politica, le
seduzioni della capitale gli potessero rapire l’affetto di Giuliano.
— Ne morrei! No! di morire non avrei il diritto, dovendomi dedicare a
mio figlio; ma sarei la più infelice delle donne....
Ad un tratto, sovvenendosi:
— Corro a prendere Gustavo; vedrà quant’è carino, il cattivo. Stella,
rimani col signor Ettore: sarò da voi fra pochi istanti.
*
* *
Soli, stettero a guardarsi senza pronunziare parola. La piena
dell’emozione li aveva ammutoliti.
— Stella, disse finalmente Ettore prendendo la mano profilata,
gelida, della fanciulla, e portandola alle labbra. Stella, ho forse fatto
male a venir meno ai miei propositi, ritornando a Miralto. Fu più
forte di me, e la fatalità mi ha assecondato; non seppi, non so più
lottare. Se il conte Giuliano non mi avesse pregato di precederlo,
avrei forse inventato un pretesto.
«Lontano da te non è vivere, è soffrire, e l’insistenza del dolore ci
rende fiacchi.
Stella si rizzò offesa.
— Ed è così che tu mi parli? Lottare per abbandonarmi, per
dimenticarmi!
«Se non mi ami, dillo francamente; subirò la mia sorte senza un
lamento, senza una recriminazione. Ma se un raggio d’amore per me
riscalda ancora il tuo cuore, non hai diritto di essere eroico col mio
sacrificio.
«Tu mi riparlerai delle convenzioni, delle convenienze sociali, degli
ostacoli insormontabili, della differenza d’età, del tuo patrimonio
rovinato, del ridicolo che colpirebbe un’unione tanto disparata... Le
conosco, le so tutte a memoria le objezioni della tua coscienza
impaurita, della tua delicatezza allarmata... No! non il mio sagrifizio,
io voglio, bensì quello della tua coscienza, de’ tuoi pregiudizî... Io ti
amo!
«Mille volte ho rinnovato sotto questo albero il voto a san Giovanni, il
nostro santo protettore, il santo dell’amore: di esser tua o di
nessuno. Non mi appartengo più!
Ettore, commosso, stringeva tuttavia la mano della fanciulla nelle
sue.
— Stella, ti amo sempre più! Le tuo parole mi fanno felice; ma in
questa società che tu non curi, noi viviamo e tu non vorresti esser
mia a patto del mio disonore, di una slealtà.
«Tu sei sublime nella tua innocenza della vita; sublime nella virtù del
sagrificio, nell’abbandono che fai di te stessa, della tua giovinezza,
del tuo avvenire. Ma posso, devo io accettarlo questo sagrificio?
«Tu sei la primavera, io l’autunno... Presto verranno per me i giorni
tristi dell’inverno; quelli del pentimento e del disinganno per te; nel
tuo cuore germoglierà il rimpianto... e forse mi rimprovererai di aver
abusato della tua inesperienza entusiasta ed imprevidente.
«Vi sono ostacoli insuperabili: tua madre, i tuoi parenti. Perciò
invocavo da te il coraggio, l’energia di lottare, per vincere la mia
passione.
Stella era sublime davvero nella sua pallida bellezza... Alle parole di
Ettore, con un sorriso etereo sulle labbra, andava scotendo la testina
gentile in atto di diniego...
Quando Ettore tacque, essa, avvicinandoglisi, lo allacciò febbrilmente
al collo colle braccia, ed ergendosi sulla punta dei piedi per giungere
colla bocca a quella di Ettore, mormorò più che non dicesse:
— Di tutto ciò, Ettore, che tu mi hai detto, voglio ricordare soltanto
che tu mi ami, mi ami sempre più. L’hai detto, sono tua, fa di me ciò
che vorrai. Io non conosco le leggi del vostro onore, della vostra
lealtà. Son tua, ti amo e voglio essere riamata!
Le loro labbra si confusero in un bacio, il loro alito in un sospiro.
Alla voluttà infinita di quella sensazione deliziosa fino allo spasimo,
Stella si ripiegò come fiore mietuto; sarebbe caduta, se Ettore non
l’avesse sorretta.
Allarmato, la depose sul sedile di ferro... Avrebbe voluto chiamare;
ma Stella, gli occhi socchiusi in un sorriso beato, mormorava:
— No, no, amico mio! Non è nulla. L’eccesso della felicità,
l’emozione. Il cuore ha palpitato troppo violentemente, e mi sentivo
morire. Lo sai, sono una povera inferma. Un bacio, ancora un bacio,
prima che giunga Adele... Poi chissà, i lunghi mesi di separazione...
Un bacio, ch’io faccia provvista di felicità per l’avvenire.
Ettore, inginocchiato ai piedi di Stella, teneva fra le mani la testina
bruna, suggendo baci dalle labbra impallidite della fanciulla, di baci
assetata.
Uno strillo argentino, giulivo, li avvertì dell’approssimarsi del piccolo
Gustavo...
— Padrino! padrino! La mamma dice che oggi è festa, e mi ha messa
la vesticciuola nuova.
E il piccino, provvidenziale araldo, corse incontro ad Ettore, le braccia
aperte.
Ettore lo sollevò da terra stringendolo fra le sue.
L’intervento del bimbo lasciò modo ad entrambi di riaversi, e Adele
non potè notare il loro turbamento. Soltanto il pallore di Stella
avrebbe potuto tradirne l’emozione... Ma era sempre tanto pallida,
Stella.
— Che hai? Sei indisposta?
— No, forse un po’ di freddo. Il sole è caldo; ma il vento è frizzante.
Rientriamo.
E porgendo il braccio ad Ettore:
— Mi sorregga lei, signor Ruggeri.
Sottovoce, in modo che Adele non potesse udire, intenta com’era a
rassettare gli abitini del bimbo, scomposti dal ruvido abbraccio di
Ettore:
— Il patto è conchiuso. Mai più minaccie di abbandono... Non più
scrupoli. Sono tua... Avrò il coraggio di attendere. Tua nella vita e
nella morte.
Ettore non rispose; assentì del capo, stringendo forte forte l’esile
braccio di Stella avvinghiato al suo. Stella, riavutasi dal passeggiero
malessere, era raggiante, sembrava ritornata ai giorni gaî della
fanciullezza, allorchè vispa, chiassosa, birichina, era tutta gioja e
sorriso.
Perfino nell’ora dolorosa degli addìi si mostrò lieta e ridente.
Ormai la promessa era formale, suggellata dal delizioso bacio sotto il
lauro di San Giovanni, un tempio! L’unione per essa era indissolubile,
come se benedetta dal sacerdote e legalizzata dal sindaco.
L’amore di Stella, sopratutto mistico, non era per anco turbato dalle
febbri del desiderio. La certezza d’essere riamata le bastava. Il
tempo e la distanza non esistevano più.
Dopo cinque anni di dubbî tormentosi, quello il primo giorno di
felicità.
Gli addìi erano «un arrivederci a ben presto, per non separarci mai!»
Come? Non lo sapeva, non curava saperlo; ne aveva la fede e le
bastava.
CAPITOLO XI.
Nella bolgia.
*
* *
Ferretti, previdente, aveva già scelto un avvocato per patrocinare
davanti alla Giunta la causa di Giuliano. Un giureconsulto illustre,
altissima notabilità parlamentare, influentissimo presso tutti i governi
succedutisi dal 18 marzo 1876.
— Un avvocato un po’ caro, un po’ troppo salato, aveva detto
Ferretti a Giuliano. La necessità di vincere ci vieta di lesinare. Per
rendere proficui i sagrifici già fatti, bisogna aggiungere anche
questo. Avrei combinato per diciottomila lire.
Giuliano diè un balzo.
— Oh, ma non le intascherà tutte lui. Creda a me, non è troppo!
Coll’onorevole Rota per avvocato, in qualunque modo riesca
composta la Giunta, possiamo essere sicuri della convalidazione.
Alcuni dei membri, imposti dalla loro situazione parlamentare, si
conoscono già. L’importante è di ottenere un relatore ligio al
Governo. Il meccanismo è talmente complicato! L’esito, tranne in
alcuni casi eccezionali, dipende non solo dal valore dell’avvocato, ma
specialmente dalla distribuzione delle diverse cause ai singoli membri
della Giunta... Se si incappa in un Catone, siamo fritti... È vero che
son tanto rari, i Catoni! Supponga che il suo processo caschi in mano
di un radicale, amico del competitore Bertasi: lei sarebbe spacciato.
Bisogna quindi preventivamente correggere le combinazioni del caso;
guidare la sorte.
Scesa la superba scalea del palazzo Braschi, sul cui pianerottolo era
avvenuta la conversazione, Ferretti e l’onorevole Sicuri si lasciarono,
dandosi ritrovo per il giorno seguente negli uffici di redazione
dell’Ordine... Ferretti, salito in carrozza, partì rapido, come persona il
cui tempo è prezioso; Giuliano riprese lentamente a piedi la strada di
Montecitorio, per Piazza Navona.
Distratto, passò innanzi la statua del leggendario Pasquino senza pur
osservarla... Pasquino! L’opinione popolare di Roma, l’ultimo dei
tribuni, dal 1870 è ammutolito; un altro spodestato!
Infelice, non ha neppur mani e braccia per detergere le lacrime
silenziosamente sparse ogni notte sulla propria sventura. Ad ogni
mattino il volto sfigurato è intriso; gli scettici dicono di rugiada; ma si
sa, non è cosa nuova, le statue pagane piangono quanto e più delle
madonne. E n’hanno ben d’onde!
— Diciottomila lire! pensava Giuliano. Ci va di grosso, il signor
Ferretti. Mi abbia scambiato per Giugurta? Ormai ci sono, e lesinare
non si può!
Alla posta di Montecitorio, Giuliano ritrovò il telegramma rassicurante
di Ruggeri. Trasse un grande respiro. Anch’egli, come il
sottoprefetto, pensò che tutto il male non viene per nuocere.
— Sarò liberato dal Ventriloquo...
È vero che in tutto quell’imbroglio la famiglia Sicuri ci aveva lasciato
un brandello della secolare rispettabilità.
— Ma, pensava, le calunnie passano, la deputazione resta.
Col telegramma, un grazioso invito della contessa Marcellin, alla cui
porta Giuliano aveva lasciata, colla lettera di raccomandazione del
commendatore, una carta da visita.
La signora contessa era in casa la sera di ogni mercoledì e venerdì,
felicissima di fare la personale conoscenza del deputato conte
Giuliano Sicuri.
Mentre Giuliano varcava la soglia del gran salone di lettura, tenendo
in mano la lettera d’invito, l’onorevole Lastri, conoscenza del giorno
innanzi, scorgendo il monogramma sormontato da una corona, gli
disse ridendo:
— Oh! A Roma da quattro giorni, e sei già ai bigliettini profumati e
blasonati?
— Profumati sì; ma innocenti come l’acqua... Una noja! Un invito al
thè della contessa Marcellin.
— Nientemeno! Salone conciliatore! I bianchi ed i neri vi sono
mischiati come i pezzi della scacchiera nella scatola. Prelati e belle
donnine, senatori, diplomatici presso le due corti, colonia straniera,
rastaquères a josa... quelli di Bourget... Deputati pochi...
«Salone allegro, difficilmente accessibile; la contessa ha il buon
gusto di sceglierli i suoi assidui indigeni; per gli stranieri è altra
cosa... Essi, a stagione finita, se ne vanno e non ritornano... Bella
donna, sul ritorno, un zinzino letterata; però non scrive, almeno per
il pubblico. Altro merito incontestabile: in casa Marcellin non si parla
di politica; ma qualche celebrità parlamentare è stata inventata in
quel salone.
«Si susurra anche di qualche mitria di vescovo distribuita per
l’influenza della contessa. Vedova del conte senatore Marcellin,
antica famiglia veneta dogale, la contessa è divorziata da poco da un
cardinale. Divorzio non per incompatibilità di carattere, per ragioni di
decoro. I loro rapporti sono rimasti eccellenti. Per altro Sua
Eminenza non appare mai ai ricevimenti ufficiali del mercoledì e del
venerdì.
Giuliano, poco edificato dalle informazioni maligne, da lui non
chieste, tentò divergere la conversazione.
— Dimmi un po’, chi è quel deputato che sta leggendo là,
all’estremità della tavola?
— Quello? Non è un deputato; credo non lo sia mai stato. È un
senatore. A Montecitorio lo si vede raramente. Se è qui, gli è che
deve bollire qualche cosa di grosso nella pentola dei provvedimenti
finanziari... Qualche catenaccio o monopolio, se pure non si tratta di
ferrovie... È il trait d’union, il ponte sul quale sono passati tutti i
ministeri di Sinistra per avere l’unanimità dei voti della Destra in
Senato.
«È il senatore Loschi, ninfa Egeria inevitabile, indispensabile. In
affari passa per jettatore et pour cause; in politica, viceversa.
«Abbiamo il Senato in rivoluzione, si conta su di lui per
ammansarlo... per ciò prevedo un grosso affare, per lo meno un
catenaccio. Simili favori non si ponno mica pagare a contanti:
concessioni, preavvisi, compartecipazioni... Il proverbio dice,
continuò l’instancabile parlatore: «fammi indovino e ti farò ricco!» Il
preavviso in tempo utile di una operazione del Tesoro, ti può far
milionario in quarantott’ore.
«Si arrischia, qualche volta, per gli umori della Camera... Un
catenaccio abortito può essere un disastro. S’è già visto poco tempo
fa. Case colossali saltarono come fuscelli. Avevan fatto provviste
ciclopiche onde prevenire l’aumento del dazio; il catenaccio respinto,
i prezzi precipitarono e con essi i bagarini.
— Bagarini?
— È un termine romanesco, affibbiato agli aggiotatori di ogni
genere, incettatori di merci per monopolizzarle sui mercati, nelle
borse, a prezzi elevati.
«L’altro laggiù, vicino al senatore, il calvo che sta scrivendo, è anche
un curioso tipo. Non è ricco, spende centomila lire ad ogni elezione;
ma ci vive splendidamente. È un’agenzia ambulante d’affari, e
dell’ufficio non paga neppur l’affitto. L’ufficio l’ha qui, non spende un
centesimo in oggetti di cancelleria, largamente forniti dalla Camera.
Non avendo ditta, si vale dell’intestazione della rappresentanza
nazionale. La sua ditta è la Camera dei deputati; il recapito,
Montecitorio. A servirlo non parano tre uscieri, cui non dà mai un
soldo di mancia; probabilmente ha intenzione di associarli negli utili
della sua azienda.
«Vive a Montecitorio, scrive cento lettere al giorno, non ha mai
parlato nelle sedute pubbliche, non ha mai letto un ordine del giorno
o ascoltato un oratore; in compenso ha sempre votato per tutti i
ministeri... A memoria d’uomini non vi ha un solo appello nominale
con un suo voto di opposizione. Duecento svizzeri altrettanto fedeli
al potere, e i ministeri sarebbero inamovibili e indistruttibili quanto e
più del Colosseo.
«Il curioso, riprese il deputato Lastri senza prender fiato, si è che nel
collegio ha fama di rivoluzionario ed è portato sugli scudi da una
maggioranza radicale.
— Come mai una simile contraddizione? chiese Giuliano, che
cominciava a divertirsi all’arguta maldicenza del collega.
— Non è contraddizione, bensì un fenomeno comunissimo e
costante. Tranne pochi, anzi pochissimi, disgraziati zimbelli della
politica, ogni deputato ha due personalità distinte, come certi
personaggi di Hoffmann. Il deputato in vacanza al collegio; il
deputato in funzione a Roma.
«Non parlo del candidato, perchè è tuttavia allo stato di bruco, nelle
meravigliose metamorfosi parlamentari; mi occupo della crisalide,
uscita dal bozzolo elettorale, con tanta fatica, tanta cura e
sorprendente abilità tessile dal bruco tramato.
A questo punto l’oratore avvicinò una seggiola al lungo tavolo sul
quale erano sparsi a centinaja i giornali d’ogni lingua e paese, e si
sedette facendo segno al giovine collega di imitarlo. Tutt’intorno era
un via vai di onorevoli, molti sconosciuti fra loro; quindi, ai saluti, ai
benvenuto dei colleghi antichi, le presentazioni dei nuovi. Argomenti
delle conversazioni, colle narrazioni degli episodi eroicomici della
recente battaglia elettorale, il programma finanziario del ministero, il
discorso della Corona, indetto per il giorno seguente.
L’onorevole Lastri, intanto che discorreva col neofito Giuliano,
spiegandogli la doppia individualità parlamentare, scambiava ogni
tratto saluti e sorrisi, pur non distraendosi dalla dissertazione. Il
deputato Lastri, temuto per la lingua pungente, qualche volta
spietata, godeva grandi simpatie, guadagnate colla rispettabilità
personale, colla bontà d’animo, contrasto bizzarro alla sua
maldicenza.
Nei sorrisi, che egli raccoglieva distratto, vi era qualche cosa di
furbesco e di timido, come avessero voluto significare tacitamente:
«Chi stai dilaniando?» E gli onorevoli gli si approssimavano
facendogli circolo, forse non per curiosità soltanto; anche
nell’intenzione di scongiurare, colla loro presenza, il proprio
massacro. Eran stati tali, sì incredibilmente scandalosi i recenti abusi
e le gherminelle elettorali, che ognuno temeva venisse il proprio
turno. L’oratore, abituato ad una galleria di ascoltatori, continuava
senza preoccuparsene, trattando Giuliano con simpatia speciale:
— Il deputato in vacanza, continuò l’onorevole Lastri, negli abiti, nel
contegno, nel linguaggio, nelle convinzioni, nei principî, nella
condotta politica, è tutt’altri del medesimo onorevole a Montecitorio.
«Molti elettori rivedendo in Roma il deputato del loro cuore e del loro
collegio, non sanno riconoscerlo, tanto è trasformato;
trasformazione, la quale non può aver raffronto che in quella di certi
cattivi mariti latitanti dal tetto conjugale.
La galleria degli ascoltatori, che s’addensava sempre più, rise al
raffronto... Giuliano richiamato, per associazione di idee, alla sua
Adele lontana, fece sorridente un atto di diniego, e l’occhio,
stranamente azzurro ai bagliori del cielo di Roma, si velò inumidito.
Lastri, osservatore finissimo, gliene seppe grado... Lo fissò in volto
per studiarlo meglio, sentì un brivido di tenerezza e, senza
interrompersi, pensava: «un agnello spontaneamente venuto per
farsi scannare nel grande macello!»
L’onorevole Lastri, parlatore instancabile ed inesauribile, era dotato
della facoltà di alcuni celebri giuocatori di scacchi, di poter, cioè,
tener testa contemporaneamente a parecchi competitori su diverse
scacchiere. Discorreva perfettamente, pur pensando ad altro.
«Ha la mente foderata,» aveva detto di lui un collega, dopo una
felice replica al ministro dell’istruzione pubblica, il cui discorso non
avrebbe dovuto sentire, immerso come era stato, mentre il ministro
parlava, in una vivissima discussione archeologica col celebre medico
archeologo deputato Gloriosi.
— L’Italia, non c’è che dire, continuava l’onorevole Lastri, è
eminentemente democratica. I monarchici sono monarchici per solo
amore dello statu quo, non per convinzione, per diffidenza
dell’ignoto. I dinastici, eccettuata l’alta burocrazia e l’ufficialità
dell’esercito, non si trovano più che in Piemonte, ed ancora bisogna
cercarli. La grande massa, quindi, è democratica o clericale. Il
clericalismo, naturale nemico delle instituzioni, tende colla politica di
Leone XIII a democratizzarsi. Ma i clericali propriamente detti, per
ordine del pontefice, non votano. Non per paura della sconfitta; per
timore della vittoria. Vittoriosi, provocherebbero una reazione. Quindi
conflitti; forse la guerra civile, fors’anche lo sfacelo di questa Italia
nuova, tanto necessaria al Papato, per atteggiarsi come vittima
all’estero e vivificare i feticismi che andavano spegnendosi, e ancora
per avere un grande paese nel quale sussistere, prosperare, agire
liberamente.
«In quale terra, in quale monarchia o repubblica, il Papato potrebbe,
a questi chiari di luna, aver maggior splendore e libertà?
«Le querimonie di Pio IX avevano stancato non solo i fedeli, anche il
Padre Eterno; il quale, informato a tempo dal compianto generale
Carini, sulle idee ed intenzioni dell’arcivescovo di Perugia, diede
ordine allo Spirito Santo di inspirare a favore del cardinal Pecci il
prossimo futuro conclave.
— Sta bene! interruppe l’onorevole Alfredi, uno degli ascoltatori; ma
ciò non spiega la nostra doppia individualità.
— Doppia come le cipolle! Ti servo subito. Se in ogni collegio vi sono
elettori ed elettori: dinastici, monarchici, repubblicani, socialisti,
clericali votanti, clericali astensionisti, sonvi pure collegi e collegi nei
quali le dosi della miscela elettorale sono diversamente ripartite, e
siccome ogni singolo deputato assume nel proprio collegio il
contegno che la maggioranza degli elettori gli inspira, così ogni
collegio (escludo quelli delle grandi città) ha un tipo speciale, tutto
locale, di deputato, travestito a seconda delle opportunità elettorali.
Come ogni città d’Italia ha la propria maschera: Arlecchino,
Pulcinella, Meneghino, Gianduja, Stenterello, ecc., ecc., così ogni
collegio ha la propria maschera parlamentare, edizione unica.
«E tutte queste maschere, che siamo noi cinquecento otto,
nientemeno! quando arrivano a Roma, buttano i cenci provinciali,
per uniformarsi tutti come una legione di carabinieri.
«Nel collegio predichiamo il sollievo dagli aggravî, a Montecitorio
votiamo nuove imposte; a casa riduzione dell’esercito; alla Camera,
coi bilanci, votiamo fra gli entusiasmi le maggiori spese per gli
armamenti; là il libero scambio, qui nuovi balzelli doganali, nuove
barriere ai nostri prodotti; discentramento al collegio, giacobinismo a
Montecitorio; libertà giurata agli elettori; alla Camera approviamo
ogni arbitrio, ogni infrazione alla legge, ogni enormità dispotica,
perfino i decreti ministeriali o regi sostituiti alla sovranità nazionale;
la Gazzetta ufficiale grande legislatrice... Che dico? Siamo giunti alla
evirazione, rinunziando, in odio al patto fondamentale, alle nostre
prerogative di inviolabilità, superfettazioni, ormai, come la defunta
guardia nazionale.
«Ai collegi, le cinquecent’otto maschere sono patrioti lacrimanti
sull’esilio delle sorelle irredente, e qui triplici sfegatati, teneri amici
dell’Austria.
«Ecco, mio caro Sicuri, disse alzandosi il deputato Lastri, in atto di
andarsene, ecco come quel deputato che tu sai, possa essere
radicale al suo paese, pur essendo ministeriale a Roma.
Giuliano anche erasi levato da sedere e la galleria, a conferenza
finita, si disperse per le sale ed i vasti ambulatorî.
Lastri, preso a braccio Giuliano, continuò sottovoce:
— Quegli ascoltatori mi annojavano; uno fra gli altri avrebbe potuto
credere che alludessi a lui se ti avessi narrato che vi sono deputati
inamovibili pel solo fatto che disimpegnano per il loro collegio ogni
sorta di commissioni. L’onorevole Cortesi spinge la compiacenza
verso gli elettori suoi al punto che la di lui abitazione qui in Roma è
un varo bazar da 49 ed anche più. Dalle museruole ai collari per i
cani, ai cinti ortopedici; dai manicotti per signora alle vanghe per
contadini, c’è di tutto. L’elettore desidera e, come per incanto
magico, l’oggetto gli appare sul tavolo sotto forma di pacco postale o
ferroviario contro assegno... Il solo parroco ha diritto di aver merce a
credito, perchè paga in messe ed in propaganda elettorale dal
pulpito e nel confessionale.
«Il curioso si è che l’onorevole Cortesi a Roma è un mangiapreti
arrabbiato, e nel collegio non manca ad una sola funzione religiosa.
Vota sempre contro tutti i governi, ma si squaglia tutte le volte in cui
l’opposizione potrebbe comprometterlo con Santa Madre Chiesa.
Tutto ciò perchè i clericali sono in maggioranza nel suo collegio, e
non osando a Roma un’opposizione apertamente clericale, si
imbranca con chi può, contro tutti i ministeri, pur di poter dire ai
papisti suoi elettori, più papisti del papa: «Vedete! Non un voto per il
Governo usurpatore!»
«Vi fu un momento in cui la posizione dell’onorevole Cortesi fu
scossa, denunziato da un giornale clericale di provincia. Non rispose,
non polemicò; inondò il collegio di corone del rosario per le vecchie,
di libri da messa per le giovani, di abitini ed imagini sacre per i
fanciulli, il tutto benedetto da Sua Santità, e senza neppur le spese
di porto. Tutto il gentil sesso fu per lui, ed il sesso forte votò come
volle il debole.
«Cortesi è un altro deputato a vita. A vita sono pure i deputati
feudali, i quali, per altro, essendosi infiltrata un po’ di fillossera
socialista nei loro contadini, sono costretti a pagar salata la elezione,
che una volta ottenevano gratis et amore. È ben vero che alla fine di
ogni legislatura son già rifatti della spesa, lesinando sui salarî...
Poveri villani, sono essi che pagano l’elezione del padrone. Sono i
cenci che vanno alla cartiera!
Un pensiero impertinente dovette passare per la testa
dell’instancabile parlatore, perchè fermandosi di botto sorrise
scotendo il capo, come se si fosse trattato di una grande corbelleria.
Giuliano, che cominciava ad interessarsi vivamente alle maldicenze
del vecchio collega, iniziazione preziosa nei misteri di Montecitorio,
quantunque ancor più pessimiste delle rivelazioni di Ruggeri, chiese
curiosamente:
— Perchè ridi?
— Oh, un ricordo, per associazione di idee... Ti ho detto che sono
sempre i poveri che pagano, fatto costante dal giorno che Adonai
condannò Adamo a guadagnarsi il pane col sudore della fronte.
«Ebbene, vedi quel deputato là, alto, snello, dal tipo distinto, dai
lineamenti fini, eleganti, dalla lunga chioma nera ricciuta, lo vedi là,
che sta osservando una carta geografica in rilievo, appesa alla
parete?
— Sì! sì, lo vedo.
— È un medico distintissimo che, per sua sciagura, si è dato alla
freniatrìa. Dico sciagura, perchè nulla di più contagioso della follìa.
Fino a jeri fu radicale appassionato e, credo, anche convinto; ma il di
lui collegio, già repubblicano, ha fatto una rapida evoluzione
socialista. La lotta di classe, il vangelo; quindi, ostracismo alla
politica, specialmente a quella parlamentare. Il deputato,
necessariamente si è fatto socialista, classificandosi lottatore
anch’esso. Vota contro i ministeri, non che gli importi se al Governo
siavi il duca d’Ermina di Destra, piuttosto che il Bellitti, attuale
presidente del Consiglio di... di... e chi sa di qual partito sia il nuovo
padre eterno ministeriale? o il Dentarelli che lo appoggia,
aspettandone la successione, Tartufo raffinato, il quale ha già
preparato la bara dell’alleato; o il grande altitonante Sicirri, che
detronizzato nicchia ringhiando come un can mastino alla catena, o
in fine il diavolo! Il lottatore di classe vota contro, perchè il suo è il
programma delle palle nere.
«Ebbene, questo filantropo socialista, in una delle ultime tornate
della legislatura tanto inonoratamente testè sepolta, si scatenò
contro gli amici antichi dell’Estrema, chiedenti lo sgravio dei
contributi, che rovinano la proprietà fondiaria: «Imposte! Non
bastano! Ne vogliamo altre delle imposte... Le imposte sui ricchi, le
imposte sul lusso, le imposte sulle fortune, sui patrimoni
scandalosamente improvvisati, sugli affari loschi, rovina dello Stato e
della nazione!»
«L’ingenuo non pensava che le imposte dei ricchi sono i poveri che le
pagano. Non pensava che l’abolizione del lusso rappresenta la fame
degli operaî che ci vivono... Colpite la produzione, ed avrete rovinato
gli opificî, come l’imposta sulla proprietà fondiaria ha rovinata
l’industria agricola... Sempre i cenci che vanno alla cartiera! Lotta di
classe davvero; ma contro quella che si vorrebbe difendere!
Il deputato Lastri, ravvisatosi, tirò l’orologio dal taschino, esclamando
meravigliato:
— Già le cinque! Sicuri, ti lascio. Se mi vorrai cicerone fra queste
rovine nuove, nessun archeologo ti potrà meglio servire, neppure il
professore Bernabei fra gli avanzi etruschi. Rovine di uomini, di nomi
cari, di coscienze, qualche volta di patrimonî, compenso alle rapide
fortune ed ai patrimonî rifatti nella gran rovina del paese.
«A proposito, vai stasera dalla contessa Marcellin?
— Necessariamente: l’invito è tanto gentile, che sarebbe
sconvenienza il non andarvi.
— Verrò ancor io, chè anch’io sono fra i pochi ammessi all’onore dei
mercoledì e dei venerdì.
CAPITOLO XII.
Intrighi e amore.