MODERNA/COMPARATA
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MODERNA/COMPARATA
COLLANA DIRETTA DA
Anna Dolfi – Università di Firenze
COMITATO SCIENTIFICO
Marco Ariani – Università di Roma III
Enza Biagini – Università di Firenze
Giuditta Rosowsky – Université de Paris VIII
Evanghelia Stead – Université de Versailles Saint-Quentin
Gianni Venturi – Università di Firenze
Stabat mater
Immagini e sequenze nel moderno
a cura di
Anna Dolfi
Firenze University Press
2018
Stabat Mater : immagini e sequenze nel moderno / a cura di Anna
Dolfi. – Firenze : Firenze University Press, 2018.
(Moderna/Comparata ; 24)
http://digital.casalini.it/9788864536880
ISBN 978-88-6453-687-3 (print)
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF)
ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
Progetto grafico di Alberto Pizarro Fernández, Pagina Maestra snc
Volume pubblicato con il contributo di:
Associazione “Centro Internazionale di Studi Giuseppe Dessí”
Fondazione Dessí
Regione Sardegna
Fondazione Banco di Sardegna
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A. Dolfi (Presidente), M. Boddi, A. Bucelli, R. Casalbuoni, M. Garzaniti, M.C. Grisolia, P. Guarnieri,
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Firenze University Press
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Printed in Italy
INDICE
PREMESSA di Anna Dolfi
1. Immagini, topoi e figure
2. «Il disertore»: uno stabat mater oltre l’apparenza del racconto di guerra
11
15
MODELLI E TIPOLOGIE
23
DOLORE
Eugenio De Signoribus
«DOLOR MARIAE DE FILIO». UN TRITTICO
25
Antonio Prete
MARE, MADRE, MORTE. LA COSTELLAZIONE ARCHETIPICA
DEL FIGLIO ANNEGATO
Francesca Nencioni
1. Oltre il significante: insidie e seduzioni del significato
2. Il respiro e l’affanno: per una semantica dell’acqua
3. La percussione e la carezza: alternative semantiche della madre
29
35
49
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
57
Paolo Orvieto
ENCORE LE LONG (DU NOIR)
89
Jean-Charles Vegliante
PERCORSI NOVECENTESCHI
IL FIGLIO MORTO IN GUERRA E QUELLO SOPRAVVISSUTO
IN UN RACCONTO DI GADDA
Alberto Cadioli
1. Della madre
2. Il sopravvissuto
3. La condanna della retorica
93
100
102
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
8
INDICE
LA NEGAZIONE DELLO STABAT MATER IN «CONVERSAZIONE IN
SICILIA» DI ELIO VITTORINI
107
Virna Brigatti
GRADI DEL MATERNO E METRICA NEL «LAMENTO D’UNA MAMMA
NAPOLETANA» (SU ALFONSO GATTO, SEGUENDO ORESTE MACRÍ)
119
Marco Proietto
DESSÍ: UNA RADICE ANTROPOLOGICA DELLA MATER DOLOROSA
137
Martina Romanelli
«IL BARONE RAMPANTE» E L’AMOR ‘DE LOIN’ DI UNA MADRE
153
Marina Paino
1. Una premessa: alberi, madri, giardini… e risvolti autobiografici
2. Stabat Mater (et videbat)
154
156
MITO E REALTÀ: DUE MADRI DOLOROSE RECENTI (E UNA
POSTILLA MONTALIANA)
167
Fabio Pusterla
IL «COMPIANTO» MULTIMEDIALE. FIGURE E FORMATI DELLO
STABAT MATER NELL’EUROPA CONTEMPORANEA
Samuele Fioravanti
1. Il dono e la perdita
2. Dorothy Cross, «Stabat Mater» (2004)
3. Nina Danino, «Stabat Mater» (1990)
4. Alba Donati, «Pianto sulla distruzione di Beslan» (2009)
5. Aida Šehović, «Što te nema?» (2004)
185
188
191
196
203
POSTILLA PER UNO STABAT MATER DI OGGI
207
Oleksandra Rekut-Liberatore
SULL’ECO DELLA MUSICA
ALLE ORIGINI DELLA «RELIGIONE DELLA MUSICA» ROMANTICA
WACKENRODER FRA STABAT MATER, SUGGESTIONI CECILIANE
E TENTAZIONI FAUSTIANE
217
Patrizio Collini
LE «STABAT MATER» DE PERGOLESE: DE DIDEROT À A. DUMAS
221
Béatrice Didier
«MATER DOLOROSA», OTTOCENTESCA LACRIMOSA
LA «INES DE CASTRO» DI CAMMARANO PER GIUSEPPE PERSIANI
Camillo Faverzani
231
INDICE
MATERNITÀ NEGATA E MONACAZIONE FORZATA IN «SUOR
ANGELICA» DI PUCCINI
9
255
Giovanni Antonio Murgia
ICONOGRAFIA E PROIEZIONI VISIVE
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
275
Gianni Venturi
«ALMA MATER, STABAT MATER».
SCULTURA E POLITICA DEL NOVECENTO IN FREIBURG
305
Christopher M. A. Stead
ICONOGRAFIA DEL LUTTO E «MATER DOLOROSA» NELL’ESTETICA
COMUNISTA ALBANESE. INTERVISTA A GEZIM QENDRO
329
Marco Mazzi
GUERRA DI MAFIA E MADRI IN LUTTO
337
Giulio Bogani
SCENE MADRI. STABAT MATER NEL CINEMA CONTEMPORANEO
349
Antonio Tentori
CRISI DEL RUOLO, ROVESCIAMENTO DEL MITO
PER UNA PALINGENESI DA MARIA A MEDEA
361
Elisa Lo Monaco
COMPLICITÀ E SEDUZIONE. INFANTICIDIO E DEGENERAZIONE
‘FEMMINEA’ NELL’«INNOCENTE» DI D’ANNUNZIO
Manuele Marinoni
1. Dal mondo della psicologia sperimentale
2. Un teatro dei nervi: tra degenerazione e sonnambulismo
3. Mania suicida e senso di colpa. Le ombre della seduzione
4. Stabat Mater
371
378
383
387
DONNE SENZA UOMINI: ALTEA E LE ALTRE
391
Anco Marzio Mutterle
ALDA MERINI E LE «MATERNITÀ DISFATTE»
Francesco Vasarri
1. «Maternità disfatte» tra testimonianza e totem
2. La «foresta pietrificata»
3. Una «diversa» e il suo «diario di […] madre»
4. Sotto la croce
401
405
412
417
10
INDICE
DONNE DI DOLORI. DONNE DI SPADE
Ernestina Pellegrini
1. Ombre. Donne in follia
2. Io senza garanzie
3. La sintassi della follia
4. Difficoltà a fare genealogia al femminile
5. Una madre lo sa
421
425
431
433
438
INDICE DEI NOMI a cura di Martina Romanelli
449
PREMESSA
a mia madre, al suo sorriso
… figlio de mamma scura
Jacopone da Todi1
Lo sforzo più grande della vita
è di non abituarsi alla morte.
Elias Canetti, Il libro contro la morte2
1. Immagini, topoi e figure
Non è facile ricostruire la storia, o delineare le occorrenze di un tema letterario, non tanto in sé – all’interno della cultura nella quale viviamo o in quelle che gradualmente le si sono affiancate nel mondo che ci circonda – ma per
come quel tema è nato e cresciuto in noi fino a diventare un oggetto ineludibile di studio e ricerca. Dunque non mi soffermerò sulla genesi lunga (e a lungo
1
Non è un caso che questo sintagma jacoponico sia stato prescelto, tra gli altri, da un lettore
d’eccezione come Mario Luzi, in una prosa, «Il pianto di Maria» con «Donna di Paradiso» lauda
di Jacopone da Todi, Firenze, Metteliana, 2015 (ora anche in Mario Luzi, «Dal dicibile…» versi e
pensieri, a cura di Stefano Verdino e Paolo Andrea Mettel, Metteliana, 2018).
2
La citazione è tratta da Elias Canetti, Il libro contro la morte, con una postfazione di Peter van Matt, a cura di Ada Vigliani, Milano, Adelphi, 2017 (con riferimento a un aforisma
del 1967, p. 134); ma altre se ne potrebbero aggiungere pertinenti al tema e all’irragionevole
ragionevolezza del deuil inaccompli, del non abituarsi alla morte, forzatamente sotteso ad ogni
stabat mater: «Rompi con tutti coloro che accettano la morte» (ivi, p. 29); «Che cosa sarà delle
immagini dei defunti che ti porti negli occhi? Come fai a lasciarle a qualcuno?» (ivi, p 172);
«Quando Solone piangeva la morte di suo figlio e uno gli disse: “Così non ottieni niente” egli
rispose: “Proprio per questo piango, perché non ottengo niente”» (ivi, p. 173). Per altro non è
casuale che, tra i suoi appunti, Canetti si soffermi a riflettere proprio sul quadro di Maria con il
figlio di Grünewald (ivi, p. 79).
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
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12
ANNA DOLFI
vagheggiata) che ha avuto per me questo libro, ma sull’indissolubile e oggettivo
intreccio di letture ed emozioni, musicali, artistiche e letterarie, che lo sottendono. Certo è che lo stabat mater, come pochi altri oggetti della tematologia, vede
una stessa postura dolente rimbalzare e tradursi in linguaggi diversi, registra il
modificarsi e allo stesso tempo il persistere di una gestualità che dà voce, pur
variata nel tempo – prevalentemente in silenzio – all’inaccettabilità della perdita, al picco e alla durata immobile del dolore. Rappresenta insomma l’apice di
un’esperienza di malinconia reattiva, mentre si sofferma sullo spazio esistenziale
dal quale, forse più che da ogni altro, è arduo tentare – per dirla con il Freud di
Deuil et mélancolie – un doloroso e quasi impossibile lavoro del lutto3. Giacché
mette in atto quello che, non solo per La Rochefoucauld, è un insanabile ossimoro, visto che pretende la fissità dello sguardo su ciò che non si può guardare
(«le soleil ni la mort ne se peuvent regarder fixement»).
Inevitabile allora che tutto cominci da lontano, con la sottolineatura, a seconda dei casi, di uno o dell’altro dei due protagonisti (il figlio, ben inteso senza distinzione di genere; la madre). Il lamento, la follia di Ecuba (da Omero a
Euripide), le mères en deuil dell’antichità classica e del teatro shakespeariano (di
cui proprio all’inizio dello splendido libro di Nicole Loraux4), come il tacito venir meno di Maria ai piedi delle tante crocifissioni che hanno scandito per oltre un millennio (ma con significative testimonianze fin dalle origini5) la storia
dell’arte. A partire da Jacopone da Todi e da quel lontano mondo medievale (per
quanto ci è dato conoscere del nostro ‘volgare’), dal Giotto degli Scrovegni fino
all’arte moderna, rilievi in pietra e in marmo, pannelli lignei, affreschi, vetrate,
incisioni, tempere, olii, manoscritti, scrittura… hanno riproposto la figura della madre dolente che accompagna con significativa fissità il perdurare della pietà e del ricordo, o che riproduce nell’abbandono del corpo (penso, per non fare
che un esempio, al Descendimiento del Prado di Roger van der Weyden), la capacità di vivere con mimetico parallelismo la morte e l’inaccettabilità del morire. Mettendo in atto, in ognuna delle possibili declinazioni (verbali o visive
di cui l’arte ha lasciato ampia testimonianza), quanto non può che continuare
Portando alla fissità e immobilità tipiche della malattia malinconica, su cui cfr. Malinconia,
malattia malinconica e letteratura moderna. Atti di seminario. Trento, maggio 1990, a cura di
Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 1991. Ma per aggiornamenti della bibliografia relativa, cfr. anche
i successivi: Anna Dolfi, Giorgio Bassani, una scrittura della malinconia (Roma, Bulzoni, 2003);
Caproni, la cosa perduta e la malinconia (Genova, San Marco dei Giustiniani, 2014); Dopo la
morte dell’io. Percorsi bassaniani «di là dal cuore» (Firenze, Firenze University Press, 2017).
4
Nicole Loraux, Les mères en deuil, Paris, Éditions du Seuil, 1990.
5
Si veda in proposito, tra i documenti recenti, il volume nato a margine della mostra parmense del 2015: Mater. Percorsi simbolici sulla maternità, a cura di Elena Fontanella, Annamaria
Andreoli e Cosimo Damiano Fonseca (Catalogo della mostra, Milano, L’Erma di Bretschneider,
2015), che traccia un percorso che dal neolitico e dalla cultura antica arriva fino alla maternità
sacralizzata e a quella negata degli ultimi secoli.
3
PREMESSA
13
ad inscriversi nel campo dell’eccesso, del pathos, dell’irragionevole6, nonostante
un ruolo improvvisamente cambiato dopo secoli di immutabilità7. Infatti, se la
storia delle società di antico e nuovo regime e lo studio delle mentalità e dei costumi a quelle legate8 ha bene mostrato duraturi condizionamenti, e con quelli l’idealizzazione della maternità che ha dominato in particolare l’Ottocento e
almeno la prima metà del secolo successivo, les mots des mères9, a dispetto della metamorfosi brusca che ne è seguita e che ancora perdura, sono rimasti nella
realtà, nel vissuto individuale, sostanzialmente gli stessi. Acuiti persino, perché
in tempi in cui «tous les enfants sauf un grandissent»10, non può che divenire
inconcepibile la rassegnazione per la perdita e di conseguenza aggravarsi l’effetto traumatico a quella legato con il relativo rifiuto11.
Eppure, nell’intenzione di rivolgermi, come avevo previsto inizialmente con
questo libro – sia pure con una spiccata attenzione comparatistica e significativi e già preventivati sfondamenti – prevalentemente al campo letterario, ho dovuto prendere atto dell’esistenza di un forte disequilibrio, di una variabilità ben
più forti rispetto a quanto è avvento e ancora si verifica in musica, in scultura o
pittura… Non solo perché sono clamorosamente meno numerosi (e da sempre:
basti pensare alle centinaia di testimonianze musicali, alle migliaia di figurative)
i romanzi, i testi teatrali12 o poetici che affrontano il tema, ma perché proprio
in letteratura si registra una sorta di censura (forse dovuta al fatto che la scrittura si riconosce impotente dinanzi all’indicibile, al punto da evitare il cimento) e,
accanto a quella, un rovesciamento nella direzione dell’odierna messa in discussione della stessa maternità. Non a caso attestata, quest’ultima, soprattutto da
voci autoriali femminili; laddove l’autorialità maschile, dominante fino agli ul6
Non a caso delle misure contro gli eccessi femminili del dolore si occupa la Loreaux in Les
mères en deuil, studiando il ruolo delle madri dolenti nella letteratura e nella storia greca. Ma,
per la capacità delle antiche società di mettere in scena, controllare e abreagire politicamente il
dolore, percepito altrimenti come una forza eversiva, vi veda anche, della stessa Loreaux, La voix
endeuillée. Essai sur la tragédie grecque, Paris, Gallimard, 1999.
7
Basti il riferimento al noto studio di Élisabeth Badinter, L’amour en plus: histoire de l’amour
maternel (XVIIe-XXe siècle), Paris, Flammarion, 1980.
8
Si vedano anche i cinque volumi della Histoire des femmes en Occident, sous la direction de
Georges Duby et Michelle Perrot, Paris, Plon, 1992.
9
Ovvero la loro reazione all’evento specifico della perdita, come ben mostra (per le poche
pagine dedicate al tema) anche una recente antologia affidata solo a voci femminili: Yvonne
Knibiehler-Martine Sagaert, Les mots des mères du XVII siècle à nos jours. Histoire et anthologie,
Paris, Robert Laffont, 2016.
10
Il sintagma, citato in un capitoletto di Les mots des mères, è estratto da Philippe Forest,
L’Enfant éternel, Paris, Gallimard, «Folio», 1997.
11
Per un mascherato racconto di un deuil inaccompli sia consentito il rimando ad Anna
Dolfi, La femme en rouge, in Letteratura & Fotografia II, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni,
2005, pp. 379-394.
12
Non si dovranno dimenticare, tra le altre, benché ogni volta si registri un significativo
slittamento del tema, delle pièces come La nemica di Dario Niccodemi, La vita che ti diedi di
Pirandello, Madre coraggio e i suoi figli di Berthold Brecht.
14
ANNA DOLFI
timi decenni, si era come ritratta dinanzi al tema, quasi per un rispettoso timore. Sì che, ove non si voglia assistere nel tempo a repentini mutamenti di segno
(in pittura, in scultura, il modello originario continua invece a ripetersi da secoli sostanzialmente invariato) e si voglia registrare una sicura presenza, ci si dovrà
piuttosto affidare alle immagini, accompagnandole con le note di Palestrina, di
Vivaldi, Scarlatti, Pergolesi, Boccherini, con la straziante, dispiegata e cantabile
melodia dello stabat mater rossiniano… Visto che le emergenze, che pure continuano ad esserci, e numerose, in scrittura, restano prevalentemente nel campo della testimonianza13, ascrivibili a una sorta di para-letteratura (per altro oggi
in gran voga) ai margini del letterario, mentre occorrenze analoghe in altri campi espressivi (soprattutto nel figurativo) – pur fortemente presenti – non interagiscono con il registro ‘alto’, che in questa sede mi proponevo di rubricare.
Detto questo non manca la possibilità di rintracciare topoi con le relative
modalità di dizione (quanto a narratori moderni appaiono nel libro Manzoni,
Fogazzaro, D’Annunzio, Gadda, Vittorini, Pavese, la Morante, Calvino…; tra
i poeti Alfonso Gatto, Philippe Jaccottet, la Szymborska, la Merini, Yves Bichet
e altri contemporanei), ma la sfida che alla prova dei fatti, con i mutamenti di
prospettiva imposti in itinere alla nostra ricerca, abbiamo voluto tentare è stata
quella di muoversi anche su terreni meno battuti e quasi di confine, prestando attenzione non solo alle fasi distinte e al momento che segna il passaggio da
‘Maria’ a ‘Medea’, ma facendo parlare la saggistica (sempre di grande ricchezza
propositiva, di cui sono folte le note dei singoli contributi14), il cinema (non
solo di registi tout court15, ma ad opera di scrittori: il caso di Pasolini); l’architettura, con la contrastata ricezione di modelli ideologici inevitabilmente condizionanti (il caso di Freiburg in Germania o della situazione albanese, tramite
un’intervista inedita a Gezim Qendro). Facendo soprattutto interagire la musica con la letteratura (da Diderot a Dumas) e i libretti d’opera (fino a Verdi e
a Puccini); intrecciando colonne sonore strazianti con film di successo; dando
modelli figurativi alla fotografia (nel caso degli scatti di Letizia Battaglia sulle
madri di mafia). Traduzioni d’eccezione (Fabio Pusterla) e testi inediti di poeti (Eugenio De Signoribus, Jean-Charles Vegliante), per l’occasione ricondotti
al tema, non casualmente sigillano (in apertura e chiusura) la sezione iniziale
del volume che si interroga su modelli e tipologie, mostrando la presenza oggi,
Si veda in proposito quanto registrato da Oleksandra Rekut-Liberatore nel suo Metastasi
cartacee. Intrecci tra neoplasia e letteratura, Firenze, Firenze University Press, 2017
14
Una citazione d’obbligo, dopo interventi sul tema che risalivano già alla metà degli anni
Settanta, anche a una più recente Julia Kristeva, Parler à la littérature. Entre théorie et création
littéraire: la passion maternelle, in Amour maternel ou sublimation de femmes. Des écrivaines interrogent altérité, maternité et création, sous la direction de Corinne Cammaréri, Toulouse, ERES,
2012, pp. 97-143.
15
Penso, per non fare che una citazione recente, al film intenso e perturbante di Piero Messina, L’attesa, del 2015, con una splendida Juliette Binoche nel ruolo di una madre che vive la
patologia del lutto.
13
PREMESSA
15
quasi in sostituzione, di un ulteriore rovesciamento, quello che vuole che sia il
figlio ormai, con la sua pietas, a posare accanto alla madre16.
2. «Il disertore»: uno stabat mater oltre l’apparenza del racconto di guerra
Se, dopo quanto si è detto, si torna ancora per un momento sui romanzi
italiani che si sono cimentati con storie femminili di perdita, non c’è dubbio
che, per la quasi esclusiva pertinenza al tema, si imponga un piccolo libro dei
primi anni Sessanta di Giuseppe Dessí, Il disertore. Dopo i primi romanzi (San
Silvano [1939], Michele Boschino [1942], Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo
[1959]), nei quali aveva proposto storie che parevano, per forza interna di stile, obbedire a obiettivi flaubertiani, l’autore, con I passeri [1955-1965], Il disertore [1961], Paese d’ombre [1972], si misura con la presenza della storia divenuta ormai ineludibile. Un tempo esterno tramato di riferimenti ad accadimenti
reali si sovrappone a quello interno dei personaggi, provocando, nei personaggi
e nel racconto, una sorta di continua discrasia: da una parte domina la temporalità cronologica, misurabile, irreversibile (nella quale si inscrivono la violenza e la morte), dall’altra un tempo che continua a rimanere privato e che misura soltanto la coscienza di esistere. A questi due tempi, particolarmente evidenti nel Disertore, corrispondono spazi diversi: sul primo, fatto di rumori, scorre
quanto contribuisce a formare la storia collettiva; sull’altro, inalterabile, silenzio e tempo soggettivo coincidono. Da una parte abbiamo la Sardegna dei primi del Novecento, dall’altra un paesaggio immobile (montano) ove ogni successione causale si annulla in un ordine temporale assoluto che fissa gli eventi in
un’immobile ieraticità17. La storia segreta della fuga e della morte di Saverio (il
figlio disertore) e quella di un piccolo paese sardo (Cuadu) tra la fine della prima guerra mondiale e l’incipiente fascismo (in primo piano), si intersecano con
un’altra (di sfondo), che è fatta del solitario dolore di una madre (Mariangela
Eca) e della forza prelogica del suo sentimento. Se i fatti storici, come alla ribalta,
mostrano le violenze e discordie degli anni che precedono la marcia su Roma; il
diffuso brusio della vita (compreso il progetto di costruzione di un monumento ai caduti voluto per fini meramente politici dai notabili del luogo) è attutito
e assorbito, sul piano retrostante, da uno spazio dilatato ove ogni suono si tra16
Né si tratta di un caso isolato, basti citare, per la poesia italiana (dopo aver fatto velocemente i nomi di Pascoli, Saba, Valeri, Ungaretti, Vigolo, Montale, Quasimodo, Sinisgalli, Gatto,
Luzi…), tra i più recenti, il bel libro di Vivian Lamarque, Madre d’inverno, Milano, Mondadori,
«Lo Specchio», 2016.
17
Sul Disertore cfr. Anna Dolfi, Introduzione a G. Dessí, Il disertore, Milano, Mondadori,
«Oscar», 1976. Quanto a una lettura complessiva dell’autore, con un capitolo specifico sul romanzo, cfr. A. Dolfi, La parola e il tempo. Saggio su Giuseppe Dessí, Firenze, Nuovedizioni Enrico
Vallecchi, 1977 (n. ed. rivista, col titolo La parola e il tempo. Giuseppe Dessí e l’ontogenesi di un
‘roman philosophique’, Roma, Bulzoni, 2004).
16
ANNA DOLFI
duce in sconfinato silenzio, in parole sussurrate, risolte in un urlo strozzato o in
un soffocato gemito. Dietro il paese, oltre la tragedia della guerra, la tacita storia di Mariangela, di Don Pietro, di Saverio, acquista una fissità paradigmatica,
ingigantita dal fatto di essere proiezione prospettica di un dramma che avrebbe
sconvolto poco dopo l’intera nazione.
La vita dei protagonisti, in equilibrio tra il tempo che scorre e quello immobile di una storia che non può più mutare, nel corso del romanzo si allontana con uno slittamento progressivo verso il silenzio atemporale della montagna. Sul piano mobile della spazialità sulla quale chrónos crea passato e futuro
pretendendo la dimenticanza, il dolore della madre, il suo sentimento esclusivo, generano un’anomalia del tempo. Non confinati nei luoghi intermittenti e
rituali della ricordanza, invadono il presente riconducendolo a un passato senza
confini che si risolve soltanto nell’attesa rivolta a una «tomba segreta». Non è un
caso che dolore sia la parola tassonomicamente più ricorrente nei brevi capitoli
di questo romanzo breve. Anche la vastità del paesaggio, le scure montagne che
si stagliano dietro il paese, sembrano nascere e vivere del dolore di Mariangela:
gli alberi, la fitta radura, il monte inaccessibile si nutrono della sua solitudine,
perfino del suo ordine, della sua calma. Ma al pari dei personaggi, anche il paesaggio è ferito: a Don Pietro le montagne, assieme ai suoi dubbi, appariranno
ad un tratto fratturate, ingorgate da fanghiglia e da sassi, in preda a una generale souffrance, translato simbolico di una frana essenzialmente morale. Poi le parole, superflue, lasceranno posto al silenzio. E così il sema silenzio (con picchi
significativi di incidenza) si aggiunge a dolore, mentre il paesaggio si pone come
interlocutore unico per un pensiero che scorre e si svela lungo le linee fatte di
spazio intemporale, di secolare presenza. Solo in queste dimensioni finalmente percepite sarà possibile la comprensione. Il ritardo nel capire di Padre Coi rispetto a Mariangela, o del medico amico nei confronti del sacerdote, è dovuto
all’uso delle parole, delle distinzioni astratte che riducono tutto a un logico e assurdo «teorema di geometria». Solo lo spazio consente di conoscere/riconoscere
i sentimenti, dando loro la certezza della verità. Nel silenzio finirà per trovarsi
anche il monumento ai caduti che, risultato di calcoli, di valutazioni politiche,
di voci discordanti, conterà per il suo rimanere isolato in mezzo alla piazza, nel
buio della sera, quando la madre, che ha evitato la cerimonia ufficiale, ritorna,
come ogni giorno, ritualmente dalla montagna.
La storia di uno straordinario, moderno stabat mater si risolve così nel
paesaggio, in un tempo che dopo averlo generato, si restituisce allo spazio e alla
sua vastità. L’avverbio temporale, sul quale si era aperto il romanzo («Quando
si parlò e si discusse per la prima volta del monumento»), si scioglie in una dimensione priva di confini; la frattura creata, a quattro anni di distanza, dai contrasti intorno al monumento ai caduti, si salda in una ripetizione che copre l’arco di una vita («Continuò, per il resto dei suoi giorni, a portare fasci di legna
sul monte») e quindi, per trasposta induzione, la parabola stessa del tempo. Lo
scarto tra il quotidiano e il momento che ha cambiato il passato (la diserzione,
PREMESSA
17
la morte) restituisce alla fine il primo tempo al secondo: lo sancisce la subordinazione a un istante divenuto ormai eterno presente. Il monumento non rappresenta infatti per la madre una sublimazione liberatoria, una sacralizzazione
ufficiale, ma la garanzia che il dolore, minacciato e turbato dalla strumentalizzazione politica e dall’inquietudine esistenziale, possa continuare a dispetto di
tutto a durare. I nomi fissati sul marmo ne legittimano l’invariabilità, la misura prolungata ad libitum, calando nel silenzio definitivo della pietra una «silenziosa e immutabile tristezza».
Fuori dal tempo e dal tentato accaparramento della morte anche i nomi dei
caduti tornano al silenzio, alla consistenza di parole non dette, al dolore che sceglie un luogo come meta rituale di pellegrinaggio. Il monumento, intorno alla
cui costruzione ruota l’intera vicenda, permette – con le lacrime che appaiono
una sola volta («Fu questo che la fece piangere alfine») – la scomparsa della prima scena, della quinta mobile, e il contatto pacificante con lo sfondo immutabile della natura. Mariangela, caduta la barriera separante del clamore del paese, ritrova nel silenzio qualcosa che conta più del ricordo: il senso della sua fedeltà. Così anche il dolore sembrerà placarsi, una volta che ne è garantita la durata nel traslato sulla fissità dei monti, là dove la dilatazione dello spazio offre al
lutto non fatto e non esperibile il tempo lungo necessario al soffrire. Per altro il
blocco freudiano del tempo, il ritornare su se stesso del tempo, modella la struttura del romanzo. Le forme ripetitive, il diagramma circolare, ne sono i segni
più evidenti, accompagnati da una tensione in crescendo che allontana Il disertore dai modelli del romanzo realistico o neo-realistico in voga in quegli anni in
Italia. Quanto veramente conta – al di là dei precisi riferimenti storici, puntigliosamente documentati dall’autore18 –, ha a che fare piuttosto con le modalità dell’etica, con le declinazioni della conoscenza, con il rapporto che esiste tra
verità di fatto e verità di ragione, con la ricerca di un epilogo che riconduca i
personaggi alla calma. Già, perché in definitiva Saverio affronta un viaggio che
non potrà che portarlo alla morte solo per avere un’assoluzione che infine lo plachi; sarà per spengere liti e contese che Mariangela offrirà i risparmi di una vita
per la costruzione del monumento; mentre padre Coi tornerà più di una volta
all’attimo della confessione per aiutarsi a capire e giustificare a se stesso un atto
di pietà. Nella solitudine conclusiva i quesiti aperti dalla coscienza morale si placheranno per tutti nella consapevolezza di un sapere definitivo che non fa altro
che confermare i primi moti del sentimento. Trionferà insomma la forza di un
sapere da sempre, di un avere già prima deciso. E questo nonostante che i personaggi partano da posizioni sostanzialmente diverse, fino al punto di collocarsi
su piani di differente profondità. Non c’è dubbio che, mentre Mariangela passa
come un fantasma sul primo piano, Padre Coi partecipi in modo tangibile alla
Per una bella lettura ‘storica’, che inserisce il romanzo nelle vicende sarde e italiane tra
metà Ottocento e prima guerra mondiale, si veda la Prefazione di Sandro Maxia all’edizione Ilisso
del Disertore (Nuoro, 1997, pp. 7-30).
18
18
ANNA DOLFI
vita agitata di un’aspra, difficile Sardegna che sperimenta la violenza dei primi
Fasci d’azione; riconquisterà la calma, la sicura coscienza d’agire ritornando al
paese: il piano della natura coincide per lui col dubbio, con le difficoltà. Non
così Mariangela, abbandonata al tempo della non esistenza, laddove padre Coi
fa parte di quelli che possono imparare a dimenticare.
Ma il fatto centrale, determinante del romanzo, la figura del figlio, Saverio,
i suoi giorni nella capanna, provocano la tangenza degli spazi, dei tempi, perfino la loro inversione. Sarà Padre Coi, nel momento della confessione, a trovarsi immerso nella quinta desolata dei monti, mentre Mariangela apparirà sullo
sfondo, come fuori scena. Poi il dislivello spaziale in cui vengono a trovarsi ricondurrà con sé il tempo e la logica delle usuali collocazioni: il prete, distolto
dall’arrivo di Mariangela, sarà ricondotto alla realtà e all’azione. La misura vera
è insomma offerta ai personaggi dal vicendevole mettersi a fuoco di piani diversi che si correggono scambievolmente. Anche se in ultima istanza alla madre
soltanto rimarrà il destino di una doppia appartenenza. Soltanto a lei sarà riservata la dannazione e/o il privilegio di vivere il tempo dell’oggi col corpo, mentre la mente va altrove, seguendo pensieri segreti. Così questa umile donna (uno
dei personaggi meno colti di un autore dalla raffinata formazione e passione intellettuale), che incarna la forza/persistenza di un topos umano e letterario tra i
più perturbanti della cultura occidentale, verifica in maniera esemplare l’alterazione che sfiora tutti i personaggi-protagonisti della narrativa di Dessí: una duratura e singolare anacronia, in cambio della quale è concessa una concentrazione, degna del de affectibus spinoziano19, che non può che colpire l’essenza.
Anna Dolfi
Mi piace, proprio sul nome di Dessí (presente qui, come negli altri volumi della
serie20), concludere almeno provvisoriamente anche questo percorso dedicato
19
Per una interpretazione dell’autore filtrata dalle letture fondamentali dell’adolescenza (Leibniz e lo Spinoza dell’Etica in particolare), cfr. A. Dolfi, La parola e il tempo. Giuseppe Dessí e
l’ontogenesi di un ‘roman philosophique’ cit.
20
Penso in particolare a Italia/Spagna: cultura e ideologia dal 1939 alla transizione, con un’appendice sull’Italia vista dalla stampa spagnola (1924-1939). Nuovi studi dedicati a Giuseppe Dessí, a
cura di María de las Nieves Muñiz Muñiz e Jordi Gracia, Roma, Bulzoni, 2011; Narrativa breve,
cinema e TV. Giuseppe Dessí e altri protagonisti del Novecento, a cura di Valeria Pala e Antonello
Zanda, Roma, Bulzoni, 2011; Insularità. Immagini e rappresentazioni nella narrativa sarda del
Novecento, a cura di Ilaria Crotti, Roma, Bulzoni, 2011; La saggistica degli scrittori, a cura di Anna
Dolfi, Roma, Bulzoni, 2012; Il racconto, romanzo filosofico nella modernità, a cura di Anna Dolfi,
Firenze, Firenze University Press, 2013; Non dimenticarsi di Proust. Declinazioni di un mito nella
cultura moderna, a cura di Anna Dolfi, Firenze, Firenze University Press, 2014; Non finito, opera
interrotta e modernità, a cura di Anna Dolfi, Firenze, Firenze University Press, 2015; Biblioteche
reali, biblioteche immaginarie. Tracce di libri, luoghi e letture, a cura di Anna Dolfi, Firenze, Firenze
PREMESSA
19
alle immagini e sequenze degli stabat mater in mezzo ai quali viviamo, ringraziando tutti i collaboratori al volume, assieme al «Centro Internazionale di Studi
Giuseppe Dessí»21 che ancora una volta ha accolto la mia proposta di ricordare
con un libro specifico un tema caro al nostro scrittore.
University Press, 2015; Ecosistemi letterari. Luoghi e spazi della finzione narrativa, a cura di Nicola
Turi, Firenze, Firenze University Press, 2016; Raccontare la guerra. I conflitti bellici e la modernità,
a cura di Nicola Turi, Firenze, Firenze University Press, 2017.
21
Nell’ambito delle attività della Fondazione Giuseppe Dessí, che ha sede a Villacidro, in
Sardegna, e che deve molto, oltre che alla sensibilità dei suoi presidenti e finanziatori, al prezioso
lavoro del suo amministratore-tesoriere (Mauro Pittau).
L’attesa (foto di Laura Dolfi).
MODELLI E TIPOLOGIE
DOLORE
Eugenio De Signoribus*
Nella grande chiesa, in una penombra rotta dalle lampade votive, una lunga
fila era ferma da un lato. Avvicinandomi, vidi che una persona alla volta mirava
a toccare una bianca pietra nuda, dietro un altare. Il passaggio era uno stretto
camminatoio obbligato appena in salita, fino alla pedana di sosta, oltre la quale cominciava la discesa, verso l’uscita. Tra la pedana e il muro, un tratto piano,
tutto a terra, per chi volesse solo scorrere, guardare. Percorrendolo, mi resi conto che la fila non si muoveva, non progrediva. Finché, arrivato all’altezza della
pietra, da sotto vidi una donna che ne occupava tutta la superficie con le braccia aperte, tanto che le dita, da un lato all’altro, sembravano penetrarla. In mezzo, la nuca, essendo il volto quasi schiacciato sulla pietra, avvolta in un anonimo fazzoletto. Sembrava una crocefissa senza croce, una madre che cercasse di
strappare il figlio da quel sepolcro. Notai che la gente, nella fila che s’ingrossava, non fiatava, non dava segni d’impazienza: anzi, quel corpo teso e senza volto, lì immobile e compenetrato, suscitava rispetto... Qualcuno si decideva a passare, senza sfiorarla.
Passò un tempo che non seppi valutare, in affanno com’ero per la sequela di
gente che ormai percorreva lo spazio di sotto, per curiosità, o per rendersi conto
se c’era la possibilità di uno sblocco e potesse rimettersi in coda… Mancandomi
dunque il respiro, decisi di avviarmi all’uscita. Lì, mi appoggiai su un gradone
e mi coprii gli occhi tanto era accecante la luce. Non mi ero ripreso da quella
prostrazione, quando sentii un’improvvisa animazione che dall’interno brulicava
verso il fuori, sempre più concitata e sgomenta. Non riuscivo a muovermi: così,
tra le voci sovrapposte, raccapezzai che la donna era ancora lì, in quella postura,
inamovibile. E, più che morta, sembrava diventata di pietra.
* Si propongono, in apertura, due testi di Eugenio De Signoribus, da lui generosamente
donati al volume. Sono per certi versi speculari, guidati come sono, nel rapporto madre-figlio, da
una simile pietas e da un’analoga, straziante, intensità amorosa. Il secondo, «una sorta di piccolo
quadro, dal vero, di una deposizione rovesciata» (così come l’ha definito l’autore in un messaggio
mail ad Anna Dolfi del 13 marzo 2017) porta alle conseguenze ultime il cammino classico dello
Stabat Mater, quello che ribadisce la forza e la persistenza di un topos che si declina lungo tutto
l’arco vitale (dalla madre al figlio) perfino nella corrispondenza biunivoca, nutrita di tangenza e
di trasmissione per contatto (n.d.c).
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
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24
EUGENIO DE SIGNORIBUS
L’altra pietà
Vedete chi siamo, noi comuni, riuniti in questo asilo della dubbia vita,
sotto la provinciale strada dei molti, in un chiarore artificiale che
svernicia i visitatori e li rende a se stessi più veri, malati tra malati…
Così è una piccola Pietà quella che nicchiando si assesta sul lettino
d’ospedale: ma è la madre tra le braccia del figlio… che le avvicina
alle labbra, con un compresso tremore, un cucchiaino fresco d’acqua,
dicendo «Faccio a te quello che facesti a me».
Lo sguardo innocente della donna, a quel sussurro, s’illumina,
sembrando assenso ma anche – si può definire così?– grazia della memoria…
Quella luce materna torna al figlio-madre come un bagliore insostenibile,
in un punto remoto in cui l’uno fu già nell’una…
Vertigine… ora che in un volo s’è compiuto il cammino e si è, nella
separazione, mai più separabili.
«DOLOR MARIAE DE FILIO». UN TRITTICO
Antonio Prete
Raffigurazione di sé nella Pietà
Dolor Mariae de filio. Un’intestazione per il dramma sacro. O per una rappresentazione che sul sagrato della chiesa o in un chiostro o nella piazza di un
paese dà forma e lingua, pianto e musica, ad alcune figure della Passione: la
Madre che è ai piedi della Croce, o che tiene sulle ginocchia il Figlio deposto
dalla Croce, o che accompagna con lo sguardo verso la sepoltura il corpo avvolto nel lenzuolo. L’arte figurativa avrebbe dato fissità e luce, respiro di pensieri e
nitore di forme ad alcuni passaggi di queste scene, dischiudendo un ventaglio
meraviglioso di invenzioni. Insieme preghiera e colore, meditazione e raffigurazione, palpito e geometria. È la storia delle Pietà nell’arte. M’è accaduto, nel
saggio sulla Compassione, di sostare su alcuni momenti di questa storia. In ogni
opera c’è, al di là spesso del progetto dell’artista, un’esegesi per figure di quello
che raccontano gli Officia medievali – l’Officium Passionis, o l’Officium Virginis
–, ma allo stesso tempo c’è il racconto del rapporto che l’artista intrattiene con
il sacro, con quella custodia dell’umano che spesso è il sacro. Un rapporto che
qualche volta ha voluto spostare l’atto interpretativo e figurativo verso la soglia
estrema dell’esegesi: non solo portare la parola verso di sé, ma portare se stesso
nel cuore della parola. Per un artista, per il quale tutto questo avviene sul piano
del vedere, questa dislocazione vuol dire rappresentare se stesso nella scena della Passione, collocare la raffigurazione di sé – o quella fragile e incerta relazione
con la somiglianza che è l’autoritratto – nel mezzo della situazione.
Ecco Tiziano che non osserva da pittore la scena, come un naufrago dalla riva il naufragio, ma si colloca egli stesso come personaggio nell’ultima Pietà
che dipinge, una Pietà che doveva essere collocata nella Chiesa dei Frari per la
quale sessant’anni prima aveva dipinto la pala dell’Assunta, ma che poi fu esposta nella Chiesa di Sant’Angelo. L’opera, iniziata da Tiziano nel 1575, interrotta dalla morte, fu compiuta poi a da Palma il Giovane. Già molti anni prima
Tiziano s’era rappresentato nei panni di Giuseppe d’Arimatea nella Deposizione
del Prado. Qui invece il vecchio maestro è nelle vesti di un uomo rivolto con il
gesto della supplica a Cristo. Nell’opera, che è un consapevole testamento, lo spaAnna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
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26
ANTONIO PRETE
zio architettonico è solenne: due statue dipinte proteggono l’intera composizione, da una parte Mosè con le tavole della legge, dall’altra la Sibilla Ellespontina
che solleva una grande croce (si tratta della Sibilla che aveva predetto la morte e la Resurrezione di Cristo). La Madre, veste azzurra e lungo velo, tiene sulle ginocchia il Figlio, la cui mano sinistra abbandonata è tenuta dalla mano del
pittore, avvolto in un panno rosso e proteso nell’atto di una preghiera. Il panno rosso cade dalla spalla dell’artista, mostrando in questo modo lo stato di chi
sta per spogliarsi della vanità terrestre, della gloria, e della vita stessa. Dall’altro
lato la Maddalena, in piedi, è rivolta all’esterno del quadro, e la sua mano sollevata sembra accompagnare un grido. Un grido che forse è un invito a contemplare il dolore, e di là dal dolore la Resurrezione. Al lato destro un bambino con
una brocca, e in alto, dipinto forse da Palma il Giovane, un putto che regge una
fiaccola funerea. Nel margine destro, in basso, una mise-en-abyme: sotto la testa
marmorea di un leone è appoggiato un quadro dove è ritratto ancora Tiziano
con il figlio nell’atto di chiedere alla Vergine protezione contro la peste. L’opera
di Tiziano mette in scena il contrasto tra il tempo storico, con le sue allegorie e
architetture e simbologie, e il tempo di un’esistenza individuale, di una singolarità che raccoglie la propria vita in un gesto supplichevole: consegna a una protezione, affidamento a una trascendenza. In tutti i particolari si può sentire la
ricerca di una lingua – colore, forma, stile – che sia la lingua propria del dolore.
Nella Pietà, o Deposizione, dipinta da Caravaggio tra il 1602 e il 1604 per la
Chiesa Nuova dell’Oratorio a Roma, alcuni vedono il volto del pittore ritratto
nel personaggio di Nicodemo che sostiene il corpo di Cristo, la cui posizione è
un dichiarato omaggio alla Pietà vaticana di Michelangelo: nella luce che illumina il corpo di Cristo e la sua fisica anatomia, il colore vivo della carne isola
ed esalta l’istante che precede la sepoltura. Un tempo sospeso, fatto forma, doloroso incantamento di una forma. Dolorosa energia di una forma.
Nella Pietà di Van Gogh, l’unica che egli abbia dipinto (una versione è ora ai
Musei Vaticani, l’altra al Van Gogh Museum di Amsterdam), il volto di Cristo
ha tratto fisiognomici e colori che rinviano al volto del pittore stesso. Come già
era accaduto – con più nitida e dichiarata evidenza – in un Cristo di Dürer. Van
Gogh, che in una lettera a Gauguin diceva che né lui né l’amico erano pittori in
grado di dipingere una Pietà, riconosceva tuttavia l’energia figurativa e spirituale di una Pietà di Delacroix della quale possedeva una litografia non colorata.
Da quella litografia muove per la sua Pietà. Il volto di Maria è nella stessa diagonale del volto di Cristo. Mentre le mani del Figlio sono abbandonate, quelle
della Madre sono allo stesso tempo aperte come per lasciar cadere il corpo privo di vita nella grotta e spalancate nell’accettazione dell’avvenimento, un avvenimento che è oltre quell’istante, oltre la stessa storia. Van Gogh racconterà d’aver dipinto la cava-sepolcro all’aperto, sotto un violento maestrale. Rovescia la
posizione delle figure di Delacroix, fa agire il vento sul panneggio, approfondisce il blu della Madre, accende il cielo di un giallo fortissimo. Nel blu delle vesti
di Maria e nelle pieghe del lenzuolo che avvolge Cristo ci sono riflessi del cie-
«DOLOR MARIAE DE FILIO». UN TRITTICO
27
lo. L’artista porta il dolore nell’intimità della sua propria poetica, partecipa alla
rappresentazione con la preghiera più profonda che un artista conosca, quella
che trasforma in colore la parola della finitudine, in luce materica e in pulsazione di forma l’esperienza del dolore.
***
Stabat Mater
Gocce di marmo sul viso.
Una spada la memoria
del suo verbo, del suo riso,
del suo passo nella gloria.
Sul volto spento del Figlio
i bagliori delle stragi,
sul vetro scuro del ciglio
i riflessi dei naufragi.
L’ afflizione tua è un deserto
che contempla nere lune,
con carcasse allo scoperto
e rapaci sulle dune.
Un delirio ancora strazia
con bandiere e cieche fedi
il nitore della grazia.
Tutt’intorno morte vedi.
Siamo, stille del tuo pianto,
nella tenebra dell’ora.
Come scorgere l’incanto
d’una trasparente aurora?
***
La processione
Il paese pare deserto, dove una via confluisce nell’altra si radunano gruppi silenziosi, si dispongono a schiera, spingendosi lungo i marciapiedi, in fondo alla
strada appare una macchia che procede e si definisce, giungono voci, è il coro
di un rosario, viene dalle prime file della processione, la sera d’aprile è già scesa
portandosi un vento leggero che solleva i lembi dei fazzoletti sulle spalle e intorno al capo delle donne, in mezzo alla via colonne di ragazzi e ragazze incedono
con passo lento, la mestizia del Venerdì santo è fatta aria, dondolano nella sera
28
ANTONIO PRETE
le statue dei santi sostenute dalle spalle di uomini vestiti di scuro, volti di contadini e di artigiani, dopo san Giovanni ecco, nella veste nera di velluto damascato, sotto un manto ricamato al tombolo, l’Addolorata, nel volto di cartapesta
una bellezza che raccoglie le bellezze delle campagne e dei paesi che sono qui
intorno, nell’espressione i segni di un dolore che somma tutti i dolori, dall’uscio
della sua casa una donna vestita di nero la guarda cercando una preghiera che
non giunge alle labbra, cercando una lagrima che non si forma, potesse almeno
consegnare la sua pena al cuore dell’altra che oscilla lacrimosa sulle spalle degli
uomini, perché, del resto, somigliante è la pena, ma il gelo dentro l’agghiaccia,
una statua anche lei, statua di un marmo che nessuno solleva nell’aria della sera,
però sente ora che uno stesso brivido trascorre nelle due statue, è un brivido che
è abisso di un’assenza priva di rimedio, perché la morte di un figlio è la forma
compiuta e assoluta del dolore, in questo la Madre dolorosa le è vicina, ma ha
per sé i cieli dove il suo dolore è trasformato in un trionfo, la propria privazione
è invece spalancata su una solitudine dove non c’è nessuna voce che non sia
il ricordo, il ricordo con le immagini gioiose del figlio adolescente, e i sorrisi,
un corpo che corre, che nuota, che giuoca al calcio, un viso assorto che legge e
guarda un film, o ascolta la musica sdraiato sul suo letto, una voce che la sera a
tavola racconta pezzi della sua giornata, dalla processione ora sale un canto di
donne che trema nella sera e leggero intona Udite, figlie, udite, i fagotti e i clarinetti della banda accompagnano la melodia, la estendono fino al pianto degli
strumenti che si fa vicino al pianto della madre ai piedi della croce, la statua
dell’Addolorata è già lontana, ferma dinanzi a un’altra chiesa, e il canto si ripete
esile e già lontano nel vento della sera d’aprile, mentre lei, appoggiata al muro di
calce della sua casa, vede in un istante immagini di altre donne vestite di nero,
il capo velato, che gridano dinanzi al corpo del figlio straziato dalle armi degli
uomini, intorno la guerra che divora e urla, sente ora che a quella di altre donne
è sorella la sua pena, ma questo è meno del vento che spira nell’aria della sera, è
meno dell’ultimo refolo di canto funebre che giunge con le voci femminili dalla
piazza dove ora la processione si deve essere tutta raccolta, in questo Venerdì
santo che è sceso profondo e lugubre dentro i suoi pensieri, dentro lo sconforto
senza confini dell’assenza che la svuota e consuma.
MARE, MADRE, MORTE. LA COSTELLAZIONE ARCHETIPICA
DEL FIGLIO ANNEGATO
Francesca Nencioni
1. Oltre il significante: insidie e seduzioni del significato
È sempre l’acqua, l’insidia dell’acqua a dare la morte. Sia l’onda piatta dell’Adriatico liscio «come l’olio»1 nel Trionfo della morte (1894) di Gabriele D’Annunzio
o la superficie «immobile, plumbe[a]»2 del lago di Lugano in Piccolo mondo antico (1895) di Antonio Fogazzaro o «il mare profondo e roccioso»3 nella Polveriera
(1943) di Alfonso Gatto, l’elemento equoreo, nell’ambivalente simbologia di abbraccio materno e di nodo funereo, è il medium che accomuna nella stessa fine
il pastorello di San Vito, Maria-«Ombretta sdegnosa / del Missipipì», il piccolo
Cirillo: i tre ‘figli’ annegati4 dei testi di cui si propone una lettura5 in parallelo.
1
Gabriele D’Annunzio, Trionfo della morte, in Prose di romanzi, I, edizione diretta da Ezio
Raimondi, a cura di Anna Maria Andreoli, introduzione di E. Raimondi, Milano, Mondadori,
«I Meridiani», 1988, p. 964 [da ora TdM]. L’episodio del pastorello occupa lo spazio del capitolo
VIII del Libro Quinto e ha un fugace epilogo nel capitolo successivo; un breve richiamo, appena
un flash, balugina nella visione retrospettiva di Giorgio in bilico sul promontorio nell’ultimo
capitolo: «Il morticino disteso su la ghiaia gli riapparve» (TdM, p. 1017).
2
Antonio Fogazzaro, Piccolo mondo antico, con una Cronologia della vita dell’Autore e del
suo tempo, una Introduzione, una Antologia critica e una Bibliografia, a cura di Anna Maria
Moroni, Milano, Mondadori, «Oscar», 1972, p. 301 [da ora PMA]. La morte di Ombretta è
narrata nel capitolo X («Esüsmaria, sciora Lüisa!») della parte seconda.
3
Alfonso Gatto, La polveriera, in La sposa bambina, Firenze, Vallecchi, 1943, p. 122 [da
ora LP]. L’incidente di Cirillo si verifica nella parte terminale del racconto, a conclusione di «un
gioco finito male».
4
Il pastorello, un fanciullo senza nome «di otto o nove anni, biondiccio, allungato» (TdM,
p. 958), entrato in mare per bagnarsi e subito caduto e affogato; Maria, «una bambina di tre anni
e un mese» (PMA, p. 322), l’«Ombretta gentile, la dolcezza del vecchio [lo zio Piero], il riso e
l’amore della casa» (PMA, p. 313), scivolata nell’acqua del lago dalla darsena per sperimentare il
galleggiamento di una barchetta; il piccolo Cirillo, un ragazzo dall’età imprecisata, impaziente di
raggiungere la polveriera e aggirare la banda rivale, spinto in mare con «spregio» da Bebè.
5
I tre testi, diversi per genere (romanzo e forma breve), voce narrante (narratore eterodiegetico nei due romanzi, con incursioni allodiegetiche in Piccolo mondo antico, autodiegetico nel
racconto), punto di vista (la scena è osservata dalla parte di Giorgio Aurispa, il protagonista-testimone nel Trionfo della morte; di Luisa Rigey, la madre, in Piccolo mondo antico; del personaggio
che dice io nella Polveriera), presentano analogie editoriali: prima di uscire in volume hanno visto
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
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30
FRANCESCA NENCIONI
«Laggiù, s’è annegato un bambino», «S’è annegato il figlio di una mamma»6
«Sciora Lüisa! Sciora Lüisa! […] Che La vegna a cà sübet! Che La vegna a cà
sübet! […] La Soa tosa, la Soa tosa!»7
«[…] e la madre del piccolo Cirillo avrebbe pianto, errando sola, sola per tutta la
sua vita, lungo la spiaggia»8.
Non è un caso che nel Trionfo della morte il fanciullo vittima del mare, indicato una prima volta genericamente come «un bambino», sia identificato poco
dopo come il «figlio di una mamma», stabilendo da subito l’indissolubilità del
nesso mare-madre-morte9, e che tale rimanga per tutto l’episodio, invocato da
la luce, in parte o in versione integrale, su riviste. Il Trionfo della morte fu pubblicato a puntate sul
«Mattino», dal 12-13 febbraio al 7 settembre 1893 e, dopo una lunga interruzione, dal 20 aprile
al 6 giugno 1894 (cfr. Note, a cura di A.M. Andreoli, in TdM, pp. 1262-1297). Sulla genesi del
romanzo si veda in particolare: per il legame tra il testo definitivo e i sedici capitoli dell’Invincibile: Ivanos Ciani, Dall’Invincibile al Trionfo della morte, in Trionfo della morte. Atti del terzo Convegno Internazionale di Studi dannunzini, Pescara, 22-24 aprile 1981, a cura di Edoardo Tiboni
e Luigia Abrugiati, Pescara, Fabiani, 1983, pp. 29-46; sui nessi tra i vari blocchi e il romanzo:
Emilio Mariano, La genesi del Trionfo della morte e Friedrich Nietzsche, ivi, pp. 143-193. Una
primizia delle pagine iniziali di Piccolo mondo antico comparve sul numero di Natale 1892 del
«Corriere di Napoli» (XXI, n. 57). Le prose edite sulle terze pagine dei quotidiani, coi titoli Uno
strano compagno («La Nazione», 16 aprile 1941 e «Il Mattino», 14 settembre 1941), Nella («La
Nazione», 19 giugno 1941 e «Il Mattino», 2 ottobre 1941), Martin («La Nazione», 6 dicembre
1941), La battaglia («La Nazione», 6 dicembre 1941), Epilogo («Il Mattino», 18 gennaio 1942 e
«La Nazione», 6 marzo 1942), confluirono tutte nella Polveriera (cfr. Bibliografia di Alfonso Gatto,
a cura di Marta Bonzanini e Annalisa Gimmi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2009, pp.
44 [n. 4129], 47 [4153], 49 [4176], 50 [4179 e 4183], 51 [4196 e 4193], 52 [4206], 53 [4216]).
A fare da trait d’union tra i testi concorre la filigrana autobiografica. Per diretta testimonianza
dell’autore, in una lettera all’amico Vincenzo Morello del 16 agosto 1889, mentre soggiornava a
San Vito, D’Annunzio fu veramente testimone della vicenda narrata nel Trionfo della morte: «Stamani, sotto la mia casa, tra gli scogli, si è annegato un ragazzo […]» (Note, p. 1339). Una trama
di ricordi percorre molte pagine di Piccolo mondo antico: il personaggio di Ombretta, com’è noto,
è ispirato ai suoi figli. Per l’avventura della fuga riportata da Gatto, l’impronta autobiografica è
suggerita dal narratore autodiegetico e dai particolari attinti dal vissuto (la casa della nonna, la
lettera del preside).
6
TdM, p. 957 (corsivo nel testo. Ove non diversamente segnalato, il corsivo è nostro).
7
PMA, p. 306.
8
LP, p. 127.
9
L’adozione del carattere maiuscolo, per distinguere gli archetipi simbolici dalle referenze
testuali, è presa in prestito dal saggio di Oreste Macrí, L’archetipo materno nella poesia di Alfonso
Gatto, in Stratigrafia di un poeta: Alfonso Gatto. Atti del Convegno Nazionale di Studi su Alfonso
Gatto [Salerno-Maiori-Amalfi, 8-10 aprile 1978], a cura di Piero Borraro e Francesco D’Episcopo, Galatina, Congedo, 1980, pp. 51-99; ora in O. Macrí, La vita della parola. Da Betocchi
a Tentori, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 357-411. Della tetriade mare-lunamadre-morte, genialmente coniata da Macrí per la Musa di Gatto, trapassano nelle pagine
dei testi che stiamo esaminando i tre elementi allitterati, poiché la voce luna non compare nei
brani in questione. Rispetto alla combinazione a quattro che «preesiste a livello archetipico e
fonosimbolico», la triade si snoda in un preciso contesto sintagmatico che ne giustifica i referenti,
MARE, MADRE, MORTE. LA COSTELLAZIONE ARCHETIPICA DEL FIGLIO ANNEGATO
31
Riccangela stessa come «Figlio! Figlio! Figlio!»10. Ugualmente non è casuale che
nelle «acute, disperate grida»11 delle donne, rivolte a Luisa dall’alto del sagrato
dell’Annunciata, non compaia il nome di Maria, ma vi si alluda in dialetto12 attraverso il legame di sangue: «La Soa tosa, la Soa tosa». Nella prosa di Gatto non
si trova un’uguale espressione riferita a Cirillo, perché l’annuncio della sua morte non è inserito in un discorso diretto, ma filtrato attraverso la visione dell’io
narrante: chi non ha nome, semmai, è proprio lei, la mamma, definita tramite
il rapporto di parentela. Ma, anche in questo caso, il trinomio linguistico allitterato allunga la sua ombra calamitante sulle parole in gioco: «madre» coincide
con madre, «spiaggia» rimanda a mare, «pianto», «errando», «sola» a morte, a
loro volta speculari all’interrogativo di Giorgio Aurispa: «[la madre] Era rimasta
sola dinanzi al mare e dinanzi alla morte?»13. Si forma così una triade semantica
con due termini fissi (madre-morte) e un terzo componente mobile, intercambiabile (mare/lago14). Ma è proprio la presenza di quest’ultimo dato flessibile,
declinato in entrambe le accezioni, a innescare la catena lessicale a tre anelli che
vede ‘madre’ come medio proporzionale e coagenti gli altri membri, che fungono da estremi, secondo la nota formula mare/lago: madre = madre: morte.
Nell’acqua si prolungano il respiro, la calma, la dolcezza della madre, ma
si celano anche agguati mortali: vertigine di abissi, viluppo di vortici, asperità
di rocce. Sotto l’ingannevole invito ad immergersi traspare l’attrazione verso il
nulla, il «profondo nulla»15, la tentazione a compiere l’ultimo passo che porta a scomparire. Annegare significa allora cedere alla lusinga funebre esercitafacendoli apparire a una prima lettura semplici vocaboli denotativi. In realtà l’orbita di valenze
profonde che si irradia da ciascuno di essi investe i termini di un polisenso, collegandoli in una
stretta rete simbolico-associativa. Si può leggere così ‘mare/lago’ come il principio elementale
causa del dramma, ‘madre’ come la dramatis persona sulla quale si riverbera più straziante il dolore
per la perdita del figlio, ‘morte’ come definitivo e ultimo approdo delle tre vite spezzate ante diem;
oppure si può ricercare in ‘mare’ il simbolo atavico che collega inizio a fine, in ‘madre’ l’inversione
del senso naturale della morte, in ‘morte’ l’interfaccia del polo positivo degli opposti.
10
TdM, p. 962.
11
PMA, p. 306.
12
Luciano Morbiato (in Funzioni narrative dell’elemento dialettale in Antonio Fogazzaro le opere
i tempi, Atti del Convegno internazionale di studio, Vicenza, 27-28-29 aprile 1992, a cura di Fernando Bandini e Fabio Finotti, Vicenza, Accademia Olimpica, 1994, p. 177) rintraccia nell’uso
del dialetto «l’eccezionalità della funzione connotativa espressiva». In questo caso «il dialetto si fa
portavoce dell’inconscio […] e la sua funzione espressiva viene esaltata dalla concisione» (ibidem).
13
TdM, p. 967.
14
A testimoniare la transitività e l’equivalenza degli elementi valgono le parole dello stesso
Fogazzaro: «Il lago si è trasformato in mare, – così scrive al nipote Angelo il 26 ottobre 1894 – ho
goduto la stessa visione che si può avere a Lido; egli adesso riprende la sua forma, il suo aspetto,
e mi dice tutto ridente che il mare era lui» (lettera riportata da Ernesto Travi in La Valsolda nelle
opere di Antonio Fogazzaro, in Antonio Fogazzaro a cura di Attilio Agnoletto, Enzo Noè Girardi,
Carlo Marcora, Milano, Franco Angeli, 1984, p. 87).
15
Giovanni Getto, La città morta, in «Lettere italiane», gennaio-marzo 1972; poi in Saggi di
letteratura italiana e straniera in Onore di Gaetano Trombatore, Milano, Istituto Editoriale Cisalpino, 1973; ora in Tre Studi sul teatro, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1976, p. 193.
32
FRANCESCA NENCIONI
ta dal liquido, rientrare nell’alveo materno, ricongiungersi con il fluido biologico primordiale. Non vale alla lettera la distinzione cara a Gaston Bachelard16
tra acque correnti, portatrici di vita e acque ferme o stagnanti, simbolo di decomposizione e corruzione. «Mi par d’avere in fondo a me non so quali acque
morte e venefiche»17, confessa Giorgio in un frammento epistolare a Ippolita,
riproponendo lo stereotipo fango uguale deterioramento: ma in questo caso
l’acqua ‘sporca’ è metaforica, allude ai recessi dell’inconscio, non si pone come
variante del paradigma delle acque grevi. Anche il titolo provvisorio di Acque
profonde, poi corretto in Acque bigie18, scelto da Fogazzaro per Piccolo mondo antico19, ha carattere simbolico in quanto ispirato al parallelismo tra opacità naturali e inganni o tempeste della vita. Un residuo di fango persiste nella
«terra immota del fondo»20 del mare simile a «un lago avviluppato di freddo»21
nella Sposa bambina; ma per incontrarlo dobbiamo sconfinare dalla Polveriera
a Tramonto dell’estate.
Tanto il mare che il lago, dunque, soggetti all’alternanza dei flussi, possono
offrirsi come fluidi in movimento o aderire alla fenomenologia delle acque morte, con inversione di segno: vivificanti e tranquilli in assenza di onde e di ombre,
tetri e aggressivi quando la superficie si increspa e si fa notte; ma anche sornioni e infidi se colti in una calma apparente, messaggeri di forza e rinnovamento
ogni volta che i frangenti sollevino spruzzi e fiotti di spume («il lingueggiar di
spume bianche»22 del lago di Lugano, «le creste bianche»23 dell’Adriatico). Ogni
bacino idrico, piccolo o grande, può così contenere valenze positive o connotati negativi, in conformità all’ora, la stagione, le condizioni atmosferiche e secondo la sfida, più o meno inconsapevole di chi, cercando nell’elemento liquido un refrigerio (il pastorello), simulando la guerra (Cirillo), o sperimentando
un gioco (Ombretta), trova invece la morte. In tutti i tre casi la morte assume
le sembianze della fatalità che s’insinua a tradimento entro uno spazio non sorvegliato, dalle tinte ludiche o trasgressive, quando la madre è lontana. Il discri-
Gaston Bachelard, Psicanalisi delle acque. Purificazione, morte e rinascita [L’eau et les rêves.
Essai sur l’imagination de la matière, 1942], Como, RED, 1987.
17
TdM, p. 689.
18
Cfr. Jean-Jacques Marchand, Fogazzaro tra romanticismo, simbolismo e realismo: l’elaborazione dell’inizio di “Piccolo mondo antico”, in Antonio Fogazzaro le opere i tempi cit., pp. 157-167.
19
Più vicina alle ‘acque morte’ si potrebbe collocare l’«acqua verde cupa» (A. Fogazzaro,
Malombra, a cura di Piero Nardi, Milano, Mondadori, 1942, pp. 239-241) dell’Orrido di Malombra, su cui proietta un’ulteriore sfumatura sinistra la «messa nera» dell’ambone nella «sala del
trono» (ivi, pp. 240-241), se non fosse che con virtuosismo ottico il ‘cupo’ si perde poche righe
dopo, trasformandosi addirittura nel suo opposto: «trasparente» (su cui si veda Gino Tellini,
L’avventura di Malombra e altri saggi, Roma, Bulzoni, 1973, pp. 51-55).
20
A. Gatto, Tramonto dell’estate, in La sposa bambina cit., p. 210.
21
LP, p. 210.
22
PMA, p. 41.
23
TdM, p. 816.
16
MARE, MADRE, MORTE. LA COSTELLAZIONE ARCHETIPICA DEL FIGLIO ANNEGATO
33
mine tra distrazione materna e disgrazia, si fa sempre più labile, in parallelo alla
stabilità della congiunzione madre-morte.
Il duplice aspetto di ‘culla’ e di ‘tomba’, tradizionalmente attribuito a ‘terra’,
può essere esteso a mare e quindi a madre, se si considera che «terra materna,
mater» è per D’Annunzio l’Adriatico24, per Fogazzaro il lago di Lugano circondato dai monti della Valsolda25, per Gatto il tratto di Tirreno che bagna Salerno
e la costiera amalfitana26. Anzi, in ognuno dei tre fattori della costellazione è
rintracciabile la dialettica degli opposti: mare è ‘culla’ non solo perché racchiude gli incunaboli della vita, ma anche nel conciliare l’ozio che fa epochè di pensiero e di affanni, secondo l’espressione di senso comune ‘lasciarsi cullare dalle onde’ o nel rendere dolce il ‘naufragar’ attraverso lo smarrimento dei confini spazio-temporali come nell’idillio leopardiano; è ‘tomba’ che inequivocabilmente si chiude nell’annegamento e nel naufragio. madre assume l’apparenza
di ‘culla’ quando custodisce nel proprio grembo la vita intrauterina, nell’avvolgente abbraccio della ninna-nanna, in tutte le manifestazioni di protezione, cura
e accoglienza; è ‘tomba’ nell’abbandono, nel rifiuto o nell’eccesso di amore che
soffoca; diviene insieme ‘culla’ e ‘tomba’ nel compianto sul figlio. morte simula
la ‘culla’ nel sereno approdo dell’urna, è ‘tomba’ nella cruda realtà del sepolcro.
Nel profilo della madre tracciato nel Trionfo della morte coesistono sembianze di culla/bara, letto/sarcofago, sonno/morte, cantilena/monodia. Lo spazio semantico che separa ‘letto’ da ‘sepolcro’ è breve, come il confine tra ‘pianto’ e ‘canto’: basta spostare l’accento da vita a morte e i due termini si confondono: «Ambedue, la madre e il figliuolo, ora giacevano l’una a fianco dell’altro
su le dure pietre […] ed ella ora cantava la medesima cantilena che un tempo
aveva diffuso il puro sonno su la culla»27.
La delimitazione si assottiglia ancora, se è sufficiente un «panno cupo»28 a trasformare la culla in bara, come nella sequenza del funerale del figlio di Liberata:
«La madre portava sul capo la culla coperta da un panno cupo»29. Ma già la cuna
«d’abete grezzo, simile a una piccola cassa mortuaria senza coperchio»30 che acco24
«L’immagine della morte quale verifica della nascita resta in D’Annunzio consegnata all’Adriatico, al suo mare simile a una striscia d’acqua che fasci la terraferma e la “rincalzi”: materna
mano che sottende la terra» (Nicola Ciarletta, Un ascetico senza Dio, in Trionfo della morte. Atti
cit., p. 277).
25
Cfr. E. Travi, La Valsolda nelle opere di Antonio Fogazzaro, in Antonio Fogazzaro cit. «Il
fascino della Valsolda fogazzariana deriva da questo gioco-scontro, a seconda dei casi tra terra ed
acqua; l’angolo visuale dell’autore […] sta di fatto sempre sul lago» (pp. 89-90).
26
F. D’Episcopo, Alfonso Gatto picaro e poeta tra Sud e Nord, Napoli, Edizioni Scientifiche
Italiane, 1989. «La biografia di Gatto appartiene al mare, al vento, alla costiera sinuosa più che
alla terraferma […]. Il mare verde di Gatto è inconcepibile al di fuori di un grembo materno, che
da acqua si fa terra» (ivi, pp. XII-XIII).
27
TdM, p. 966.
28
TdM, p. 851.
29
TdM, p. 851.
30
TdM, p. 831.
34
FRANCESCA NENCIONI
glieva il bambino in vita, conteneva in sé l’isomorfismo con la bara, anticipando la
«piccola cassa mortuaria di abete bianco»31, nicchia del riposo eterno del pastorello.
In Piccolo mondo antico resta, a testimoniare l’intercambiabilità dei poli esistenziali, l’attitudine con cui Luisa stringe a sé la sua bambina morta, la stessa di quando la cullava in vita, «stringendosi il cadavere al seno, cullandolo»32.
Nella Polveriera, per esigenze imposte dalla misura breve, non troviamo che
un accenno agli «occhi fissi della madre», dove si è coagulato il pianto; la culla è
ora il freddo giaciglio dell’obitorio: «“No, no, no” avremmo voluto gridare alla
cella dell’obitorio che per due giorni ancora tenne davanti agli occhi fissi della
madre il corpo del piccolo Cirillo»33.
Ma il rapporto madre-figlio si complica di trame inconsce, insieme attive e
passive. La madre può dare la morte o contribuire a darla: per rimanere in ambito dannunziano, ma sconfinando per un attimo dai testi esaminati, si pensi come esempio limite a Giuliana Hermil nell’Innocente, tacita connivente, se
non inerte istigatrice del marito nell’omicidio del figlio adulterino34, o tornando
all’interno della ‘triade’ e in senso più lato, a Riccangela nel Trionfo della morte,
che ha «allogato [il figlio] in casa di contadini perché pascesse le pecore e guadagnasse un tozzo di pane»35, recidendo la costante sorveglianza e le premure del
vivere insieme («Per un tozzo di pane t’ho annegato, figlio mio!»36; «Perché ti ho
allontanato dalla mia casa? Perché t’ho mandato alla morte?»37). Si pensi ancora
a Luisa in Piccolo mondo antico che, animata dal desiderio di giustizia-vendetta nei confronti della marchesa Maironi, lascia incustodita Maria, esponendola al rischio: «uscì senza avvertir nessuno, senza chiuder la porta di casa […] le
venne in mente che non aveva avvertito la Veronica della sua partenza, che non
le aveva detto […] di badare a Maria»38. Oppure la madre «per non uccidere il
figlio [può] vela[rsi], attenua[rsi], addolci[rsi] nella luna, nel mare […] e nella morte»39, come avviene in Gatto seguendo l’interpretazione di Macrí; o può
assumere lei stessa su di sé la morte, divenire madre-morta perché «il ragazzo
ha deciso di essere uomo»40 (il caso della madre dell’io narrante nella Polveriera)
o rifiutarsi di vivere «affonda[ndo] nei pensieri cupi […] cresciuti e maturati in
lei […] come una maligna infezione» (il caso di Luisa)41.
TdM, p. 968.
PMA, p. 312.
33
LP, p. 153.
34
«– L’ami tu? – Ah, che mi domandi! – L’ami? No, no l’ho in orrore» (G. D’Annunzio,
L’Innocente, in Prose di romanzi cit., p. 535).
35
TdM, p. 960.
36
TdM, p. 963.
37
TdM, p. 964.
38
PMA, p. 303.
39
O. Macrí, La vita della parola. Da Betocchi a Tentori cit., p. 388.
40
Ibidem.
41
PMA, p. 329.
31
32
MARE, MADRE, MORTE. LA COSTELLAZIONE ARCHETIPICA DEL FIGLIO ANNEGATO
35
2. Il respiro e l’affanno: per una semantica dell’acqua
Il mare si definisce in D’Annunzio entro le aree semantiche della respirazione, della calma e dell’immensità. La sfera verbale («respirava», «ansava») riveste l’antitetica valenza di trasmissione di vita (in questa accezione mare è madre) e di esalazione dell’ultimo respiro (in tal caso mare è morte), passando
per l’asse linguistico dell’alterazione/ malattia. L’«ansare» richiama infatti l’affanno respiratorio di chi ha corso, o di chi, come l’asmatico o l’infermo, stenta a trarre il fiato.
In tutto l’episodio del fanciullo annegato predomina una struttura frastica che potremmo definire ‘contenuta’, deputata per le spaziature create dalla
punteggiatura ad adeguarsi di volta in volta alla fretta con cui Giorgio si avvia per la scorciatoia verso il luogo dell’incidente, all’attesa della venuta della madre, alle rotte esclamazioni di lei sul corpo del figlio. Setacciando i passi in cui la voce del ‘mare’ incrocia quella del ‘respiro’42, incontriamo tre costrutti che seguono la scorrevolezza sintattica e melodica dell’enunciato breve, maggiormente aderente al ritmo dell’alitare e capace di riprodurre la ‘sinfonia’ del mare:
1. Il mare in calma respirava presso il corpo del morticino, dolcemente43
2. Il mare, immenso e verde, respirava sempre eguale44
3. Nel silenzio il mare appena appena ansava, le acacie appena stormivano45.
La scelta della linea melodica regressiva (1) si accorda con il lieve ritirarsi delle onde e della vita; quella dello schema simmetrico (2-3) bilancia nel parallelismo quiete naturale e sonno eterno46.
42
La diade mare-respiro non è esclusiva del capitolo che stiamo esaminando, ma si ripete
come un cliché nelle pagine dedicate a San Vito: «il mare […] pallidissimo, senza respiro» (TdM,
p. 835). In un caso il respiro del mare è abbinato a quello della donna: «una concordia palese era
tra il respiro di lei e il respiro del mare» (TdM, p. 808).
43
TdM, p. 959.
44
TdM, p. 966.
45
TdM, p. 961.
46
La frase 1 contiene nell’unità melodica iniziale più estesa l’informazione verbale («respirava»), in quella brevissima finale il completamento dell’immagine («dolcemente»). L’avverbio,
isolato dal segno interpuntivo sotto forte cesura, svolge duplice funzione: formale, di chiusa
musicale, e tematica nel richiamo alla figura materna. La seconda frase che presenta connotati
misti scompagina lo schema bipartito propendendosi in una regressione ‘dolce’, senza sbalzi, che
inserisce una terza unità (il binomio degli attributi circoscritto tra due virgole e evidenziato da cesura) tra il soggetto e il verbo. Si forma così un modulo regressivo tripartito, che adotta espedienti
melodici tipici della forma simmetrica. Nell’ultimo modello è evidente la tendenza analogica a
creare una parabola simmetrica.
36
FRANCESCA NENCIONI
La sintassi che in D’Annunzio «coordina tutto»47 favorisce la simmetria: troviamo come un’eco la ripresa a distanza dello stesso verbo («respirava») in 1 e
in 2; in 3 la medesima disposizione soggetto + avverbio + predicato in entrambi i membri collegati per asindeto. Ciò che differenzia il primo dal secondo colon è il complemento di luogo figurato, enfatizzato perché situato in incipit, e il
raddoppiamento di «appena» nel gruppo iniziale, che comporta una maggiore
estensione sillabica e predispone al graduale calando del blocco sintagmatico finale. Se si isola il dato acustico (l’espansione di luogo), si ottiene una quasi perfetta corrispondenza nella struttura binaria, che pur nella variatio dei soggetti
(mare, acacie), trova punti di contatto nell’ordine naturale degli elementi; nella ripetizione dell’espressione verbale di quantità (doppia la prima volta, ‘scempia’ la seconda48); nel parallelismo realizzato con amplificazione/variazione mediante il simile49: «ansava»/«stormivano», il cui terreno comune è rappresentato
dal soffio prodotto dal respiro o dal vento.
Tornando all’ottica semantica, rientra nella sfera lessicale positiva50 (mare
= madre) il verbo «respirava» contenuto nei periodi 1 e 2. Nel primo esempio
‘mare’ fa le veci di ‘madre’: potremmo scambiare i sostantivi e il senso non risulterebbe alterato; le connotazioni topologiche («presso il corpo») e l’avverbio
di modo «dolcemente» si addicono in particolare alla figura materna e autorizzano il transfert tra i due significanti. Più tardi incontreremo infatti la stessa
espressione riferita a madre: «Mise la grama reliquia su la ghiaia, presso il capo
del figliuolo»51. La seconda costruzione, mentre mantiene inalterato l’imperfetto «respirava», colloca la coppia di aggettivi al posto della forma modale «in
calma»: se «verde» è il dato cromatico con cui D’Annunzio coglie la sfumatura preminente dell’Adriatico («che verde è come i pascoli dei monti»), «immenso», che già conduce all’area linguistica della grandezza, dice l’inanità della lotta
tra vittima e carnefice. Il dicolon, formato da dati attinti da paradigmi semantici diversi, sembra giustificato dall’«impieg[o] sistematico di due aggettivi per un
sostantivo»52, stilema adottato di preferenza dall’Immaginifico e motivato dalle
esigenze melodiche già ricordate. «Ansava» introduce una nota dissonante nel
quieto alito marino e, per quella sapiente ripresa di termini e figure tipica della pagina dannunziana, richiama l’«ansante» con cui Giorgio è ritratto all’arrivo
47
Cfr. Gian Luigi Beccaria, Figure ritmico-sintattiche della prosa dannunziana, in «Sigma»,
XXIX-XXX (1971), poi in L’autonomia del significante. Figure del ritmo e della sintassi. Dante,
Pascoli, D’Annunzio, Torino, Einaudi, 1975 [da cui si cita], p. 291.
48
A testimonianza della propensione di D’Annunzio per «le forme iterative in genere e le
locuzioni avverbiali… in specie» (Gianni Turchetta, La coazione al sublime. Retorica, simbolica e
semantica dei romanzi dannunziani, Firenze, la Nuova Italia, 1993, p. 69).
49
Cfr. ivi, p. 75.
50
Di diverso avviso Turchetta, secondo il quale «Nell’ossessione acquatica dannunziana
manca un’acqua materna, “calma” e dolcemente rassicurante» (ivi, p. 111).
51
TdM, pp. 965-966.
52
G. Turchetta, La coazione al sublime cit., p. 69.
MARE, MADRE, MORTE. LA COSTELLAZIONE ARCHETIPICA DEL FIGLIO ANNEGATO
37
sulla spiaggia: «Giunse sul luogo, un po’ ansante»53. Anche Luisa giungerà «ansante» sul sagrato di Oria, ma il suo ansare ha uno spessore emotivo troppo più
forte di quello di Giorgio. Lo sforzo respiratorio dell’uomo che si è affrettato
per la viottola, unito allo stato d’animo alterato, concorda con la resistenza che
incontrano le onde per vincere la bonaccia. Se l’«ansare» accende per così dire
una ‘spia morbosa’, la locuzione «appena appena» ne smorza il tono; la duplicatio di «appena» che accompagna lo stormire delle fronde, oltre a creare un effetto musicale, obbedisce all’intento di dilatare il silenzio e l’afa dell’ora sospesa.
«L’ora terribile, l’ora panica, l’ora suprema della luce e del silenzio, imminente
su la vacuità della vita»54 trasforma l’estate in una stagione di ingannevole «purezza», concorde con l’illusoria tranquillità della marina. Dall’atmosfera stagnante alla quiete il passo è breve; anzi, si sta già sconfinando nella circoscrizione lessicale della calma, tradotta allo stesso modo da forme letterarie e da espressioni
colloquiali. Le prime rispondono a intenti descrittivi con effetto di piccoli intarsi paesistici, le seconde sono volte a rilevare il grado zero del pericolo rappresentato dalla superficie equorea «liscia come l’olio»:
1. Nel silenzio il mare appena appena ansava
2. – L’acqua è come l’olio –55
3. E pareva che l’ora lenta non dovesse aver mai fine56
4. Il silenzio occupò i luoghi intorno, salendo dal mare in calma»57
5. Così calmo era il mare, così calma era l’aria che quasi pareva sospesa la vita58.
Anche da questi prelievi sintattici si conferma il periodo breve (nel caso del
dialogo conforme al parlato), insieme alla propensione per la linea melodica simmetrica, perseguita attraverso la disposizione degli elementi in corrispondenza,
separati dalla pausa interpuntiva.
Soffermandosi sugli stilemi dannunziani, emergono le comparazioni realizzate
attraverso «come» e «pareva», il refrain di «silenzio», la ripetizione di «calmo/a».
La tendenza a definire tramite il confronto del «come»59 e del «parere» rientra
nell’ottica dell’amplificazione orizzontale. Se, come vuole Gianni Turchetta, un
TdM, p. 957.
Ivi, p. 913.
55
Ivi, p. 964.
56
Ivi, p. 966.
57
Ivi, p. 968.
58
Ibidem.
59
G. Turchetta, La coazione al sublime cit., p. 52. Cfr. anche Marziano Guglielminetti, Il
romanzo del Novecento italiano. Strutture e sintassi, Roma, Editori Riuniti, 1986, pp. 52-53.
53
54
38
FRANCESCA NENCIONI
aspetto importante di tali accorgimenti linguistico-stilistici «è quello di sottolineare costantemente l’atto della percezione»60, in questa specifica accezione a
«pareva» è attribuita anche una funzione mistificatoria, ossia la capacità di protrarre all’infinito l’ora che vede figlio e madre giacenti «l’uno al fianco dell’altra,
sulle dure pietre», allontanando il momento del definitivo distacco. La struttura è poi ritoccata, con lieve variante, nella chiusa del capitolo: «E pareva che il
pianto non dovesse aver mai fine»61, di modo che l’ora lenta finisce per coincidere con l’ora del pianto.
«Silenzio», collocato in incipit tanto in 1 che in 4, nel mutamento della funzione logica da caso obliquo a soggetto, acquista risalto grammaticale e dilatazione semantica. Non è solo silenzio naturale ma risposta muta ad ogni evento che toglie la parola. La locuzione modale («in calma»), il sintagma temporale («l’ora lenta»), l’avverbio ripetuto («appena appena»), la similitudine («come
l’olio»), concorrono a trasmettere il senso di sproporzione tra causa e effetto, tra
calma dell’agente e tragicità dell’agito, ma insieme preparano la scena all’arrivo
della madre. Nell’assenza di voci e rumori («Tutti ammutolirono»62), a contrasto, risuonerà più acuto e lacerante il suo grido: «E si udirono allora nel silenzio
le grida della vegnente»63. Secondo la dialettica apparire/sparire il silenzio sarà
ristabilito solo alla fine della scena, con l’allontanarsi della donna: «Giunsero
fino all’Eremo acute grida. Poi tutto tacque. Il silenzio occupò i luoghi intorno,
salendo dal mare in calma»64. A ricostituire la calma è di nuovo il mare-culla.
L’area nozionale della grandezza è espressa dal sostantivo e dall’aggettivo che
trasmettono la dimensione incommensurabile: «[…] incontro all’immensità del
mare»65; «Il mare, immenso e verde, respirava». All’interno del processo di «combinazioni iterative contigue o a distanza»66, «immenso» replica «immensità», rinnovando lo squilibrio tra il «piccolo corpo inerte»67 e la distesa equorea sconfinata.
mare è morte68 che toglie il respiro nell’espressione «il mare micidiale», dove
l’attributo sottolinea la forza letale dell’elemento; nella tautologia «– Il mare è il
mare. Chi si salva? –»69 che nell’autodefinizione sottintende «il fatale incrociar-
Ivi, p. 58.
TdM, p. 966.
62
Ivi, p. 961.
63
Ibidem.
64
Ivi, p. 968.
65
Ivi, p. 961.
66
E. Raimondi, Introduzione cit., p. XXXIII.
67
TdM, p. 958.
68
L’immagine del ‘mare lugubre’ è esplicitata nella descrizione del capitolo due del libro
quinto: «Su l’immenso lugubre specchio delle acque» (TdM, p. 920), descrizione in continuità
con la scena che stiamo esaminando anche per gli elementi ambientali: «ghiaia», «scogliera»,
«scogli», «sferza del sole».
69
TdM, p. 960.
60
61
MARE, MADRE, MORTE. LA COSTELLAZIONE ARCHETIPICA DEL FIGLIO ANNEGATO
39
si contraddittorio di vita e morte»70; nel comando di stampo biblico «Va’ nel
mare e perditi»71, la cui costruzione, ricalcata sul modello giovanneo: «Va’ e da
ora in poi non peccare più» (Gv, 8, 11), tende ad ascrivere a volontà divina l’ineluttabilità del fato.
Al motivo dell’acqua s’intreccia quello della roccia (topos ricorrente in
D’Annunzio72), nell’ambito del comune nucleo semico della verticalità, secondo l’accezione latina di altus, alto-profondo. La dimensione ‘a piombo’, già
preannunciata nella scena del Pincio del capitolo primo dalle parole-simbolo
«parapetto»73, «precipizio»74, che sarà poi esasperata nella «notte abbagliante del
furore suicida»75 («promontorio», «abisso»), è qui testimoniata dalla costellazione lessicale della «rupe»: «la riva prossima al promontorio sinistro»76, «su la ghiaia sotto il promontorio, in vicinanza della scogliera e della galleria»77, «all’ombra
di un macigno»78, «dall’alto del promontorio»79, «su le pietre»80, «il promontorio
arido a picco su gli scogli»81; «su i vasti massi mostruosi»82, «a pie’ dell’alto scoscendimento che dava imagine della ruina d’una torre ciclopica incontro all’immensità del mare»83; «su le dure pietre»84; «il promontorio levava nell’ardore la sua
aridità desolata a picco su la scogliera anfrattuosa»85, «all’ombra del macigno».
L’orchestrazione dei Leitmotive ripetuti fa perno sulle 5 occorrenze di «promontorio», che instaura il modello fonologico-semantico cui ispirare le successive
scelte di iponimi e meronimi allitterati, disponendo intorno le parole corollario: «pietre» 2 occ., «macigno» 2 occ., «scogliera» 2 occ., «scogli» 2 occ., «massi»
1 occ., «scoscendimento» 1 occ., «ghiaia» 3 occ., «anfrattuosa» 1 occ. «All’ombra
di un macigno» persiste con un minimo cambiamento nell’espressione «all’ombra del macigno»86; «i vasti massi mostruosi» si metaforizzano nella «ruina d’una torre ciclopica», dove l’immagine del Ciclope risvegliata dall’aggettivo rias-
G. Getto, Tre Studi sul teatro cit., p. 200.
TdM, p. 963.
72
Si pensi per fare solo un esempio alle Vergini delle Rocce.
73
TdM, pp. 645 e 646.
74
Ivi, p. 646.
75
E. Raimondi, Introduzione cit., p. XXXVIII.
76
TdM, p. 957.
77
Ibidem.
78
Ivi, p. 963.
79
Ivi, p. 960.
80
Ivi, p. 959.
81
Ivi, p. 961.
82
Ibidem.
83
Ibidem.
84
Ivi, p. 966.
85
Ibidem.
86
Per il fenomeno della scrittura analitica delle preposizioni articolate cfr. G. Turchetta, La
coazione al sublime cit., p. 24.
70
71
40
FRANCESCA NENCIONI
sume e condensa grandezza («vasti») e deformità («mostruosi»); «l’alto scoscendimento» recupera l’attributo dall’espansione di luogo «dall’alto del promontorio» e anticipa l’«anfrattuosa» della scogliera tramite «scoscendimento», il sostantivo che ne fornisce la matrice concettuale; l’«arido» del promontorio trova
accentuazione dolente nell’«aridità desolata»; la vertigine del precipizio, espressa
da «a picco», mantiene inalterata la locuzione modale e muta di poco il termine che l’accompagna, riassorbendo il plurale «scogli» nel collettivo «scogliera»87.
L’asse verticale risulta acutizzato dalle marche topologiche («sotto», «dall’alto», «a pie’») che ‘scavano’ l’altezza, dai nuclei modali («a picco)» e dai sintagmi
metaforici («torre ciclopica»), cui si unisce il sèma dell’asperità-aridità tramandato dalle catene metonimiche. La roccia si frantuma in «ghiaia» in prossimità
dell’acqua, scambiando funzioni e attributi:
«su la ghiaia»
«su la dura ghiaia»
«su le pietre»,
«su le dure pietre».
Ci troviamo di fronte a una sorta di pendant del complemento di luogo costruito una prima volta col sostantivo, quindi con la struttura binaria aggettivo + sostantivo che raddoppia la consistenza granitica della materia. Se «ghiaia»
conserva ancora una referenza ambientale, «pietre» richiama la crudezza del sepolcro, accentuata da «dure».
Oltre alla «macchia bianca»88 che si profila ai piedi del promontorio, è l’eccessivo bagliore della luce89 a comunicare in maniera ossessiva un’aura di morte.
87
La stessa compagine linguistica congegnata attorno a ‘mare’ e ‘roccia’ torna a configurare
il paesaggio nell’ultima notte di Giorgio e Ippolita, con l’aggiunta di un ingrediente da idillio,
le «stelle», il cui riflesso illumina lo scenario desolato del promontorio, spalancato sull’abisso:
«Il promontorio calava a picco sulla deserta scogliera nerastra intorno a cui l’acqua tranquilla si
moveva appena appena con un tenue sciacquio cullando nelle sue lente ondulazioni i riflessi delle
stelle» (TdM, p. 1017). Ricompare il promontorio «arido a picco sugli scogli» nell’enunciato «Il
promontorio calava a picco»; i sintagmi «aridità desolata» e «scogliera anfrattuosa» si fondono
nella coppia aggettivale «deserta e nerastra» che accompagna «scogliera» (dove «deserta» amplifica
«desolata» e «nerastra» richiama la macchia di sangue scorta dagli amanti ai piedi della muraglia
del Pincio in un pomeriggio romano ormai remoto); «il silenzio del mare che appena appena ansava» si prolunga nell’«acqua tranquilla [che] si moveva appena appena con un tenue sciacquio».
Il MARE-culla è evocato dal gerundio «cullando» e dalle lente ondulazioni che si accordano
all’oscillare di una «zana»; l’elemento funebre è demandato alla roccia.
88
La «macchia bianca» si pone come negativa della «chiazza nerastra» del capitolo I (cfr.
TdM, p. 646), rimasta a testimoniare l’impronta del corpo dello sconosciuto gettatosi dal parapetto del Pincio. Anche Giorgio assocerà le due immagini contrastanti («fantasmi rivisti nel
lampo dell’allucinazione analogica», E. Raimondi, Introduzione cit., p. XXXVIII) nel fulmineo
ripercorrere la propria vita sull’orlo del promontorio: «Il morticino disteso su la ghiaia gli riapparve. Gli riapparve nella memoria la chiazza nerastra» (TdM, p. 1017).
89
Il tema ossessivo della luce, «quasi da semeiotica di una nevrosi» (E. Raimondi, Introduzione cit., p. XXX), ricorre costantemente nel Giovanni Episcopo (in G. D’Annunzio, Prose di
romanzi cit.): «Il sole c’investe» (p. 1049); «Oh quel sole, quelle strisce di sole, quasi taglienti» (p.
1068); «il sole batteva sul davanzale» (p. 1072), «In tutti i miei ricordi dolorosi c’è un po’ di sole,
MARE, MADRE, MORTE. LA COSTELLAZIONE ARCHETIPICA DEL FIGLIO ANNEGATO
41
«Ma il sole ardeva forte su la ghiaia; e qualche cosa di spietato cadeva da quel cielo di fiamma»90; «sotto il cielo infiammato»91; «il sole canicolare feriva la ghiaia»92.
L’avversativa introdotta da «ma» segnala l’opposizione tra il «mare in calma», che
potrebbe intonarsi al sonno eterno, e l’eccesso di ardore che impedisce quiete e
riposo. Alla base del sistema semantico della luce si trova il fuoco («ardeva», «di
fiamma», «infiammato», «canicolare»), amplificato da «spietato» e «feriva», solidali con «micidiale», che rimandano alla sfera dello strazio, della crudeltà cosmica configurata nei termini di un aguzzino93. Non si tratta dell’indifferenza della
natura di fronte al dolore umano e neppure della beffa che può giocare inaspettatamente a un ragazzo inesperto l’acqua bassa e liscia dell’Adriatico, ma del crudele infierire di elementi antagonisti (cielo, sole, mare) che non concedono tregua.
La stessa polarità mare/roccia compare nella Polveriera, che condivide con il
Trionfo della morte anche il terzo dato, la luce, seguita però nel dispiegarsi lungo l’arco del giorno e pertanto dotata di significazioni diverse.
Appartengono all’aria nozionale del mare:
1. Raggiunsi il mare, spianato dall’alba: le barche tornavano dalla notte di pesca94
2. Un odore d’alghe e di scogli finiva in un cheto sciacquìo sulla riva, ai miei
piedi95
3. Vedevo l’isolotto col suo piccolo molo ove qualche veliero spoglio appena si
muoveva sulla sua ombra96
4. A me pareva di vivere da sempre nel silenzio incantato della campagna e del
mare; s’udiva solo il rumore lontano di un treno in manovra97
5. La campagna e il mare svanivano d’intorno nel fruscìo dell’aria98
qualche riga gialla» (ibidem), «una striscia di sole, una riga gialla splendeva sinistramente, con una
intensità incredibile» (ibidem); «la tragica striscia di sole» (p. 1073); «c’era il sole sul pavimento»
(p. 1075); «(sopra il mio capo) scendeva la striscia di sole» (p. 1078), «un lago di fuoco bianco» (p.
1089), «sotto quel sole feroce» (p. 1090).
90
TdM, p. 959.
91
Ivi, p. 966.
92
Ibidem.
93
L’escalation negativa del ‘sole’ tocca il vertice nella paradossale affermazione del Giovanni
Episcopo: «Il sole veramente è la cosa più triste dell’universo» (G. D’Annunzio, Giovanni Episcopo
cit., p. 1072).
94
LP, p. 106.
95
Ibidem.
96
Ivi, pp. 106-107.
97
Ivi, p. 109.
98
Ivi, p. 116.
42
FRANCESCA NENCIONI
6. Era pace intorno, il mare quasi non muoveva più la riva99
7. Il passo più difficile […] sarebbe venuto per noi dopo il fiume, nel tratto di
molo libero dopo pochi metri sul mare profondo e roccioso100;
8. e tutti fummo fermi a vederlo cadere in mare, a sentire spenta la sua voce nel
gorgoglío delle acque che si richiusero101
9. s’udiva solo il rumore profondo del mare da cui il piccolo Cirillo non sarebbe
tornato mai più102
10. e il mare calmo e rado riportare a galla il piccolo compagno morto103.
La rassegna marina evidenzia costruzioni e segmenti frastici variamente modellati, che aderiscono a curve melodiche oscillanti da progressive a regressive a
simmetriche. Nel seguire le diverse velocità dell’iter narrativo, la mimesi ritmica resta sospesa nell’atmosfera dell’attesa e negli scorci descrittivi, per lo più racchiusi entro il periodo unico (3, 5, 6), oppure si assesta su onde melodiche equamente suddivise (1, 4); in un caso (2) compare una regressiva. La matrice d’intonazione regressiva è tendenzialmente rintracciabile anche in 3 e 5, se si ipotizza la virgola a dividere dalla parte ascendente le precisazioni di luogo «sulla sua
ombra» e «nel fruscio dell’aria». Nel «parallelismo di melodia e pensiero»104 il
ritmo acquista la cadenza funebre nelle unità periodiche che intersecano la sfera semantica della morte (7, 8, 9, 10)105.
Ibidem.
Ivi, p. 122.
101
Ivi, p. 126.
102
Ivi, p. 128.
103
Ivi, p. 130.
104
G. L. Beccaria, Ritmo e melodia nella prosa italiana, Firenze, Olschki, 1964, p. 200 (n.e.
2014).
105
In 1 i cola sono bipartiti dallo stacco dei due punti: all’azione principale compiuta dall’io
narrante («Raggiunsi») corrisponde la notazione predicativa delle barche («tornavano»), di modo
che i due membri si bilanciano in maniera simmetrica. In posizione di rilievo spicca l’inciso «spianato dall’alba», che funge da termine centrale, collocato tra la pausa della virgola e la cesura della prima unità. La simmetria è perseguita anche tramite la giustapposizione delle precisazioni
temporali: «spianato dall’alba» e «notte di pesca», di taglio rispettivamente statico e dinamico,
concordi nell’indicare l’estenuarsi dell’azione e il raggiungimento della meta: il mare, destinazione
della fuga; la spiaggia, traguardo delle barche. Nel caso 2 la curva regressiva, segnata dalla virgola,
riporta l’attenzione dall’ambiente esterno alla realtà dell’io, richiamato in clausola dal possessivo
«miei» («ai miei piedi»). Alla prima unità melodica estesa di natura raffigurativa, a cui è riservata
l’informazione verbale («finiva»), fa seguito quella breve finale che contiene l’attenuarsi del «cheto
sciacquìo» in un moto a luogo che tocca successivamente la «riva» e i «piedi». In 3 la cesura non è
rilevata da interpunzione; ma, se s’immagina nella lettura la stazione sospensiva dopo «molo», si
nota l’inversione del movimento disegnato nella frase precedente, da regressivo a progressivo, da
esterno-interno («un odore» vs. «ai miei piedi») a interno-esterno («vedevo» vs. «qualche veliero»).
99
100
MARE, MADRE, MORTE. LA COSTELLAZIONE ARCHETIPICA DEL FIGLIO ANNEGATO
43
Possiamo così dire che le due anime dell’elemento liquido – vita/morte, culla/bara, calma/tempesta – sono inscindibilmente fuse nel mare di Gatto, a partire dalle strutture melodiche adottate. Il versante negativo, benché minoritario rispetto all’idea di grembo accogliente, tocca in questo racconto l’apice divenendo strumento di morte e tomba.
Anche in Gatto il mare interseca l’area semantica della calma e allude a quella
del respiro attraverso i dati uditivi («cheto sciacquio», «rumore profondo», «gorgoglio») che sono il riflesso e la manifestazione dell’alitare; ma capovolge la linea orizzontale dell’immensità (predominante in D’Annunzio) in quella verticale della profondità. La perpendicolarità si mantiene; tuttavia dal Trionfo della
morte alla Polveriera passa dalla componente terrestre a quella liquida: il precipizio del promontorio corrisponde all’abisso marino106; il pericolo è ugualmente insito nei due elementi. E se per il «figlio di una mamma» il punto estremo è
rappresentato dal limite delle acque sicure («Là, fin là»), per il piccolo Cirillo dal
tratto di molo libero, «il passo più difficile», per Giorgio e Ippolita sarà il margine del promontorio a indicare il non plus ultra.
Il lemma «respirava» compare una volta attribuito alla campagna: «solo la
campagna respirava monotona e già piena di luce»107; ma risulta estensibile anche a ‘mare’ dal momento che i termini formano spesso binomio, fondendo i
caratteri comuni: «silenzio», «fruscio», «incanto» con effetto duplicato: «nel silenzio incantato della campagna e del mare», «[l]a campagna e il mare svanivano
d’intorno nel fruscio dell’aria», «[i]l tempo passava senza una voce sulla campagna e sul mare»108. Quando ‘mare’ non è congiunto direttamente a ‘campagna’,
è la ferrovia a segnare uno spartiacque o a fungere da tramite: «Ricordi la campagna lieta al di là della ferrovia, quella polveriera disabitata che come un verde
isolotto sorge dal mare?»109. Se c’è aria sospesa sulla campagna, la stessa atmosfera di arresto meridiano si riversa sul mare sovrastato da «nuvole bianche [che]
passa[…]no lentamente»110 e rallentano ritmi di azioni e pensiero.
In 4, 5, 6 si avverte la sospensione del ritmo e dell’azione; la prosa assume l’intonazione lirica del
verso; la preoccupazione musicale che orienta le soluzioni linguistiche sposta l’accento dal versante
narrativo a quello allusivo. Nei periodi successivi prevale la modulazione funebre, strutturata quasi
a rintocco sul fonosimbolismo dei suoni collocati in exit: «profondo e roccioso» (dove l’allitterazione della consonante liquida vibrante r e della vocale chiusa o trasmettono il senso dell’insondabilità
delle acque); «che si richiusero» (che nella ripetizione del digramma ch traduce il cupo rumore che
chiude la speranza), «non sarebbe tornato mai più», «compagno morto» (in cui la nasale m più la
vibrante r e l’occlusiva p di tipo percussivo s’intonano alla cadenza luttuosa).
106
«Non è l’abisso che rotola dal promontorio di San Vito a rapire i corpi avvinti di Giorgio
e Ippolita, ma è piuttosto il mare a raccoglierli. L’abisso è la distanza remotissima […], la distanza
interminabile dalla nascita, quanto lo è precipitosa dalla morte» (N. Ciarletta, Un ascetico senza
Dio, in Trionfo della morte cit., p. 277).
107
LP, p. 110.
108
Ivi, p. 116.
109
Ivi, p. 103.
110
Ivi, p. 113.
44
FRANCESCA NENCIONI
Il senso di quiete è affidato in primo luogo al mare «spianato dall’alba», che
svela una superficie livellata, poi richiamata dalla diade aggettivale «calmo e rado»,
quindi al «cheto sciacquìo» della risacca, così fievole che quasi non si ode, infine
al «silenzio incantato» che predispone all’abbaglio, al sortilegio, alla dissolvenza («svanivano»). Gli stessi sintagmi sono indizi di mare-culla: «spianato» evoca un lenzuolo accuratamente disteso e lisciato, ‘rincalzato’ da mani materne,
«cheto sciacquìo» s’intona al cantilenante ritmo di una ninna-nanna o al lieve
dondolio di una culla; l’atmosfera sospesa tra sogno e fiaba del «silenzio incantato» conduce a scivolare senza accorgersene nel sonno.
Se nella marina di D’Annunzio predominano i dati visivi nell’antitetico incontro di luce/ombra, mare/terra, in quella di Gatto si affacciano anche sollecitazioni olfattive: «un odore di alghe e di scogli». Le presenze che animano il
fondale («le barche», «i velieri») danno alla scena un’impronta realistica, arricchendo la semantica del pelagus di termini complementari («molo», «insenatura», «riva», «spiaggia», «isolotto», «fiume», «alghe», «scogli»).
Col sopraggiungere della notte, il mare assume i caratteri del pericolo (mare =
morte): il binomio «profondo e roccioso»111 esplicita la minaccia attraverso il rilievo dell’abisso e il rimando al dato terrestre che affila l’asperità; il «rumore profondo» trasforma in un suono infausto il «cheto sciacquìo» che all’alba suonava come
una dolce cantilena. Anche la cadenza dei battitori di pesca all’orizzonte112, definita «notturna e profonda», reitera il motivo della profondità nell’eco che dilata la
distanza. Il «gorgoglìo delle acque che si richiusero» (mare = tomba) suggella definitivamente il grido d’aiuto del piccolo Cirillo, richiamando per il comune accento sdrucciolo di stampo dannunziano, lo «sciacquio» appena percettibile all’alba113.
Aggregato di ‘mare’ è il complesso semantico riconducibile a ‘roccia’ che risente della liquida vibrante r comune ai due significanti, indirizzando l’asse sintagmatico verso parole che contengano lo stesso fonema: «roccioso», «grotte»,
«roccione», «scarpata». Fa eccezione «scogli»; ma il termine, sineddoche di ‘roccia’ e paronimo di ‘mare’, si motiva da sé in quanto parola-chiave dell’intersezione lessicale tra i testi. Nel Trionfo della morte, l’abbiamo visto, è un ingrediente
che esalta la scabrosità del promontorio; in Piccolo mondo antico offre un punto
di approdo per la gondola della marchesa114; nella Polveriera può assolvere tanto a esigenze paesistiche quanto a segnalazioni di pericolo. E se il mare assume
Ivi, p. 122.
Ivi, p. 124.
113
Per i sostantivi frequentativi in -ìo con l’accento grave sulla ‘i’ cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Da D’Annunzio a Montale: ricerche sulla formazione e la storia del linguaggio poetico montaliano, in Ricerche sulla lingua poetica contemporanea, Rebora, Saba, Ungaretti, Montale, Pavese,
Saggi di F. Bandini, Lorenzo Polato, Pietro Spezzani, P. V. Mengaldo, Anco Marzio Mutterle,
presentazione di Gianfranco Folena, «Quaderni del Circolo filologico padovano», 1, Padova,
Liviana, 1966, p. 208 [da cui si cita]; poi in P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento. Terza
serie, Torino, Einaudi, 1991.
114
Cfr. PMA, p. 304.
111
112
MARE, MADRE, MORTE. LA COSTELLAZIONE ARCHETIPICA DEL FIGLIO ANNEGATO
45
aspetti contrastanti a seconda delle ore del giorno e dello snodarsi della vicenda,
il dato terrestre mantiene costante il rilievo d’insidia e minaccia.
A metà tra mare e roccia si colloca la polveriera, «quella polveriera disabitata che come un verde isolotto sorge dal mare»115, il «fortino nero e fulvo [che] si
staglia […] nitidamente» contro il cielo velato. Dalla morfologia marina prende in prestito il termine di paragone («come un verde isolotto»), dalla rupe i colori («nero e fulvo»). Condivide con mare (il mare-culla) l’apparenza di rifugio,
con rupe (ma anche con mare-tomba) l’immagine di prigione-trabocchetto.
Anche la luce asseconda la dialettica tranquillità/pericolo annettendo valori
positivi all’alba, negativi all’ombra notturna. Il fuoco, alla base dell’eccesso di luminosità nel tragico mattino di San Vito, è ancora rintracciabile nel calore dell’aurora salernitana, «dorata»116, «calda e brusca di abbagli»117 che inclina verso l’equivoco e la svista; ma il fuoco è subito bilanciato e neutralizzato dall’aria mattutina
«celeste»118 e «azzurra»119. Il glossario crepuscolare tende ad avvicinare il significato di «ultimo» («ultimo chiarore»120) a quello di «lontano» («crepuscolo lontano») attraverso il comune senso di desolazione che deriva dalla luce che si spegne.
Ma è nel passaggio tra «l’ombra che si fa sempre più prossima alla tenebra»121 e la
«notte ormai assoluta»122 che si manifesta la morte. L’iter della Solitaria coinvolge momenti diversi del giorno: pur svelandosi all’imbrunire, raggiunge l’effettivo
avverarsi nella notte, ma è solo con l’alba che può dirsi compiuto.
Il notturno oscilla entro l’area semantica del cadere, dell’affondare («affondavamo col piede nella rena e nel buio»123, «[…] e voci e risa in agguato a me sembrava che presto […] ci avrebbero fatto cadere e scoprire»124; «il piccolo Cirillo barcollò […] e tutti fummi fermi a vederlo cadere in mano»125) e della chiusura («acque che si richiusero»126) ripetendo l’implicazione tombale. In maniera antitetica i
connotati dell’alba si ispirano al senso di apertura («schiararsi», «riportare») e rivelazione («si rivelava»): «In queste parole io vidi l’alba […] il cielo schiarirsi, a poco
a poco pallido sulle nostre teste e il mare calmo e rado riportare a galla il piccolo
compagno morto»127, «Albeggiava, dal cielo rosato la luce lentamente si rivelava»128.
115
116
117
118
119
120
121
122
123
124
125
126
127
128
LP, p. 103.
Ivi, p. 106.
Ibidem.
Ivi, p. 110.
Ivi, p. 118.
Ivi, p. 124.
Ibidem.
Ivi, p. 128.
Ivi, p. 116.
Ivi, p. 125.
Ivi, p. 126.
Ibidem.
Ivi, p. 130.
Ivi, p. 132.
46
FRANCESCA NENCIONI
Il contrasto uomo-natura, non rilevabile per ‘mare’ che cambia aspetto in
prossimità dell’‘agguato’ (da «spianato e cheto» a «profondo e roccioso»), si coglie invece tra bellezza della notte («Era una bella notte, infinita intorno a noi e
così in pace, giusta»129) e senso di colpa che tormenta i compagni di Cirillo («un
gran bisogno di pace e la certezza di non poterla più meritare»130).
In Piccolo mondo antico la semantica acquea presenta due varianti: ‘lago’ in luogo di ‘mare’ e ‘temporale’ al posto delle onde in tempesta. Non vediamo, se non
di scorcio e per via indiretta, la superficie lacustre mossa dal vento, ma seguendo l’avanzare della pioggia, possiamo intuire il progressivo agitarsi dei frangenti.
Attraverso lo spaccato sulla darsena che si apre nel racconto di Toni Gall,
si scorge il battello che «ballava spaventosamente inondato dagli spruzzi delle
onde che si frangevano sui muri; ballava, si dimenava fra le catene e s’era posto
di traverso»131. L’effetto della burrasca è reso da termini inaspettatamente prelevati dal serbatoio semantico della danza («ballava, si dimenava», «s’era posto di
traverso») che sembrano assolvere all’intento di smorzare l’atmosfera tragica. A
richiamare al dramma concorrono l’avverbio «spaventosamente» (poi prolungato nelle varianti «gridando con la sua terribile voce»132, «grido formidabile»133),
il participio con valore aggettivale «inondato», gli «spruzzi delle onde», il verbo
fonosimbolico «frangevano».
«Il lago era immobile, plumbeo»134. La struttura melodica regressiva evidenzia «plumbeo», isolandolo tra la virgola e il punto fermo. Si crea nella lettura una
pausa obbligata che consente di ‘caricare’ l’attributo di segnali negativi. Il colore livido, che adempie in questo caso a una precisa funzione connotativa, predice la «lividezza cadaverica» di cui di lì a poco si coprirà il carnato di Ombretta.
«Plumbeo» è aggettivo in genere riferito a cielo; lo slittamento su ‘lago’ favorisce
lo scambio di atmosfere e fa sì che i due elementi a specchio possano sostituirsi a vicenda. Forse è per questo che nella scena della Calcinera, anziché il lago,
troviamo in primo piano il cielo.
L’altro membro del binomio, «immobile», richiama sul piano del significante
per la stessa composizione etimologica con la particella negativa ‘in’ (in + mobilis), l’«immenso» (in + metiri) dell’Adriatico dannunziano; sul piano del significato si pone in continuità con il mare che «non muoveva più la riva» di Gatto,
ma non trasmette un uguale senso di calma, bensì di minaccia, di aspettazione
di un evento che rompa l’inerzia. La calma delle acque è reale in D’Annunzio
e Gatto, apparente in Fogazzaro; ma precede sempre e comunque la sciagura.
129
130
131
132
133
134
Ivi, p. 128.
Ivi, p. 127.
PMA, p. 309.
Ibidem.
Ivi, p. 310.
Ivi, p. 301.
MARE, MADRE, MORTE. LA COSTELLAZIONE ARCHETIPICA DEL FIGLIO ANNEGATO
47
Dopo la fugace immagine di falsa tranquillità, il lago non ricompare che
come flatus vocis denotativo («sopra il lago»135), come espressione di esecrazione («Maledetto lago!»136) e strumento di morte («la dolce creaturina che il lago
avevo uccisa»137, «l’opera sinistra delle acque perfide»138). Il chiasmo tra la «dolce creaturina» e le «acque perfide» rinnova l’istanza doppia vittima/carnefice,
nella contrapposizione tra il gioco della bambina ignara del pericolo e il tradimento riservatole dal lago.
In primo piano si trova dunque il «cielo» con i fenomeni atmosferici collegati. Il significante torna 3 volte: dapprima «tutto sereno» si mantiene «non
più scuro di prima» fino all’apparire «coperto anche sul Picco di Cressogno». Il
«cattivo tempo»139, annunciato fin dalla venuta di Ester a Oria, si specifica nelle espressioni di stampo colloquiale «brutto temporale», «brutta grandine», che
mantengono inalterata la struttura del sintagma ‘primario’ aggettivo + sostantivo con slittamento dalla sfera etica («cattivo») a quella estetica («brutto»). La
pioggia è presente con tutta la gamma sinonimica che ne traduce l’intensità:
«radi goccioloni»140, «furia della pioggia»141, «infuriando l’acquazzone»142, «violenza dell’acquazzone»143, «pioggia scrosciante»144, «il temporale si poteva dir
cessato»145, «pioggia dirotta, continua, uguale»146, «pioggia minuta e fitta»147. Il
«nuvolone azzurrognolo» che si affaccia tra il Bisgnago e il Caprino diviene «turchino cupo» nello stesso tempo in cui le nuvole «bianche, leggere che circondano il Boglia» cedono il passo ai «nuvoloni torvi» di Carona.
Lo stilema che collega per asindeto gli ingredienti di un dicolon: «lago […]
immobile, plumbeo»148, «nuvole bianche, leggere»149, «nuvolone azzurrognolo,
sinistro»150 fa acquistare autonomia per l’effetto straniante della virgola a ciascuno dei due membri, quasi valessero di per sé, anziché entro la dittologia descrittiva. In tal modo lo stacco agisce in funzione di correzione in crescendo, in
quanto il secondo attributo precisa il primo potenziandone la vis in negativo o
135
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149
150
Ivi, p. 304.
Ivi, p. 305.
Ivi, p. 315.
Ibidem.
Ivi, p. 300.
Ivi, p. 303.
Ibidem.
Ivi, p. 304.
Ibidem.
Ivi, p. 305.
Ivi, p. 304.
Ivi, p. 307.
Ivi, p. 311.
Ivi, p. 301.
Ibidem.
Ivi, p. 300.
48
FRANCESCA NENCIONI
in positivo. Entro la sinonimia correttiva l’immobilità si carica di un colore funebre, fosco; le nuvole già «bianche» alleggeriscono ulteriormente la lievità del
colore grazie al dato aereo «leggere»; il suffisso cromatico alterato ‘-ognolo’, che
contiene una sfumatura mista tra indistinto e dispregiativo, cede il potenziale
minaccioso a «sinistro».
Come quella di D’Annunzio anche la pagina di Fogazzaro presenta, sebbene in tono minore, la partitura di ripetitio e variatio; ma in questo caso lo scopo non è tanto l’ornamento retorico o l’esigenza melodica, quanto la registrazione in diretta dei minimi cambiamenti metereologici («il tuono», «Il tuono?»,
«un sordo fragor di tuono»151, «un altro tuono cupo»152, «il rombo del tuono
era continuo»153). La comparsa del termine «tuono» passa quasi inosservata, inserita in sordina nel discorso indiretto di Ester; ma subito dopo, l’eco interrogativa «Il tuono?», richiamando l’attenzione sull’evento che rischia di mandare a monte il piano di Luisa, lo fa balzare in primo piano. I sintagmi che seguono alternano nella costruzione la posizione della parola-chiave, ora ponendo in
evidenza l’aggettivo («sordo», «cupo», «continuo»), ora il sostantivo («fragor»,
«tuono», «rombo»), in una sorta di concorrenza grammaticale nel trasmettere
l’effetto uditivo. Per la stessa estensione che tende a dilatarsi (da frase nominale
ellittica a enunciato composto da gruppo nominale e predicato), la progressione logica sembra assecondare l’avanzare del rombo.
Si ripete per «vento» l’attenzione alle più piccole modifiche fenomeniche riservate a «pioggia» e a «nubi»; l’evoluzione dell’agente atmosferico varia in corrispondenza di lievi accorgimenti formali: al singolare dell’annuncio rafforzato
dall’ordinale («il primo colpo di vento»), fanno seguito i plurali «colpi di vento» e «turbini della caronasca» che ne intensificano entità e frequenza; il nome
comune si precisa in quello proprio, i verbi «strepitò», «stormivano», «rovesciò»
sono riassorbiti nella medesima violenza dal sostantivo «impeto» («contro l’impeto della pioggia e del vento»).
Sulla scia delle osservazioni di Giacomo Devoto possiamo affermare che «il
paesaggio è non solo sfondo ma punto di riferimento»154; i monti non sono mai
monti generici ma hanno precisi connotati topografici: Picco di Cressogno,
Boglia, Bisgnago, Galbiga; l’insenatura si specifica in Zocca d’i Ment; il vento prende il nome di «caronasca» dai colli di Carona da cui spira furioso e temporalesco; di «breva» quando è vento da sud, l’equivalente del libeccio155. In tal
Ivi, p. 302.
Ibidem.
153
Ivi, p. 303.
154
Giacomo Devoto, Studi di stilistica, Firenze, Le Monnier, 1950 e Nuovi studi di stilistica,
Firenze, Le Monnier, 1962, in Itinerario stilistico, Firenze, Le Monnier, 1975 [da cui si cita], p.
167.
155
L. Morbiato, Funzioni narrative dell’elemento dialettale nei romanzi di Antonio Fogazzaro
cit., p. 171.
151
152
MARE, MADRE, MORTE. LA COSTELLAZIONE ARCHETIPICA DEL FIGLIO ANNEGATO
49
modo gli elementi paesistici identificati e personalizzati acquistano caratteristiche antropomorfe: il Boglia «cominciava ad aggrottar le ciglia»156; il nuvolone
«era fumato su dalla Vall’Intelvi come un sopracciglio aggrottato sopra un occhio cieco»157; le nuvole che si dispongono intorno sono paragonate a un «branco di compagni torvi che si affacciavano al lago». Nei tre raffronti la base comune è costituita dalla sfera ottica: «ciglia», «sopracciglia», «cieco», «torvo» che trasferisce ai lineamenti morfologici i tratti corrucciati del volto di chi vuole incutere timore o presagisce la sciagura.
La luce segue l’andare e venire della sarabanda temporalesca. Entro una semantica dell’indistinto («il color delle nuvole andava confondendosi a quello dei
monti»158, «un baglior bianco le [a Luisa] nascondeva ogni cosa»159, «i foschi fantasmi delle montagne cominciarono a disegnarsi nel fondo bianco»160, «Il fumo si diradò rapidamente»161) che tende all’occulto («fantasmi», «nascondeva») balugina il
bianco della caligine e del fondale su cui si stagliano le silhouettes delle montagne.
Ne deriva l’immagine di un paesaggio velato di nebbia dove «lago», «cielo», «nuvole», «monti» perdono i tratti individuali a favore di quelli comuni, intercambiabili.
3. La percussione e la carezza: alternative semantiche della MADRE
Nella semantica della madre confluiscono lemmi attinenti al linguaggio del
corpo e lemmi propri della comunicazione verbale. La predominanza dei primi traduce l’ineffabilità del dolore che non può esprimersi in parole e cerca uno
sbocco o una via di fuga nel codice gestuale, attraverso azioni autolesionistiche
(«batteva [le palme] su le ginocchia»162; «battendosi le ginocchia»163; «in ginocchio, furiosa, ella si batteva le cosce con i pugni»164) o stereotipate, tipiche dello
spettro autistico («Ella taceva, si toccava un piede, una gamba, con un gesto macchinale; si asciugava le lacrime con un grembiule nero»165; «accarezzava la propria
mano sul ritmo di quel lamento monotono che le usciva dalle labbra»166), come
se, attraverso questi comportamenti, il personaggio volesse ritardare la presa di
coscienza della realtà, rifugiandosi in un temporaneo isolamento.
156
157
158
159
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161
162
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164
165
166
Ibidem.
PMA, p. 300.
Ivi, p. 301.
Ivi, p. 304.
Ibidem.
Ibidem.
TdM, p. 962.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 964.
LP, p. 131.
50
FRANCESCA NENCIONI
Il discorso diretto è tramato da vocativi («Figlio! Figlio! Figlio!»167; «O Madonna
dei Miracoli, fa il miracolo»168; «Maria! Maria mia!»169; «No, cara, no, cara»170);
ripetizioni («Per un tozzo di pane t’ho annegato, figlio mio!»171; «Per un tozzo di
pane t’ho portato al macello, figlio mio»; «E per un tozzo t’ho perduto!», «un bacio, un bacio, un bacio, un bacio […] uno solo»172); vezzeggiativi ed espressioni affettuose («Come sei bello! Come sei bello!»173; «Come sei bello, cuore della
mamma»174; «Guarda, zio, che tesoro»175; «povero tesoro»176); aggettivi possessivi
(«Figlio mio! Figlio mio!»177; «Maria mia»; «No, è mia, è mia»178; «El me Paradis
l’è chi!»179), che trasmettono l’impressione di uno iato verificatosi tra significante
e significato in una regressione comunicativa verso l’allucinazione e la follia. Lo
stesso esito è ottenuto attraverso la gamma dei suoni che, accanto al linguaggio
articolato, allinea fenomeni pre e para-linguistici (grida, interiezioni, singhiozzi)
deputati a rappresentare stati d’animo a forte carica emotivo-affettiva. Nel Trionfo
della morte l’approdo al canto, «l’antica melodia che da tempo immemorabile in
terra di Abruzzi le donne cantavano su le spoglie dei consanguinei»180, in Piccolo
mondo antico il ricorso al dialetto, come voce spontanea che meglio aderisce alla
commozione e ai sentimenti più intimi, segnala l’ultima soglia del dolore.
Se si scava nella stratificazione del tessuto linguistico, affiora la corrispondenza tra glossario del compianto e poesia religiosa del Duecento, in particolare
tra stilemi adottati nel Trionfo della morte e accorgimenti retorici utilizzati nella
laude Donna de Paradiso di Jacopone da Todi. La triplice invocazione «O figlio!
figlio! figlio» di Maria ai piedi della croce è fatta propria da Riccangela con l’unica omissione della particella vocativa: «Figlio! Figlio! Figlio»; le dolorose domande della Madonna: «Figlio, chi t’ha ferito?», «Figlio, chi me t’ha morto?»
collimano con «O figlio mio, chi t’ha mandato, chi t’ha mandato qui ad annegarti?»; come i dolci appellativi, le apposizioni «Figlio, amoroso giglio», «Figlio,
occhi iocundi», «Figlio, dolze e placente» trovano eco in «Come sei bello, cuore della mamma!»; fino all’interrogativo cruciale «figlio, co’ non respundi?» cui
fa da pendant «non m’ascolti?» di Riccangela.
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180
TdM, p. 962.
Ivi, pp. 963 e 965.
PMA, p. 307.
Ivi, p. 312.
TdM, pp. 963 e 964.
PMA, p. 312.
TdM, pp. 963 e 964.
Ivi, 965.
PMA, p. 313.
Ibidem.
TdM, p. 962.
PMA, p. 313.
Ivi, p. 314.
TdM, p. 962.
MARE, MADRE, MORTE. LA COSTELLAZIONE ARCHETIPICA DEL FIGLIO ANNEGATO
51
Indagando ancora nel substrato lessicale, alla ricerca di quello che potremmo chiamare l’archetipo, incrociamo quasi fatalmente lo Stabat Mater, la famosa preghiera del XIII secolo attribuita all’autore delle Laude, in grado di generare
modelli letterari, musicali e iconografici diversi ma tutti segnati da quella stessa matrice originaria. Nella sequenza liturgica il vocabolario si dirama attorno a
due nuclei al contempo centripeti e centrifughi: mater dolorosa e dulcem natum,
dai quali discendono le contrastanti declinazioni del dolore e dell’amore materno. Attingendo al codice del cordoglio, il linguaggio di ogni nuovo testo realizza determinate possibilità combinatorie, talvolta curvate sull’input di dolorosa,
talaltra su quello di dulcem. L’immagine statica Stabat Mater dolorosa è saldata
dall’analoga immobilità di Luisa («Luisa era seduta sul letto con la sua bambina
morta in braccio»181; «Luisa stava seduta sulla sponda del suo letto […], contemplando il lettuccio»182) o si sfaccetta nei fotogrammi dinamici «Veniva la madre»
del Trionfo della morte e «una donna […] appariva» della Polveriera. Il participio presente «gementem» che qualifica l’animo della Vergine genera la sequenza dei verba gemendi («gemeva», «gemendo», «gridando») riferiti a Riccangela e
a Luisa o si trasforma nella serie nominale di «gemiti», «lamento», «pianto» che
ne sigillano la voce. Il senso di vedere, enfatizzato dalla collocazione in incipit
del verbo («Vidit suum dulcem natum»), orienta verso lo ‘sguardo di prima vista’, la presa di contatto con la nuda verità della morte e combacia con l’azione
di Riccangela di scoprire il cadavere («scoperse il cadavere»183) e con quella della
mamma di Cirillo che contempla per due giorni («con gli occhi fissi») il corpo
del figlio adagiato nel loculo184. Dell’aggettivo dulcem resta l’impronta in «dolce creatura»185 del Trionfo della morte e «dolce morta»186 di Piccolo mondo antico.
La comparsa delle tre dramatis personae è assecondata dalla curva melodica
che adotta in due casi il modulo regressivo, nel terzo la linea progressiva:
Veniva la madre lungo il lido, pel sole, gridando187;
All’entrata della camera dell’alcova, si sciolse dal braccio del professore, entrò
sola188;
una donna vestita di nero a tratti appariva in primo piano e con le braccia alzate
si opponeva a che tutti avanzassero inesorabilmente verso la certezza che suo
figlio era morto189.
181
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186
187
188
189
PMA, p. 312.
Ivi, p. 314.
TdM, p. 962.
Cfr. LP, p. 133.
TdM, p. 965
PMA, p. 313.
TdM, p. 961.
PMA, p. 307.
LP, p. 132.
52
FRANCESCA NENCIONI
Lo schema in calando pone l’accento sull’effetto acustico di «gridare» reso
dal gerundio in posizione rilevata; la lapidaria regressiva «entrò sola» isola Luisa
in un dolore in cui nessuno può raggiungerla; il modello progressivo favorisce
nella Polveriera il crescendo dell’angoscia e l’opposizione all’estremo distacco.
Il lutto di Riccangela è tratteggiato da verbi e complementi ripetuti con minimi interventi variantistici, che indicano un’andatura malferma, oscillante tra
postura eretta e prona («Traballava su la ghiaia col corpo curvato»190; «camminava lungo il lido curva»191; «Nell’appressarsi, più s’incurvava, si metteva quasi
carpone»192) o che esprimono gesti ottattivi («Alzava le palme al cielo»193; «volgendo gli occhi al cielo, con una suprema implorazione»194) e manifestazioni di disperazione delineate dai predicati percussivi già ricordati: «batteva», «battendosi».
Si attagliano alla paralisi motoria gli aggettivi: «immobile, quasi impietrita»195,
all’incredulità: «stupefatta»196, al dolore: «occhi disperati», all’obnubilamento
cognitivo le espressioni: «pareva che non vedesse, che non comprendesse […]
avvenivano in lei pause brevi, quasi oscuramenti della coscienza»197. La tenerezza traspare dalle azioni che stabiliscono un contatto diretto col corpo del figlio:
«lo palpava dal capo ai piedi, lo accarezzava pianamente. […] toccava gli occhi,
la bocca, la fronte del figliuolo»198; «quasi temendo di fargli male»199, «lo [il piccolo cappello logoro] baciò»200. Predominano verbi connessi al senso del tatto:
«palpava», «accarezzava», «toccava», «baciò», trasposti dallo statuto dell’eros a
quello del thanatos, che conservano del primo appena un’eco, subito sommersa
dagli impeti del dolore. Nel «processo di erosione del confine semantico»201 subiscono lo stesso iter le estrinsecazioni dell’amore materno, per lo più trasferite dalla sfera del gusto all’ambito degli affetti («s’addolciva», «infinitamente soave», «infinita tenerezza»), entro una semantica dell’indeterminazione che si avvale dell’avverbio e dell’aggettivo che non conoscono limiti né unità di misura
(«infinitamente», «infinita»). La stessa dimensione senza confini s’intuisce nell’«errando sola, sola per tutta la sua vita» della Polveriera.
Il linguaggio verbale percorre la scala dei suoni umani attraverso i sostantivi «grida», «urlo», «singulti», «eloquio melodioso», «canto», «scoppi disperati»,
190
191
192
193
194
195
196
197
198
199
200
201
TdM, p. 962.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 965.
Ivi, p. 962.
Ivi, p. 964.
Ibidem.
Ivi, p. 965.
Ivi, p. 964
Ivi, p. 965.
G. Turchetta, La coazione al sublime cit., p. 182.
MARE, MADRE, MORTE. LA COSTELLAZIONE ARCHETIPICA DEL FIGLIO ANNEGATO
53
«pianto», «cantilena» e i predicati «gridando» (3 occorrenze), «chiamava, «acutamente gridò», «cantava», «taceva», «chiamò, «singhiozzava», «pregò». Spicca
la contrapposizione tra il tasto acuto del grido e quello armonioso del canto,
con implicito richiamo al dolorosa e al dulcem. In un caso D’Annunzio ricorre al
verso di un animale: «le sfuggivano dalla bocca suoni non umani, simili all’uggiolare d’una cagna selvaggia»202. Anche Gatto identifica con una metafora surreale il pianto materno col guaito di un cane, provocando un senso di straniamento nel lettore:
Piangeva soltanto un cane dietro la porta, era la madre di Cirillo che teneva tutti
lontani da sé e, asciutta, senza lagrime, accarezzava la propria mano sul ritmo di
quel lamento monotono che usciva dalle labbra203.
Il «lamento monotono» si pone sulla scia dell’antica monodia di Riccangela
e dei «gemiti lunghi, sommessi, che quasi non parevano umani»204 di Luisa, unificando entro una stessa sofferenza mondo naturale e mondo umano.
Scendendo al piano del contenuto, il vocabolario di Riccangela risulta intessuto da un doppio registro: da un lato risaltano modi di dire tipici del settore economico («Per un tozzo di pane t’ho annegato, figlio mio!»205; «Per un tozzo di pane t’ho portato al macello, figlio mio»; «Tutto ho fatto per sfamare i figli miei: tutto, tutto, tutto, fuor che la femmina da guadagno. E per un tozzo
t’ho perduto!»206) in cui comanda una spietata legge di mercato che impone il
sacrificio della vita in cambio di un tocco di pane; dall’altro forme lessicali desunte dalla sfera affettiva («Come sei bello! Come sei bello!»; «Come sei bello,
cuore della mamma»). Gli uni e le altre sono intervallati da imperativi-esortativi: «Apri gli occhi, alzati, cammina, figlio mio»207, «Alzati! Cammina»208, ricalcati direttamente sul modello evangelico «Alzati e cammina» (Mt, 9, 5). L’appello
«O Madonna dei Miracoli, fa il miracolo» scaturisce in due circostanze209, nelle
quali pare d’intravedere un pallido spiraglio o riflesso di vita.
La forma esclamativa che punteggia le affermazioni di piena assunzione della responsabilità («Per un tozzo di pane t’ho annegato, figlio mio!»), si dilata negli interrogativi che ricercano possibili mandanti («O figlio mio, chi t’ha manda-
TdM, p. 962.
LP, p. 131.
204
PMA, p. 313.
205
TdM, pp. 963 e 964.
206
Ivi, p. 964.
207
Ivi, p. 963.
208
Ivi, p. 965.
209
La prima volta quando Giorgio suggerisce che «soccorso in tempo il bambino avrebbe
potuto salvarsi» (TdM, p. 963); la seconda, quando nel sollevare il morticino, esce dalla sua bocca
un poco d’acqua (cfr. TdM, p. 965).
202
203
54
FRANCESCA NENCIONI
to, chi t’ha mandato qui ad annegarti?»210) fino alla declinazione completa della
reità testimoniata dal passaggio dalla prima persona singolare alla terza plurale
(«T’hanno annegato, figlio mio»211).
La corsa di Luisa è costellata da predicati che combaciano con un moto convulso, precipitoso: «Si avventò»212, «si slanciò»213, «precipitò a terra»214, «parve
riaver tutta la sua energia, riprese lo slancio e la corsa»215, «Volava»216. Le forme
verbali tronche coniugate al passato remoto sono accostate in modo da trasmettere rapidità e concitazione, grazie anche all’effetto dell’accento; si distacca, quasi come hapax, l’imperfetto «Volava» racchiuso tra due punti fermi. Se la scansione secca dei passati remoti delimita la provvisorietà delle azioni, l’imperfetto
segna la persistenza e la continuità della corsa.
Sia che esprimano transito o traducano voce, tutti i passaggi del dolore di
Luisa sono connotati da eccesso; il verbo per eccellenza che esprime il movimento è «precipitare»: «precipitò a terra», «precipitò col viso sui piedi gelati della sua creatura»217, «si precipitò fuori»; come «gridare» è il verbum dicendi predominante. Denunciano il surplus emotivo, l’avverbio «freneticamente», gli aggettivi «forsennati», «convulsi», i verbi «ansando», «ansante»; le due similitudini: «gridò come pazza», «come una fiera». A contrasto si trovano i verbi che suggeriscono l’attenuazione della forza vitale: «si sentì mancare»218, «fu per cadere, esausta»219, «passò quasi portata di peso»220, con ricorso a formule fraseologiche, perifrastiche o passive che aderiscono al progressivo estinguersi dell’energia.
La soglia della camera dell’alcova, limite tra sapere e non sapere, impone un
momentaneo recupero dell’autonomia: «si sciolse dal braccio del professore, entrò
sola». Ma subito ricompaiono i segnali della violenza del dolore e della concitazione:
«precipitò col viso sui piedi gelati della sua creatura», li coperse di baci forsennati»221,
«Luisa si precipitò fuori»222, «scosse il capo senza parlare»223 e i sintagmi «occhi fissi», «pallore», «viso contraffatto», «energia convulsa». La voce si acuisce in un gri-
210
211
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213
214
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216
217
218
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220
221
222
223
TdM, p. 963.
Ivi, p. 964
PMA, p. 306.
Ibidem.
Ivi, p. 307.
Ibidem.
Ibidem.
PMA, p. 308.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ibidem.
Ivi, p. 309.
MARE, MADRE, MORTE. LA COSTELLAZIONE ARCHETIPICA DEL FIGLIO ANNEGATO
55
do («Ella gridò come pazza»224, «cacciò uno strido»225, «urlò»226, «gridò»227, «ebbe
ancora la forza di gridare»228, «uno strido acuto, inenarrabile»229, «stridette»230) o si
affievolisce in gemiti, sussurri e singhiozzi («singhiozzò», «sussultò», «gemiti lunghi,
sommessi, che quasi non parevano umani», «insieme ai gemiti, voci tenere e baci»,
«gemeva», «gemiti lunghi, inesprimibili»231, «voce grossa di tenerezza»232, «lunghi
gemiti che non parevano umani»233, «rispose con tenerezza»234).
I frammenti di discorso diretto, dove si sta facendo strada la verità tragica,
tutti espressi alla forma interrogativa, presentano in prevalenza un ritmo binario prima della certezza della morte di Ombretta («La Maria? La Maria? Cosa?
Cosa?»235; «Dio, è morta?»236; «È viva? È viva?», «Il medico?», «Il medico?»237,
«Dottore? Dottore?»238) e sono articolati attorno a pochi essenziali nuclei tematico-semantici: il nome della figlia, il dilemma lacerante vita-morte, il ricorso alle
figure che in cielo e in terra detengono le fila del destino e della possibile salvezza: Dio e il medico239. Dopo la conferma indubitabile, il linguaggio abbandona la serie binaria delle domande e si allarga a stringhe ripetitive ternarie e quaternarie, coordinate per asindeto, ormai svincolate dal filtro della ragione e dal
rispetto dei canoni sintattici: avverbi affermativi («Sì sì sì sì»), vocativi («zio zio
zio»), inviti («vieni qua, vieni qua, vieni qua»).
Il rifugio nel dialetto accentua il dislivello tra scelte linguistiche ancora ispirate a istanze comunicative e forme spontanee della commozione. Se all’ingiunzione del dottor Aliprandi di parlare non alla bimba morta ma a quella che è in
Paradiso, Luisa oppone un netto rifiuto («No, non in Paradiso! È mia! È mia!
Dio è cattivo! No! Non gliela do»), di fronte alla preghiera del curato di Castello
di donare la bambina alla nonna Teresa, «sü in Paradis», risponde con dolcezza:
«L’à capii che ghe credi minga, mi, al so Paradis! El me Paradis l’è chi!».
Ivi, p. 306.
Ibidem.
226
Ivi, p. 307.
227
Ibidem.
228
Ibidem.
229
Ivi, p. 311.
230
Ivi, p. 313.
231
Ivi, p. 312.
232
Ibidem.
233
Ivi, p. 313.
234
Ivi, p. 314.
235
Ivi, p. 306.
236
Ivi, p. 307.
237
Ibidem.
238
Ivi, p. 308.
239
La richiesta del dottore, anzi, presente solo in questo testo testimonia il fondo razionale
del personaggio che persiste pur nel doloroso sbigottimento, come dimostra anche l’aiuto prestato durante i tentativi di rianimazione alla figlia.
224
225
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FRANCESCA NENCIONI
I lemmi della solitudine tramano invece l’afflizione della madre di Cirillo,
condannata dalla perdita del figlio a «errare sola, sola per tutta la sua vita».
L’infinto «errare», nel doppio significato di vagabondare senza meta e di mancare la giusta direzione, configura uno scenario interiore sconfortato; il raddoppiamento dell’aggettivo, separato dalla virgola, prolunga il senso di isolamento in una durata che non conosce soluzione di continuità. La resistenza interposta nel «tenere tutti lontani da sé» trova conferma nell’opposizione trasmessa dalle «braccia alzate».
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
Paolo Orvieto
Quando Anna Dolfi ha proposto lo Stabat Mater come tema del volume da
lei ideato e curato, a parte l’ovvio ricordo del celebre inno alla Vergine «Stabat
Mater dolorosa / iuxta crucem lacrimosa / dum pendebat Filius…», attribuito a
Jacopone da Todi, mi sono venute in mente le molte madri più o meno ‘dolorose’ di Pier Paolo Pasolini. Subito la Magnani di Mamma Roma e poi, soprattutto,
Susanna Pasolini, la vera madre di Pier Paolo, nei panni di una Maria Vergine
popolana, vecchia e sdentata, che nel film Il Vangelo secondo Matteo assiste straziata da un devastante e muto (non dice una battuta) dolore e in deliquio alla
passione, crocifissione e morte del figlio: una perfetta riedizione moderna dello
Stabat Mater. Infatti ebbe a dire Pasolini che se lui nel film voleva o solo desiderava essere la figura Christi, anche la madre di Cristo doveva essere la sua vera
madre. Quindi un Cristo, scandaloso e trasgressivo, alter ego di Pasolini, uno
che «contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno» (l’alienato e massificato borghese ‘adorniano’, senza identità e appiattito nel disumanizzante proselitismo): è l’epifanica e palingenetica «irruzione del
sacro», di quell’angelo (il Davoli di Edipo re e anche Angiolino-Davoli, il postino che annuncia l’arrivo dell’angelo-Dio salvatore di Teorema), che dà un senso, essenziale quindi poetico, all’altrimenti piatta e quindi insignificante banalità massmediologica ma anche ideologica dell’uomo ‘civilizzato’ della modernità. Perciò anche lui, Pasolini-Cristo, ha una madre, la sua, che assiste muta e
disperata alla passione e alle violenze inflitte al figlio, che ha, nella vita, nei suoi
comportamenti e nelle sue opere (letterarie e cinematografiche), osato suscitare lo scandalo, condannato, come Cristo, da giudici tutori dell’ipocrita conformismo religioso.
Tuttavia rimane il dubbio se quella Madre-Madonna sia straziata dal dolore
per la perdita del figlio Cristo-Pasolini oppure riattivi nella memoria conscia o
inconscia di Pier Paolo il ricordo del 1945, del resto incancellabile, di quella stessa Madre quasi folle per il dolore della perdita – questa vera – dell’altro figlio, di
Guido. In un’intervista rilasciata a Fernando di Giammatteo nel 1967 Susanna
ammise che «avevo paura proprio di impazzire», e uno dei compiti che si impose Pasolini fu appunto quello di aiutare la madre a superare quel folle dolore:
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
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PAOLO ORVIETO
Tutto questo ancora resiste col dolore che provo per la morte che non ho mai
esaurito, perché quando è morto, nell’aiutare mia madre a sopportare, a superare quel momento, ho costretto me stesso a non pensarci, a esserne come
immune, illeso, a essere abbastanza forte per sostenere mia madre. Quindi non
ho smaltito, ce l’ho ancora dentro.
Ancora Susanna, nella stessa citata intervista, confessa che «sono riuscita a
entrare nel personaggio [di Maria nel Vangelo] pensando al dolore che ho provato quando è morto quell’altro mio figlio, ho pensato a Guido»1. Un lutto che
forse Susanna ha in parte elaborato, proprio con la sua disperazione e dal quale invece Pier Paolo ha cercato di rimanere «immune, illeso», ma che nel suo inconscio è radicato come una colpa, così come indelebile rimarrà per tutta la sua
vita quella sua Mater dolorosa per la perdita del figlio ucciso, tanto da riproporla nella per lui sempre probabile morte anche di Pier Paolo: rimosso desiderio
che quel dolore possa replicarsi, altrettanto straziante, anche per l’altro figlio.
Una Madre che è indubbiamente autobiografica, ma anche metaforicamente anteriore ad ogni madre individuale e personale, così come il Cristo-Pasolini:
Vorrei però soltanto aggiungere che nulla mi pare più contrario al mondo moderno di quella figura: di quel Cristo mite nel cuore, ma «mai» nella ragione,
che non desiste un attimo dalla propria terribile libertà come volontà di verifica
continua della propria religione, come disprezzo continuo per la contraddizione
e per lo scandalo. Seguendo le «accelerazioni stilistiche», di Matteo alla lettera,
la funzionalità barbarico-pratica del suo racconto, l’abolizione dei tempi cronologici, i salti ellittici della storia con dentro le «sproporzioni» delle stasi didascaliche […], la figura di Cristo dovrebbe avere, alla fine, la stessa violenza di una
resistenza: qualcosa che contraddica radicalmente la vita come si sta configurando all’uomo moderno, la sua grigia orgia di cinismo, ironia, brutalità pratica,
compromesso, conformismo, glorificazione della propria identità nei connotati
della massa, odio per ogni diversità, rancore teologico senza religione2.
La Maria Madre dolorosa del Vangelo è costruita a posteriori, non seguendo la
primitiva sceneggiatura (in cui c’era solo la giovane Vergine), introducendo una
madre – la sua ma anche quella di Cristo – che non c’era nel Vangelo di Matteo.
Lì, in Matteo, ci sono, al momento della passione di Cristo, tre donne che assistono, ma solo da lontano, alla morte di Gesù: Maria di Màgdala, Maria «madre di Giacomo e di Giuseppe» e «la madre dei figli di Zebedeo» (Mt., 27, 55).
Giuseppe di Arimatea avvolge il corpo di Gesù in un lenzuolo e lo depone in
una tomba scavata nella roccia chiusa da una grande pietra e lì davanti ci sono
1
Le tre citazioni sono in Tomaso Subini, La necessità della morte. Il cinema di Pier Paolo
Pasolini e il sacro, Roma, Fondazione Ente dello Spettacolo, 2007, p. 30.
2
Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo. Edipo re. Medea, Introduzione di Morando
Morandini, Milano, Garzanti, 2006, pp. 14-15.
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
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ancora Maria di Màgdala e «l’altra Maria», che sono le due che assistono alla
sua resurrezione. Insomma tre o solo due Marie: Maria «madre di Giacomo e di
Giuseppe», che Marco chiama «Maria, madre di Giacomo il minore e di Josef»
(Mc., 15 40), che, sempre in Marco, con Maria Maddalena e Salome, osservano
da lontano la crocifissione di Gesù. Il solo Giovanni (19, 25) include tra le donne che assistono alla crocifissione, oltre ad una «Maria la moglie di Cleofa» (forse
la stessa Maria «madre di Giacomo e di Giuseppe») e a Maria Maddalena, anche
Maria madre di Gesù, assieme «al discepolo che egli amava», lo stesso Giovanni.
Perché allora ci possiamo chiedere Pasolini ha voluto tradire Matteo, per introdurre nel suo Vangelo al centro tra le tre Marie la sua (e di Cristo) madre, che,
con le altre due Marie, forma una sorta di massa nera, con prolungato primissimo piano della Maria madre, che si dibatte, sostenuta, perché non stramazzi a
terra, dalle altre due donne, da Giuseppe di Arimatea e dal discepolo Giovanni?
La Susanna-Maria è una Mater dolorosa rimossa, ma che dopo anni, superate le
barriere della censura, riemerge come trauma non solo infantile, ma ancora attuale perché se lei fu dolorosa per la morte di Guido, lui cercò di immunizzarsi da quel dolore. Nelle quindici inquadrature della sequenza della passione e
morte di Cristo, Maria, contrariamente che in Matteo e nella sceneggiatura, è
quasi sempre presente, «raccolta, immobile e muta che osserva il corpo del figlio morto»3. Lungo e replicato il primo piano di quel terzetto di donne vestite di nero, quasi ombra oscura che segue Gesù. In nessuno dei Vangeli canonici c’è una Maria madre così straziata e sofferente (che anzi, dopo il miracoloso
parto, è del tutto ignorata e, addirittura, rifiutata come madre: vedi Mc., 3, 3335), che ora non è più la bellissima fanciulla degli inizi, ma una vecchia sdentata, popolana, di origini proletarie (come si vantava più volte che fosse sua madre Pasolini). Le tre donne portano un mazzo di fiori sul sepolcro di Gesù, dal
sepolcro esce un bellissimo bambino sorridente, ora anche Maria sorride e si inginocchia davanti al figlio redivivo, rigenerato dopo il processo e la condanna a
morte da parte delle autorità giudiziarie, ma assolto dalla superiore autorità divina e forse risorto proprio grazie al dolore di quella Madre.
La Madre-Maria del Vangelo è dolorosa, non solo perché autobiografica e mitica (la Madonna nella cultura popolare, estrapolata dalla storia, è da secoli ‘mitica’, insuperato prototipo della madre dolorosa; si ricordino i medievali planctus Mariae e «i sette dolori di Maria»: tra i quali la presenza alla crocifissione e
morte di Gesù; lei che riceve tra le braccia il corpo di Gesù deposto dalla croce
e lo accompagna alla sepoltura). Ma Susanna Pasolini ha anche un altro significato, ideologico: è una ‘popolana’, dai connotati fisiognomici tipicamente «contadini», anteriore quindi – anche perché proiettata duemila anni addietro – ad
ogni caduta antropologica e culturale nel mondo borghese (la madre borghese
3
Cfr. P. P. Pasolini, Per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, Milano, Mondadori,
2001, 2 voll., p. 645.
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ha dimenticato la violenza istintiva dei sentimenti). Dolorosa perché appartenente ad una classe che da sempre (perciò mitica, senza delimitazioni storiche)
ha dovuto sputar sangue per sopravvivere alla miseria, ai soprusi. Autobiografia,
acronia ecumenica e ieratica del mito, religiosità preborghese (e cristiana, ma
non cattolica) e ideologia si coniugano a vicenda:
Mia madre, di famiglia contadina friulana, e quindi di tradizione religiosa –
ma una tradizione assolutamente naturale, che non ha niente di conformistico o
di bigotto -, non va mai in chiesa e non fa mai la comunione: la sua religiosità è
puramente poetica e naturale, ciò che le viene soprattutto da sua nonna […].
Deve tenere in mente che l’Italia si trovava, e ancora si trova, in una posizione
alquanto anomala nel quadro dell’Europa occidentale. Mentre il mondo contadino è del tutto scomparso nei maggiori Paesi industriali, come la Francia e
l’Inghilterra […], in Italia esso sopravvive ancora, pur avendo subito un declino
negli ultimi anni […]. Mia madre, ai suoi tempi, doveva ancora andare a letto
a lume di candela. Il mio rapporto col mondo contadino è diretto, immediato:
quasi tutti noi italiani abbiamo almeno un nonno contadino nel senso letterale
della parola. Ora, quei comunisti friulani erano contadini, e ciò ha avuto molta
importanza […]. Quando mi accorsi che i contadini friulani esistevano e che la
loro psicologia, educazione, mentalità, anima, sessualità erano del tutto diverse,
il mio mondo si infranse; non potevo più amare l’élite borghese e contemporaneamente odiare la borghesia; nacque un nuovo modo di sentire, quello di
partecipare dall’esterno, anche se la cosa era autentica e convalidata dall’amore
genuino che portavo ai lavoratori, e particolarmente ai contadini4.
Nel corso di un colloquio del marzo ’64 che ebbe luogo al Centro sperimentale
di Cinematografia condotto da Leonardo Fioravanti, Pasolini spiegò le sue scelte
degli attori per il Vangelo: di Cristo, Enrique Irazoqui, sconosciuto e antifranchista
studente spagnolo di Barcellona, perché «aveva lo stesso volto bello e fiero, umano
e distaccato, dei Cristi dipinti da El Greco. Severo, perfino duro in certe espressioni», e di Maria (Margherita Caruso da giovane, Susanna Pasolini da vecchia):
La mia visione del mondo è sempre, nel fondo, di tipo epico-religioso; quindi
anche e soprattutto in personaggi miserabili, personaggi che sono al di fuori di
una coscienza storica e, nella fattispecie, di una coscienza borghese, questi elementi epico-religiosi giuocano un ruolo molto importante. La miseria è sempre,
per sua intima caratteristica, epica e gli elementi che giuocano nella psicologia
di un miserabile, di un povero, di un sottoproletario, sono sempre in un certo
qual modo puri perché privi di coscienza e quindi essenziali5.
4
P. P. Pasolini, Pasolini su Pasolini. Conversazione con Jon Halliday, introduzione di Nico
Naldini, Parma, Ugo Guanda, 1992, pp. 29, 35-36, 41. La Conversazione si può leggere anche
in P.P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano,
Mondadori, «I Meridiani», 1999, pp. 1283-1399.
5
P. P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo. Edipo re. Medea cit., pp. 293-294 (nostro il corsivo).
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Una Maria-Madre, quindi, proprio perché di estrazione contadina (e/o proletaria) e perciò partecipe delle millenarie sofferenze del popolo e delle classi più umili e povere, costituzionalmente ‘dolorosa’, anche prima della ‘passione’ del figlio:
Essa [Maria] è una giovinetta, ma lo sguardo è profondamente adulto: vi brilla,
vinto, il dolore. Il dolore che si prova nel mondo contadino (l’ho visto in certe giovanette friulane, durante la guerra: un dolore quasi precostituito, uno stato in cui si
entra fatalmente, perché si è umili). È una giovinetta ebrea, bruna, naturalmente
proprio «del popolo», come si dice; come se ne vedono a migliaia, con le vesti
scolorite, i loro «colori della salute», il loro destino a non essere altro che umiltà
vivente. Tuttavia c’è in essa qualcosa di regale: e, per questo, penso alla Madonna incinta di Piero della Francesca a Sansepolcro: la madre-bambina. Il ventre
leggermente gonfio, appuntito, dà a quella giovinetta che tace, col suo dolore,
una grandezza sacrale6.
Così come costituzionalmente dolorose, proprio perché del sottoproletariato
delle borgate romane, alla fame (siamo negli anni della guerra e nell’immediato dopoguerra) e mogli di uomini ubriachi e violenti e perché madri di piccoli teppisti e senza alcuna prospettiva futura sono le varie madri dei Ragazzi di
vita (1955). Così la madre di Marcello, rimasto gravemente ferito dopo il crollo
dell’edificio in cui abitava, che assiste disperata alla morte del figlio in ospedale:
Vedendolo così bianco, il padre andò a chiamare una suora, e sua madre si lasciò
andare in ginocchio contro la sponda del letto, stringendo sempre il figlio per
una mano e mettendosi a piangere in silenzio. Tornò il padre con la suora, che
lo guardò, gli passò una mano sulla fronte, e con uno sguardo spento, andandosene, disse: «Bisogna avere pazienza». A quelle parole la madre alzò un po’ la
testa, si guardò intorno e cominciò a piangere più forte: «Fijo mio, fijo mio»,
diceva tra i singhiozzi, «povero fijo mio…». […] La madre continuò a piangere
ancora più disperata, senza sapersi trattenere, e cercando di soffocare i singhiozzi
contro le lenzuola7.
Dolorosa per altri motivi, perché per la vita troppo grama «indemoniata», è
la madre di Begalone:
Camminando con Aldo si passava i palmi delle mani sullo stomaco vuoto, piegandosi in avanti e dicendo i morti ai suoi fratelli, a suo padre e più di tutti a
quella poveraccia di sua madre, che una notte – ch’era stata la prima d’una fila di
notti disgraziate – s’era buttata giù dal letto strillando come una scema che aveva
visto il diavolo. Diceva che un serpente era venuto dentro nella camera e s’era
6
7
Ivi, p. 42 (corsivo nostro).
P. P. Pasolini, Ragazzi di vita, Milano, Garzanti, 1955, pp. 62-64.
62
PAOLO ORVIETO
intorcinato ai piedi del letto e la guardava fisso costringendola a spogliarsi nuda;
e allora lei aveva cominciato a gridare. Poi per l’intera giornata, tutt’a un botto,
ricominciava con gli strilli, e guaendo come una cagna con un mal di testa che
si sturbava, s’attaccava alle figlie o a chi aveva appresso perché la proteggessero
contro quella cosa che capiva soltanto lei. La notte dopo si svegliò un’altra volta
urlando: ma questa volta non era più il diavolo. Difatti s’era spostata più in là
sul letto sfatto, per lasciare un po’ di posto a qualcuno, benché il suo corpo secco
come un’alice non ne occupasse molto. Sulle lenzuola grigie s’era messa seduta
accanto a lei […] una ragazza morta: morta almeno a considerare com’era vestita, con la veste buona, le calze di lana bianche e la corona di fiori d’arancio, perché pochi giorni dopo avrebbe dovuto sposare. […] Poi ricominciò a apparire il
diavolo, sotto varie forme: una volta un serpente, un’altra un orso, un’altra ancora una vicina di casa a cui erano cresciuti i denti come zanne, e che entravano
e uscivano dentro la casa di Bégalo come fosse casa loro, a tormentare la madre8.
Dolorosa anche la madre di Alduccio, proprio perché ha un marito perennemente ubriaco (del resto anche Carlo Alberto, il padre di Pier Paolo, morì dei
cirrosi epatica per il troppo bere), una figlia incinta che vuole suicidarsi, e un figlio anche lui teppista in erba, e addirittura intenzionato ad accoltellare la madre:
«A disgraziato!» gli gridò la madre, non tanto forte per non farsi sentire dai vicini e perciò più imbestialita ancora: era scapigliata e mezza ignuda come l’aveva
lasciata, con le zinne tutte sudate che quasi le uscivano dalla veste aperta. […]
«Sto magnaccia infame!» riprese, mentre che distesa per terra, la sorella faceva un verso come se rantolasse, dicendo ogni tanto a mezza voce: «Dio Dio».
Alduccio ingollò un boccone di pane, e andò al rubinetto a bersi una sorsata
d’acqua. […] e come rientrò, la madre lo tornò a prendere di petto: «Tutto er
giorno fori casa», disse. «Beve, magna, e mai na vorta che portasse a casa na lira,
mai». Alduccio si voltò di scatto: «Già m’hai stufato, a ma’, piantala», gridò. «E
quanno ’a pianto», fece lei gettandosi indietro i capelli dagli occhi e staccando
quelli ch’erano appiccicati alla gola sudata e nuda fin quasi ai capezzoli, «hai voja
de sentimme baccajà, ancora, brutto delinquente!». Alduccio, cieco di rabbia,
le sputò davanti ai piedi il boccone dello sfilatino che s’era messo a mangiare.
«Ecco», fece, «tiè, sputo!» Urtò il tavolo, voltandosi per andare in camera, e fece
cadere la scodella e il coltello che c’erano sopra. «Questo me ridai indietro?»
fece la madre andandogli appresso, «che credi de rimettere a paro con questo?»
«Vaffan…», le disse Alduccio. «Vacce tu, a chiavicone zozzo, come ci sei stato
infin’adesso», gridò la madre. Alduccio non ci vide più e si chinò a afferrare il
coltello, che gli era caduto davanti ai piedi sul pavimento sporco9.
Tornando al Vangelo, è evidente il significato ultimo di questa Madre-Maria:
la proiezione nel mondo pre-storico della primigenia istintualità dei compor8
9
Ivi, pp. 210-212.
Ivi, pp. 250-252.
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
63
tamenti di una figura comunque ossessivamente autobiografica, tuttavia trasfigurata nel mondo ‘contadino’ della vera madre o nell’equivalente altrove altrettanto utopico del mito (della Madonna, da secoli ‘mitica’ nella cultura popolare), probabilmente irrecuperabile nell’iperrazionale e inaridito (nei sentimenti)
mondo moderno, se non tramite l’irrazionale e destoricizzante regressione poetica o, meglio, mitopoetica10. Che questa sua madre dolorosa abbia un indubbio
significato anche simbolico è dichiarato espressamente da Silvana Mauri, ospite del casolare di Versuta nel ’47: «Accanto a sua madre, unico amore della sua
vita, ma figura fissa e simbolica, cristallizzata all’infanzia e di cui ha sempre tremato di proteggere l’infantile innocenza, io ero il luogo “della sua vitale confidenza”, il filo rosso di un’accettazione totale»11. Assimilabile, quindi per il suo
significato mitico, anche a Giocasta di Edipo re, «una madre non muta: come
una medusa, cambia forse ma non si evolve», ebbe a dire Pasolini12: la madre in
Pasolini è una sorta di stereotipo che non «muta» né si «evolve», è comunque e
sempre una Mater dolorosa.
Plurimi quindi gli ingredienti di questa Madre: autobiografici, ideologici
(grosso modo nazional-popolari, gramsciani) e anche «epico-religiosi»: è «una
regina», in quanto riscattata e glorificata dalla dimensione sacrale universale e
numinosa dell’archetipo e del mito, e perciò proiettata a duemila anni di distanza dall’hic et nunc (ulteriore retroproiezione poi anche delle varie Giocasta e
Medea, anch’esse madri pre-storiche, quindi cristallizzate nell’innocenza dell’infanzia dell’umanità). Nell’intervista rilasciata a Jon Halliday Pasolini chiarisce quest’operazione: «perciò per me fare il Vangelo è stato il culmine del mitico e dell’epico» e «non sono interessato alla dissacrazione: è una moda che detesto, piccolo borghese. Io voglio riconsacrare le cose per quanto possibile, voglio rimitizzarle»13.
Una Maria dunque assimilabile per la devastante passione amorosa per i figli ad altre Madri posoliniane, simili e tuttavia di volta in volta con significati e ruoli differenti: a Giocasta di Edipo re, a Medea dell’omonimo film e a
Clitennestra dell’Orestea14. Ma prima di queste c’è la celebre Mamma Roma (il
film è del 1962). È una prostituta che, all’inizio del film – perciò anche la solita
sovradeterminazione ideologico-politica –, esprime tutta la sua carica pre-culturale, sessuale, contadina, popolare e in più sensi preistorica, quindi pre- o an10
Cfr. in proposito Gian Mario Anselmi, L’innocenza perduta: Pasolini tra letteratura, mito e
antropologia, in «L’anello che non tiene. Journal of Modern Italian Literature», VIII, 1996, 1-2,
pp. 9-13.
11
Nico Naldini, Pasolini, una vita. Edizione riveduta e ampliata con documenti inediti, a cura
di Simone Gianesini, Albaredo d’Adige, Tamellini Edizioni, 2014, p. 149.
12
Ivi, p. 377.
13
J. Halliday, Pasolini su Pasolini cit., p. 82.
14
Per l’analisi dei due film Edipo re e Medea utile una tesi, di cui sono stato relatore, poi
edita: David Ballerini, Edipo Re e Medea di Pier Paolo Pasolini: mito, visione, e storia di due sfortune
(Formato Kindle).
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PAOLO ORVIETO
ti-borghese. Lì nella suburbana e proletaria Guidonia è felice, sboccata, traboccante di forza vitale. Assiste alle nozze del suo ex protettore portando tre maiali,
presentati come i fratelli della sposa: Peppe, Nicola e Regina «che fa la vita»; al
che il padre della sposa brinda agli sposi, dichiarando apertamente e orgogliosamente la loro connotazione sociale: «noi siamo gente che lavoremo la terrà,
però semo gente de core, chi ci dice burini nun capisce niente». A questo punto inizia l’ossessivo tentativo da parte di Mamma Roma di una forsennata scalata sociale del figlio Ettore, un ragazzo abulico completamente in balia di quella fagocitante madre. Una madre ‘dolorosa’ anche ben prima del tragico epilogo del film, proprio perché proletaria:
A dritto – dice al figlio –, mica ho messo al mondo un figlio per farlo diventà un
burino […]; ma non lo sai i sacrifici che ho fatto, ma non lo sai che ho dovuto
sputà sangue per poter arrivar al punto de portarti a casa con me, a fa una vita
da cristiani assieme. So sedici anni che aspetto questo momento e mica è stato
facile per me. Te ancora non la sai tutta la cattiveria del mondo.
La sua sarà una lunga e fallimentare lotta per elevare lo status di Ettore, dal
sottoproletariato contadino della provincia al ceto piccolo-borghese di Roma.
Mamma Roma ricorre ad ogni mezzo per il progresso (o regresso?) sociale del figlio: con l’aiuto dell’amica prostituta Biancofiore, lo fa assumere in una trattoria
ricattando il ristoratore e, sempre con l’aiuto di Biancofiore, cerca di interrompere la relazione di Ettore con la giovane Bruna, di facili costumi, («Bruna è nel
contempo sottoproletaria e già corrotta dalle influenze della piccola borghesia»15);
gli regala una bella moto, si mette a vendere frutta nel mercatino di Cecafumo.
Ma Ettore non ha i requisiti per assimilarsi ai piccolo-borghesi: compie furtarelli, ruba una radiolina ad un malato nell’ospedale, viene arrestato. Una Madre
che dunque ha sofferto per sedici anni prostituendosi per poter convivere in uno
squallido appartamento dell’INA-casa col figlio, che vorrebbe poi emancipare
dalla sua condizione proletaria (in realtà tranquilla se non felice), che poi soffre
nel vedere che il figlio invece di inserirsi nel mondo del lavoro, dell’arrivismo e
del perbenismo borghese, si dà ai furtarelli. È imprigionato e poi rinchiuso in
un manicomio, incatenato ad un letto di contenzione con le braccia divaricate
come una sorta di Cristo in croce (precoce doppione e anticipazione del CristoPasolini del Vangelo), che invoca la madre e grida «riportatemi a Guidonia dove
stavo quando ero piccoletto»; riportatemi a quel mondo preistorico, contadino, sacralizzato nell’immobilità innocente non ancora contaminata dalla società
borghese. Mamma Roma, che ormai ha definitivamente perso il figlio, abbraccia i vestiti usati lasciati da Ettore sul letto e vuole suicidarsi gettandosi dalla finestra della camera, ma poi desiste ammirando simbolicamente la cupola della
15
J. Halliday, Pasolini su Pasolini cit., p. 60.
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
65
basilica di San Giovanni Bosco. A tutti i figli pasoliniani è negata con la morte precoce la maturità, proprio per evitare, come per Ettore, il pericolo dell’assimilazione nell’imbarbarimento borghese.
Ma del film, relativamente al ruolo della madre, mi sembrano interessanti due dialoghi, uno quando Ettore va dalla madre al mercatino ortofrutticolo
per chiederle mille lire, per andare con Bruna di cui si è invaghito, e Mamma
Roma, che ha capito tutto, gli risponde: «A stupido!, all’età tua l’unica donna che devi avé è tua madre […]; le donne son tutte zozze, una peggio dell’altra». È la solita componente autobiografica che ritroviamo in tutte le madri di
Pasolini, in cui già si preannuncia quel freudiano complesso edipico, poi tema
centrale del film Edipo re.
E poi il sogno che Mamma Roma racconta di aver avuto ad Ettore: si trovava in Grecia (è il mito dell’«eterno ritorno» di Mircea Eliade, della «storia sacra»
delle società arcaiche che sacralizza e dà significato pregnante al «tempo lineare» e quindi insignificante della «storia profana» e della autobiografia), in mezzo
al fango, poi sale su un monte rosso pieno di rosmarini, sente un richiamo, «A
Mamma Ro’, A Mamma Ro’», è la voce del padre di Ettore. Ma dall’altra parte
del monte c’è Ettore, è un poliziotto che la vuole «carcerà»: la voleva – direbbe
uno psicanalista – rinchiudere ed isolare in una prigione perché alla fine lui potesse identificarsi col proprio Sé junghiano, avere una sua personalità autonoma e non più simbiotica e viscerale con quella della madre. Non a caso quando sulla moto, all’auspicio della madre che anche Ettore possa diventare «un signorino», lui le risponde «i signorini so tutti stupidi, no li posso vedé sti figli
di papà, perché quando ci hanno un po’ de denaro in saccoccia credono d’essere qualcuno»; al che Mamma Roma reagisce inviperita: «A carogna, che sei comunista, se te metti co’ quei morti di fame. Tu la devi pensà come la penso io».
Da prospettiva psicanalitica Mamma Roma è del tutto responsabile della regressione infantile e della straziante agonia del figlio, proprio perché il suo amore annienta – ovvero inibisce – l’Io del figlio, lasciandolo in balia del caotico e
distruttivo Es dell’inconscio. Oltre l’indubbia componente autobiografica, da
prospettiva politico-ideologica Pasolini condanna Mamma Roma per la sua velleità centrifuga dal mondo popolare a quello piccolo-borghese, ma anche cerca
di assolvere, almeno in parte, questa sofferente ex prostituta, dopo che il prete
(che Pasolini definisce «neocapitalistico») le ha fatto balenare nella sua coscienza la sua responsabilità (che si aggiunge agli altri suoi dolori):
Mamma Roma ha esplicitamente, in maniera sia pure rozza e primitiva, come
può far lei, una certa problematica morale che le si sviluppa per gradi. Questa
«angoscia morale» che condivide con Accattone, questa sua allegria senza storia
(altra somiglianza con Accattone) […]. Ma c’è già in lei qualcosa dell’altro mondo, del nostro mondo borghese, in altre parole un ideale piccolo-borghese. Infatti,
quando prende il figlio e lo porta a Roma, a casa sua, sa già benissimo quello che
vuole, ha già una sua ideologia piccolo-borghese, sbagliata naturalmente, confusa,
66
PAOLO ORVIETO
che le proviene appunto dal mondo borghese, assimilato attraverso i mezzi di
diffusione che tutti noi conosciamo […] la televisione, i rotocalchi, i fumetti, il
cinema. Quindi in lei c’è qualcosa che in Accattone non c’era; nei suoi ideali c’è
già la presenza di un mondo piccolo-borghese. Quando parla della casa nuova al
figlio, gli consiglia gli amici che d’ora in avanti dovrà frequentare, cerca di insegnargli il modo con cui dovrà comportarsi, ecc., sia pure in maniera disordinata
e grezza, cerca di portarsi al livello di quella che secondo lei è la vera vita, la vita
del cosiddetto mondo perbene. In altri termini l’ideale e la morale del benessere
piccolo-borghese. Fornita di questa ideologia, si getta allo sbaraglio nella nuova
vita con il figlio e nasce il caos, perché la contaminazione tra l’ideologia piccoloborghese e le sue esperienze di prostituta non possono far nascere che il caos, e qui
comincia la confusione, il crollo delle sue speranze, il fallimento della sua nuova
vita con il figlio […]. Ed è il prete, abbastanza intelligente, abbastanza umano, che
per la prima volta le parla di responsabilità, che le dà un primo barlume di problematica morale, tipica del mondo «cattolico-borghese». Senso di responsabilità,
finché nella lunga carrellata al viale delle prostitute dirà fra sé pressappoco: «Certo
la responsabilità probabilmente è mia, quel prete aveva ragione, però se io fossi
nata in un mondo diverso, se mio padre fosse stato diverso, mia madre diversa, il
mio ambiente diverso, probabilmente sarei stata diversa anch’io»16.
La sceneggiatura finisce con un urlo: «I responsabili, i responsabili!». Lo straziante urlo, realistico e simbolico della «tragedia» di Mamma Roma-Magnani,
che, assente nel film, c’è invece nella poesia Proiezione al «Nuovo» di «Roma città aperta» di Rossellini de La religione del mio tempo:
ecco … la Casilina, / su cui tristemente si aprono / le porte della città di Rossellini … / ecco l’epico paesaggio neorealista, / coi fili del telegrafo, i selciati, i
pini, / i muretti scrostati, la mistica / folla perduta nel daffare quotidiano, / le
tetre forme della dominazione nazista … / Quasi emblema, ormai, l’urlo della
Magnani, / sotto le ciocche disordinatamente assolute / risuona nelle disperate
panoramiche, / e nelle sue occhiate vive e mute / si addensa il senso della tragedia. / È lì che si dissolve e si mutila / il presente, e assorda il canto degli aedi17.
Questa Mamma Roma è «dolorosa» dall’inizio alla fine, soprattutto per motivazioni ideologico-politiche: perché costretta a prostituirsi, perché il rampante
capitalismo le ha istillato «l’ideale e la morale del benessere piccolo-borghese»,
sia anche perché le sue gravi responsabilità dipendono dalla sua condizione, di
prostituta e di sottoproletaria di borgata, in cui l’ha costretta a vivere la società.
Una ulteriore amplificazione ideologica che viene non so quanto a forza a
declinarsi assieme a quella mitico-epico-sacrale (forse il dolore più profondo di
16
P. P. Pasolini, Le regole di un’illusione, a cura di Laura Betti e Michele Gulinucci, Roma,
Associazione «Fondo Pier Paolo Pasolini», 1991, p. 41.
17
P. P. Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di Graziella Chiarcossi e Walter Siti. Prefazione di Giovanna Giudici, Milano, Garzanti, 1993, pp. 465-466.
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
67
Mamma Roma nasce proprio dalla progressiva coscienza dell’insanabile inconciliabilità tra preistoria archetipica sottoproletaria a storia borghese-capitalistica):
il sottoproletariato, infatti, è solo apparentemente contemporaneo alla nostra
storia, le caratteristiche del sottoproletariato sono preistoriche, sono addirittura
precristiane, il mondo morale di un sottoproletariato non conosce cristianesimo.
[…] E cioè i miei sottoproletariati vivono ancora nell’antica preistoria, nella vera
preistoria, mentre il mondo borghese, il mondo della tecnologia, il mondo neocapitalistico va verso una nuova preistoria e la somiglianza tra le due preistorie è
puramente causale. […] il sottoproletariato, preso come elemento ancora carico
delle caratteristiche antiche dell’uomo antropologicamente inteso, dell’uomo delle civiltà contadine religiose, si contrappone alla borghesia che sta stupendamente
andando verso la distruzione attraverso una specie di palingenesi a rovescio che sta
iniziandosi con le tecnologie e con la civiltà di massa delle macchine. Ora in fondo
i sottoproletari hanno spaventato i borghesi non soltanto perché rappresentano la
loro cattiva coscienza, ma anche l’uomo con elementi di tipo religioso, di tipo irrazionale, di tipo integralmente umano. E su questa linea io intendo andare avanti18.
Allora possiamo sostenere, con Pasolini, che le sue Matres dolorosae sono
ben distinguibili per la tipologia di «angoscia» che provano: «direi che l’angoscia [quella di Lucia in Teorema] è un fatto borghese […]; il sottoproletariato
mitico [Mamma Roma, ma anche Giocasta e Medea] ha un altro tipo di angoscia, quella che ha studiato De Martino facendo ricerca nella poesia popolare
in Lucania, per esempio, cioè un’angoscia preistorica rispetto all’angoscia esistenzialistica borghese storicamente determinata»19. Interessante sarebbe vedere
quante delle facce, scavate da secolari sofferenze, filmate nelle plurime spedizioni in Lucania (dal 1952 al 1956) da De Martino nei suoi reportages etnico-audiofonici siano state dei precisi modelli per la scelta degli attori ‘popolari’ di tutti i film di Pasolini e quanti dei personaggi di Moravia (degli Indifferenti e della Noia) siano modelli della pasoliniana angoscia borghese. Quindi tra le madri
pasoliniane esiste dolore e dolore: certo Lucia, la madre in Teorema è una delle Matres più dolorosae di Pasolini, tuttavia si tratta di un dolore ‘malsano’, esistenziale, classista, perché, una volta riconosciuto (tramite «l’arrivo di un visitatore divino dentro una famiglia borghese»), si è incancrenito nella stessa noia,
insignificanza e degradazione del claustrofobico mondo della benestante donna
borghese. Lucia è una sorta di zombi perennemente sofferente:
Stando china, essa espone alla luce radente gli zigomi, alti e come vagamente
consunti e mortuari – con un certo ardore da malata; l’occhio, ostinatamente
18
P. P. Pasolini, Una visione del mondo, ecc., ora in P.P. Pasolini, Per il cinema cit., pp. 25512552, 2876.
19
Sandro Petraglia, Pier Paolo Pasolini, Firenze, La Nuova Italia, 1974, pp. 6-7. Sulle influenze di De Martino cfr. Subini, La necessità di morire cit., in particolare le pp. 20-34.
68
PAOLO ORVIETO
abbassato, appare lungo, nero, vagamente cianotico e barbarico, forse per via
della sua cupa liquidità. […] getta con dolore il pettine sul tavolo, tra gli oggettini preziosi della toilette. Si alza piena di quel dolore. Poi sospira, e quasi con
un’ironia […] che le distende, illusoriamente, i lineamenti, s’infila il cappotto,
o una pelliccia, ed esce. […] Poi [dopo che ha fatto sesso col primo ragazzo fermato per strada] Lucia finisce di vestirsi, piano piano, ripresa dalla morsa di un
dolore senza nome, e certamente senza rimedio. […] Scompare dietro l’angolo, e
Lucia [dopo il secondo amplesso con un ragazzo] indugia a riassettarsi: mentre la
smorfia di dolore, o meglio di terrore, le torna a deformare il dolce viso sciupato.
Insomma una sorta di tumore esistenziale legato, dopo la visita del Diorivelatore, alla coscienza e al trauma della ‘perdita del sacro’: «la società industriale si è formata in totale contraddizione con la società precedente, la civiltà
contadina […], la quale possedeva in proprio il senso del sacro […]. La società
borghese lo ha perduto. E con che cosa l’ha sostituito, questo sentimento del
sacro, dopo la perdita? Con l’ideologia del benessere e del potere. Per cui ora
viviamo in un momento negativo il cui esito ancora mi sfugge»20. Tanto che
alla fine la borghese madre dolorosa, dopo aver del tutto perduta la sua identità, entrata in una chiesa, viene quasi assimilata alla Madonna, l’unica (assieme
alla Madre-Susanna) capace di esprimere il sacro dolore materno perenne e sacralizzato, perché evangelico: «È verso quel Cristo che essa è attratta, lasciando il suo magro corpo, lì, vicino alla porta, come una spoglia ritornata alla sua
vecchia vita»21.
Mamma Roma, ma anche la vera madre di Pasolini, se da un lato hanno tutti i connotati di colei che ha impedito per molti anni, biograficamente, la crescita e l’identificazione sociale e sessuale del figlio (si legga un passo dal primo
romanzo Atti impuri, in cui il protagonista, non a caso chiamato Paolo, prova
attrazione sessuale per il ragazzino Nisiuti, ma «il ragazzo rappresentava per lui
quanto di più caro e amato ci fosse al mondo dopo sua madre»22), semmai cercando di integrarlo in quel mondo borghese di cui – per Pasolini tragicamente – faceva davvero parte; dall’altro lato, una volta spogliate delle loro vesti ‘storiche’, possono assumere quelle preistoriche, quindi pre-borghesi, del mito, di
una civiltà, loro di origini contadine, che precede quella ‘storica’ neocapitalistica (del boom economico). Quindi due Madri – Mamma Roma e Maria – parimenti dolorose per le sorti del figlio, dilaniate dalla duplicità non sanabile di eros
(della Madre) e thànatos (del Figlio: quasi tutti i figli delle sue madri - Pasolini
stesso - sono destinati ad una precoce morte: solo in Ragazzi di vita, Marcello
Jean Duflot, Il sogno del centauro, Roma, Editori Riuniti, 1983 (ed. originali 1970 e
1981), p. 85, poi anche in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società cit.
21
Le citazioni sono tratte da P. P. Pasolini, Teorema, Milano, Garzanti, 1968, pp. 18, 155,
168, 172 (nostro il corsivo).
22
P. P. Pasolini, Romanzi e racconti. Volume primo: 1946-1961, a cura di Walter Siti e Silvia
De Laude, cronologia a cura di Nico Naldini, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 2006, p. 70.
20
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
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all’ospedale, Amerigo suicidatosi, Piattoletta arso in un rogo, Genesio affogato
nel fiume e Bagalone, anche lui quasi affogato nel fango).
Perciò, proprio per l’onnipresente componente autobiografica, le Madri pasoliniane hanno delle indubbie complicazioni psicanalitiche, perché soprattutto con Giocasta - ma anche con le altre madri - Pasolini, com’egli stesso confessa, non solo, come forse sarebbero state le prime intenzioni, proietta l’ideologia
sulla storia e/o sul mito, e il mito sulla psicanalisi (come ha fatto Freud), ma alla
fine «riproietta» la psicanalisi sul mito, reintroducendo quindi nel mito, e quindi
nella Madre archetipica, l’eterna scissione e collisione tra Io ed Es. La sua Madre
dolorosa, proprio per il suo viscerale e onnivoro amore filiale, è insieme innocente, perché anteriore alla coscienza e quindi alla responsabilità (in Pasolini il
progresso biografico dall’infanzia alla maturità corrisponde al regresso, esiziale, dalla natura alla civiltà, con le sue persecuzioni e repressioni), ma è anche,
certo involontariamente, madre cannibale, causa della mancata crescita psichica del figlio, annientato e alienato da quell’antropofago rapporto, già precocemente incestuoso. Si veda quanto scrive Enzo Siciliano nella sua Vita di Pasolini:
L’amore di Susanna era tutto per i figli – in specie per Pier Paolo. Un amore
che ebbe subito del morboso. In Pier Paolo Susanna rimise ogni suo ideale, ma
anche un trasporto di natura essenzialmente erotica. Il rancore nutrito verso
suo marito, col crescere di quel figlio, si arricchiva evidentemente di motivi: il
figlio soddisfaceva a ogni sua esigenza affettiva nella fertile immaginazione della
donna. Il modello matriarcale della famiglia Colussi si replicava esasperato in
lei – Susanna non pensò mai di tradire Carlo Alberto con altri uomini. La sua
fantasia lo tradiva quotidianamente con Pier Paolo, e Pier Paolo ricambiò la
passione23.
Quando aveva quattro anni e suo padre era perseguitato dai creditori per i
suoi debiti, Pier Paolo ricorda che «mia madre era tornata a fare la maestra. In
quell’epoca dormivo nel letto con lei»24. Perciò mi torna a mente quanto scrivevo molti anni fa sull’archetipo junghiano della Madre:
Regredire verso l’inconscio significa incontrare la Madre, il grande utero generatore della vita ch’è non solo la prima nascita, ma anche un possibile rinascita, tuttavia inconcepibile se non previa revisione dell’Edipo freudiano […]. È
insomma indispensabile regredire all’infanzia (nell’inconscio-matrice della coscienza) per poter riconoscere (e superare l’infantile). […] Ogni regressione alla
madre è involutiva e implosiva quando la coscienza non sa sottrarsi alla spira del
primordiale, dell’istinto e della sottomissione alla madre25.
Enzo Siciliano,Vita di Pasolini, Milano, Mondadori, 2005, p. 40.
Ivi, p. 47.
25
Paolo Orvieto-Mario Ajazzi Mancini, Tra Jung e Freud. Psicoanalisi, letteratura e fantasia,
Firenze, Le Lettere, 1991, pp. 156-57.
23
24
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Il ‘dolore’ della madre archetipica – quindi di Mamma Roma e di Giocasta (che
tuttavia conservano le pulsioni incestuose di Susanna) –, sta allora proprio nel
suo tentativo abortito di possedere totalmente, incorporandolo anche sessualmente, il figlio (Susanna aveva trasferito il suo eros da Carlo Alberto a Pier Paolo).
Oppure, soprattutto nel caso di Medea (ma anche delle altre madri), dipende
dalla ricordata inconciliabilità tra natura felice mitica e alienante natura storica borghese: «quando Medea passa all’universo ricco e borghese della Grecia,
la sua violenza perde senso sacrale, diventa ripetizione vuota, contro natura»26.
Ma anche nel caso di Giocasta, il suo desiderio di possedere sessualmente il figlio diventa il tabù, l’infrazione ad un codice morale, inesistente nell’archetipo,
immondo scandalo da punirsi, già in Sofocle, con l’autoaccecamento di Edipo
e la sua impiccagione. Inconciliabilità tra innocenza e colpa e quindi tra autenticità archetipica e inautenticità storica che si può replicare anche per Mamma
Roma: «la contaminazione tra l’ideologia piccolo-borghese e le sue esperienze
di prostituta non possono far nascere che il caos, e qui comincia la confusione, il crollo delle sue speranze, il fallimento della sua nuova vita con il figlio»27.
Anche per Erich Neumann la Grande Madre nel suo aspetto «elementare» indica simbolicamente l’inconscio che domina la coscienza, con la relativa simbiotica participation mystique (di Lévy-Bruhl) tra madre e bambino: è la situazione
di Mamma Roma ed Ettore e di Giocasta e Edipo28. Duplice aspetto, protettivo-regressivo annesso all’archetipo collettivo, che è ben espresso da Oreste nella pièce Pilade: «La più grande attrazione di ognuno di noi / è verso il Passato,
perché è l’unica cosa / che noi conosciamo ed / amiamo veramente. / Tanto che
confondiamo con essa la vita. / È il ventre di nostra madre la nostra meta»29.
Per Pasolini – ma certo anche per la madre Susanna, che ha riversato sul figlio il suo eros sottratto al marito – il rapporto madre-figlio è sempre un rapporto sessuale mancato o frustrato, ma, per molti aspetti, anche frustrante, perciò
doloroso sia per la madre che per il figlio. Basti leggere alcune cronologicamente
prossime sue poesie, ad esempio Supplica a mia madre, in Poesia in forma di rosa:
È difficile dire con parole di figlio / ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio. / Tu
sei la sola al mondo che sa, dal mio cuore, / ciò che è stato sempre, prima d’ogni
altro amore. / Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere: / è dentro la tua
grazia che nasce la mia angoscia. / Sei insostituibile. Per questo è dannata alla
solitudine la vita che mi hai data. / E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
/ d’amore, dell’amore di corpi senza anima. / Perché l’anima è in te, ma tu / sei
26
M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, Firenze, La Nuova Italia, 1996 (poi Roma, Carocci,
2007), p. 169.
27
P. P. Pasolini, Le regole di un’illusione cit., p. 41.
28
Cfr. E. Neumann, La Grande Madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, Roma, Astrolabio Ubaldini, 1981.
29
In P. P. Pasolini, Teatro, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, «I
Meridiani», 2001, p. 389.
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
71
mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù: / ho passato l’infanzia schiavo di
questo senso / alto, irrimediabile, di impegno immenso. / Era l’unico modo per
sentire la vita, / l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita. / Sopravviviamo: ed è la
confusione / di una vita rinata fuori dalla ragione. / Ti supplico, ah, ti supplico:
non voler morire. / Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…30.
Perciò Susanna (come Mamma Roma e altre madri pasoliniane) è decisamente una madre dolorosa anche per quell’alternante odi et amo del figlio, dal quale invece vorrebbe un amore incondizionato. Basti leggere altra poesia, Ballata
alle madri, di Poesia in forma di rosa (degli anni 1961-1964):
Mi domando che madri avete avuto. / Se ora vi vedessero al lavoro / in un
mondo a loro sconosciuto, / presi in un giro mai compiuto / d’esperienze così
diverse dalle loro. … Madri vili, con nel viso il timore / antico, quello che come
un male / deforma i lineamenti in un biancore / che li annebbia, li allontana dal
cuore, / li chiude nel vecchio rifiuto morale. / Madri vili, poverine, preoccupate
/ che i figli conoscano la viltà / per chiedere un posto, per essere pratici, / per
non offendere anime privilegiate, / per difendersi da ogni pietà. … Madri feroci,
intente a difendere / quel poco che, borghesi, possiedono, / la normalità e lo
stipendio, / quasi con rabbia di chi vendichi / o sia stretto da un assurdo assedio.
… Ecco, vili, mediocri, servi / feroci, le vostre povere madri! / Che non hanno
vergogna a sapervi / – nel vostro odio – addirittura superbi, / se non è questa che
una valle di lacrime. / È così che vi appartiene questo mondo: / fatti fratelli nelle
opposte passioni, / o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo / a essere diversi: a
rispondere / del selvaggio dolore di esser uomini31.
L’altra grande Mater dolorosa di Pasolini è Giocasta di Edipo re, del 1967,
una bellissima e enigmatica Silvana Mangano. Siamo negli anni ’20 o ’30 e la
Madre allatta il piccolo di due o tre anni, tra i «salici del Livenza», in un paesaggio idilliaco (quello appunto dell’infanzia, Sacile, nel materno Friuli). Si tratta
della Madre come fonte di vita e di autocoscienza, come scrive lo stesso Pasolini:
Dopo aver poppato a lungo, felice, il bambino alza gli occhietti lucidi, e per
la prima volta lui vede, e noi con lui vediamo: il volto della madre. Il volto
della madre chino sulla creatura: una donna bella come una regina, dagli occhi
obliqui e lunghi, tartarici, e pieni di una dolcezza crudele. Il bambino ride: e,
insieme alla madre, per la prima volta, vede il mondo intorno a sé32.
È decisamente la Grande Madre di Jung e di Neumann: colei che fa vedere il
mondo per la prima volta al neonato, ma anche dallo sguardo «tartareo e crude-
30
31
32
P. P. Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie cit., pp. 622-623.
Ivi, pp. 599-601.
P. P. Pasolini, Le regole dell’illusione cit., p. 159 (anche in P. P. Pasolini, Per il cinema cit., p. 971).
72
PAOLO ORVIETO
le». La madre porta il bambino su una carrozzina alla caserma dove presta servizio
il padre, un ufficiale di fanteria (come del resto anche il vero padre di Pasolini).
Il padre guarda il figlio con odio, con un ossessivo pensiero interiore, espresso in
una didascalia: «Tu sei qui per prendere il mio posto nel mondo, ricacciarmi nel
nulla e rubarmi tutto quello che ho. […] E la prima cosa che mi rubi sarà lei, la
donna che io amo; […] anzi già mi rubi il suo amore». Un padre che poi sembra
voler stritolare i piedini del bambino nel suo lettino (per cui Edipo, letteralmente,
è ‘colui che ha i piedi gonfi’). Poi il figlio vede attraverso una finestra i due genitori che ballano abbracciati e che si accingono a fare l’amore e a qual punto rimane
terrorizzato dalla visione accompagnata da improvvisi scoppi di fuochi d’artificio.
Si passa ex abrupto alla Grecia e alla vicenda sofoclea: un servo deve uccidere
per ordine del re Laio il bambino Edipo, che però viene salvato da un vecchio
pastore e portato dal suo signore Polibo, re di Corinto, che lo accoglie, con la
moglie Merope, come un figlio. Giovanotto, accusato da un compagno di essere un «figlio della fortuna», un trovatello, Edipo va all’oracolo di Delfi per sapere la verità, e l’oracolo gli profetizza che assassinerà il padre e farà l’amore con la
madre. Incontra un carro con Laio, il suo vero padre, scortato da alcuni soldati,
che Edipo uccide distanziandoli l’uno dall’altro. Poi uccide Laio che, in verità,
è il vero strafottente provocatore, intimando a Edipo: «Levati, straccione!». Un
padre-padrone che si è messo il copricapo regale, segno inconfondibile del suo
potere assoluto33. Come anche in Affabulazione, il padre (lì ricco industriale lombardo) è simbolo del Potere, lì è lui ad uccidere il figlio, così come in Edipo re è
piuttosto il padre a voler eliminare il figlio che non, freudianamente, viceversa
(il padre-soldato dell’inizio che vorrebbe eliminare il neonato e anche Laio aveva incaricato un servo di uccidere Edipo, perché altrimenti, secondo una profezia, il figlio avrebbe ucciso il padre). Si potrebbe concludere che Giocasta col
suo primordiale amore passionale incestuoso per il figlio rappresenti, secondo
il celebre saggio di Bachofen Il matriarcato, il regime matriarcale, preistorico e
senza veti sessuali, anteriore al regime patriarcale, delle moderne civiltà.
Poi Edipo fa precipitare in un burrone la Sfinge, che gli profetizza che «è inutile. L’abisso in cui mi spingi è dentro di te». Sposa Giocasta, la regina di Tebe
che ha promesso di sposare chi avesse sconfitto la terribile Sfinge; seguono gli
appassionati amplessi con la madre (due nella sceneggiatura, tre nel film). Per
debellare una terribile pestilenza, Creonte, fratello di Giocasta, si reca a Delfi, e
l’oracolo dice che la pestilenza è dovuta al fatto che l’assassino di Laio si trova in
città. Viene chiamato il profeta Tiresia (Julian Beck), che dapprima non vuole
parlare, ma poi, costretto, rivela la verità a Edipo: «sei tu il colpevole che contamina la nostra terra». Viene sentito da Giocasta, che forse da sempre sa già che
33
Cfr. Guido Paduano, Lunga storia di Edipo re. Freud, Sofocle e il teatro occidentale, Torino,
Einaudi, 1994, p. 206: «Laio a sua volta non è ucciso casualmente, ma perché riconoscibile come
padre, incarnazione e simbolo dell’autorità che trova un’efficacissima forma visiva nella corona
“alta come una torre”».
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
73
sta facendo l’amore con il figlio. Si capisce a questo punto che Giocasta è una
Mater dolorosa, disperata e autodistruttiva, perché perdutamente innamorata di
Edipo, suo figlio e non tanto perché, come in Sofocle, si renda conto di aver compiuto un incesto. È lei che bacia Edipo, dicendogli: «Perché hai tanto spavento
ad essere l’amante di tua madre, quanti uomini non hanno fatto l’amore in sogno con la loro madre e vivono forse spaventati per questo sogno?»34. E aggiunge: «non voglio sentire, che non tu sappia mai chi sei». Si ricordi che anche in
Petrolio la madre di Carlo, Emma (come Bovary), trentacinquenne, viene posseduta a forza dal figlio, senza che lei riesca o voglia opporgli resistenza. Ma lì non
si tratta certo, come in Edipo re, della Mater edipica, bensì di una sorta di stupro della Mater borghese: «è una donna anziana – cinquant’anni – non ha molte
alternative per passare la giornata: segue i Martedì letterari, le Esposizioni della
Fiat, e tutto il lungo contorno mondano a questi avvenimenti e ad altri simili.
L’inizio degli anni Sessanta comportano ancora naturalmente donne come lei»35.
In Edipo re, alla fine, quando è pubblicamente palese il rapporto incestuoso col figlio-patricida (Giocasta lo sa, è Edipo che non lo vuole sapere, anche
se in un amplesso, prima di sapere, chiama Giocasta esplicitamente «Madre»),
Giocasta si impicca con un urlo che risuona per tutta la valle e Edipo si acceca. Sono due, Mater et Filius, dolorosi, perché devono interrompere un rapporto amoroso e sessuale che rappresentava l’appagamento di tutti i loro desideri,
coscienti o rimossi. Come scrive Fusillo, «L’Edipo re secondo Pasolini esprime
senza dubbio un eros che è nostalgia di una totalità perduta, quella unità con il
corpo della madre, […] ma esprime anche tutta la tragicità dell’“obbligo di conoscere”, tutta la cupa necessaria violenza del contratto sociale. Non celebra un
eden perduto, ma rappresenta il desiderio primario tanto scandaloso quanto autentico e totalizzante»36. Qui, forse, Giocasta è una Mater dolorosa proprio perché cerca disperatamente di trattenere il figlio – invece, come Pasolini, assetato di sapere – ad uno stadio antropologico anteriore alla – tanto da Pasolini detestata – «razionalità» moderna. Si vedano Le strutture elementari della parentela di Claude Lévi-Strauss, in cui aveva scritto, nel 1949, che il tabù dell’incesto,
quindi la proibizione dell’endogamia, normali nelle società primitive, determina l’evoluzione da uno stato primitivo di natura ad uno di organizzazione sociale; ma sappiamo bene che per Pasolini l’evoluzione etnico-sociale dallo stato
di natura a quello storico, del resto inevitabile, è però, per molti aspetti, un’involuzione verso l’inautenticità antropologica.
Nel finale ci si trasferisce in tempi ancora più moderni, con un Edipo cieco,
mitico in mezzo ad una civiltà sconsacrata, che suona il piffero, accompagnato
da un ragazzotto che lo guida (non a caso di nome Angelo): «cieco ma di una
34
35
36
Anche in P. P. Pasolini, Per il cinema cit., p. 1039.
P. P. Pasolini, Petrolio, Torino, Einaudi, 1992, p. 50.
M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini cit., p. 124.
74
PAOLO ORVIETO
cecità che lo rende ancora una volta atipico e solitario, un suonatore di flauto
che sembra senza meta e che invece torna all’infanzia dove quella solitudine si è
generata nell’interruzione della perfetta consuetudine con il corpo materno»37.
Si tratta della messa in scena del tipico freudiano complesso di Edipo, con
qualche personale ritocco, come confessa lo stesso Pasolini:
La differenza profonda tra Edipo re e gli altri miei film consiste nel fatto che è
autobiografico mentre gli altri non lo erano o lo erano in minima parte, e se mai
quasi inconsciamente, indirettamente. In Edipo re io racconto la storia del mio
complesso di Edipo; il bambino del prologo sono io: suo padre è mio padre, un
vecchio ufficiale di fanteria, e la madre, una istitutrice, è mia madre. Io racconto
la mia vita mitizzata, certo, resa epica dalla tragedia di Edipo. Ma proprio in
quanto è il più autobiografico dei miei film, è anche quello che considero con
maggiore oggettività e distacco, poiché se è vero che racconto un’esperienza personale, si tratta di un’esperienza esaurita, che non mi interessa più. […] Volevo
ricreare il mito visto come un sogno, volevo che tutta la parte centrale (la quasi
totalità del film) fosse una specie di sogno estetizzato. […] Avevo due obiettivi
nel fare il film: il primo, realizzare una sorta di autobiografia assolutamente
metaforica, quindi mitizzata; il secondo, affrontare il problema della psicanalisi quanto quello del mito. Ma invece di proiettare il mito sulla psicanalisi, ho
riproiettato la psicanalisi sul mito. […] Il risentimento del padre nei confronti
del figlio è qualcosa che ho avvertito più distintamente della relazione tra madre
e figlio, che non è un rapporto storico, ma puramente interiore, privato, fuori
della storia, anzi metastorico, quindi ideologicamente improduttivo. Mentre
ciò che determina la storia è il rapporto di amore e odio tra padre e figlio. Io
ho sentito l’amore per mia madre molto, molto profondamente, e tutto il mio
lavoro ne è stato influenzato. Un’influenza la cui origine sta nel più profondo
di me stesso. Mentre tutto ciò che vi è di ideologico, volontario, attivo e pratico
nelle mie azioni di scrittore dipende dalla mia lotta con mio padre. È per questo
che ho aggiunto cose che in Sofocle non c’erano, ma che non credo che siano al
di fuori della psicanalisi, come ad esempio l’esclamazione «Madre!»38.
Altrove Pasolini nega – ma sottotraccia avalla – il suo del tutto personale
«complesso edipico»:
Non ho mai sognato di fare l’amore con mia madre. Neanche sognato. Se mai
potrei rimandare i due o tre lettori, che mi sono rimasti fedeli, ad alcuni versi
S. Petraglia, Pier Paolo Pasolini cit., pp. 86-87.
Le regole di un’illusione cit., pp. 159-61. Cfr. anche l’intervista a Jon Halliday cit. pp. 108109: «nel mio film il parricidio ha più risalto dell’incesto, certo dal punto di vista emotivo se non
da quello quantitativo, ma penso che sia abbastanza naturale, perché, storicamente parlando, io
ero in una situazione di rivalità e di odio verso mio padre e perciò ero più libero nel modo di rappresentare il mio rapporto con lui, mentre l’amore per mia madre è rimasto qualcosa di latente»;
e G. Paduano, Lunga storia di Edipo re. Freud. Sofocle e il teatro occidentale cit.
37
38
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
75
dell’Usignolo della Chiesa Cattolica: «[…] il sogno in cui mia madre / s’infila i
miei calzoni». Ho piuttosto sognato, se mai, di fare l’amore con mio padre (contro il comò della povera camera di fratelli ragazzi), e forse anche, credo, con mio
fratello; e con molte donne di pietra. Naturalmente non conto i sogni che ho
fatto a più riprese tutta la vita, in cui salivo interminabili e tristi rampe di scale
di case povere o appena dignitose, in cerca di mia madre che era scomparsa. Ma
insomma adesso è un po’ che non faccio più questi sogni. E se Silvana Mangano
ha certamente il profumo di primule di mia madre giovane, Franco Citti non
ha nulla di comune con me se non lo zigomo un po’ alto39.
Da questa affermazione sembrerebbe che Pasolini – iconoclasta per eccellenza – voglia dissacrare il freudiano complesso edipico, ma certo senza successo, come nota Fusillo:
in effetti l’Edipo re di Pasolini dà al personaggio Giocasta un rilievo tutto particolare, […] ponendo un accento fortissimo sull’eros incestuoso, tutto a scapito
della dimensione pubblica. Giocasta diventa dunque un po’ il fulcro della rilettura pasoliniana di Sofocle. […] Ed è un fulcro che corrisponde abbastanza
chiaramente alla lettura di Schopenhauer e al principio di piacere di Freud e
Ferenczi, come si conferma fra l’altro questa dichiarazione del regista: «Scrivendo da pasticheur la sceneggiatura, ho ridistribuito Giocasta nel tempo, anche se
essa è un personaggio senza tempo: sola sensualità e volontà di non sapere. Ma
quanta ambiguità nelle creature in cui suona una nota sola!»40.
Da notare che il rapporto incestuoso tra Mater (dolorosa) e Filius – ma anche
tra Padre e Figlio/Figlia – è ossessivo in Pasolini: anche nel dramma Calderón, la
protagonista Rosaura dapprima si innamora di Sigismondo, un ex marito della
madre, che poi si rivela essere suo padre; poi nel secondo episodio, prostituta assieme alla sorella Carmen in un bordello, nutre una devastante passione sessuale per il giovane Pablo Ortega y Frias, di appena sedici anni, un hippy, di buona famiglia, intellettuale (come Pasolini, anche se qui è un giovane del ’68, tanto contestato da Pasolini), nutrito di «Marcuse, Malcolm X, Carmichael e il S.
Francisco Oracle», che si rivela essere suo figlio e la rivelazione accentuerà ancor più il suo desiderio. Nel terzo episodio c’è un altro rapporto semiincestuoso: per Enrique, perfetto alter ego del figlio Pablo. In questo caso una Mater dolorosa non tanto e non solo perché non può possedere sessualmente il figlio, ma
perché, soprattutto per la replicata infrazione incestuosa, si riconosce essere informe rispetto alle persone organiche della società borghese (il marito Basilio,
nel terzo episodio, chiaro simbolo delle convenzioni e del potere). Infatti, come
spiega lo speaker-Pasolini all’inizio del dramma, «Solo le persone sane e senza
dolore possono vivere rivolte verso il futuro. / Le altre – malate e piene di do39
40
In P. P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo. Edipo re. Medea cit., p. 320.
M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini cit., p. 105.
76
PAOLO ORVIETO
lore – sono lì a mezza strada, senza certezze, senza convinzioni e magari tuttora – almeno in parte-, vittime del conformismo e dei dogmi di una storia ancora più vecchia, contro cui hanno tanto combattuto; e, se partecipano alle nuove lotte, lo fanno senza fiducia, senza ottimismo, e con le bandiere che penzolano come stracci»41.
Queste Madri dolorose, Giocasta e Rosaura, svolgono una duplice funzione:
esemplificazione autobiografica del complesso di Edipo e, insieme, regressione
ad un’età preconformistica, preborghese, in sostanza mitica, in cui, appunto l’incesto tra madre e figlio era del tutto lecito, anzi oggetto del reciproco desiderio:
l’incesto ha allora il duplice esito di felice e asociale atarassia amniotica, ma anche di traumatico e doloroso precipizio nell’interdizione della storia, in specie se
borghese, il che significa anche l’altrettanto dolorosa desacralizzazione del mito.
Le ragioni, certo più consce che inconsce, di questa vasta operazione di mitizzazione della Madre (ma anche di molti altri personaggi), certo associata ad
intenzioni artistiche, estetizzanti, è spiegata bene da Conti Calabrese:
Pasolini ha compreso e ha parlato di quella che è la vera minaccia del nostro
tempo: il non avvertire più la mancanza del sacro come mancanza. […] Il suo
pensiero poetante si rivolge alla cultura di quella civiltà contadina che per secoli
ha mostrato di saper riconoscere, con la preoccupazione della sua perenne fertilità, la sacralità della vita quale donazione originaria […]. Da qui lo sforzo della
sua poesia di raccogliere, conservare e custodire quanto di questa tradizione
esprimeva la ‘passione’ per la vita stupendamente incarnata nella gioia e nella
freschezza della corporeità e sessualità del mondo popolare42.
E così anche Fusillo: «La Grecia secondo Pasolini è una Grecia barbarica […];
il nemico per eccellenza è il razionalismo pseudoilluminista della società neocapitalista, che si illude di poter rimuovere per sempre questi fenomeni imprescindibili dell’esperienza umana» 43. Perciò ogni Mater di Pasolini assume le vesti archetipiche delle grandi dee telluriche, di Demetra (Cerere), dea della terra,
della fertilità e della crescita, il suo stesso nome significa Madre Terra, tuttavia
già anche lei «dolorosa» per la perdita della figlia Persefone, prigioniera, come
Pasolini, dell’infernale Ade.
Medea è del 1969, film basato sull’omonima tragedia di Euripide e con nella
parte di Medea Maria Callas. A Jolco Pelia, che ha usurpato il regno al re Esone,
vuole eliminare anche il legittimo erede Giasone, che si rifugia dal suo pedagogo Chirone, dalla duplice natura: dapprima un centauro mezzo uomo e mezzo
animale e poi un uomo intellettuale e razionalista. Pelia dice a Giasone che gli
P. P. Pasolini, Calderón, Milano, Garzanti, 1973, p. 7.
Giuseppe Conti Calabrese, Pasolini e il sacro, Milano, Jaca Book, 1994, p. 9; cfr. anche Su
Pasolini e il sacro, Udine, Darp Friuli, 1997.
43
M. Fusillo, La Grecia secondo Pasolini cit., pp. 39-40.
41
42
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
77
ridarà il regno se lui gli procurerà il prezioso vello d’oro, custodito nella barbara
Colchide, dove regna l’altrettanto barbara regina Medea. Lì si praticano ancora
riti sanguinari e primordiali. Giasone arriva in Colchide su una zattera con alcuni uomini (gli Argonauti) e Medea, mentre prega in un tempio, lo vede – forse
in sogno – e se ne innamora, tanto che ruba il vello d’oro e fugge con Giasone
sulla sua zattera. Il re suo padre insegue i due fuggiaschi e Medea, per rallentare
l’inseguimento, fa a pezzi il fratello Apsirto, cosicché il padre e i suoi seguaci si
debbono fermare per raccogliere i brandelli sparsi del corpo.
Ma seguiamo la storia raccontata dallo stesso Pasolini:
La Colchide è una regione barbara. Pastori, contadini, qualche artigiano. Il re
è un proprietario di terre: vive in una piccola reggia, povera. Ha un figlio e una
figlia. Il figlio è un ragazzo, e come gli altri ragazzi ama la caccia, i giochi. La
figlia, Medea, canta nelle barbariche danze femminili della reggia, con le altre
donne, lavorando. Insomma la vita è insieme idillio contadino e terrore preistorico. Infatti il mondo, interno, è oggettivamente popolato di divinità. Non
c’è angolo della piccola città-mercato, e della campagna intorno che non abbia
il suo nume: un nume che esiste corporalmente […]. I canti popolari greci,
tradotti dal Tommaseo, – che raccontano appunto quegli incontri favolosi e ingenui tra uomini e divinità – forniranno la trama di due o tre episodi per questo
documentario […]. Ma ecco un Giovane, Giasone, disperatamente intenzionato a compiere l’impresa. Egli ci appare come un eroe mitico, bello e puro.
Sapremo solo in seguito, nella seconda parte del film, che, invece, è un arrivista,
un ambizioso e un cinico: infatti, riuscire nell’impresa, per lui, non significa
altro che riconquistare il trono della città di Jolco: egli è il nipote di Esone, il re
spodestato di quella città, il cui trono era stato usurpato da Pelia, fratellastro di
Esone […]. Medea è sacerdotessa di Ecate, la dea della morte. Essa si ritira sola,
in un luogo consacrato alla sua funebre dea, per pregare. Ma qui ha una visione:
le appare un bel ragazzo, dall’aria spavalda e gentile, gli occhi pieni di innocenza
e di speranza: è Giasone. Egli le si avvicina, le sorride e l’accarezza. Poi, mentre
Medea, perduta, subito, da quel bel volto e da quel gesto, si tende a lui, come
per offrirsi, egli, con un sorriso, crudele per dolcezza, scompare […]. Medea,
allora ricomincia, tremante, a pregare la sua dea del mondo sotterraneo44.
Al ritorno a Jolco in Tessaglia, Pelia, non mantenendo la promessa, non concede il trono a Giasone. Medea è d’ora in poi «dolorosa» soprattutto perché si
trova traumaticamente sradicata in quella nuova (civile e razionale) civiltà, estraniata dai suoi riti tribali e tellurici. Giasone intanto ha deciso di sposare Glauce,
figlia del re di Corinto Creonte, che vuole bandire dalla sua città Medea e i suoi
due figlioletti maschi, avuti da Giasone. Medea, diventata (o lo era da sempre)
totalmente folle e assetata di vendetta, recupera le sue antiche facoltà di maga
44
P. P. Pasolini, Le regole di un’illusione cit., pp. 232-233.
78
PAOLO ORVIETO
e i suoi dèi della selvaggia Colchide, dove evidentemente sopravvive il primordiale dominio «matriarcale» (quello di Bachofen), che è uno stadio, tutto sommato felice perché innocente, non amorale, bensì pre-morale, mentre «il borghese […] ha sostituito l’anima con la coscienza […] il moralismo è la religione
[…] della borghesia»45. Fa chiamare Giasone nella sua abitazione, con il quale
ha un ultimo slancio d’amore; chiede ai due figli di portare in dono degli abiti
a Glauce come augurio alle nozze. Non appena indossate le vesti regalatele da
Medea, Glauce dapprima, in sogno, brucia, poi, in realtà, per il devastante senso di colpa per aver rubato il marito di Medea, si uccide buttandosi dalle mura
della città. Creonte, pazzo dalla disperazione, si suicida anche lui.
Vendicatasi della sua contendente in amore, Medea può pensare alla vendetta su Giasone. Lunga e duplicata la scena degli sgozzamenti dei due bambini:
li prende con grande amore, li lava accuratamente in una vasca, se li fa addormentare tra le braccia e poi li sgozza con un coltello. Trascriviamo la parte finale della sceneggiatura scritta da Pasolini:
Medea scende le poche scale, e viene a prendere per mano il bambino più piccolo; che recalcitra un po’, ma debolmente; poi segue la madre, che, come usa, lo
porta a dormire. Dentro la stanza dei bambini, Medea ora comincia, come staccata da sé, perduta in una dolcezza insensata, ma che ha un ritmo «notturno»
come di danza o di magia, a preparare il sonno del figlio. Lo lava alla tinozza,
lo asciuga, prende dei lini bianchi, con cui lo riveste: tutto scandito in un rito
soave […]. Ora Medea prende il bambino più piccolo, e si siede su una sedia,
dal lungo schienale basso: il bambino è quasi disteso sopra di lei, come un uomo
nell’atto di fare l’amore. Medea lo culla. Per terra, accanto alla sedia, si vede
brillare un coltello. Il pedagogo e il primogenito sono là accanto al focolare, che
continuano a cantare. Ecco, Medea che compare in cima alla piccola scala, e
scende a prendere per mano il figlio più grande […]. Con lo stesso ritmo pacato
e quasi soave, Medea prepara così anche il secondo figlio ad andare a letto; lo
sveste, prende i bianchi lini, lo lava nella tinozza […]. I gesti, i lievi rumori della
madre che prepara il figlio ad andare a dormire, hanno una lievità e un mistero
quasi religiosi: la religione della vita di ogni giorno, quando qualche Dio, anche
terribile, la benedice. Ora la madre riveste lentamente, come una cerimonia, il
figlio più grande di un candido lino e, come ha fatto col fratellino più piccolo,
se lo prende sul grembo, si distende sulla lunga, massiccia sedia di legno; ed egli
sta sopra di lei, come un uomo che fa l’amore, innocente e affettuoso. […] la
madre lo culla, teneramente, e, infine, per riuscire ad addormentarlo comincia a
cantare; una vecchia ninna nanna popolare […]. Il figlio reclina un’altra volta il
capo sulla spalla della madre, e infine, chiude gli occhi. E si addormenta. Medea
prende il coltello che scintilla accanto alla sedia, e lo affonda nella schiena del
P. P . Pasolini, Romanzi e racconti. Volume secondo: 1962-1975, a cura di Walter Siti e Silvia
De Laude, con un saggio di Cesare Segre, cronologia a cura di Nico Naldini, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 2004, p. 1037.
45
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
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ragazzo. Egli ha un breve sussulto, disteso com’è su lei, gli occhi gli si rovesciano,
e ricade sulla sua spalla, come prima del sonno. Allora la madre lo solleva, lo leva
dal sangue, lo depone nel letto accanto al fratello, dalla cui bocca semiaperta
esce una goccia di sangue46.
È da notare che Medea nell’uccidere i figli mantiene sempre un atteggiamento assolutamente sereno, non di una madre che si accinge a commettere un nefando infanticidio, ma un atto assolutamente razionale, inevitabile nella sua ferrea logica tribale. La sua missione ultrice – perciò altra Mater dolorosa – sta dunque nel riconoscere l’impossibile conciliazione tra mito e storia, la irrecuperabile
perdita della dimensione archetipica e pre-civile della Mater pre-storica, quindi
mitica e sacra. Allora Medea, prima che siano assorbiti e precipitati nella profanazione della storia, incorpora in sé i due figli, che si distendono sul corpo della madre «come un uomo che fa l’amore». A ben leggere, non è questa terribile
Mater assassina che subisce il disprezzo di Pasolini, ma semmai Giasone: egoista, opportunista, calcolatore, tutto dedito alla conquista del potere (col vello
d’oro e con il matrimonio regale con Glauce). Allora il devastante sacrificio dei
figli compiuto da Medea e la sua atroce vendetta sono, in fin dei conti, l’affermazione di un’età sacra, anche se barbara e sanguinaria tuttavia genuina, specularmente contrapposta ad una civiltà decaduta, quella iperrazionale, in più sensi moderna. Età profana in cui non esiste ancora lo «scandalo» dei sentimenti,
certo non più proponibile e tuttavia quasi Eden perduto e non più recuperabile in quel milieu storicizzato fatto di giochi di potere, tradimenti, saggezza filosofica e di matrimoni di convenienza.
Un’altra madre folle (o ben lucida) e annichilita, ugualmente assassina dei
suoi due (più uno che sta per nascere) figli, è nel quarto episodio di Orgia, in cui
la Donna, più che vendicarsi dell’Uomo, rifiuta la propria identità di DonnaMadre borghese e, come Medea, pur disperata, prende un coltello e sgozza i figli, per poi suicidarsi.
Si replica ancora l’antitesi, ideologica, tra mito acronico, destoricizzante e
irrazionale e storia razionale contemporanea (anche se il primo dovrà cedere ai
tabù e ipocrisie della seconda), ch’è poi anche e sempre una dittologia politica
e, se si vuole, razzista, con annessa ancora la clausola psicanalitica:
Medea e Giasone sono infatti due personaggi simbolici che rappresentano da
una parte una cultura primitiva, magica e sacrale, dall’altra una cultura moderna, razionalistica e borghese; […] a questa bipolarità culturale se ne sovrappone
una psicanalitica tra Es ed Ego (Pasolini affermava fra l’altro di aver concepito
Giasone e Medea come un unico personaggio) e una politica tra Occidente e
Terzo Mondo. […] a livello psichico, l’errore di Giasone consiste nel rimuovere l’istanza dell’Es, e nel non riconoscere l’amore per Medea, non identifi-
46
P. P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo. Edipo re. Medea cit., pp. 535-537.
80
PAOLO ORVIETO
candosi quindi con la sua condizione di donna emarginata, sradicata dal suo
contesto culturale; a livello antropologico, l’errore della società razionalistica
rappresentata da Giasone consiste nell’eliminare il sacro dalla nuova dinamica
sociale. […] Giasone […] è il razionalismo borghese (rappresentato soprattutto
dal Centauro e da Creonte) che lo spinge a rimuovere l’amore per Medea […];
l’abbandono del mitico e del barbarico, un abbandono che Medea compie per
amore di Giasone, per essere poi sfruttata e abbandonata a sua volta. […] Dal
conflitto fra cultura arcaica e cultura moderna Pasolini non vuole far trionfare
la prima, irrimediabilmente perdente, né demonizzare la seconda, ma solo mostrare l’unilateralità ingenua di una società che crede di aver superato il sacro,
di aver controllato le passioni […]. Medea racconta dunque l’origine mitica
dell’alienazione borghese, tragicamente ineluttabile47.
Medea e Giasone (e parimenti Colchide e Corinto) quindi costituiscono due
realtà in conflitto, impossibili ad essere reciprocamente integrate in una paritetica sintesi. In un’interessante intervista rilasciata a Sergio Arecco, Pasolini aveva detto che lui era «contro Hegel», per lui la tesi e l’antitesi non si conciliano
nella sintesi; per lui esistono sono antitesi, la sua dialettica non è più «ternaria»,
bensì solo «binaria»48.
Allora potremmo dire che la Mater dolorosa Medea è costruita con materiale sempre meno autobiografico e sempre più etnico e antropologico (dall’ontogenesi dell’individuo alla filogenesi dell’uomo), derivato, come confessa lo stesso Pasolini, da almeno tre autori, celebri indagatori del «primitivismo» etnico,
che hanno stabilito l’insanabile conflitto tra presunta superiorità dell’eurocentrismo e presunta inferiorità dei popoli primitivi (ma anche del cosiddetto Terzo
Mondo, che Pasolini assimila ancora al proletariato e sottoproletariato):
Medea potrebbe essere benissimo la storia di un popolo del Terzo mondo, di un
popolo africano, ad esempio, che vivesse la stessa catastrofe venendo a contatto
con la civiltà occidentale materialistica. Del resto, nell’irreligiosità, nell’assenza
di ogni metafisica, Giasone giunge al punto di essere lui il nesso con la nostra
storia moderna. All’inizio, quando era bambino, Giasone vedeva nel centauro
un animale favoloso, pieno di poesia. Poi, man mano che passa il tempo, il
centauro diventa ragionatore e saggio, e finisce col divenire un uomo uguale a
Giasone49.
Un’ulteriore associazione quindi, non secondaria, tra Medea, la Mater precivile, «orientale» e preconsumistica e l’Africa «nera» in una fase postcoloniale,
in cui l’Africa, come Medea, sono minacciate di essere, tradendo le loro ataviche e autoctone tradizioni, «civilizzate», uniformate alle logiche consumistiche
47
48
49
M, Fusillo, La Grecia secondo Pasolini cit., pp. 134, 137, 177-179.
Sergio Arecco, Pier Paolo Pasolini, Roma, Partisan, 1972, pp. 69, 75.
P. P. Pasolini, Le regole di un’illusione cit., p. 237.
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
81
e «democratiche» della industrializzata Europa e, ancor più, della ricca America,
in cui è il solo dollaro a costituire l’oggetto della nuova religione del guadagno.
Tuttavia l’Africa (e la Colchide di Medea è anche l’Africa), come in Appunti
per un’Orestiade africana,
rappresenta per Pasolini la possibilità di una conciliazione tra razionalismo e irrazionalismo, tra democrazia e mondo arcaico, progresso e terzo mondo, quella
conciliazione che l’Italia aveva mancato, travolta dal boom economico. «Il tema
profondo dell’Orestiade, almeno per i lettori moderni, è il passaggio da un periodo storico «medievale» a un periodo storico «democratico»: indi della trasformazione delle Menadi (dee medievali del terrore esistenziale) in Eumenidi (dee della
irrazionalità del mondo razionale)», scrive Pasolini nell’Atena bianca, «se oggi,
nell’Africa, accade qualcosa di simile, è indubbio che Atene (modello di forme
democratiche) è il mondo bianco progressivo: e Atena, la dea che ha insegnato
a Oreste la democrazia […] è una dea bianca contrapposta all’Europa bianca50.
In Medea il pedagogo Centauro Chirone, sdoppiandosi in semianimale e interamente uomo sapiente, replica la stessa dittologia antitetica Medea/Giasone o,
se si vuole, Medea/Glauce. Infatti nella civilissima Corinto riappare il Centauro,
anzi i due Centauri sdoppiati. All’inizio invece c’era il solo Centauro-semianimale,
in un paesaggio situato fuori dal mondo civile; è lui che rivela a Giasone bambino la sacralità del mito:
tutto è santo, tutto è santo, non ci è niente di naturale nella natura, ragazzo mio,
tienilo bene in mente, quando la natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito
e comincerà qualcos’altro. Addio cielo, addio mare […]; in ogni punto in cui i
tuoi occhi guardano è nascosto un dio e se per caso non c’è ha lasciato lì i segni
della sua presenza sacra […]. E sì tutto è santo, ma la santità ha insieme una
maledizione: gli dei che amano al tempo stesso odiano. Per l’uomo antico i miti
e i rituali sono esperienze concrete che lo comprendono anche nel suo esistere
corporale e quotidiano, per lui la realtà è un’unità talmente perfetta che l’emozione che egli prova, mettiamo di fronte al cielo d’estate equivale in tutto alla
profonda esperienza personale di un uomo moderno […]. Qui farai esperienza
di un mondo che è ben lontano dall’uso della nostra ragione, la sua vita è molto
realistica […], poiché solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico.
Il Centauro dice a Giasone nel film: «hai conosciuto due Centauri, uno sacro quando eri bambino e uno sconsacrato quando sei diventato adulto, ma ciò
che era sacro si conserva accanto alla sua forma sconsacrata»; aggiungendo anche «tu in realtà ami Medea, inoltre hai pietà di lei e comprendi la sua catastrofe
spirituale, il suo disorientamento di donna antica in un mondo che ignora ciò
50
Citato da Irene Berti, Mito e politica nell’Orestea di Pasolini, consultabile su internet, p.
112; e cfr. P. P . Pasolini, Atena Bianca, in Per il cinema cit., I, p. 1202.
82
PAOLO ORVIETO
in cui lei ha sempre creduto, la poverina ha avuto una conversione alla rovescia
e non si è più ripresa». Quindi Medea è una Mater tragicamente dolorosa, forse
proprio perché innamorata – e dapprima amata – da Giasone e perciò costretta
ad una forzata e alienante conversione, dall’entusiasmante e felice mythos al deprimente e doloroso logos, per lei quindi progressione ontologica «alla rovescia»:
questo fatale approdo alla razionalità e al realismo, implica una piega diversa
dell’educazione del centauro al giovane Giasone: egli comincia a razionalizzare e
a sconsacrare, quindi tutto ciò che aveva dato prima come ontologico e sacro cfr.
Teorie di Eliade, ecc. […] Nella Colchide lunare – così diversa dalla terra di Giasone, che è piatta, malinconica e realistica – tra folti calanchi, le rupi mostruose,
le terrazze labirintiche – […] si celebra un rito – che si lega in qualche modo
alle parole razionali e sconsacranti del Nuovo Centauro, ma che le contraddice,
perché serba intatta la sua fede totale nell’ontologia e nella sacralità di «ciò che
è»: il mondo come ierofania, ecc.
L’antitesi polare è ora tra Giasone e il Centauro-uomo da un lato e Medea e
il Centauro semianimale dall’altro, tra il civilizzato profano e il sacro del precivilizzato. Ci sono tutti i connotati che caratterizzano questa nuova (o antica?)
Mater pasoliniana: mitica, sacralizzata, ma anche barbarica e distruttiva, esumata da un mondo perduto (da millenni), ma ancor oggi superstite – forse salvificamente – nell’uomo precivile e quindi pre-borghese del popolo, del sottoproletariato, dell’africano:
E il tema, come sempre nei miei film, è una specie di rapporto ideale e sempre
irrisolto, tra mondo povero e plebeo, diciamo sottoproletariato, e mondo colto,
borghese storico. Questa volta l’ho affrontato direttamente, esplicitamente. Medea è l’eroina di un mondo sottoproletariato, arcaico, religioso. Giasone invece
è l’eroe di un mondo razionale, laico, moderno. E il loro amore rappresenta il
conflitto tra questi due mondi. […] In un certo senso, con Medea ho voluto
dimostrare – in modo assolutamente favoloso, mitico e narrativo – proprio questo: la violenza dell’irrazionalità51.
Il tema, ossessivo, della bipolarità insanabile tra Irrazionale e Razionale e tra
mito e storia, quindi tra precivile e civile, è anche al centro di un’altra incursione
nei demani della tragedia classica, dove troviamo la Mater dolorosa Clitennesta,
come Medea, anteriore al nomos democratico instaurato ad Atene da Oreste («La
democrazia di Oreste è l’inferno del bourgeois neocapitalista. È la definitiva vittoria
sulle Furie e l’inizio della nuova preistoria, così come Atena l’ha annunciata»)52.
Nel 1959 Pasolini traduce su invito di Vittorio Gassman l’Orestea (Agamennone,
P. P. Pasolini, Le regole di un’illusione cit., p. 238.
Alessandro Carrera, Il dono di Atena e la fine della storia: Hegel, Pasolini e Severino interpretano l’Orestiade, in «L’anello che non tiene» cit., pp. 25-69.
51
52
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
83
Coefore, Eumenidi) di Eschilo, poi rappresentata da Gassman al teatro greco di
Siracusa nel 1960. Nel 1966 Pasolini compone il dramma Pilade (uno dei personaggi principali dell’Orestea di Eschilo); infine gira Appunti per un’Orestiade
africana (1970), tracce «visive» per un film che non farà mai. I personaggi di
questa Orestiade pasoliniana, come anche le varie Matres degli altri film, assumono, oltre il contesto delle tragedie greche, un ben preciso significato ideologico e politico, come ebbe a precisare lo stesso Pasolini nella Lettera del traduttore che precede la rappresentazione di Siracusa: «il significato delle tragedie di
Oreste è solo esclusivamente politico». Quindi il frontale conflitto tra Medea/
Colchide/Centauro semianimale da un lato e dall’altro Giasone/Tebe/Centauro
umanizzato si replica nel binomio contrastivo Atena/Oreste/ Atene/Ragione,
Eumenidi (Le Furie civilizzate)/Areopago/moderna democrazia e, all’antitesi,
Clitennestra/Argo/ Furie/Irrazionale/legge del taglione/Pilade, ancorato disperatamente all’utopico mondo preconsumistico dei contadini e dei proletari – o lo
stesso Pasolini –, che guida un esercito rivoluzionario contro Oreste. Ennesima
contrapposizione dunque tra una Mater precivile, Clitennestra, dai sentimenti
primordiali, istintivi e selvaggia (uccide il marito, che a sua volta aveva sacrificato la figlia Ifigenia, tuttavia per volere di Atena), associata alle Erinni, le Furie
nella loro primitiva connotazione, coi serpenti al posto dei capelli, sovvertitrici di tutte le istituzioni umane, associate, come dice Pasolini, al «segno uterino
della madre», di una Mater tragicamente dolorosa per la perdita dell’adorata figlia Ifigenia e perciò, come Medea, assetata di vendetta. Tuttavia, pur auspicandosi che le Furie si trasformino, come in Eschilo, in Eumenidi e che la selvaggia Elettra possa, come avviene, accordarsi con il civilizzato Oreste, ancora una
volta Pasolini ribadisce l’idea che la modernità (letteraria e politica) non può annientare la sacralità del mito, delle tradizioni ancestrali dell’uomo, dell’irrazionale anteriore all’appiattimento logocentrico delle moderne democrazie:
Il significato delle tragedie di Oreste è solo, esclusivamente, politico. Clitennestra, Agamennone, Egisto, Oreste, Apollo, Atena, oltre che essere figure umanamente piene, contraddittorie, ricche, potentemente indefinite (si veda la nobiltà
d’animo che persiste nei personaggi normalmente e politicamente «negativi» di
Clitennestra e Egisto) sono soprattutto – nel senso che così stanno soprattutto
a cuore all’autore – dei simboli: o degli strumenti per esprimere scenicamente
delle idee, dei concetti: insomma, in una parola, per esprimere quella che oggi
chiamiamo una ideologia. / Il momento più alto della trilogia è sicuramente
l’acme delle Eumenidi, quando Atena istituisce la prima assemblea democratica
della storia. Nessuna vicenda, nessuna morte, nessuna angoscia delle tragedie dà
una commozione più profonda e assoluta di questa pagina. La trama delle tre
tragedie di Eschilo è questa: in una società primitiva dominano dei sentimenti
che sono primordiali, istintivi, oscuri (le Erinni), sempre pronte a travolgere le
rozze istituzioni (la monarchia di Agamennone), operanti sotto il segno uterino
della madre, intesa appunto come forma informe e indifferente della natura.
Ma contro tali sentimenti arcaici, si erge la ragione (ancora arcaicamente intesa
84
PAOLO ORVIETO
come prerogativa virile: Atena è nata senza madre, direttamente dal padre), e
li vince, creando per la società altre istituzioni, moderne: l’assemblea, il suffragio. Tuttavia certi elementi del mondo antico, appena superato, non andranno
del tutto repressi, ignorati: andranno, piuttosto, acquisiti, riassimilati, e naturalmente modificati. In altre parole: l’irrazionale, rappresentato dalle Erinni, non
deve essere rimosso (che poi sarebbe impossibile), ma semplicemente arginato e
dominato dalla ragione, passione producente e fertile. Le Maledizioni si trasformano in Benedizioni. L’incertezza esistenziale della società primitiva permane
come categoria dell’angoscia esistenziale o della fantasia nella società evoluta53.
In un’intervista rilasciata a Jean Duflot nel 1969, Pasolini rivela gli autori che
hanno ispirato la sua Medea (e Clitennestra):
ho riprodotto in Medea tutti i miei film precedenti […]. Quanto alla pièce di
Euripide, mi sono semplicemente limitato a trarne qualche citazione. Curiosamente quest’opera poggia su un fondamento ‘teorico’ di storia delle religioni:
M. Eliade, Frazer, Lévy-Bruhl, opere di etnologia e di antropologia moderne54.
Aggiungendo poi anche l’immancabile sinonimia politico-religiosa:
La società industriale si è formata in totale contraddizione con la società precedente, la civiltà contadina […], la quale possedeva in proprio il senso del sacro.
[…] La civiltà borghese lo ha perduto. E con che cosa l’ha sostituito, questo sentimento del sacro, dopo la perdita? Con l’ideologia del benessere e del potere55.
In sostanza questa barbarica amante e Mater pasoliniana, capace, con straziante dolore, di sgozzare come animali sacrificali il fratello e poi i suoi due figli,
pur impossibile a essere riesumata in un mondo civile, tuttavia, almeno, mette in discussione e in crisi la cultura dominante, quella cultura ormai massificata e desacralizzata, del consumismo e del benessere, contro cui si erano schierati Adorno e tutta la Scuola di Francoforte.
Tuttavia per la definizione di questa Medea (e più o meno di tutte le altre
Matres mitiche dei suoi film) ci sembra interessante che Pasolini si appelli alla
triade Eliade-Frazer-Lévy-Bruhl; e allora, proprio per questa frenesia mitizzante («Io voglio riconsacrare le cose per quanto possibile, voglio rimitizzarle»), andrebbero rivisti gli stetti rapporti, mai ammessi da Pasolini, con Pavese (e semmai con Vittorini).
Di Mircea Eliade Pasolini ha almeno letto Mito e realtà, che del resto recensisce, assieme a Potere e sopravvivenza di Elias Canetti, in Descrizioni di descrizioLe due citazioni sono tratte da P. P. Pasolini, Lettera del traduttore, anche in Teatro cit.,
pp. 1005-1009.
54
J. Duflot, Il sogno del centauro cit., p. 103.
55
Ivi, p. 69.
53
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
85
ni, raccolta delle recensioni che Pasolini scrisse per il «Tempo» tra il 26 novembre 1972 e il 24 gennaio 1975, dove c’è anche una possibile assimilazione tra le
mitologizzate Giocasta e Medea e Maria madre di Cristo del Vangelo, tutte e tre
«mitologemi», accorpate nell’unico significato di madri plebee, etnicamente precivili, quindi pre-borghesi, africane e, soprattutto, non europee o non americane:
Non c’è oggettivamente alcun salto di qualità tra i «mitologemi» del cristianesimo e quelli di ogni altra religione contadina. O meglio ciò che differenzia il
cristianesimo dalle altre religioni è l’accettazione della storia e della sua unilateralità. […] Insomma [Cristo] dopo aver accettato la storia, egli viene rimitizzato, e riassorbito nelle abitudini delle vecchie religioni contadine, che puntano
più sul suo sacrificio cruento e sulla sua resurrezione, che sulla sua predicazione.
Esse infatti hanno e hanno sempre avuto bisogno di un modello assiologico
della fecondazione e della rinascita stagionale delle messi. La loro – per usare
la formula celebre dello stesso Eliade – è la religione dell’«eterno ritorno». […]
Malgrado tutto, però, il volumetto di Eliade – come tutti gli altri suoi – va letto
se non altro da chi voglia conoscere realmente cos’è stata una classe popolare in
Europa. […] Il conoscere la religione di una gente, non solo per ciò che essa
è, ma per ciò che essa è stata, per ciò che essa può divenire sovrapponendosi a
religioni precedenti e assimilandole, […] è assolutamente necessario per capire
il «comportamento» contemporaneo di un individuo in una nazione del Terzo
Mondo, in una tribù dell’Africa Nera ecc. Ma è altrettanto necessario per capire
il reale senso del comportamento delle classi subalterne del mondo occidentale:
naturalmente con speciale riferimento alle classi subalterne contadine e sottoproletarie delle zone più arretrate56.
Ma di Mircea Eliade si leggano anche alcuni passi significativi dal suo Trattato
di storia delle religioni, altro testo citato da Pasolini:
Ogni mito, indipendentemente dalla sua natura, enuncia un avvenimento che
avvenne in illo tempore e per questo costituisce un precedente esemplare […];
ogni rituale, ogni azione che abbia un senso, eseguiti dagli uomini, ripetono un
archetipo mitico […], il che significa che, congiuntamente ad altre esperienze
magico-religiose, il mito reintegra l’uomo in un’epoca a-temporale che è, di fatto, un illud tempus, cioè un tempo aurorale, «paradisiaco» oltre la storia. […] chi
imita un modello mitico o soltanto ascolta ritualmente (partecipandovi) la recitazione di un mito, è sottratto al divenire profano e ritrova il Grande tempo57.
Ma già per Lucien Lévy-Bruhl (1857 - 1939) il mondo è bipartito in due,
antitetici, contesti etnologico-culturali, quello evoluto, razionalistico dei pae56
P. P. Pasolini, Tutte le opere. Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia De
Laude, con un saggio di Cesare Segre, cronologia a cura di Nico Naldini, Milano, Mondadori, «I
Meridiani», 1999, II, p. 2113.
57
Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Einaudi, 1999, pp. 392-393.
86
PAOLO ORVIETO
si emancipati (eurocentrico) e quello atavico del primitivo, sopravvissuto solo
nel cosiddetto Terzo Mondo, caratterizzato dal «prelogismo» (è il mondo in cui
sono radicate le varie Giocasta, Medea, Clitennestra, ma anche Maria Vergine
del Vangelo e Mamma Roma), dall’assenza del principio di non-contraddizione
e dell’indistinzione tra naturale e soprannaturale e, quindi, dalla «partecipazione mistica» con ogni fenomeno dell’universo. La partecipazione mistica dei primitivi spesso coincide con quella, altrettanto mistica, dei miti, in cui il profano
si sacralizza nel divino, l’umano nel soprannaturale.
Pasolini avrà con ogni probabilità letto di Lévy-Bruhl almeno, La mentalità primitiva:
Studiosi hanno constatato presso i primitivi una decisa avversione per il ragionamento, per ciò che i logici chiamano le operazioni discorsive del pensiero. Tra
questo mondo e l’altro, tra la realtà sensibile e l’aldilà, il primitivo non distingue.
Vive veramente con gli spiriti invisibili e con le forze impalpabili. Queste realtà
sono, per lui, le più reali. […] Procedendo in questo modo, l’attività mentale dei
primitivi non sarà più interpretata in partenza come una forma rudimentale della
nostra, come infantile e quasi patologica. […] il primitivo […] non si preoccupa
minimamente di ricercare le connessioni causali che non sono evidenti in se stesse, e, subito, egli fa appello a una forza mistica. […] Per la mentalità primitiva,
come si sa, il mondo visibile e il mondo invisibile formano una cosa sola […].
Il sogno porta così ai primitivi dei dati che, ai loro occhi, valgono altrettanto, se
non più, che le percezioni acquisite durante la veglia. Il misoneismo nelle società
inferiori. Le società primitive, in genere si mostrano ostili a tutto ciò che viene
dall’esterno. […] Dall’esterno propriamente detto, non prendono e non accettano nulla. […] Formano come dei sistemi chiusi in cui tutto ciò che entra rischia
di provocare un processo di decomposizione. Sono come organismi capaci di
vivere moltissimo, finché varia poco l’ambiente esterno, ma che, se vi fanno irruzione elementi nuovi, degenerano rapidamente e muoiono58.
In Lévy-Bruhl c’è insomma la ragione ontologica del trauma psichico – doloroso e distruttivo – causato dalla forzosa traslazione del primitivo nel civilizzato delle varie Matres pasoliniane (non importa se davvero mitiche o solo proletarie), perché «formano come dei sistemi chiusi in cui tutto ciò che entra rischia di provocare un processo di decomposizione». Un passaggio quindi da un
mondo felice, divino ad uno degradato, “doloroso” proprio perché, come scrive Mircea Eliade:
conoscere i miti significa apprendere il segreto dell’origine delle cose […]. In
maniera sommaria, si potrebbe dire che vivendo i miti, si esce dal tempo profano, cronologico e ci inserisce in un tempo qualitativamente differente, un
58
Lucien Lévy-Bruhl, La mentalità primitiva, con un saggio di Giuseppe Cocchiara, Torino,
Einaudi, 1975, pp. 18-21, 47, 85, 377.
LE TRE MATRES DOLOROSAE DI PASOLINI
87
tempo sacro, nello steso tempo primordiale e indefinitivamente recuperabile [il
mito dell’eterno ritorno]. […] Vivere i miti implica quindi un’esperienza veramente religiosa, poiché distinta dall’esperienza ordinaria della vita quotidiana.
E per questo che si può parlare del tempo forte del mito: è il tempo prodigioso
sacro quando qualcosa di nuovo e di forte e di significativo si è pienamente
manifestato. Rivivere questo tempo, reintegralo il più spesso possibile, assistere
di nuovo allo spettacolo delle opere divine, ritrovare gli Esseri soprannaturali e
riapprendere la loro lezione creatrice, è il desiderio che si può leggere in filigrana
in tutte le ripetizioni rituali dei miti. Insomma, i miti rivelano che il mondo,
l’uomo e la vita hanno un’origine e una storia soprannaturale e che questa storia
è significativa, preziosa ed esemplare59.
Abbiamo iniziato con lo Stabat Mater di Jacopone e concludiamo con la poesia Domenica uliva di Pasolini, sorta di sacra rappresentazione o litania pasquale,
con espliciti stimoli e citazioni jacoponici. La poesia è un serrato dialogo tra la
Madre (la Madonna) e il Figlio (Cristo), scritta e riscritta in differenti redazioni.
Nella redazione inclusa in La meglio gioventù (la prima è in Poesie a Casarsa), la
Madre si incarna in una Madre-Fanciulla, che, prima di incarnarsi, è puro spirito celeste, che si lamenta di non poter piangere con sufficiente dolore le sorti del Figlio: «Perché dalle mie viscere non è nata la lacrima che piange il mio
figlio benedetto? Sarei tua madre, lacrima, chiara come una stella, e al suono
leggero del vespro, ti cullerei nel grembo». In una seconda versione la MadreFanciulla si trasforma in Madre-Nonna o Madre tout court, che incorpora in
sé il Figlio. Cristo, come quello del Vangelo, è simbolo di innocenza e di rinnovamento: «MADRE (nel Cielo) Ho fatto due figli: uno era il bambino di tutta
la mia vita e di tutto il mondo. Benedetto! Ragazzo e uomo, con la madre nel
cuore, sempre solo nei prati verdini, i fuochi, i vecchi muri… Il secondo, uomo
e ragazzo, vive vicino a me il pensiero di un mondo lontano di uomini nuovi».
In un’altra versione la Madre (che si incarna in un fanciullo che reca l’ulivo pasquale) parla all’unisono col Figlio: «Io sono come tu mi hai fatto, Cristo: canto
e pianto sono una cosa sola in te. Sulla croce inchiodami, Cristo; io sono senza rimedio tuo». Dove appunto è stata notata una cosciente analogia con alcuni versi della lauda Pianto della Madonna di Jacopone60.
M. Eliade, Mito e realtà cit., pp. 10, 16, 24, 26.
Le quattro versioni della poesia, naturalmente in dialetto friuliano e non nella traduzione
da me riportata, si possono leggere in P. P. Pasolini, Bestemmia. Tutte le poesie cit., pp. 43-50;
1101-8; 1209-1219; 1335-1364. Le coincidenze con la lauda jacoponica sono state notate da
Giudo Santato, in Pier Paolo Pasolini. L’opera poetica, narrativa, cinematografica, teatrale e saggistica. Ricostruzione critica, Roma, Carocci, 2012, p. 72, in cui si rimanda anche ad uno studio
specifico: Antonio Sichera, Poesia senza Narciso: parole e simboli del Pasolini friulano nella prima
«Domenica uliva», in Contributi per Pasolini, a cura di Giuseppe Savoca, Firenze, Olschki, 2002,
pp. 197-216.
59
60
Mario Delitala, Il pianto delle tre Marie (1931 – xilografia su «L'Eroica», ottobre 1931,
158).
ENCORE LE LONG (DU NOIR)
Jean-Charles Vegliante
Encore le long (du noir):
Je crois que je dors et que, tout dormant
j’essaie de te rejoindre, là où tu es
sur des sommets glacés où le souffle manque
et la vue. Tu es douce sous mes paupières
il me semble avoir encore au bout des doigts
la soie de ta peau vivante, une présence
diffuse dans le vent, l’écho, les moraines,
le malheur de toutes ces choses qui passent
qui nous oublient
ça dit : Je t’ai allaité.
[Jean-Charles Vegliante, Où nul ne veut se tenir, Bruxelles, La Lettre Volée, 2016, p. 44].
Non mi sentirei in grado di produrre un vero autocommento, come alcuni «veri» poeti hanno fatto da sempre egregiamente (citiamo per cominciare la
Vita nova, in parte), almeno fino a Montale o Raboni, rimanendo a nomi che
conosco anche in qualità di traduttore. Però, se può servire a giustificare la presenza di questo mio testo in questo volume, vi appulcro volentieri – senza particolare pretesa di legittimazione – qualche semplice parola nell’altra mia lingua.
La presenza della madre, qui, sembra ridotta infatti al verbo dell’explicit, allattare. Ma nella durata interna alla stesura e alla lettura stessa del testo, non
è chiaro fino a che punto tale indicazione finale, ultima e distaccata anche tipograficamente, possa influire sulla ricezione profonda ossia semantica dell’insieme, con quel procedimento che Harald Weinrich diceva retrocronologico.
Tornando dunque a una visione d’insieme, a me pare che tutta la poesiola punti a un impersonale ‘relativo’ (ça, più o meno il tedesco es), vicino all’assoluto
nullo di ce o il (c’est bien, il pleut…), ossia a ribadire nella sintassi il nero opaco
del dolore della madre (l’Addolorata, per l’appunto, nome di una mia lontana,
appena conosciuta parente). Nero del «solido nulla» leopardiano, oppure in alternativa delle bocche aperte atroci delle Marie, nei Compianti di Bologna o di
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
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90
JEAN-CHARLES VEGLIANTE
Modena. Origine irreperibile della voce (ça dit) come in un passo di Purgatorio
XXIV, «Ricordivi, dicea, d’i maladetti» (mia trad. Qu’il vous souvienne, disait, de
ces maudits…), oppure origine insita nel testo medesimo. Il quale accenna magari a un sottotesto mal reperibile con gli strumenti tradizionali della filologia,
come ho cercato di mostrare in altre sedi sia per la presenza segreta dell’altra lingua, sia per la sua influenza non percepita, musicale e ritmica1. Tale è stata per
me la comprensione che avevo, da una visuale francofona in cui essa non viene
accolta, della valenza passiva del perfectum latino, evidente nei participi passati
del jacoponiano Donna de Paradiso…, segnatamente qui al v. 47 «o’ si’ lattato»,
alla lettera «dove sei [ora] essendo stato [allora] allattato»: oppure dove sei stato
amorosamente nutrito (da me, tua madre). Ossia: una specie di modernissimo
corto circuito, quasi alogico (come spesso in Pascoli più tardi), in senso stretto
e tecnico (rettorico) patetico, e senza quella retorica del falso pathos che troviamo in più lunghi tentativi di descrizione, fino ai giorni nostri.
Servirà a qualcosa tutto ciò? Sicuramente a non deviare, come spesso succede, a proposito di quel «tu» femminile, all’apparenza fin troppo scontato. Tanto
più in quanto esso viene adornato da attributi quali «dolce» o «seta della pelle»,
in realtà epiteti astratti come potevano essere le «bianche braccia» della contadina nei Poemetti di Pascoli (e qui mi spiace dissentire assolutamente dall’opinione di Sanguineti, pur gran conoscitore di Omero). La parola poetica, lo sappiamo fin troppo, distrugge la «cosa», nella speranza assurda (patetica, di nuovo) di farla risorgere veramente nel testo, eternandola. L’energia e il ritmo, enérgeia e rhuthmós, se ci sono, animano la sua presenza, oltre un’inevitabile fragilità (il mot quasi muto del francese), da flatus vocis. All’occorrenza, viene forse
preservata così, à tout le moins, una linea d’ombra (tutta le long (du noir) ancora), un argine contro il pericolo mortale della scomparsa di tutto – e dell’oblio.
Dimenticanza e non-pensiero, si badi, delle «cose» o poveri oggetti quotidiani.
E sicuramente, contro il pericolo altrettanto insidioso di una lettura facile, sentimentale. Eppure non solo di gioco verbale si tratta: «Almeno una immagine, una
visione sabbatica, / queste cadenze miserabili animasse!» (F. Fortini, Allora comincerò…, Paesaggio con serpente), ma qui l’autore deve, per forza di cose, desistere.
Sia consentito il rimando ai miei rispettivi contributi inTraduzione e poesia nell’Europa
del Novecento, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 33-52; e in «Stilistica e Metrica
Italiana», XVI, 2016, pp. 297-323.
1
PERCORSI NOVECENTESCHI
IL FIGLIO MORTO IN GUERRA E QUELLO SOPRAVVISSUTO
IN UN RACCONTO DI GADDA
Alberto Cadioli
1. Della madre
Vagava, sola, nella casa. Ed erano quei muri, quel rame, tutto ciò che le era rimasto? di una vita. Le avevano precisato il nome, crudele e nero, del monte: dove
era caduto: e l’altro, desolatamente sereno, della terra dove lo avevano portato e
dimesso, col volto ridonato alla pace e alla dimenticanza, privo di ogni risposta,
per sempre. Il figlio che le aveva sorriso, brevi primavere!, che così dolcemente,
passionatamente, l’aveva carezzata, baciata.
L’incipit di La mamma, dodicesimo racconto delle Novelle dal ducato in fiamme (1953) di Carlo Emilio Gadda1 – già pubblicato (in una redazione molto vicina alla definitiva) come «parte quinta» della Cognizione del dolore nel primo
numero del 1940 di «Letteratura»2 – porta in primo piano, fin dalle prime righe,
il dramma della madre che ha perduto un figlio in guerra. Dal 1963 pubblicato
contestualmente come racconto autonomo (ottavo della raccolta Accoppiamenti
giudiziosi3, nella quale è confluito Novelle dal ducato in fiamme) e come quinto
capitolo (primo della seconda parte) del volume della Cognizione del dolore4, il
testo di La mamma può essere dunque letto in riferimento alla struttura complessiva del romanzo – ed è stata questa la scelta prevalente della critica gaddiana – o nella sua autonomia di racconto, a sottolineare la quale il nome della maCarlo Emilio Gadda, La mamma, in Novelle dal ducato in fiamme, Firenze, Vallecchi, 1953.
C. E. Gadda, La cognizione del dolore, in «Letteratura», IV, 1, gennaio-marzo 1940.
3
C. E. Gadda, Accoppiamenti giudiziosi. I racconti. 1924-1958, Milano, Garzanti, 1963.
Questa raccolta è stata ripresa in C. E. Gadda, Opere. Romanzi e Racconti, II, a cura di Giorgio
Pinotti, Dante Isella, Raffaella Rodondi, Milano, Garzanti, 1989, e ancora edita in volume autonomo nel 2011: C. E. Gadda, Accoppiamenti giudiziosi. 1924-1958, a cura di Paola Italia e
Giorgio Pinotti, Milano, Adelphi, 2011. Da qui tutte le citazioni del racconto La mamma (pp.
175-188), indicate con il numero di pagina nel testo. Il passo riportato è a p. 175.
4
C. E. Gadda, La cognizione del dolore, Torino, Einaudi, 1963, poi ivi 1971 e ancora, edizione critica a cura di Emilio Mazzotti, ivi, 1987. Il romanzo è stato poi raccolto in C. E. Gadda,
Opere. Romanzi e Racconti, I, a cura di Raffaella Rodondi, Guido Lucchini, Emilio Manzotti,
Milano, Garzanti, 1988 (l’incipit cui si sta facendo riferimento è a p. 673).
1
2
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
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94
ALBERTO CADIOLI
dre resta quello iniziale («Adelaide François», mutato in Elisabetta nel romanzo5). Al solo racconto si farà riferimento in queste pagine, portando l’attenzione, come appunto il racconto richiede, sulla figura della madre addolorata (o
mamma come vuole il titolo: e tuttavia in tutto il racconto la parola «mamma»
non è mai utilizzata) di fronte al non ritorno del figlio soldato.
Topos frequente nella letteratura, anche non religiosa (dalla quale tuttavia
deriva il suo nome), la «mater dolorosa» che piange la morte del figlio combattente trova un significativo ed alto esempio nel canto IX dell’Eneide, quando la
madre di Eurialo riceve la notizia della sua morte:
Intera pavidam volitans pinnata per urbem / nuntia Fama ruit matrisque adlabitur auris / Euryali. at subitus miserae calor ossa reliquit, / excussi manibus radii
revolutaque pensa. / evolat infelix et femineo ululatu, / scissa comam, muros
amens atque agmina cursu / prima petit, […] / «hunc ego te, Euryale, aspicio?
tune ille senectae /sera meae requies, potuisti linquere solam, /crudelis?» (vv.
473-482)6.
La disperazione della madre di Eurialo è l’emblema di quella delle madri dei
«caduti» in guerra («caduti» per antonomasia, come vogliono i tanti monumenti
eretti in loro memoria), delle loro grida, della solitudine che incombe.
La figura della madre è un tema ricorrente nei numerosi libretti commemorativi usciti alla fine del primo conflitto mondiale, privatamente e per lo più a
cura dei familiari o degli amici dei soldati morti7. In molte di queste pagine è
la Madonna a offrire «un nobile esempio cui le madri possono accostare la propria esperienza per darle un senso»8, e tuttavia «questa figura coagula anche quelle qualità di rassegnazione, abnegazione e pietà»9 che, secondo la più tradizionale formazione femminile, erano estese a tutte le donne). Non mancano, tuttavia, esempi laici, additati alle madri dei caduti – «si tratta delle madri romane o risorgimentali»10 –, per cui «Paradigmi civili e religiosi possono coesistere
5
Dante Isella, ha parlato di «complesso sistema di vasi comunicanti», per sottolineare il fatto
che i testi gaddiani, per ragioni varie – e spesso per soddisfare contratti editoriali –, migrano da
un progetto a un altro, da un lavoro in corso a un volume che nel frattempo deve essere allestito
(si veda Dante Isella, Presentazione, in C. E. Gadda, Opere. Romanzi e Racconti I cit., p. XX).
6
Si cita da P. Vergilius Maro, Aeneis, recensuit atque apparatu critico instruxit Gian Biagio
Conte, Berolini et Novi Eboraci, Walter De Gruyter, 2005, pp. 278-279.
7
Un’ampia indagine su questi temi è in Olivia Fiorilli, Per la Mamma e per la Patria. La
rappresentazione della madre del caduto negli opuscoli commemorativi della prima guerra mondiale,
in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2, 2006, pp. 167-196, rivista on line, doi:
10.7376/72443. Si può leggere on line (senza indicazioni di pagine) all’indirizzo <http://dprs.
uniroma1.it/sites/default/files/444.html>. Vi sono approfonditi anche i rapporti soldato/madre
attraverso le lettere dal fronte.
8
Ibidem.
9
Ibidem.
10
Ibidem.
IL FIGLIO MORTO IN GUERRA E QUELLO SOPRAVVISSUTO IN UN RACCONTO DI GADDA
95
con naturalezza nello stesso opuscolo, nello stesso discorso commemorativo»11.
In questa direzione la morte viene additata come esempio di amore patriottico incondizionato.
Il 26 ottobre 1921 la madre di un combattente giuliano che, lasciato l’esercito austriaco, si era arruolato nelle file italiane ed era caduto sul fronte senza
che il suo corpo venisse mai identificato, venne incaricata di scegliere la bara di
un soldato, tra le undici senza nome allineate nella Basilica di Aquileia. La bara
prescelta avrebbe avuto sepoltura sotto la statua della Dea Roma al Vittoriano,
a Roma, nel sepolcro-simbolo del «milite ignoto», che, emblema dei tanti morti per i quali era stato impossibile il riconoscimento, sarebbe diventato «l’altare
della patria». Le cronache del tempo diedero ampio risalto all’avvenimento, seguendo il momento della scelta della bara e del suo trasporto a Roma, ma raccontarono anche che la madre, avvicinatasi alle prime bare, cadde svenuta gridando il nome del figlio (e all’episodio «La Domenica del Corriere» datata 6-13
novembre 1921 dedicò addirittura la copertina). Da parte sua il regime fascista, una volta insediatosi, aveva moltiplicato i tentativi di sciogliere il dolore individuale in una dimensione collettiva e politica, esaltando l’onore dei soldati
morti combattendo per l’Italia e pensando anche a vari interventi a favore delle madri dei caduti (tra i quali l’estensione a loro favore del suffragio nelle elezioni amministrative: provvedimento per altro mai preso12). Anche in numerosi opuscoli privati era sottolineata l’idea che il sacrificio avvenuto in nome della
Patria fosse il più alto possibile, motivo di onore anche per la madre13, pur nella consapevolezza della situazione drammatica. Già in un opuscolo commemorativo del 191614 si leggeva che «La Patria […] esige molto dalle madri, esige
più dalle donne che danno i loro figli e i loro mariti che non dai figli e dai mariti che danno la loro vita»15.
Al di là della retorica ufficiale, tuttavia, in uno dei tanti libretti commemorativi dei caduti nella prima guerra mondiale si leggeva esplicitamente che le madri «agonizzano d’una agonia più angosciosa di quella che spezza ed annienta
una giovane esistenza, prima fiorente di vita e di energia»16. Il dolore di molte
madri di guerra, dunque, era e rimaneva individuale. E personale, davanti alla
morte dell’aviatore Enrico Gadda, caduto in missione il 23 aprile del 1918, è il
dramma della madre e del fratello Carlo Emilio, che apprende la notizia solo al
Ibidem.
Ne parla Olivia Fiorilli, in Per la Mamma e per la Patria cit.
13
Da un punto di vista narrativo, l’onore che ricade sulla madre di un caduto è presentato,
in un chiaro contesto di condanna, nell’ultima parte di Conversazione in Sicilia di Vittorini: Silvestro, il narratore, richiama il tema patriottico della «madre fortunata» per l’onore conseguito dal
figlio morto in battaglia, mostrando la forte opposizione della stessa madre, che rifiuta la logica
politica del sacrificio per la patria.
14
Citato in O. Fiorilli, Per la Mamma e per la Patria cit.
15
Ivi.
16
Ivi.
11
12
96
ALBERTO CADIOLI
suo ritorno dalla prigionia, nel gennaio del 1919. In un appunto del diario, datato 27 luglio 1919, Carlo Emilio scrive: «Sta abbastanza bene, la mamma, di
salute; ma abbiamo pianto insieme jeri e oggi, perché la vita nostra è rovinata»17.
Nelle pagine del diario ricorre la disperazione del fratello rimasto, non quella della madre18: è probabilmente dopo la sua morte, avvenuta nel febbraio del
1936, che Gadda, contemporaneamente a una rilettura della propria esistenza
nel ricordo di lei, delinea, sotto forma di scrittura narrativa, i contorni della tragedia che aveva colpito la famiglia, ritornando, nella scrittura, su alcuni nodi
psicologici che risalivano al rientro dalla prigionia e che lo avevano portato a vivere per lungo tempo un difficile rapporto di odio e amore nei confronti della
stessa madre19. La prima breve redazione manoscritta delle pagine sulla «mamma» (databile presumibilmente al 1938) ha già tutti gli elementi del dramma20,
che, nella redazione finale, assumerà la forma di uno dei passi stilisticamente più
alti dello Stabat Mater moderno.
L’imperfetto «Vagava» con il quale si apre il racconto (già collocato in incipit nella primissima stesura) introduce subito, indicando la continuità dell’errare senza una direzione, la gravità della perdita e la radicale trasformazione della vita della madre, cui restano pochi oggetti testimoni di un tempo che era stato felice ma troppo breve («brevi primavere!», poco più avanti «il fulgore breve
del tempo»: p. 176), al fianco di un figlio amato, dal quale era riamata. La narrazione, in terza persona, porta in evidenza la desolazione della mamma, i suoi
pensieri accavallati tra il «consumato tempo» e il futuro dall’orizzonte chiuso, i
suoi commenti interiori, approfondendo i diversi piani con scelte lessicali che
di continuo rimandano, simbolicamente, al dramma. È possibile vederlo nelle
parole in corsivo delle citazioni qui riportate21: «Le avevano precisato il nome,
crudele e nero, del monte: dove era caduto», e il nome «desolatamente sereno» del
luogo di sepoltura, quasi opponendo il contrasto di scuro e chiaro (ma la sere-
C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Firenze, Sansoni 1955, poi (aumentato),
Torino, Einaudi, 1965 e infine, e con nuovi taccuini, in C. E. Gadda, Saggi Giornali Favole e altri
scritti, II cit., (dal quale si cita), p. 860.
18
In primo piano c’è, fin dall’inizio, lo scontro tra madre e figlio sulla casa di Longone e
sulla sua vendita, che costituirà un motivo di continuo dissidio anche negli anni successivi, e
l’ostilità materna nei confronti del matrimonio desiderato dalla figlia Clara, che aveva l’appoggio
del fratello Carlo Emilio.
19
Naturalmente resta ai margini di queste pagine il rapporto dello scrittore con la madre,
proiettato, come la critica gaddiana ha ampiamente documentato in una bibliografia ormai vasta
sull’argomento, nelle pagine della Cognizione del dolore.
20
Vi si leggeva: «Vagava sola nella casa: ed erano quei muri, quel rame tutto ciò che le era
rimasto, di tutta la vita. Le avevano detto il nome, del monte dove era caduto, e l’altro, della terra
dove avevano portato il suo essere, privo di ogni risposta per sempre. Il figlio che tanto le aveva
sorriso». Lo riporta Emilio Manzotti, in Nota al testo. La cognizione del dolore, in C. E. Gadda,
Opere. Romanzi e Racconti, I cit., p. 860 (e p. 861 per il seguito del breve testo).
21
Senza specificarlo oltre, tutti i corsivi (salvo indicazione contraria) non sono d’autore, ma
sono aggiunti per dare risalto alle parole di Gadda nel contesto del discorso condotto.
17
IL FIGLIO MORTO IN GUERRA E QUELLO SOPRAVVISSUTO IN UN RACCONTO DI GADDA
97
nità è desolata), di morte e di pace nell’eternità. La complessa ipallage sui nomi
rimanda alla crudeltà della morte e alla tranquilla, ma appunto desolata, pace. Il
soldato morto giace «col volto ridonato alla pace e alla dimenticanza», ma «privo di ogni risposta, per sempre».
Poco oltre, lo stesso nome della madre, pronunciato dal sottufficiale che porta la triste notizia, è definito «il nome dello strazio» (p. 175), nella consapevolezza crescente che «nessuno, nessuno mai, ritorna» (p. 176). L’utilizzo di avverbi come «sempre» e «mai» sottolinea una condizione dalla quale non si può più
uscire: per questa ragione, la madre, dopo il «primo grido orribile» (si ricordi
l’«ululatus» della madre di Eurialo), vive il «feroce rincrudire» di una condanna
senza fine, cui l’avrebbe seguitata «a chiamare», nel tempo quotidiano, «la buia
voce dell’eternità» (p. 176).
Sul termine buio si tornerà più avanti. Qui conviene sottolineare subito che
il secondo e il terzo «Vagava», rafforzando quello dell’incipit, ripropongono la
figura della madre nella quotidianità della vita spezzata, con domande di fronte alle quali non ci sono risposte, sull’«ellisse del nostro disperato dolore» (p.
176): il «nostro dolore», introdotto subito dopo «i matemi e le quadrature di
Keplero», sembra riguardare non più solo la madre, ma una condizione esistenziale più generale. Poco più avanti si leggerà di «stanche ellissi» delineate dal
«precipitare d’ogni giorno, e degli anni» (p. 183), finché il tempo («lieve suasore d’ogni rinuncia») avrebbe condotto la mamma «dove si dimentica e si è dimenticati» (p. 183).
Gli stessi elementi della natura, per altro, già muti agli occhi della madre, assumono nuovi significati simbolici sotto un «uragano» di fine estate, la cui furia
devastatrice si associa, prima ancora che alla guerra, alla devastazione esistenziale: «Il vento, che le aveva rapito il figlio verso smemoranti cipressi, ad ogni finestra pareva cercare anche lei, anche lei, nella casa» (p. 177). Scesa nell’oscurità di un sottoscala (il «fondo buio delle scale, p. 179; «giù, giù, verso il buio e
l’umidore del fondo», p. 178), per cercare un rifugio che la ripari dalla violenza dell’uragano, la madre sembra essersi calata nel profondo di se stessa, raccogliendosi «chiusi gli occhi, nella sua solitudine ultima: levando il capo, come
chi conosce vana ogni implorazione di bontà» (p. 178) e quasi spegnendo, in
questa discesa nell’oscurità, la sua stessa esistenza: «E si sminuiva in sé, prossima a incenerire, una favilla dolorosa del tempo: e nel tempo ella era stata donna, sposa, e madre» (p. 178). Nelle tenebre si mescolano, confondendosi, condizioni della natura e condizione morale: «La insidia repugnante della oscurità:
nata, più nera macchia, dall’umidore e dal male» (p. 178). I segni dell’uragano «la
inseguivano fin là, dov’era discesa, discesa, nel fondo buio d’ogni memoria» (p.
178). Nell’ultima citazione il richiamo è a una dimensione interiore, ma ancora
una volta torna l’immagine del «buio», carica di numerosi significati simbolici.
Usato come aggettivo e come sostantivo, il vocabolo «buio» ricorre infatti
come uno degli elementi caratterizzanti la condizione del dolore: sono del resto
i «latrati del buio» a richiamare una quotidianità che non riesce ad essere rischia-
98
ALBERTO CADIOLI
rata nemmeno dal sole: «Ma che cos’era il sole? Quale giorno portava? sopra i latrati del buio» (p. 176). Il buio indica anche una condizione di morte, ben raffigurata nel «buio della terra»22, come già si leggeva nel diario, o nell’«immobilità
buia»23, secondo le parole della Madonna dei filosofi (del 1931). Nascono da qui
le domande esistenziali, destinate a non trovare risposte, in particolare quelle
affidate, di nuovo, a iterazioni: «perché, perché» (p. 177), «Perché? Perché?» (p.
179), «Perché? Perché?» (p. 187).
La ricorrenza di vocaboli che indicano l’assenza caratterizza ulteriormente
la situazione della mater dolorosa gaddiana: per esempio, nel passaggio da una
stanza all’altra – «come cercando il sentiero misterioso che l’avrebbe condotta ad incontrare qualcuno: o forse una solitudine soltanto, priva d’ogni pietà e
d’ogni imagine» (p. 176) – si sottolinea la mancanza di qualcosa, che implicitamente rimanda al figlio (o ai figli, come si vedrà): «Dalla cucina senza più fuoco alle stanze, senza più voci» (p. 176). Gli stessi capelli della madre, «sbiancati
dagli anni», sono «effusi dalla fronte senza carezze» (p. 187) 24.
All’idea di assenza si associa quella di «vuoto»: «il vuoto delle cose» (p. 181),
«nei giorni vuoti» (p. 183), il «vuoto di ogni gradino» (p. 177), i rintocchi della
torre suonano l’ora «nel vuoto» (p. 187). Già nel diario, per altro, numerose annotazioni avevano testimoniato il diffondersi del «vuoto» che, usato come aggettivo e sostantivo (ma con uso anche verbale), assumeva di volta in volta significati differenti per indicare l’«orrore» (altra parola ricorrente nel diario al ritorno dalla prigionia), come mostrano anche pochi circoscritti esempi: «Il dolore
prostra, vuota, abbrutisce, distrugge»25; «Il dolore per Enrico cresce, portandomi
all’orrore: mente che non va più: vuoto, davanti, e noia»26; «Anche Longone, quale vuoto e quale dolore!»27; ne deriva un «mondo vuoto»28, una «Patria vuota»29.
La conoscenza della realtà attraverso il dolore (la «cognizione del dolore»)
porta la mamma del titolo alla consapevolezza che la propria vita è priva di futuro: «Il sacrificio era stato consumato» (p. 183) e per lei c’era solo «il sentiero
C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia cit., p. 859 (data 7 luglio 1919).
C. E. Gadda, La Madonna dei filosofi, Firenze, Solaria, 1931, poi – con «Pochissime […]
varianti sostanziali rispetto alla princeps» (come si legge in Raffaella Rodondi, Nota a La Madonna dei filosofi, in C. E. Gadda, Opere. Romanzi e Racconti, I cit., p. 799) – in I sogni e la folgore,
Torino, Einaudi, 1955 (con il titolo La Madonna dei Filosofi, e pubblicata con Il castello di Udine
e L’Adalgisa) e infine in C. E. Gadda, Opere. Romanzi e Racconti, I cit., (dal quale si cita), p. 78).
Nelle note si userà il titolo con la maiuscola in Filosofi (per indicare il volume nell’ultima edizione), nel testo con la minuscola, richiamando la prima edizione del 1931, pressoché coeva ad altri
scritti citati in questo saggio.
24
Anche qui e subito oltre i corsivi sono aggiunti.
25
C. E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia cit., p. 855 (data 20 marzo 1919). E ancora:
«Il dolore mi abbrutisce e avvilisce e mi “vuota” l’anima» (ibidem, data 25 marzo 1919).
26
Ivi, p. 858 (data 22 maggio 1919).
27
Ibidem.
28
Ivi, p. 851 (data 1 marzo 1919).
29
Ivi, p. 861 (data 27 luglio 1919).
22
23
IL FIGLIO MORTO IN GUERRA E QUELLO SOPRAVVISSUTO IN UN RACCONTO DI GADDA
99
aspettato dai cipressi» (p. 183), che rappresenta un’altra immagine ricorrente della morte (il figlio, lo si è già visto, era stato rapito dal vento «verso smemoranti cipressi»). Può solo osservare che «altri ed altre avessero a poter raccogliere il
senso vitale della favola, illusi ancora […] a crederla verità necessaria» (p. 183).
Nella Madonna dei filosofi (più in particolare nello scritto eponimo) la madre di Emilio – che, arruolatosi nel luglio del 1915 («anno e stagione giudicati quant’altri insalubri per le stellette»30), «ebbe il torto, e stavolta fu l’ultimo, di non dar più notizie di sé», per cui «L’amministrazione militare lo definì “disperso”»31 – viene presentata di sfuggita32, con poche parole, accostate
come frammenti di un più ampio quadro che il lettore può completare da solo:
«L’immobilità buia. Messe di suffragio. La mamma vestita di nero. Davanti ai
ritratti, delle viole mammole»33.
Anche la protagonista del racconto La mamma, che a sua volta porta un «abito di povertà e vecchiezza» (p. 187; più sopra «l’abito umiliato della vecchiezza,
p. 176), si ferma davanti ai ritratti, tra i quali non è difficile immaginare quello del figlio34:
Poi, quasi un rito della stagione, improvvisa, le giungeva l’ora dalla torre; liberando nel vuoto i suoi rintocchi persi, eguali. E le pareva memento innecessario,
crudele. Nel tempo finito d’ogni estate, traverso il mondo che l’aveva lasciata
così. Le mosche descrivevano pochi cerchi nella grande sala, davanti ai ritratti,
sotto i dardi orizzontali della sera (p. 187).
Il ronzare delle mosche, una volta finito l’infuriare degli elementi della natura, segna la ripresa della vita quotidiana, e, simbolicamente, la ripresa delle vicende storiche; il passaggio da una dimensione all’altra è immediato: «Le mosche
avevano ripreso, dileguata la tempesta, a sorvolare la tavola: dov’erano i giornali, coi nuovi avvenimenti, ch’erano succeduti ad altri. Così d’anno in anno, di
giorno in giorno; per tutta la serie degli anni, dei giorni. E i fogli, ben presto
ingiallivano» (p. 186).
Il tempo collettivo procede (come procede la vita: e la mamma vede che
«Dall’orizzonte lontano esalavano i fumi delle ville», p. 183), ma, contemporaC. E. Gadda, La Madonna dei Filosofi cit., p. 78.
Ibidem.
32
La madre, nella Madonna dei filosofi, è introdotta mentre si parla delle «lacrime amare»
inghiottite da Maria, la giovane amata dal soldato morto, testimonianza di un’altra categoria da
indagare: quella delle fidanzate e delle mogli dei caduti. I dolori intrecciati dei genitori e della
fidanzata del soldato morto sono stati raccontati in un film del 2016, di alta qualità stilistica e di
sottili osservazioni psicologiche, oltre che di denuncia delle esasperazioni nazionaliste che hanno
portato alla Prima guerra mondiale: Frantz, di François Ozon.
33
C. E. Gadda, La Madonna dei Filosofi cit., p. 79.
34
Maria Antonietta Terzoli, in La casa della Cognizione: immagini della memoria gaddiana
(Milano, Effigie, 2005) ha mostrato la presenza, nelle pagine della Cognizione, delle fotografie di
famiglia conservate dallo scrittore, in particolare dei ritratti.
30
31
100 ALBERTO CADIOLI
neamente, quello personale rimane fermo (anche i rintocchi delle ore sono tutti «persi, eguali», diffusi, come si è visto, nel «vuoto»). È un tempo ormai bloccato nel ricordo del passato, che torna su ciò che è stato «nelle ombre dolorose
della memoria» (p. 186), anche se una «dolce memoria» (p. 181), placata la furia degli elementi naturali, fa tornare in mente i versi della Quiete dopo la tempesta («Apre i balconi – apre terrazzi e logge la famiglia», p. 181), e con essi, e
la ripresa della vita quotidiana, suggerisce la riconquista di un possibile sguardo
sul mondo intorno, «quasi che la società degli uomini ricostituita le riapparisse
dopo notte lunga» (p. 181). Il ritorno al presente è però sempre crudele: «Se il
suo pensiero discendeva, dal ricordo di quei due bimbi, agli anni vicini, all’oggi… le pareva che la crudeltà fosse troppa: simile, ferocemente, a scherno» (p.
187). I ricordi della propria vita (di insegnante, con ancora in mente i versi di
Shakespeare che «già furono luce della conoscenza»: p. 187) devono fare i conti
con l’«orrore della notte» (p. 187). Ogni speranza di un cambiamento positivo è
stata cancellata, e le pupille della madre – non «più persona, ma ombra» (p. 187)
– sono «cieche ad ogni misericorde ritorno» (p. 187) (e già si era detto, in una
descrizione del volto della donna, che non era più possibile nemmeno la consolazione del pianto: «le gote erano alveo alla impossibilità delle lacrime»: p. 180).
Nella presentazione del dolore della madre – e del male che lo precede e che
lo ha determinato, definito «offesa estrema» (p. 178) – non c’è più alcun ricordo di gesti di solidarietà che potrebbero essere ancora ricevuti «dalla carità delle genti» (p. 178); il rapporto con gli altri può essere solo vissuto circondandosi di persone «di servizio» (come il contadino, la lavandaia, la figlia della fornaia, la venditrice di limoni, la pescivendola), che tuttavia non cancellano la solitudine, per la quale sarebbe necessario «il soccorso, la parola, di un uomo, di un
figlio» (p. 180). Un figlio vivo, che potesse colmare l’assenza del figlio morto.
2. Il sopravvissuto
Sì: c’era il suo figlio, nel tempo, nella certezza e nella cognizione dei viventi: ed
anche dopo il tramutare, dopo il precipitare degli anni. Camminava tra i vivi.
Andava i cammini degli uomini. Il suo primo figlio. […] Ed era ora il figlio: il
solo. Andava le strade arse lungo il fuggire degli olmi, dopo la polvere verso le
sere ed i treni. Il suo figlio primo (pp. 180-181).
Avrebbe voluto che qualcuno le fosse vicino, all’avvicinarsi della oscurità.
Ma il suo figliolo non appariva se non raramente sul limitare di casa (p. 188).
Tra queste due citazioni – la seconda delle quali rappresenta l’explicit del racconto La mamma – è racchiuso il rapporto con Gonzalo, il figlio sopravvissuto
alla guerra, «riapparito, oh, in un’alba di cenere […]. Era incolume, con poveri
anni dentro le grigie controspalline del ritorno» (p. 185).
IL FIGLIO MORTO IN GUERRA E QUELLO SOPRAVVISSUTO IN UN RACCONTO DI GADDA
101
A Gonzalo, no, no!, non erano stati tributati i funebri onori delle ombre; la
madre inorridiva al ricordo: via, via!, dall’inane funerale le nenie, i pianti turpi,
le querimonie: ceri, per lui35, non eran scemati d’altezza tra i piloni della nave
fredda e le arche dei secoli-tenebra. Quando il canto d’abisso, tra i ceri, chiama
i sacrificati, perché scendano, scendano, dentro il fasto verminoso dell’eternità
(p. 181).
I sacrificati e i sopravvissuti: se il figlio caduto era della schiera dei primi,
Gonzalo era tra i secondi, perché «Forse la sua guerra, a lui, non era stata pericolosa» (p. 185). Non all’altro figlio, «a lui», ed era «troppo evidente che l’arsenale della guerra aveva rifiutato di prenderlo in carico». Del resto: «Plauto, in
lui, non troverebbe il suo personaggio, forse Molière» (p. 185). Il ricordo letterario rimanda alla condizione del figlio maggiore, in fuga dagli esseri umani
come i personaggi rievocati della commedia secentesca, che, per memoria involontaria, si ripresentano nelle illustrazioni di un vecchio libro: «La povera madre, non volendolo, rivide le lontane figure del Misanthrope e dell’Avare, tutte pizzi e gale sotto ai ginocchi, nel vecchio libro, a due colonne, de’ suoi adolescenti mattini, delle sue veglie così fervide» (p. 185).
Per quanto tornati alla mente senza alcuna volontà, i personaggi molièriani introducono, attraverso le vesti leziose delle illustrazioni dei vecchi libri, una
nota apparentemente leggera nelle preoccupazioni della madre per il figlio rimasto. La brevissima digressione (mentale prima che narrativa) si chiude subito con le riflessioni materne su un figlio, che, tutt’altro che miles gloriosus, si rifiuta di dire qualcosa della sua guerra, anche se, forse, avrebbe potuto raccontare molto di sé, essendo tornato con una «medagliuzza», che, ritenuta «da ridere» e di bassissimo valore dai «competenti», non era tale agli occhi materni (per
la «sua certezza di madre», pp. 184-185). Gonzalo non vuole parlare di guerra,
nemmeno quando è davanti alle «più elette gentildonne di Pastrufazio le più assetate di epos: e in conseguenza le più entusiaste bevitrici di fandonie» (p. 185);
del resto «reluttava ai salotti, alle opinioni delle signore patriottarde», preferendo «la strada solitaria della Recoleta» (p. 186).
Al ricordo di lui «bimbo, assorto e studioso», la madre oppone ora la figura
dell’adulto «già curvo, noiato sopra l’errare dei sentieri» (p. 186): nulla di più
per indicare la condizione di diversità del figlio sopravvissuto alla guerra, che,
nel racconto La mamma, resta sullo sfondo, muto nel suo dolore, dietro il quale si intuisce la morte del fratello: «Chiusone in sé il nome, la disperata memoria» (p. 186).
35
Corsivo aggiunto, come nell’«a lui» più sotto.
102 ALBERTO CADIOLI
3. La condanna della retorica
Attraverso la breve ma significativa presentazione della diversità del figlio sopravvissuto, del suo «errare» solitario, del suo «cammino silente» (p. 186) – che si
affianca al «vagare» della madre – il racconto introduce uno spunto che, ricollegandosi a quanto si diceva all’inizio di queste pagine, merita una particolare attenzione. Gonzalo non vuole parlare della guerra e rifiuta le pubblicazioni sul conflitto
appena finito, in particolare gli scritti di commemorazione e di celebrazione, moltiplicati dagli «stampatori della gloria funebre», che avevano dato il via a «xilografie
mortuarie», a libri di poesie di reduci, a copertine con «lampade funerarie e motti
e fiammelle e perennis ardeo» (pp. 185-186). La polemica di Gadda contro la retorica degli scritti celebrativi o commemorativi, in versi o in prosa, della guerra e
dei suoi morti, diffusi dai reduci o dai familiari dei caduti (come nei tanti opuscoli stampati a cavallo degli anni Dieci e Venti, dei quali si è detto), era già presente di sfuggita («Dove si fonderà la storia, e la Vittoria futura, e la verità del popolo Italiano? […] Oh! Non saranno la sagra, né la ghirlanda, né il trombone…»36)
in una recensione del 1932 a Guerra del ’15, diario di Giani Stuparich uscito nel
193137, ma soprattutto, negli stessi mesi, nell’articolo Imagine di Calvi (in ricordo
del tenente Attilio Calvi, uscito sull’Ambrosiano il 7 febbraio1932 e poi raccolto
in Il castello di Udine). Qui, dopo aver sottolineato come l’idea diffusa sul carattere sugli alpini fosse quella che bevessero e poi morissero in battaglia cantando,
lo scrittore aggiungeva esplicitamente: «da farne una bella novella di cinquecento
lire: o un carme pieno di lampade votive, in endecasillabi da circolo filologico»38.
Immediato il collegamento a quanto si legge in La mamma: «I compagni
morti, mai, mai Gonzalo non li avrebbe mai adoperati a così gloriosamente poetare, il fratello, sorriso lontano!» (p. 186), cui segue la frase lapidaria già ricordata: «Chiusone in sé il nome, la disperata memoria».
Nonostante la fedeltà ai valori patriottici, ribadita pubblicamente (per esempio nella recensione al diario di Stuparich sopra citata), Gadda, nella scrittura creativa non sottolinea nulla per celebrare la Patria, mentre introduce riflessioni che portano critiche innegabili a chi ha condotto la guerra e a chi la esalta in chiave politica.
La protagonista della Mamma si accorge che «Invano aveva partorito le creature, aveva dato loro il suo latte» (p. 179): «dentro la gloria sulfurea delle tempeste, e del caos» (p. 179), dentro le vicende della guerra (e di un caos più va-
36
C. E. Gadda, Giani Stuparich, “Guerra del ’15”, in «Solaria», 2, 1932, ora in C. E. Gadda,
Saggi Giornali Favole e altri scritti, I, a cura di Liliana Orlando, Clelia Martignoni, Dante Isella,
Milano, Garzanti, 1991, p. 746.
37
Giani Stuparich, Guerra del ’15. Dal taccuino d’un volontario, Milano, Treves, 1931.
38
C. E. Gadda, Il castello di Udine, Firenze, Edizioni di Solaria, 1934, poi (con varianti) in
C. E. Gadda, I sogni e la folgore cit., il cui testo è riproposto in C. E. Gadda, Opere. Romanzi e
Racconti, I cit.; qui la citazione a p. 175.
IL FIGLIO MORTO IN GUERRA E QUELLO SOPRAVVISSUTO IN UN RACCONTO DI GADDA
103
sto), e tanto meno durante «il clangore della vittoria» [Vittoria, nella prima stampa su «Letteratura»], «e le orazioni e le pompe della vittoria» (p. 179), nessuno
prestava attenzione alle vicende di una madre e dei suoi figli: «sugli anni lontani delle viscere, sullo strazio e sulla dolcezza cancellata erano discesi altri fatti»
(p. 179). Nei pensieri della madre si fa strada l’idea di aver «dato senza lacrime
la sua genitura, perché ne disponessero, gli strateghi della Repubblica, del suo
sangue più bello!, secondo loro ragione comandava» (p. 183): e andrà segnalato come quel «senza lacrime» sembri rimandare alle madri che avevano condiviso l’ideale della guerra in nome della Patria, che avevano accettato la partenza del figlio come volontario (o addirittura lo avevano spinto ad andare a combattere). Il breve richiamo agli strateghi – con critica e amara ironia – rimanda
a un motivo ricorrente sia nel diario (allora inedito), sia in altre pagine, ancora
quelle della recensione a Stuparich, per esempio, con la condanna dell’incapacità dei comandi militari e dei loro errori: «Dove si fonderà la storia, e la Vittoria
futura, e la verità del popolo Italiano? […] saranno un crudo esame delle situazioni di fatto, una cruda confessione delle difficoltà e dei peccati militari, una
intelligente ricostruzione, un senso vivo e adeguato di realtà»39.
Il dolore della madre, diventato per lo scrittore uno scandaglio per approfondire la condizione di un’esistenza individuale colpita dal male (e la profondità in
cui arriva lo scandaglio è direttamente proporzionale all’altezza dello stile: altissimo nelle pagine gaddiane), taglia alla radice ogni possibile retorica.
A questo punto si ferma La mamma e la sua sottile, e non insistita, polemica
contro la retorica. Per chiudere questo scritto, tuttavia, meritano di esser ricordate
alcune osservazioni che, pochissimi anni dopo la pubblicazione su «Letteratura»
delle pagine che diventeranno il racconto, vengono affidate a una violenta requisitoria che porterà il titolo di Eros e Priapo40. Il punto di avvio ripropone gli
stessi motivi della madre addolorata per la perdita del figlio soldato, e ricorrono
gli stessi aggettivi e le stesse immagini (il vuoto, la madre che ha perso ogni ragione di vita e si veste poveramente e di nero, la solitudine, il buio nel cuore, le
stanze segnate da un’assenza), ma in una lingua plasmata da un’amplificazione
iperbolica di lessico e sintassi, e dalla virulenza contro «Li associati a delinquere
cui per più d’un ventennio è venuto fatto di poter taglieggiare a lor posta e coprir d’onte e stuprare la Italia»41:
C. E. Gadda, Giani Stuparich, “Guerra del ’15” cit., p. 746.
Rifiutato, nella sua interezza, da riviste ed editori, Eros e Priapo, scritto tra il 1944 e il
1945, verrà pubblicato solo per brevi segmenti negli anni Cinquanta, trovando poi una sede
editoriale nel 1967, presso Garzanti, ma in una redazione ampiamente rimaneggiata in casa editrice (seppure con il consenso dell’autore), come hanno mostrato Paola Italia e Giorgio Pinotti
in Edizioni coatte d’autore: il caso di «Eros e Priapo» (con l’originario primo capitolo 1944-1946)»
(in «Ecdotica», 5, 2008, pp. 7-102). La redazione originale è stata pubblicata dagli stessi studiosi:
C. E. Gadda, Eros e Priapo. Versione originale, a cura di Paola Italia e Giorgio Pinotti, Milano,
Adelphi, 2016. A questa si fa riferimento per le citazioni.
41
C. E. Gadda, Eros e Priapo cit., p. 11.
39
40
104 ALBERTO CADIOLI
I’ non ho nulla ridire che una madre, dell’aver lasciato sul Carso o appiè l’Altipiano la ragione e il sorriso del suo mortal tempo, e in attendere la fine vuota
degli anni con la persona raumiliata e come impoverita su’ domestici uffizî, la si
creda soccorrere a tanta solitudine con un vestituccio: che l’abbi il colore istesso
di quella tenebra che è già nel suo cuore, tra i vani apprestamenti, e’ scodellamenti della deserta cucina42.
La condanna diventa invece esplicita e violenta nei confronti di quelle madri – in particolare di classe agiata – che con «facilità ebbra», con «quasi voluttà» (espressioni ben più forti che non quella «senza lacrime» delle pagine già
uscite su «Letteratura») «offrirono il loro sangue alla bella guerra, orgogliose di
barattare il cadavere del figlio (del marito, del fratello) con un cenno di assenso del tumescente Priapo che le chiamava madri spartane, madri romane e simili baggianate»43.
Lo scrittore continuava richiamando le fatiche del parto (con lo stesso termine che si legge in un contesto analogo nel tratto di «Letteratura» che ha dato
origine alla Mamma: «gli anni lontani delle viscere», p. 179) e i riti funebri celebrati dai fascisti: «Guiderdone alla pena antica de’ lor visceri, schermo alla tenebra repentina che aveva avviluppato il vivente riso d’un figlio era un “presente!” ugolato da un federalastro in orbace, era un diploma di morte con ghirigori, un dischetto di metallo appuntato loro sul seno, debitamente nero, dal generale Fessetti»44.
La morte del figlio soldato diventa l’occasione di un rito, al quale si rivolge la condanna di Gadda in quanto estrema esibizione di una «manifestazione narcissica»45:
Il morto marito o figlio viene recuperato dalla necrofagìa autoerotica del vedovone o madrone, – ch’è affamata di ptomaine esibitive e di succhi cadaverici
propagandistici, – tale un nuotatore dal dente imperdonante dello squalo. Viene
ripescato su dai regni di morte, spezzettato in reliquie fotografiche: la cerbottana del vedovile cordoglio s’incarica trombettare e publicare quel nome tra i
singhiozzi. Tutto gravita e si revolve nel mondo, ad majorem gloriam viduae46.
Gli ultimi riferimenti valgono anche per le madri che non hanno esitato a
dare i loro figli alla Patria, così che la polemica, adombrata nelle pagine poi raccolte in La mamma, esplode pienamente, spostandosi, tuttavia, su altri discorsi che qui non interessano.
42
43
44
45
46
Ivi, pp. 190-191.
Ivi, p. 51.
Ibidem.
Ivi, p. 190.
Ivi, p. 191.
IL FIGLIO MORTO IN GUERRA E QUELLO SOPRAVVISSUTO IN UN RACCONTO DI GADDA
105
Proprio la polemica, tuttavia, porta in risalto quello che c’è dietro: una profonda cognizione del dolore, la cui centralità emerge pienamente anche attraverso lo Stabat Mater isolato di un breve racconto.
«La Domenica del Corriere», 6-13 novembre 1921 (foto di Maurizio Pretto – ComuniItaliani.it).
Raffaello Sanzio, La deposizione di Cristo (1507 – Roma, Galleria Borghese – particolare).
LA NEGAZIONE DELLO STABAT MATER
IN «CONVERSAZIONE IN SICILIA» DI ELIO VITTORINI
Virna Brigatti
1. Nell’opera di Elio Vittorini il tema dello Stabat Mater si ritrova in Conversazione
in Sicilia – nella parte quinta, cioè l’ultima, del romanzo1 – e la sua presenza ha
un valore direttamente e compiutamente politico, poiché è piegata dall’autore a
un preciso intento: mostrare come i sentimenti della bontà a della pietà caratteristici di ogni Stabat Mater, siano due dei principali «compromessi infiniti della corruzione», contro cui l’uomo deve imparare a lottare, per rimuoverli e per
fondare una società più giusta2. All’interno dunque di un testo narrativo che si
pone apertamente l’obiettivo di una dura critica alla propria contemporaneità,
lo Stabat Mater rappresenta un’immagine che deve essere distrutta, perché la sua
fissità iconografica è giudicata portatrice di sentimenti reazionari, conniventi con
il potere costituito, incarnato in quel momento storico dalla dittatura fascista.
Sul piano diegetico il tema viene introdotto nel momento in cui la madre del
protagonista Silvestro apprende la notizia della morte dell’altro figlio, Liborio,
che era partito per la guerra. La donna viene apostrofata con un’esclamazione
utilizzata, nel contesto istituzionale dell’epoca, per dare una forma pubblicamente accettabile e controllata al dramma individuale: «Madre fortunata!»3. La
scelta di Vittorini di introdurre la situazione attraverso questa allocuzione consente al lettore di avvertire immediatamente la contraddittorietà dell’aggettivo
rispetto alla situazione emotiva: una scelta che implicitamente è già una denuncia. È poi la madre stessa, Concezione, a farsi portatrice della contestazione all’idea della «madre fortunata», opponendo all’immagine statica del pianto addolorato – la quale implica la visualizzazione di una postura fisica, codificata dalla
tradizione, che è implicitamente anche una postura morale di rassegnazione –,
un’immagine dinamica, di dinamismo fisico (la madre si «isola nelle faccende»4
domestiche, cioè reagisce mostrandosi indaffarata in casa) e soprattutto di dina-
1
Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, in E. Vittorini, Le opere narrative, a cura di Maria
Corti, Milano, Mondadori, 2 voll., 1974, 1, pp. 688-710.
2
La citazione completa infatti recita: «bontà, pietà, e gli altri compromessi infiniti della
corruzione» (E. Vittorini, Americana, in E. Vittorini, Letteratura arte società. Articoli e interventi
1938-1965, a cura di Raffaella Rodondi, Torino, Einaudi, 2008, p. 157).
3
E. Vittorini, Conversazione in Sicilia cit., p. 698.
4
Ibidem.
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
108 VIRNA BRIGATTI
mismo verbale. La madre che soffre la perdita del figlio, infatti, in Conversazione
in Sicilia, insiste nel dire come fosse vitale e vivace il ragazzo che è mancato e
non accetta di ricondurlo alla figura rigida dell’eroe di Stato.
Tutto questo avviene nel dialogo tra la madre e Silvestro ed è un confronto che serve al protagonista del romanzo per compiere il passaggio definitivo
dall’impotenza degli «astratti furori»5, dai quali era partito, alla matura presa di
coscienza dei concreti dolori del mondo, presupposto indispensabile di scelte e
assunzioni di responsabilità politiche e storiche. Il tema dello Stabat Mater, dunque, sostiene una precisa funzione perlocutoria all’interno del romanzo, che ne
spiega ulteriormente il carattere politico.
Nelle prime battute che si scambiano madre e figlio, Silvestro prova a sostenere la parte che istituzionalmente dovrebbero recitare i parenti del defunto,
mentre Concezione vi si oppone con la forza delle sue affermazioni:
[…] io gridai: «Che ti salta in mente? Sarà stato un eroe».
Mia madre mi guardò come se io parlassi con amarezza. «No!» disse. «Era un
povero ragazzo. Voleva vedere il mondo. Amava il mondo».
«Perché mi guardi così?» gridai. «È stato bravo. Ha conquistato. Ha vinto».
Ancora più forte gridai: «Ed è morto per noi. Per me, per te, tutti questi siciliani, per far continuare tutte queste cose, e questa Sicilia, questo mondo… Amava
il mondo!»6
Silvestro sembra dunque essere tentato dalla più facile – perché già codificata
– ritualità fascista della celebrazione dei caduti, ma le sue parole sono piuttosto
una provocazione che sollecita la madre ad argomentare meglio la propria posizione di rifiuto. Concezione ribadisce che non si debba rimuovere il pensiero
«del povero ragazzo»7 e del fatto che quel soldato sia stato un bambino di «sette
anni»8, perché ricordarne l’infanzia significa riportarlo alla sua essenza di umanità, facendola stridere con la tragedia della guerra e della morte: «Non volevo
che un soldato avesse sette anni»9, dice Silvestro, pur provando ancora a dimostrare che la morte di Liborio può avere un senso:
«[…] la sua morte […] ti onora».
E lei: «La sua morte mi onora?»
E io: «Morendo egli si è fatto onore…»10.
Ivi, p. 571.
Ivi, pp. 699-700.
7
Ivi, p. 700.
8
Ibidem.
9
Ibidem.
10
Ibidem.
5
6
LA NEGAZIONE DELLO STABAT MATER IN «CONVERSAZIONE IN SICILIA»
109
A questo punto è lo sguardo di Concezione a porsi come una muta ribellione all’assurdità di quelle parole, ad insegnare a Silvestro un modo di soffrire che
possa trasformarsi nel perno di una possibilità di rivolta:
Di nuovo lei mi guardò come se parlassi con amarezza. Anzi era un modo stabile
nel suo sguardo che veniva su di me non appena io mi mostravo: un sospetto,
un rimprovero. Con rimprovero disse: «E questa è la mia fortuna?».
Dissi io, in ostinazione: «L’onor suo torna su di te. Tu l’hai partorito».
E lei, sempre con rimprovero: «Ma l’ho perduto, ora. Dovrei chiamarmi disgraziata».
E io: «Nient’affatto. Perdendolo l’hai acquistato. Sei fortunata».
Interdetta mia madre restò un momento a meditare. Sempre mi guardava con
diffidenza, con rimprovero. E pareva che si sentisse in mia balia. Mi chiese: «Sei
sicuro che quella signora non ha voluto prendermi in giro?
«Oh no!» le risposi io. «Sapeva bene quello che diceva».
«Pensava davvero che sono fortunata?» lei chiese.
«Sicuro» io le risposi. «Avrebbe voluto essere al posto tuo»11.
Lo sguardo di sospetto, di rimprovero e di diffidenza; la tensione a meditare: così «sta la madre» di Liborio, smascherando e denunciando tacitamente
l’assurda pretesa del potere di giustificare il male sulla base della gloria che ne
consegue. Concezione non è «madre fortunata» e nemmeno benedicta tra le altre donne, è solo una povera madre, che trova la forza di non cedere alle lusinghe della consolazione:
«No!» disse mia madre. «No! È stato ragazzo con te. Tu avevi undici anni e lui
sette. Tu…»12.
Non dimenticare l’infanzia comune a tutti gli uomini è dunque il motore dell’atteggiamento contestatorio e il susseguirsi dei «No!» configura l’insolito Stabat Mater scolpito da Vittorini: la negazione ripetuta sottintende il rifiuto
di immaginare il figlio carico di medaglie e avvolto in una bandiera per celebrare quella stessa potenza che ne ha distrutto l’umanità. Tale negazione è inoltre
speculare al rifiuto di dipingere una madre piangente e addolorata: la madre di
Conversazione in Sicilia non piange, perché il pianto significherebbe accettare le
ragioni di quella morte, santificarle, confermarle. «Se piangiamo accettiamo», si
dirà qualche anno più tardi in Uomini e no, il romanzo nato durante la lotta resistenziale: «Se piangiamo li perdiamo [i morti]. Non bisogna perderli […] Che
facciamo se piangiamo? Rendiamo inutile ogni cosa»13. E Concezione, infatti,
11
12
13
Ivi, p. 701.
Ivi, p. 700.
E. Vittorini, Uomini e no, in Le opere narrative cit., [pp. 711-920], p. 814.
110 VIRNA BRIGATTI
non piange e non tace, rifiuta di credere alla mistificazione cui vuole costringerla la retorica del potere che la vorrebbe silenziosa e afflitta.
La posizione in cui Concezione si pone di fronte al dolore per la morte del
figlio non può, dunque, in nessun caso, per Vittorini, assimilarsi all’iconografia invalsa, scultorea e pittorica, della Pietà, che propone l’abbraccio del corpo di Cristo, da parte della Madonna, ai piedi della croce: lo Stabat Mater in
Conversazione si esprime invece in assenza delle spoglie del figlio e nell’impossibilità di gesti plastici che possano evocarne la figura tradizionalmente consolidata nell’immaginario collettivo e nel tempo codificata come una fissità piangente e contemplativa.
Rimuovere l’iconografia della Pietà significa però anche e soprattutto rimuovere il sentimento stesso della pietà: non bisogna averne per il figlio morto e
nemmeno per la madre, nemmeno lei stessa deve averne verso il proprio ragazzo e tanto meno verso il proprio dolore. All’altezza di Conversazione in Sicilia
il termine pietà, infatti, già richiamato in apertura insieme a bontà, pur non essendosi ancora incardinato nel personale vocabolario vittoriniano, racchiude in
sé i significati che di lì a poco saranno esplicitati negli scritti introduttivi preparati per l’antologia Americana nei primissimi anni Quaranta14. La pietà, chiarirà Vittorini, deve essere rimossa dalle relazioni umane perché è principio paralizzante e conservatore, che inibisce la possibilità della presa di coscienza e, soprattutto, la possibilità dell’azione e della scelta pratica, le quali sole, insieme,
possono interferire con la linea della Storia. Queste meditazioni, pur consolidandosi nel 1941 intorno al progetto dell’antologia, hanno però origini antiche
e attraversano carsicamente l’opera vittoriniana già almeno a partire dal 1935,
in particolare nell’interrotta stesura di Giochi di ragazzi15, e precipitano poi in
modo più allusivo in Conversazione in Sicilia, proprio in rapporto alle scelte relative alla descrizione del dolore della madre di Silvestro.
La questione della pietà si lega inoltre, inscindibilmente, a un altro elemento: in nessun caso Vittorini avrebbe potuto usare il tema dello Stabat Mater per
proporre a una rappresentazione del dolore materno che fosse legata a un senso religioso e proposta come modello di sacrificio che fosse canale di accesso al
«regno dei cieli». Durante gli anni Trenta, infatti, lo scrittore matura un’ostilità nei confronti di una visione della vita teleologicamente rivolta a un al di là e
vi oppone il concetto di «regno dei cieli» sulla terra. Ciò avviene proprio a par14
Sono note le vicende dell’antologia che fu edita presso Bompiani nel 1942, priva degli
scritti introduttivi di Vittorini, ma comunque a sua cura. Tali scritti sono ora raccolti in E.
Vittorini, Letteratura arte società. Articoli e interventi 1938-1965 cit., pp. 129-162. Intorno alla
necessità di lottare contro la pietà ruota tutta mitologia della ferocia e della purezza.
15
Per i tempi di stesura del testo e i suoi legami con Il garofano rosso, si rimanda alla nota di
Raffaella Rodondi in E. Vittorini, Le opere narrative cit., 1, pp. 1193-1194. Giochi di ragazzi fu
pubblicato per la prima volta sul numero 1, del gennaio 1937 di «Letteratura» (pp. 47-72), pochi
mesi dopo, nel settembre dello stesso anno, Vittorini inizierà a scrivere Conversazione in Sicilia
(cfr. la relativa nota al testo, in E. Vittorini, Le colpe narrative cit., pp. 1200-1209).
LA NEGAZIONE DELLO STABAT MATER IN «CONVERSAZIONE IN SICILIA»
111
tire dalle pagine del già richiamato Giochi di ragazzi16 e poi in appunti di poco
successivi noti con il titolo Quaderno ’3717, molto prossimi cronologicamente
all’avvio della stesura di Conversazione18. La questione politica, relativa all’ordinamento della società e la polemica fortemente antiborghese di quegli anni si
intrecciano infatti indissolubilmente con una corrosiva critica al cristianesimo,
inteso non tanto nei suoi termini spirituali o teologici, quanto piuttosto nelle
ricadute della sua «filosofia religiosa» sulla mentalità degli individui e dei popoli. Configurandosi come impalcatura su cui si regge una morale nella quale non
ci sono confini tra laicità borghese liberale capitalista e religiosità cristiana, poiché una sfera ha introiettato i valori dell’altra e viceversa, la mentalità comune
finisce per costituirsi in un grumo di convinzioni date scontatamente per giuste
e inevitabili, mentre – mostra Vittorini, smascherandole – sono solo il precipitato di fatti storici e inerzie culturali.
L’intreccio e la sovrapposizione dei due piani genera un effetto dissacrante
che lede entrambe le supposte «verità», quelle laiche (economiche e politiche) e
quelle religiose; infatti, i testi considerati, in proposito, si corrispondono:
Nel cristianesimo il regno dei cieli è una conquista individuale. Si salva dalla
dannazione chi è migliore. Come nella vita ci si salva dalle difficoltà. La stessa
filosofia. Lotta per la vita, lotta per il regno dei cieli19.
La borghesia presume che siano i migliori, i più meritevoli a vincere. Ecco la
base morale: un equivoco20.
«[…] è questione di qui il regno dei cieli, l’inferno e tutto il resto» (E. Vittorini, Giochi di
ragazzi, Le opere narrative cit., 1, [pp. 451-492], p. 467).
17
Quaderno ’37 è un breve testo lasciato da Vittorini sotto forma di appunto personale, scritto pochi mesi prima della pubblicazione della prima puntata di Conversazione in Sicilia e edito
postumo (E. Vittorini, Quaderno ’37, in «Il Ponte», 31 luglio-31 agosto 1973, pp. 1132-1141):
in questo scritto si rende evidente, in modo scoperto ed esplicito, la forza direttamente politica
delle riflessioni che attraversano anche il successivo romanzo.
18
La scrittura di Conversazione in Sicilia si avvia nel settembre del 1937 e la prima puntata
apparve su «Letteratura» nell’aprile del 1938 (cfr. R. Rodondi, Note ai testi. Conversazione in
Sicilia cit., pp. 1200-1209).
19
E. Vittorini, Giochi di ragazzi cit., p. 468. «Ma quando diciamo che non può esservi che
un solo al di là, o di morte, o di sofferenza, o d’altro, significa che dipende da tutti gli uomini far
diventare beatitudine questo al di là […]. Il regno dei cieli non può essere che una conquista di
tutta l’umanità» (ibidem).
20
E. Vittorini, Quaderno ’37 cit., p. 1133. Ancora in Giochi di ragazzi il dialogo tra Alessio
e il colonnello allarga la questione: «“È egoistico esser migliori ognuno per sé…” / “[…] E invece
conta render comune, render di tutti il proprio essere migliori. Questo significa che il regno dei
cieli si può veramente raggiungerlo sulla terra. Se arriviamo a impedire che uno solo, dico uno
solo, si perda… […] Dio non si può raggiungerlo che tutti insieme.”» (E. Vittorini, Giochi di
ragazzi cit., p. 469). Questione che è posta poco oltre esplicitamente: «“E Cristo allora? […]
Cristo ci avrebbe ingannati?” / “Cristo non ci ha ingannati. Si è sforzato di trasformare quella
cosa da solo, col suo solo sacrificio…”» (ivi, p. 470). Di nuovo, in Quaderno ’37 se ne ritrova
l’eco: «La questione è sempre quella posta da Cristo: redimersi dal peccato originale. E che cosa
16
112 VIRNA BRIGATTI
All’interno di Giochi di ragazzi, viene per altro ulteriormente espresso – in
un dialogo – proprio il presupposto teorico da cui si muove tutta la trama di
Conversazione21:
«[…] per te è soltanto filosofia […]. Ma se tu avessi sofferto, se tu avessi sofferto… Naturalmente tutto ciò dovrebbe avverarsi sulla terra. […] è proprio
questione di qui, il regno dei cieli!»22.
Nel romanzo scritto tra 1937 e 193923 si attraversa infatti la sofferenza concreta dei miseri della terra e, nell’ultima parte dell’opera in particolare, il dolore che
Silvestro deve affrontare è quello per la morte di Liborio, un dolore cioè interno
ai suoi affetti. Ma nell’affrontare questa perdita il protagonista è accompagnato
dalla madre, la cui contrizione diviene modello etico da accogliere e seguire24.
2. Il tema dello Stabat Mater si ripropone poi, sempre nell’ultima parte di
Conversazione in Sicilia, davanti a un’altra immagine femminile. E di nuovo è
una proposta polemica, addirittura blasfema.
Silvestro, lasciata definitivamente la casa della madre, compie i primi passi verso una maturità che è innanzitutto politica e giunge, insieme a una collettività simbolica che si è radunata intorno a lui, «ai piedi dell’ignuda donna di
bronzo ch’era dedicata ai caduti»25, una statua di una «bella donna giovane nelle sue dimensioni due volte il naturale», «due volte più grande del necessario»26,
è il peccato originale se non l’individualismo, l’egoismo che divide ogni uomo dall’altro?» (E.
Vittorini, Quaderno ’37 cit., p. 1140). E ancora: «Liberi sono quelli che danno, avrebbe detto
Cristo» (ivi, p. 1133).
21
«Perché la conoscenza diventi operante e i furori si facciano concreti, Vittorini ha bisogno
di rappresentare le offese recate al mondo. E rappresentarle vuol dire portarle alla presenza – di
fronte a sé e al lettore: situarle in una terra tra le più abbandonate; incarnarle in tipi, in figure»
(Anna Panicali, Elio Vittorini. La narrativa, la saggistica, le traduzioni, le riviste, l’attività editoriale,
Milano, Mursia, 1994, p. 161).
22
E. Vittorini, Giochi di ragazzi cit., p. 469. L’idea infatti deve farsi «sangue» (cfr. A. Panicali, Elio Vittorini cit., p. 137).
23
Si veda ancora R. Rodondi, Note ai testi. Conversazione in Sicilia cit., pp. 1200-1209.
24
In chiusura del colloquio fra Concezione e Silvestro, questi tenta ancora un’ultima volta
di giustificare la retorica consolatoria ufficiale, avvalendosi di esempi dal passato e in particolare
di quello di Cornelia, madre dei Gracchi. Silvestro infatti suggerisce apertamente che anche sua
madre e Liborio, a seguito del decesso di quest’ultimo sul campo di battaglia, appartengono ai libri, cioè alla Storia: «Non lo sapevi? Uscito dal mondo egli è entrato nella storia. E tu con lui» (E.
Vittorini, Conversazione in Sicilia cit., p. 703). Il testo di Vittorini non esplicita su quale punto
della storia di Cornelia possa instaurarsi un confronto con la vicenda di Concezione, ma pur con
le dovute differenze è interessante notare, nel contesto che qui è esposto, il fatto che Cornelia per
la morte di uno dei suoi figlia abbia dovuto nascondere il lutto. Nel testo, invece, e propriamente
nell’epilogo del romanzo si dà la seguente l’allusione: «“A proposito, tu mi hai imbrogliato con
quella Cornelia” mi disse. “Non fu sul campo che morirono i suoi Gracchi”» (ivi, p. 710).
25
Ivi, p. 705.
26
Le ultime due citazioni ivi, p. 706.
LA NEGAZIONE DELLO STABAT MATER IN «CONVERSAZIONE IN SICILIA»
113
quindi anche «due volte reale»27, «fornita di tutto quello che rende donna una
donna»28. È un monumento funebre, per i morti in guerra:
«Questa donna è per loro» dissi.
[…] «Essi non sono morti comuni, non appartengono al mondo, appartengono ad
altro, ed hanno questa donna per loro» […] «In questa donna noi li celebriamo.»29
La donna di bronzo, invulnerabile e imponente, può essere considerata l’esasperazione plastica di quella idea di madre che è certezza nel bambino di sette
anni30, «immortale»31 come lo è la statua, ma che, se resta tale nell’adulto, diventa pericolosa perché toglie la facoltà del dubbio32, cioè il presupposto dell’interrogazione e della ricerca della conversazione, a loro volta indispensabili per raggiungere quello stato di riunione e comunione che idealmente deve essere perseguito per la conquista di un «regno dei cieli» sulla terra.
Sono infatti i morti «non comuni», quelli ascritti alla gloria del potere che li
ha uccisi, ad essere celebrati da questa statua, potenziale Calipso che può paralizzare la coscienza degli uomini o moderna Medusa che li trasforma in pietra
funeraria, in monumento tombale. Per questo è amara e indignata l’ironia della
domanda di Silvestro: «Non è gentile da parte nostra dedicar loro una donna?»33.
I soldati caduti sono quindi ricondotti tra le braccia di quella che di fatto è una
madre fittizia, sottratti per sempre all’abbraccio di chi li ha generati, una madre,
quest’ultima, priva di malizia come Concezione, «benedetta vacca»34, in questo
senso sì benedicta, in contrasto con la «sessuale malizia» e la «sessuale grazia» della donna di bronzo, che ha «segnato, oscuramente, il sesso»35.
Di fronte a questa blasfema celebrazione delle glorie cui appartengono i
vinti, emerge la «parola suggellata» su cui ruotano i complessi significati che
Conversazione in Sicilia racchiude. Si tratta dell’interiezione «Ehm!», il «parlar figurato»36 del fratello Liborio, il cui fantasma Silvestro aveva incontraCfr. ivi, p. 603.
Ivi, p. 706.
29
Le altre citazioni ivi, p. 707.
30
Ivi, p. 661.
31
Ibidem.
32
«non potevo non chiedermi […] perché davvero la fede dei sette anni non esistesse sempre, per l’uomo. / O forse sarebbe pericolosa? Uno, a sette anni, ha miracoli in tutte le cose, e
dalla nudità loro, dalla donna, ha la certezza di esse […] Ma dopo che farebbe con la certezza?
Dopo, uno conosce le offese recate al mondo […] Che farebbe allora se avesse pur sempre certezza?» (ivi, p. 664).
33
Ivi, p. 707.
34
E. Vittorini, Conversazione in Sicilia cit., p. 632.
35
Ivi, p. 706.
36
Ivi, p. 693. «Il romanzo di rivisitazione della terra nativa assume la forma stilizzata del
romanzo-conversazione, come il più adeguato al proposito di dire tutto pur tacendo ciò che i vincoli di realtà inibiscono di comunicare: e proprio così imprimere al discorso il connotato di magia
27
28
114 VIRNA BRIGATTI
to prima di raggiungere la madre e poco prima di apprendere della sua morte in guerra:
Liborio pronunzia la parola chiave del libro, un semplice «Ehm!». Il suo senso
è e non può non essere «suggellato»: ma diventa comprensibilissimo quando si
condividano i sentimenti di chi così si esprime. La rinascita di Silvestro è matura. Di ritorno dalla madre, smaschera per lei, con lei, in tono di ironia rabbiosa,
le menzogne della retorica ufficiale37.
La rappresentazione della sofferenza di Concezione, in Conversazione in
Sicilia, è infatti preceduta dall’incontro di Silvestro con il fantasma del fratello
morto, il quale ha un valore imprescindibile per comprendere appieno i significati di ciò che madre e figlio poi si diranno: i due fratelli hanno la possibilità di
ricongiungersi momentaneamente e fittiziamente in una comune infanzia, che,
si è detto, è l’elemento su cui insiste la madre. L’infanzia, del resto, è simbolo
per eccellenza in Vittorini della possibilità di una vera e propria intesa e comunicazione fra gli uomini38.
Al suo primo apparire la voce di Liborio, con il suo «Ehm!», emergeva dalla
terra del cimitero in cui le anime dei morti si riunivano per la rappresentazione
teatrale delle loro «glorie»39. Nelle sequenze finali, invece, di fronte alla statua
di bronzo, questa voce parla in Silvestro stesso, emergendo dal suo stesso corevocativa con cui l’ars loquendi riesce a esprimere l’ineffabile» (Vittorio Spinazzola, Un aquilone
sulla Sicilia, in Itaca addio. Vittorini, Pavese, Meneghello, Satta: il romanzo del ritorno, Milano, il
Saggiatore, 2001, [pp. 37-87], p. 78).
37
V. Spinazzola, «Conversazione in Sicilia» di Elio Vittorini, in Letteratura italiana. Le Opere.
IV. Il Novecento. II. La ricerca letteraria, a cura di Alberto Asor Rosa, Einaudi, Torino, 1996, [pp.
406-427], p. 418.
38
«[…] intendersi vuol dire conoscersi nel modo “di quando gli uomini erano ragazzi”, che
è il modo più antico e “più vivo che abbiamo, in segreto dentro a noi stessi”. Vuol dire leggere
dentro l’altro e vedere in lui un altro se stesso» (A. Panicali, Elio Vittorini cit., p. 238; citazioni
all’interno da E. Vittorini, Il Sempione strizza l’occhio al Frejus, in Le opere narrative cit., i, [pp.
921-1008], pp. 970 e 971). Va pur precisato, però, che Vittorini si scaglierà con tagliente forza
contro i diversi miti delle cosiddette «età dell’oro» proprio nel momento in cui, negli ultimi anni
della sua vita e dunque della sua parabola intellettuale, rivedrà completamente la propria idea di
letteratura: in particolare si fa riferimento a quanto dichiarato negli appunti delle Due tensioni (si
vedano almeno le pp. 73-88-121 in E. Vittorini, Le due tensioni. Appunti per una ideologia della
letteratura, a cura di Dante Isella, Milano, il Saggiatore, 1967). Ciò nonostante resta importante
e costante il riferimento a un momento che, sia nella vita degli individui sia dei popoli e delle
nazioni, possa considerarsi un’alba piena di speranze e possibilità ideali per il raggiungimento di
quel «regno dei cieli sulla terra»; tutto il mito della letteratura americana, ad esempio, è fondato
su questo assunto e nello stesso modo sarà percepito e cantato il momento della lotta resistenziale
nella storia politica italiana (seguito poi da una cocente delusione).
39
«Io: “Allora perché fanno la rappresentazione?” / Il soldato: “Debbono farla. Essi appartengono alla storia…”. / Io: “E che rappresentano?” / Il soldato: “Le azioni per le quali sono
gloriosi.” […] “Anch’io rappresento” […] “Legato schiavo, trafitto ogni giorno di più sul campo
di neve e di sangue.” / “Ah!” io gridai. “È questo che rappresentate?” / “Per l’appunto” il soldato
rispose. “A questa gloria appartengo”» (E. Vittorini, Conversazione in Sicilia cit., pp. 694-695).
LA NEGAZIONE DELLO STABAT MATER IN «CONVERSAZIONE IN SICILIA»
115
po, chiaro segnale di come gli «astratti furori», dapprima siano precipitati nella concretezza di ciò che attraverso la morte e il dolore si rivela vita, e poi siano
stati introiettati dal protagonista nella propria consapevolezza di uomo ormai
maturo. Inoltre occorre precisare che Liborio, in questi ultimi brani della quinta parte del romanzo, non è più identificato come fratello di Silvestro, ma solo
in quanto soldato, rappresentante di una categoria umana e storica a un tempo, cioè quella di coloro che, dal basso, fanno concretamente, con le loro azioni minime, la Storia. La necessità di questa diversa identificazione di Liborio è
data dal fatto che, nella prospettiva del Vittorini di quegli anni e di quelli anche
successivi, come già si è visto, è fondamentale che si trovi la forza di recidere la
pietà che lega fra loro gli uomini, cioè i più intimi sentimenti e affetti, quando
questi rischiano di avere un effetto reazionario nei confronti della società politica. In Giochi di ragazzi tale necessità è espressa per la prima volta esplicitamente; nel confronto fra Alessio e il vecchio colonnello, infatti, quest’ultimo dichiara apertamente come, per rendere operante l’«ideale», egli dovrebbe rinunciare
ai propri sentimenti di padre:
Vedi, se mia figlia non fosse mia figlia e non l’avessi così cara… se quello lì non
fosse quello lì, cioè se fosse solo un ricco come so che sono in genere i ricchi…
se tutti e due fossero estranei ai miei sentimenti, se fossero altri, come tu dici,
gente che non conosco… […] nel mio unico ideale io vorrei quello che voglio
ora, né più né meno… Io troverei immorale, per lui, per la ragazza, per il padre
che una bassezza simile di denaro finisse in un matrimonio…40
Poste queste premesse, dunque, è indispensabile che il soldato non sia più
un fratello e non sia più un figlio, e anche per questo la madre non sta nella postura addolorata e afflitta che il suo ruolo affettivo istintivamente imporrebbe e
riesce invece a concentrarsi, in una tensione di pensiero e di rielaborazione del
lutto che sia già di per sé contestazione dello status quo. È necessario cioè che il
dolore per il figlio o per il fratello si trasformi in «dolore per il mondo», come
aveva predicato nelle parti precedenti del romanzo il vecchio profeta artigiano
Ezechiele, perché solo «dove c’è il dolore per il mondo c’è acqua viva»41, la salvezza di tutti. La dignitosa contrizione di Concezione è indispensabile dunque
perché si capisca che è necessario osservare «gli altri come astrazione… Come
Dio… E sui nostri vicini, quelli che amiamo, i nostri amici, i nostri cari affermare questo e non più di questo… Non devono essere che simboli del sociale,
essi, per noi, quando vogliamo fare il loro bene»42. Per questo Liborio deve essere considerato, al termine di un processo di elaborazione del lutto, un «soldato»
e un «povero ragazzo», non un figlio o un fratello (come invece era stato neces40
41
42
E. Vittorini, Giochi di ragazzi cit., p. 475.
E. Vittorini, Conversazione in Sicilia cit., p. 679.
E. Vittorini, Giochi di ragazzi cit., p. 472.
116 VIRNA BRIGATTI
sario in un primo tempo per uscire dall’astrazione), per impedire che il pianto
su di lui, la pietà per lui, diventi il presupposto della sua trasformazione in eroe
in un eroe istituzionale, sottratto all’appartenenza al «genere umano perduto»43.
Liborio deve diventare invece «simbolo per l’umana liberazione»44.
3. La chiusura della conversazione (e di Conversazione) avviene infine con la stessa domanda che Silvestro aveva posto al fantasma del fratello durante il loro incontro: «“Ed è molto soffrire?” chiesero i siciliani»45.
Vittorini deciderà di chiudere su queste parole il romanzo solo a partire dalle edizioni degli anni Cinquanta, che rappresentano la sua ultima volontà sul
testo e che sono state prese come punto di riferimento per l’edizione scientifica
dei Meridiani Mondadori, oggi considerata la più autorevole per la lezione delle opere narrative vittoriniane. Sulla rivista «Letteratura» dove il romanzo apparve per la prima volta, invece, l’ultimo capitolo si chiudeva solo «sull’enigmatico
sorriso della “donna di bronzo”46. Successivamente nell’edizione Parenti e «nelle prime edizioni Bompiani a questa ultima frase farà seguito anche: “La donna scoppiò, con clangore, a ridere”»47. La lezione definitiva – quella che compare nei Meridiani, la soppressione dunque della sguaiata risata della donna di
bronzo – è già presente nell’edizione illustrata di Conversazione edita nel 1953
presso Bompiani. È probabile che la frase sia stata tolta qui per la prima volta,
forse, si potrebbe ipotizzare, per una mera ragione tecnica, perché la disposizione del testo nella composizione tipografica avrebbe comportato la necessità di
andare a pagina nuova con quella sola riga. Grazie a questa minima variante è
possibile stabilire come la conclusione del romanzo (lo scioglimento si avrà invece nell’epilogo) si coaguli, a partire dalla lezione ne varietur del testo, intorno alla ripetizione della domanda dei siciliani e non sulle surreali reazioni della
donna di bronzo. È l’interrogazione dell’uomo sul problema della sofferenza che
porta dunque il peso della chiusura narrativa e su di essa infatti si intrecciano i
significati portati nelle parti del testo di Conversazione in Sicilia fin qui citate.
La risata sguaiata che è stata soppressa aiuta però a comprendere come la statua di bronzo rappresentasse inequivocabilmente una beffa al dolore dell’uomo,
che è inevitabilmente acuito, rinnovato e sferzato dai non necessari e sterminati «libri di storia» e «millimetri di bronzo innalzato»48. La gloria posticcia e artificiale delle celebrazioni del potere costituito hanno solo questo effetto e per
contrastarlo occorre innanzitutto non mostrarsi bisognosi di consolazione, non
E. Vittorini Conversazione in Sicilia cit., p. 571.
Ivi, p. 688.
45
Ivi, p. 695.
46
Cfr. R. Rodondi, Nota a Conversazione in Sicilia cit., I , p. 1203.
47
Ibidem. La risata sguaiata «con chiasso» (ivi, pp. 652-653) è anche quella della vedova
provocatrice incontrata da Silvestro lungo il giro delle iniezioni con la madre.
48
E. Vittorini, Conversazione in Sicilia cit., p. 695.
43
44
LA NEGAZIONE DELLO STABAT MATER IN «CONVERSAZIONE IN SICILIA»
117
carichi di pietà e di lacrime, perché il bisogno di consolazione genera le premesse e i presupposti della sopraffazione49.
Per questo è così importante che la madre di Silvestro in Conversazione in
Sicilia si sottragga con la forza dei suoi «No!» all’iconografia invalsa dello Stabat
Mater, perché l’estetizzazione di quella sofferenza, il sotteso cedimento alla pietà e l’implicita richiesta di consolazione e di trascendenza che vorrebbe la manifestazione delle lacrime sono in bruciante e aperta contraddizione con la visione politica e utopica di Vittorini.
Nello spiegare queste implicazioni sarà poi esemplare l’editoriale del primo numero di
«Politecnico» (n. 1, 29 settembre 1945, p. 1), Una nuova cultura (ora in E. Vittorini, Articoli e
interventi 1938-1965 cit., p. 235).
49
Italo Schirra, Cristo deposto (1931 – xilografia da <http://arte.ss.camcom.it>).
GRADI DEL MATERNO E METRICA NEL «LAMENTO D’UNA MAMMA
NAPOLETANA» (SU ALFONSO GATTO, SEGUENDO ORESTE MACRÍ)
Marco Proietto
Tra i temi meno ricorrenti nella letteratura del Novecento italiano c’è quello
della madre in lutto. Il dolore materno è un topos soprattutto nell’età classica.
Virgilio, nelle Bucoliche, dà alla madre un ruolo primario: «Incipe, parve puer,
risu cognoscere matrem, matri longa decem tulerunt fastidia menses». Euripide
invece, nelle tragedie, aveva rappresentato il dolore materno che porta alla vendetta con figure come Ecuba, Andromaca, Medea. A loro si può affiancare Niobe,
di cui parla Ovidio nelle Metamorfosi. Anche in lei sul pianto prevale l’ira. Ma
basta discostarsi dalla tradizione classica per trovare per tutto il Medioevo una
figura materna che si identifica con la vergine Maria, colta nel momento della
crocifissione, in una scena che è stata oggetto di numerose rappresentazioni. Il
suo dolore figura nella lirica; Jacopone da Todi con lo Stabat Mater dolorosa ha
avviato una tradizione che ha come oggetto lacrime e sofferenza. Nel Novecento
invece, come già si diceva, sono scarse le rappresentazioni del dramma materno.
Uno dei pochi autori nostri in cui si riscontri è Alfonso Gatto, nel Capo sulla
neve (1947). Fra testi che trattano della Resistenza, tra partigiani, soldati, donne, bambini, personaggi prevalentemente umili, compare la figura di una madre anonima, in lutto per la morte del figlio, assunta nel dramma della seconda
guerra mondiale come simbolo di tutte le donne del Sud:
Lamento d’una mamma napoletana
Mio, il figlio, non era della guerra,
dei padroni che lasciano ch’io pianga
dietro la porta come un cane, mio,
delle mie mani, del mio petto giallo
ove le mamme seccano sul cuore.
Mio, e del mare che ci lava i piedi
tutta la vita, del vestito nero
che m’acceca di polvere se grido.
Mio, il figlio, non era della guerra,
non era della morte e la pietà
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
120 MARCO PROIETTO
che cerco è di svegliare col suo nome
tutta la notte, di fermare i treni
perché non parta, lui, ch’è già partito
e che non tornerà.
Mio, il figlio, e la sua morte mia, la guerra.
I cavalli mi corrano sul petto,
i treni i fiumi ch’egli vide: il fuoco
m’arda i capelli ove la notte sola
alle mie spalle s’accompagna.
Il vento resti del mondo allucinato, il sale
degli abissi che abbagliano, il lenzuolo
del nostro lutto…
Nell’intestazione del brano che prenderemo in esame compare ricorrente l’archetipo materno («Lamento d’una mamma napoletana»), ben radicato nell’autore. L’archetipo ha una funzione importante, perché spiega l’origine profonda del senso allegorico e metaforico della poesia, è illuminante per esplicazione diretta di costituenti compositivi, infatti strutture prosastiche trovano il loro
riscontro nella versificazione. In prose come La sposa bambina («La mamma
m’aveva lasciato […] per la prima volta la sua voce mi feriva») è giocato il «ripiegamento del bambino Gatto con il raffronto madre-figlio», come ha notato
Oreste Macrí, splendido interprete dell’autore, il quale legge le poesie di quella raccolta e non solo aggregando i campi semantici generati e unificati nell’archetipo materno, che va ad intessere altri oggetti portandoli ad una regressione, fino a dove la memoria inizia ad attivarsi ed opera nel bambino. Così Macrí
spiega il doppio madre-lenzuolo: «coperta di luna» nel testo Era beato il tempo
che guardo; «sudario» («Lenzuolo / del nostro lutto») nel Lamento d’una mamma napoletana. L’archetipo in poesia, come Macrí ci ha insegnato, non va semplicemente trasferito in linea sintagmatica, ma è produttore di differenze, di
scarti. Vediamo in particolare lo scarto di significato tra il Lamento d’una mamma napoletana, dove il lenzuolo è sudario, e Romanzo 1917 («Il nonno parte
[…] gli dormo accanto dentro una coperta»), dove la coperta/lenzuolo diventa simbolo prenatale: due funzioni diversissime riguardanti lo stesso oggetto.
Pertanto, nel riferire la tipologia lessicale afferente alla matrice linguistica gattiana, è da tenere sempre presente ciò che nasce dall’archetipo e dalla tetriade
Mare-Luna-Madre-Morte genialmente individuata da Macrí. Macrí, eccellente
critico di Gatto, mostra l’intertestualità tra poesia e prosa, indicando simboli,
figure e oggetti legati all’archetipo. Il modello interpretativo da lui ideato rileva una compagine di lemmi strutturati gerarchicamente, al loro vertice troviamo l’elemento materno dal quale gli altri derivano. A Macrí dobbiamo dunque
l’intuizione e l’attuazione di un metodo che ci consente di analizzare la tetriade principale a cui è collegata la secondaria, la funzione della coperta materna,
il moto salita-discesa-curva e il fonosimbolismo. Utilizziamo i suoi studi, già
GRADI DEL MATERNO E METRICA NEL «LAMENTO D’UNA MAMMA NAPOLETANA»
121
applicati a Morto ai paesi, per esaminare la nostra poesia strutturando l’analisi su 5 livelli, individuando gli elementi che circoscrivono la componente materna. Il primo è la «curva»: l’insenatura della montagna1 si traduce nell’etimo
materno, così che tutta la natura e i dintorni si maternizzano. Vediamo anche
in altri testi l’architettura disegnata dalla montagna («Mia terra fedele al soliloquio / che sale incontro ai monti»: Alla mia terra; «Se voi sapeste, l’Italia /
è la povera terra ove si spera / di dire addio ai monti»: A uno straniero; «Forse
un uomo / davanti al golfo della sera parla»: Agli uomini del sud; «Incarnata la
bocca sul quel pieno / bacio fuggente»: La luce). L’elemento familiare, oltre ad
essere esplicito nel Lamento d’una mamma napoletana, ricorre dunque implicitamente nell’intera raccolta.
Il secondo livello lo troviamo nelle prose della Sposa bambina, precisamente nel racconto Ottotteo2. Macrí lo lega all’atto del «cadere» per le scale, presente nell’ultima fase della sequenza nascita-sonno-sogno («Proprio allora ero nato
[…] dormivo […] sognavo che il babbo tirasse su di corsa la mamma per le scale»):
In questi momenti ricordavo che, quando babbo e mamma facevano l’amore,
proprio allora io ero nato, salendo sulle loro gambe ad ascoltare. I loro discorsi
erano volti ad immaginarmi, con molta gioia io mi trovavo quasi uguale all’immagine che essi vagheggiavano. Il babbo, accarezzando il volto tondo e placido
della mamma, mormorava le sue parole sempre più piano, fino a zittire: la loro
bocca chiusa lentamente diveniva carnosa: a me sembrava di succhiare, imbronciandomi a quel silenzio. Dormivo con le mani schiuse, babbo e mamma erano
docili della mia carne in un agio infinito: dal balcone, una montagna molto
lontana aveva una sua insenatura così tenera che sembrava dovesse accogliere
me solo: vi dormivo atteggiato e compiuto, con la testa leggermente calata sul
petto. Portato a braccia a braccia dalla mamma, io le lasciavo la mia morbida
curva nel seno, andando calmo verso il sonno, come ad un rischio di perdermi
appena avessi riso movendo trasalito le gambe. Sognavo che il babbo tirasse su
di corsa la mamma per le scale, e che lei fosse ritrosa a squilli, poi tutta inebriata
a cadere: dormendo pedalavo nell’aria e, senza saperlo, con la bocca sorridente
mi schernivo. Poi tutti e due aprivano il balcone, guardavano le stelle e si dimenticavano di me. Sera per sera, salendo sulle ginocchia del babbo, ho imparato a
1
Catene montuose che ricoprono la funzione di sfondo, di fondale delle distanze remote,
nei panorami di Morto ai paesi e non solo: «Ai morti pallidi d’ali sorgevano voci remote» (Alba a
Sorrento), «E la montagna tace dove azzurra / spazia e deserta, un ultimo paese» (Versi di viaggio),
«Le colline non tengono che il lunare / dell’eterna distanza» (Una notte a Firenze). Le citazioni
delle poesie di Gatto sono tratte dall’edizione di Tutte le poesie, a cura di Silvio Ramat, Milano,
Mondadori, «Oscar», 2005, pp. 39-64.
2
«Il nome ottotteo deve risultare da balbettamento di Alfonso Gatto. Alfonso si divertiva
molto (troppo sì, che non faceva divertire gli altri) con gli ipocoristici […] A questo proposito
ricorda Ruggero Jacobbi che Gatto, una volta, stringendo e guardando intensamente il suo gatto
gli gridò: «ricordati che l’unico vero gatto sono io» (Oreste Macrí, L’archetipo materno nella poesia di Alfonso Gatto, in La vita della parola. Da Betocchi a Tentori, a cura di Anna Dolfi, Roma,
Bulzoni, 2002, p. 370).
122 MARCO PROIETTO
nascere: gli altri mi trovarono già pronto. Perciò anche ora ogni mio pensiero
non è che un ricordo3.
Dal rapporto intertestuale evidenziato da Macrí troviamo tre elementi che
riconducono alla madre e che saranno ripresi posteriormente nella scrittura in
versi. Il primo è il volto «tondo e placido» collegato all’immagine della luna («il
babbo accarezzando il volto tondo e placido della mamma»), il secondo è rappresentato dalla curva e da tutti i vocaboli in cui si concretizza («una montagna
molto lontana aveva una sua insenatura cosi tenera che sembrava dovesse accogliere me solo»), il terzo si manifesta attraverso la caduta per le scale («sognavo
che il babbo tirasse su di corsa la mamma per le scale»). Un movimento verso il
basso con conseguente salita, presente in lemmi che riconducono a questo sema.
Nel Lamento d’una mamma napoletana la salita viene espressa dal verbo «svegliare». La parola si lega a molteplici piani di significato, il primo è quello logico-testuale, che interpreta il verbo attraverso un’analisi legata al contesto. Nel
caso della nostra poesia («La pietà che cerco è di svegliare col suo nome tutta la
notte») il verbo è funzionale alla proposizione subordinata che segue, «perché
non parta», collegato tramite l’analogia alla «notte», per cercare di conseguire un
fine irrealizzabile (chiarito nel verso «Lui, ch’è già partito e che non tornerà»).
L’altro piano è meno immediato, legato all’archetipo materno, più precisamente alla parabola curva-salita implicita nel verbo4. L’ultimo infine deriva dal
significato ampliato di quel moto; il ‘‘cadere’’ assume una simbolica affine alla
rottura del ciclo naturale, mentre la salita personifica il desiderio di ritornare
ad un ordine precostituito. Dunque il verbo «svegliare» porta con sé tre significati, il primo logico-testuale, il secondo legato all’archetipo, il terzo congiunto metaforicamente al tempo storico. Nel Capo sulla neve la caduta si riscontra
nei seguenti sintagmi:
«Cadute le stelle / cadute le rose nel vento che porta il natale» (Natale al caffe Florian); «Ed annottava il mondo, sulle donne scendevano nel pianto / le gramiglie
di rose dei cortei» (Alla voce perdura); «Lungo la via dove scende l’ombra / azzurra
già che sembra primavera» (A mio padre); «Hanno sparato a mezzanotte, ho
udito / il ragazzo cadere sulla neve» (Hanno sparato a mezzanotte); «All’alba, con
la neve cadente dai frondoni […] Accasciata di schianto sulla madre» (Hanno
sparato contro il sole); «Dal funebre vento / delle notti che cadano sui passi […]
Tutta la nostra voce è dal profondo / un grido atteso che da noi ricade» (Una
Ivi, pp. 366-367.
Cfr. lo spoglio effetuato da Macrí: «Per la salita ci bastino i verbi: risalire, alzare, apparire,
(apparenza), (risveglio), (altezza), (slancio), schiudere, (volo), (levante), spalancarsi, assumere,
(in cielo), (avvento), aprirsi, salire, scalare, nato, nascere, spalancato, rompere, sgorgare, affacciarsi, traboccare, staccare, sciogliere, saliente, sorgere, alzarsi, esalarsi, affiorare, (statura), levato,
(sollievo), riappare, (alto), (salita), (a fiore del sonno), innalzato, altezza estrema, levarsi, librarsi,
culminare ecc.» (ivi, p. 369).
3
4
GRADI DEL MATERNO E METRICA NEL «LAMENTO D’UNA MAMMA NAPOLETANA»
123
notte); «Il soliloquio scende / come una sera di scirocco» (Alla mia terra); «L’albero piega al suo silenzio i rami / con la mano caduta nel suo peso, eterna, piena»
(Preghiera); «Con tutti i morti scende nella sera, / con tutta l’ombra dell’infanzia
il lume» (Piangerà chi non piange); «Ed insieme nella notte / del sangue antico
scendono feroci» (Là dove i negri parlano ai fanciulli).
La conseguente risalita si trova nei versi che seguono:
«Affiora i lumi come ceri / nelle stanze di tenebra» (Alla voce perduta); «Udii il
tuono / d’un popolo ridesto dalle tombe […] .Sopra la rossa barricata i morti
/ saliranno per primi» (Per i martiri di piazzale Loreto); «Non s’ode nulla ma il
vento / risveglia il fischio d’un treno» (Hanno sparato contro il sole); «La speranza
che dentro ci svegliava / oltre l’orrore le parole udite» (25 Aprile); «Io ricordo
quei giorni: nell’ignoto / mattino ove a svegliarci era il terrore» (Anniversario);
«Un desiderio di svegliare / il mondo coi suoi pensieri» (In memoria di Eugenio
Curiel); «S’alza la vela d’ogni nome aperto / a chiamare le cose […] .L’alba /
torni a spuntare illesa dalle spiagge» (Saluto); «Ossessa ossessa, / mia terra fedele
al soliloquio / che sale incontro ai monti» (Alla mia terra); «E la pietà / che cerco
è di svegliare col suo nome / tutta la notte» (Lamento d’una mamma napoletana);
«E i treni che salgono ai confini» (A uno straniero); «La luna in alto s’alzerà dal
mare / e nella piena dei giardini il vento» (Torneranno le sere).
Un altro grado di rintracciabilità del materno si collega all’immagine lunare
e marina, che costituisce una serie di vocaboli fissi, definiti da Macrí generatori verbali5 in quanto considerati riserva archetipica: mare-luna-madre-morte.
Questi lemmi sono tutti legati all’archetipo, a partire da Morto ai paesi (la seconda raccolta, del 1937), e formano una tetriade strutturale che si estende con
omonimi e sinonimi anche alla poesia che stiamo analizzando. Oreste Macrí la
definisce: «una costellazione conativa di idee-vocaboli, che caratterizza lo schema archetipico dell’egemone prelinguistico gattiano (la mente poetica) e si attualizza sulla linea ritmico-sintagmatica nei vari segmenti poematici e versali»6.
Nel Lamento d’una mamma napoletana abbiamo: «Le mamme seccano sul cuore»; «Del mare che ci lava i piedi»; «non era della morte»; «e la sua morte mia».
Compaiono sia termini appartenenti alla tetriade, sia coagenti usati per alleggerire il testo («i fiumi ch’egli vide»; «il fuoco m’arda i capelli»). Il fiume e il fuoco
(accostato spesso a vocaboli che rimandano all’idea di arsura) sono sostituti7 rispettivamente di mare e morte, sinonimi con funzione equivalente. Queste unità lessicali, oltre ad essere primitivi simboli del materno, materia prelinguistica,
«Propriamente, non-vocaboli, ma generatori verbali, anche di se stessi» (ivi, p. 379).
Ibidem.
7
«Sono possibili configurazioni di qualità secondaria […] abbiamo accanto a uno schema
meccanico-astratto: salita-discesa-curva; sono livelli parentetici, di rilassamento, sostituti, derivati etc., rispetto alla tetriade fondamentale» (ibidem).
5
6
124 MARCO PROIETTO
assumono ulteriori gradi di significazione, posti come sono dall’autore sul piano storico e cronachistico. Nei testi che trattano della resistenza sono congiunti a un duplice sentimento, allo strazio portato dalla guerra, divenendo simboli «mortuari», e alla speranza o desiderio di rinascita, divenendo simboli «vitali». A seconda del contesto in cui si trovano e alle parole vicine assumono questa doppia valenza. Altro dato è l’elemento vocale, che subisce una metamorfosi
consolidata anche in altre liriche («Quando avremo lo sguardo delle bestie / ci
sembrerà d’urlare […] // ad ogni alba vedremo urlare»: Una notte).
Lamento e grido caratterizzano la figura materna («Del vestito nero / che
m’acceca di polvere se grido»), collegando il suono ad elementi simbolici: «vestito nero», «polvere», «lenzuolo». I lemmi della tetriade nella nostra poesia assumono un nuovo aspetto, la madre è risemantizzata rispetto alle liriche degli
anni precedenti e, ritratta in uno stato di dolore, mostra per la prima volta un
volto diverso, affiancata ad una figura appartenente al repertorio animale («dei
padroni che lasciano ch’io pianga / dietro la porta come un cane»). Dunque non
solo la voce subisce una metamorfosi: la madre, tramite l’accostamento a una
figura di genere animale, rinvia alla condizione delle vittime, mentre i carnefici
si trasformano in padroni («Non era […] dei padroni che lasciano ch’io pianga
/ dietro la porta come un cane»).
Il mare, associato spesso all’evocazione del ricordo familiare e assunto come
emblema della lontananza, raffigura la sfera di unione privata fra madre-figlio,
la continuità simbolica oltre la morte («Mare che ci lava i piedi tutta la vita»). Il
legame che stabilisce è «eterno», consolidato nel testo dal dato temporale «tutta la vita». A conferma vediamo altre liriche in cui compare:
«Il silenzio sarà d’un altro mondo […] dove l’alba corre nei mari liberi al saluto»
(Hanno sparato contro il sole); «Il mare in fiore / nella parola che gli nasce nuova»
(Saluto); «pare che venga e sia lontano il mare» (Alla mia terra); «Il mare che
abbatte nei millenni i templi e l’oro» (Là dove i negri parlano ai fanciulli); «Ove
l’eterno mare riflette il tremolio dell’acqua?» (Agli uomini del sud); «nella notte
i mari / che ricordano il tempo» (Preghiera); «La luna in alto s’alzerà dal mare»
(Torneranno le sere); «La grande luce che dal vento al mare» (La luce); e così via.
La funzione che l’autore assegna all’immagine marina è duplice: di transizione verso un giorno nuovo libero dalla guerra («mari liberi al saluto», «mare in
fiore», «s’alzerà dal mare»), e di unione temporale che confluisce su due piani. Il
primo è rappresentato dalla sfera privata, come nel caso della nostra poesia («Ci
[madre e figlio] […] tutta la vita»), il secondo dal contesto collettivo («mare che
abbatte nei millenni», «eterno mare», «mari che ricordano il tempo»). È interessante notare l’oggetto su cui ricade l’azione del verbo lavare: denota una parte del corpo («piedi»). Non a caso scelti dall’autore, visto che le membra divengono un ulteriore punto di propagazione dell’archetipo. Nota Oreste Macrí:
«Mammillare è il campo delle membra […] dove il neonato è creato dalla ma-
GRADI DEL MATERNO E METRICA NEL «LAMENTO D’UNA MAMMA NAPOLETANA»
125
dre in quanto egli la crea in un unico muto organismo blandamente vorace di
delizia sinuosa ed insieme pensata»8. Abbiamo visto (così ancora Macrí) come
nella prosa Ottoteo: «babbo e mamma fossero docili della mia carne in un agio
infinito»9; in particolare testa-nuca-faccia-braccia-occhio-piede formano un monoblocco da lui definito: «smontabile in qualunque momento, giacché Alfonso
può stare da tutte le parti rispetto a se stesso o a una sua parte corporea, si vuole bene si sdoppia e si ricompone, gitano, burattinaio, e prestigiatore delle proprie membra e spiriti»10.
La nostra poesia è corporalmente animata, la morte è risentita nelle membra umane in modo diretto e metaforico, le membra del figlio e della madre si
uniscono («ci lava i piedi»), soffrendo il dolore del lutto. Questo grado di significazione dell’archetipo, ampliato rispetto alle prose della Sposa bambina, dove
le membra sono usate per restituire la traccia del momento originario del riconoscimento di sé, è associato al realismo concreto degli anni della guerra. Non è
più soltanto la riscoperta dell’io, si tratta della realtà che cade sull’uomo, sentita
in tutte le parti del corpo («Delle mie mani»; «Del mio petto»; «Ci lava i piedi»;
«Mi corrono sul petto»; «Fuoco m’arda i capelli»; «Notte sola sulle mie spalle»).
Il lessico della fisicità11 rispecchia il legame profondo esistente all’interno della
sfera familiare («mie mani», «mio petto»), l’unione che lega madre e figlio supera il limite soggettivo. Riflette anche il luogo figurato del dolore, rappresentato
dal cuore: «Petto giallo / ove le mamme seccano sul cuore».
Quest’organo necessita di una spiegazione ulteriore, differisce infatti dalle altre parti del corpo, avendo una doppia accezione nelle liriche: rappresenta sia il
luogo dello strazio in senso ungarettiano («Perché io guardi al mio cuore / come
a uno straziato paese»: S. Martino del Carso), sia un simbolo di unione e resistenza («dal nostro cuore d’uomini»: Una notte; «Ebbi il mio cuore ed anche il vostro
cuore»: Per i martiri di piazzale Loreto; «Il cuore della mia gente»: Alla mia terra). Nel nostro caso il cuore manifesto del penultimo verso della prima strofa è
un luogo di dolore («Mamme seccano sul cuore»), mentre nell’ultimo verso diviene un segno di unione senza tempo («Del mio petto»).
Gatto ha sempre prestato attenzione al campo semantico della corporeità, nel
preambolo del Capo sulla neve scrive: «Parlo in termini fisici. Mi guardo le mani,
Ivi, p. 373.
Ibidem.
10
Ibidem.
11
«Le parole della zona semantica degli stati della materia e delle percezioni del corpo inducono nell’indice tematico e lessicale della critica la componente della ‘‘fisicità’’ dell’esperienza
estetica, partecipando un’idea di compromissione integrale, di tutta la persona – di immedesimazioni, che è un termine caro a Gatto – nel compimento dell’atto inventivo; oppure possono
riferirsi a testi, in cui si voglia mettere in luce la disponibilità a significare l’esistente in tutte le sue
componenti» (Pierangela Grandis, Il lessico della fisicità nella critica letteraria tra il 1930 e il ’45,
in Alfonso Gatto «nel segno di ogni cosa». Atti del seminario. Firenze 18-19 dicembre 2006, a cura
di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2007, p. 167).
8
9
126 MARCO PROIETTO
le guardavo nelle notti che Milano era deserta sotto la neve e gli spari: allora tutto esisteva con un realismo quasi magnetico. Le mani erano più mani, gli occhi,
occhi più occhi: eravamo fissati incisi, in noi stessi, come uomini. Fummo prossimi – per me l’ho sentito – alle parole che sono cose, al respiro e alla vita delle parole che sono atti»12. Anche nei suoi scritti in prosa appare la stessa tipologia lessicale, consolidata nel vocabolario poetico col tempo13, presente in questa
poesia e in tutta la raccolta a partire dal titolo (CAPO sulla neve). Riassumendo,
la manifestazione archetipica nei testi avviene attraverso la curvatura, la tetriade Mare-Madre-Morte-Luna, inoltre un ulteriore accrescimento14 è rappresentato dal lessico della fisicità.
Le spalle sono una parte del corpo che si trova, oltre che nella nostra lirica, anche in Alla voce perduta, collegata alla medesima simbologia («Non avevi un volto, / solo spalle rassegnate, il vento»: Alla voce perduta); («Ove la notte sola / s’accompagna alle mie spalle // il vento»: Lamento d’una mamma napoletana). Nelle due liriche le «spalle» sono congiunte tramite l’analogia col vento, elemento che racchiude più livelli di significato. Supera la velatura in cui si
nasconde la madre, motivo principale di Morto ai paesi come ha notato Marica
Romolini, rappresentando la solitudine che segue la guerra, i resti di ciò che rimane («La notte sola / alle mie spalle s’accompagna // il vento / resti del mondo allucinato»; «non avevi un volto, / solo spalle rassegnate, il vento»), e il suo
opposto, la voglia di rinascita e di speranza futura («Il vento / risveglia il fischio
d’un treno»: Hanno sparato contro il sole; «La luna col suo vento / sciogliere in
pace»: Preghiera; «Il vento […] passerà per la grande aria serena»: Torneranno le
12
A. Gatto, Preambolo a Il capo sulla neve, in Capo sulla neve. Liriche della resistenza, Milano,
Toffaloni, 1947, p. 3.
13
L’attenzione ai dettagli fisici è ben presente anche nelle liriche di Morto ai paesi, si veda
qualche esempio già citato da Macrí: «Devoto nell’aria / mani consunte al tempo della sera […]
fuggito debolmente dalle mani. / Ti schiudevi dagli occhi» (Morto di primavera); «Distesi per
eterno, mio mattino / buio ove tremo ‘occhi illuminati» (Notte); «Nelle povere spalle è scesa la
morte, / il freddo della terra» (All’altezza dei gridi); «Sorge il prato / silenzioso nell’aria e sulla
morta / terra vi sogna i tuoi capelli […] nel folto dei tuoi occhi l’erba al tuo vento […] torna nel
tuo seno […] // gote nel seno, allo stupore / morbido e lento che ti dà vicini / volti al tuo volto»
(Prato); «il tuo petto sconnesso, la tregua / ove in povera carne sei sceso» (Padre morto); «Cimitero
falciato dal giovane marinaio / che cantava la gioia d’avere la faccia: / accorse all’occhio rapido e
gaio / in un rigoglio d’erba le braccia» (Naufragio); «ne l’occhio aperto m’accecava in fronte […]
col capo nella secchia […] nel nero / degli occhi» (Fame); «Il tuo volto ha smarrito / il ridere degli
occhi / per una vaga libertà che corre / dal tuo corpo leggera» (Bambina) (O. Macrí, L’archetipo
materno nella poesia di Alfonso Gatto cit., p. 372).
14
Anche tramite i verbi di percezione, legati all’udito e alla vista, quasi a registrare gli avvenimenti in presa diretta. Prendendo ad esempio l’analisi effettuata da Macrí per Morto ai paesi,
vediamo alcune poesie del Capo sulla neve: «udivo quasi rondini lontane» (Alla voce perduta);
«hanno sparato a mezzanotte, ho udito» (Hanno sparato a mezzanotte); «io vidi il giorno nuovo
che a Loreto» (Per i martiri di piazzale Loreto); «non udire i treni, / non guardare nel cielo altro
che il freddo / sepolcro della luna, ascolta il passo» (Ascolta il passo); «udivo il cielo / come una
voce morta» (Anniversario); «Ho udito Giorgio / ho visto Giorgio» (In memoria di Eugenio Curiel); «Se rivedo la luna col suo vento» (Preghiera).
GRADI DEL MATERNO E METRICA NEL «LAMENTO D’UNA MAMMA NAPOLETANA»
127
sere). Nel nostro caso il vento che accompagna la notte lascia resti, relitti di ciò
che rimane della guerra, e la madre in solitudine («Resti del mondo allucinato»,
«Il sale / degli abissi che abbagliano»).
Ribaltata a dimensione dell’ordinario, la realtà è filtrata attraverso uno sguardo allucinato che segue il passaggio metaforico del vento-guerra, messa in evidenza nei sintagmi («mondo allucinato», «abissi che abbagliano»). L’autore in questa lirica non lascia presagire segni di speranza, dato che «anche la guerra maternizza tutti gli elementi in quanto legata al figlio»15. Nel Lamento d’una mamma
napoletana accanto ai fiumi, sostituto del mare, compare un altro elemento, il
treno16 («I treni i fiumi ch’egli vide»). Raro in questa raccolta, ma oggetto simbolico ricorrente in Gatto (si veda in Morto ai paesi: «Il treno al ponte / cresciuto nelle nuvole»: Fame; «L’improvvisa eternità dei treni / che curvano la notte»,
«Acciottolata di rotaie ferra / un convoglio di treni nella scialba // luce dei prati»: Periferia). Il treno agisce come emblema del trapasso e del sentimento malinconico17 nella seconda raccolta, come ha notato Marica Romolini, mantenendo la stessa funzione anche nella nostra poesia.
Un grado ulteriore d’espansione dell’archetipo nel testo, oltre l’estensione
in lemmi strutturati in serie fisse, si ha nella desemantizzazione18 dei termini
principali. Il poeta ricava il corpo fonico minimo della parola, e con esso va ad
influenzare una serie di vocaboli tramite la particella fonica che si ripete nella
maggior parte dei lemmi. Nella nostra lirica i vocaboli dominanti sono «guerra» e «morte», che desemantizzati eccitano una subserie di lemmi che li contengono dentro il contesto fonico, animando il fonosimbolismo interno alla poesia. «Guerra» scorporata diventa er-re, ra-ar; le parole in cui è contenuta sono:
guerra; mare; nero; polvere; guerra; cerco; svegliare; fermare; treni; parta;
partito; tornerà; guerra; corrano; treni; arda; resti. Parallelamente la «morte» scorporata in or-ro è contenuta in: padroni; dietro; porta; cuore; nero;
morte; corrono; nostro. Nella lirica precedente, Là dove i negri parlano ai fanciulli, il termine principale è «mare» che agisce foneticamente in ar-re, er-ra:
REsta; guERra; mARe; seRA; speRAnze; ERba; fREsca; REsta; pARlano; fERoO. Macrí, L’archetipo materno nella poesia di Alfonso Gatto cit., p. 407.
«Anch’esso, pertanto, confluisce nella sfera nostalgica determinata dalla consapevolezza
dell’inarrestabile divenire dell’esperibile, con un ribaltamento del significato che proprio tale
mezzo di trasferimento aveva assunto nella pittura impressionista più volte celebrata da Gatto»
(Marica Romolini, Le tangenze filosofico-letterarie, in La memoria velata di Alfonso Gatto, Firenze,
Società editrice fiorentina, 2009, p. 41).
17
Ibidem.
18
Oreste Macrí prende come esempio la poesia Nel ricordo all’aria, scorpora il termine principale «morte», e vede come la vibrante r si lega alle vocali o-a-i-e, nei seguenti vocaboli: or-ro:
ricordo, corallo, morte, odore, chiaro, ricordo, sorge, odorosa, morte, mormorato, oriente, ore,
rosea, smorto, ricordo, porto; ar-ra: aria, corallo, sera, barche, ombra, chiaro, strade, aria, armoniose, marina, mormorato, arena, aria, sembra; er-re: sera, deserto, serenata, odore, freddo, inverno, remote, s’apre, perduto, arena, ore, mare; ri: ricordo, aria, ride, ricordo, vetri, riva, oriente,
ricordo, aria, vetri. (O. Macrí, L’archetipo materno nella poesia di Alfonso Gatto cit., p. 380).
15
16
128 MARCO PROIETTO
ci. Nel lamento d’una mamma napoletana gli ultimi due elementi che rappresentano il luogo figurato di unione nel lutto sono il vestito e il lenzuolo. In passato accostati spesso al lunare (come ha constatato Marica Romolini la madre era
solita velarsi nelle apparizioni di Morte ai paesi), ora usati in funzione di drappo funebre che avvolge tutte le mamme nel lutto, riportano la realtà in una dimensione corale: sia madre che figlio uniti nel lenzuolo in una dimensione privata («il vento / resti del mondo allucinato, il sale / degli abissi che abbagliano,
il lenzuolo / del nostro lutto»).
Si tratta di una funzione che è propria di questi testi, divergendo dalla serie
riscontrata altrove (lembo di camicia della mamma, velo della culla, abito materno, sudario del partigiano, lino della camicia della fanciulla). Sono investimenti simbolico-reali che si consumano e sono da valutare ognuno nella propria
sezione, verso, zona versale. Macrí ha precisato che il vestito nero, nella nostra
poesia segno permanente di lutto, si oppone al vestito di seta azzurra, portatore di speranza, assumendo una duplice valenza antitetica. Pari al vestito e lenzuolo, nera è anche la carrozza («Piangerà chi non piange piangerà… / Dentro
la pioggia le carrozze nere / la bambina dei fiori stringe i gridi»: Piangerà chi non
piange), culla dell’infanzia salernitana «quasi sinonimo culla-ventre materno»19
(«Il palazzo che fugge ad altro rosa / l’alza la luna piena, le risate / delle carrozze splendide di buio […]. E la carrozza che allontana il mondo / ci avvicina, ridenti, o mamma piena»: Mamma in carrozza con la luna del sud), mutata all’altezza della guerra. Riscontriamo quindi un’ulteriore rete di simboli materni tra
loro interscambiabili, da «carrozze nere» a «lenzuolo del nostro lutto», a «vestito nero», fino al «vestito di seta azzurra».
Ultimo elemento agente nella nostra lirica è la metamorfosi utilizzata da Gatto
per mostrare il realismo della guerra che muta i carnefici in «bestie», le mamme
segnate dal lutto in «animali», la voce in «grido». I due animali che compaiono,
il cane e il cavallo, rappresentano due diversi stati d’animo della madre. Il primo è simbolo di povertà, di trasformazione in vittima, contrapposto al vocabolo «padroni», mentre il secondo esprime lo strazio e la realtà stravolta che agita e sconquassa nelle membra la madre («Cavalli mi corrono sul petto»). Altre
regressioni a figure animalesche sono presenti nella raccolta in Hanno sparato a
mezzanotte («Madre che carponi s’abbevera a quegli occhi»). L’uomo regredisce
ad uno stadio primitivo («Quando avremo lo sguardo delle bestie / ci sembrerà d’urlare […] l’afa delle bestie, / il tuono che versa le ceneri […] l’urlo, l’urlo,
un silenzio divelto / dal nostro cuore d’uomini»: Una notte), immerso nella realtà della guerra. Infine («la chiusa angoscia delle notti, il pianto / delle mamme
annerite sulla neve / accanto ai figli uccisi, l’ululato / nel vento, nelle tenebre,
dei lupi»: 25 Aprile), la mamma è «accompagnata dalla danza macabra dei car-
19
Ivi, p. 407.
GRADI DEL MATERNO E METRICA NEL «LAMENTO D’UNA MAMMA NAPOLETANA»
129
nefici, identificati come lupi ebbri del massacro»20. Il materno nella nostra lirica
è dunque presente con tutti i suoi gradi, ricorre tramite la curvatura, la tetriade
Mare-Morte-Madre-Luna, substrati secondari Fiume-Fuoco-Terra-Acqua, influenze foniche, lessico della fisicità e simboli caratteristici della raccolta.
Addentrandoci ora nell’analisi metrica notiamo l’alto numero di endecasillabi che compongono il testo. Li individuiamo segnalando gli accenti:
Mio, il figlio, non era della guerra
dei padroni che lasciano ch’io pianga
dietro la porta come un cane, mio,
delle mie mani, del mio petto giallo
ove le mamme seccano sul cuore
3, 6, 8, 10
3, 6, 9, 10
4, 6, 8, 10
4, 8, 10
4, 7, 10
mio, e del mare che ci lava i piedi
tutta la vita, del vestito nero
che m’acceca di polvere se grido
mio, il figlio, non era della guerra
4, 7, 10
1, 4, 8, 10
3, 6, 10
3, 6, 8, 10
non era della morte e la pïetà
che cerco è di svegliare col suo nome
tutta la notte, di fermare i treni
perché non parta, lui, ch’è già partito
e che non tornerà
2, 6, 10
2, 6, 10
4, 8, 10
2, 4, 8, 10
2, 4, 6
Mio, il figlio, e la sua morte mia, la guerra.
i cavalli mi corrano sul petto,
i treni i fiumi ch’egli vide: il fuoco
m’arda i capelli ove la notte sola
alle mie spalle s’accompagna. (Il vento)
resti del mondo allucinato, il sale
degli abissi che abbagliano, il lenzuolo
del nostro lutto...
3, 6, 8, 10
3, 6, 10
2, 4, 8, 10
1, 4, 8, 10
4, 8, 10
4, 8, 10
3, 6, 10
La poesia ha 20 endecasillabi sciolti, tutti regolari, su 23 versi. La struttura principale si organizza dunque in un verso che, tramite l’iterazione modificata da sottili variazioni, crea «una cantilena capace di riprodurre il pianto delle donne del sud»21:
Mio, il figlio, non era della guerra
[…]
Mio, e del mare che ci lava i piedi
20
Marco Menicacci, La «pazienza intrattabile». In margine alla «Storia della vittime», in
Alfonso Gatto «nel segno di ogni cosa» cit., p. 66.
21
O. Macrí, L’archetipo materno nella poesia di Alfonso Gatto cit., p. 405.
130 MARCO PROIETTO
[…]
Mio, il figlio, e la sua morte mia, la guerra.
L’iterazione emula una sorta di nenia, anche questa, nel nostro caso, declinata in lamento. Il verso che compone la «cantilena» è particolarmente interessante per due elementi: l’iterazione del pronome possessivo e della negazione. Le negazioni usate nel Lamento d’una mamma napoletana hanno la funzione di sottrarre il figlio al momento storico, rinnegando la sua appartenenza alla
guerra e alla morte («Non era della guerra»; parallelo a «non era della morte»).
L’avverbio negativo usato ai vv. 13 e 14 ha una funzione stilistica simile a quella adottata da Leopardi22, perché rende impossibile due azioni, partire e tornare («perché non parta»; «e che non tornerà»).
Un’ultima considerazione riguarda l’evoluzione metrica avvenuta nelle raccolte
precedenti alla stesura di questo testo e al Capo sulla neve. La prima prova poetica
di Gatto, Isola, presenta una metrica sperimentale, opposta a quella usata per il
Lamento d’una mamma napoletana. In quel primo libro abbiamo cinquantasette
componimenti suddivisibili in tre grandi filoni, quattordici poesie metricamente tradizionali, ventisei testi in versi liberi, diciassette poesie in prosa. L’elemento
più evidente è la continua tensione creata dai travalicamenti sintattici. In Isola
è presente la quartina, il modello a rime alternate è osservato con costanza, senza mancare di alcune sottili variazioni, aggiungendo materia testuale eccedente o
riproponendo la medesima rima in strofe diverse. Questi diversi tipi di variazione assumono valore contestuale nello specifico dei singoli componimenti, concorrendo a delineare una struttura simmetrizzata sul piano metrico23. Ad esempio in Mattino all’ospedale24 è inserita al centro del testo una terzina che la divide
Da notare la funzione sintattica nel leopardiano Consalvo, dove la mancata realizzazione
dell’azione verbale deriva dalla particella negativa ad essa accostata: («Or già non più, che a mezzo
/ il quinto lustro […] Non ti vedrò, ch’io creda, un’altra volta. Or dunque addio. […] che te perdo per sempre. Oimè per sempre / parto da te. […] Più non vedrò quegli occhi, / né la tua voce udrò
[…] né già vantarmi / potrò del dono […] // né più i dolgo / ch’aprii la luce al dì. […] // Non
l’amerà quant’io l’amai. Non nasce un altrettale amor. […] né questo dì rimemorar m’è dato»).
23
Cfr. le osservazioni di Ghidinelli, molto precise sul piano tecnico: «La funzione strutturante della rima come indicatore metrico risulta piuttosto alterata. Da un lato, l’annullamento delle
pause metriche a favore della scansione sintattica, determinato dalla regolarità dell’enjambement,
rende infatti più ardua la percezione del parallelismo fonico fra le parole-rima, neutralizzandone
così necessariamente anche la funzione metrica: il lettore è sempre spinto a scavalcare il limite
del verso per chiudere il sintagma, cosicché la posizione della parola-rima cessa di essere una
posizione privilegiata. D’altro canto proprio la generale perdita della percepibilità degli indicatori metrici tradizionali reinveste la rima di una funzione delimitativa forte: per poco che venga
percepito, il parallelismo fonico è infatti sufficiente a riaccendere nel lettore l’azione del modello
tradizionale» (Stefano Ghidinelli, Alfonso Gatto tra ermetismo e surrealismo. Tesi di Laurea, relatore prof. Vittorio Spinazzola, Università degli studi di Milano, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a.
1999-2000, p. 142).
24
«battono con gli zoccoli il cristallo, / acciuffate dal freddo in allegria, / le lavandaie: ed un
canto di gallo / s’è spaccato nei vetri, dalla via. // Ed il mattino sgorga di sorpresa / con la sua sana
22
GRADI DEL MATERNO E METRICA NEL «LAMENTO D’UNA MAMMA NAPOLETANA»
131
in parti legate da una serie di simmetrie e dati sensoriali. Su ventotto endecasillabi complessivi, gli unici due con accento in prima sede sono nella prima e nella quinta strofa («Battono con gli zoccoli il cristallo»; «cheta si sguscia la piccola
ghiaia»). Sono presenti anche elementi uditivi: «Battono con gli zoccoli il cristallo»; «Un canto di gallo / s’è spaccato nei vetri»; «si sguscia la piccola ghiaia / in
un vento leggero». Nel testo abbiamo una forte presenza di consonanti occlusive e laterali, anche dopo la vocale tonica. La seconda e la sesta strofa sono basate
su elementi visivi; il mattino che si affaccia evoca la luminosità dell’alba, la visione netta del paesaggio («sana nudità di monti») è resa possibile dall’illuminazione ambientale. Nella sesta strofa, dopo il miraggio, si apre un periodo di tre versi dove si esplicita il punto di osservazione da cui si manifesta il «mondo» come
apparizione, attraverso la finestra. Le strofe conclusive invece mettono in scena
un’evanescenza di dati visivi e uditivi: sfocano nell’indistinto («remota apparenza»; «madonna […] all’aria»; «confini vaporano»), resi attraverso la lontananza o
la dimensione memoriale («ricordo di campane»). È interessante notare la terzina che divide il testo, che sembra riproporre la simmetria fra dati uditivi («l’incertezza saliente dei respiri») e visivi («il cielo»).
Elemento tipico della prima raccolta, oltre che di Mattino all’ospedale, è
l’enjambement interstrofico applicato alle quattro quartine centrali e alla terzina, mentre rimangono isolate le due strofe di contorno. Peculiare alla raccolta è la presenza di testi brevi, si pensi a Cielo, dove dieci versi su ventuno iniziano con una preposizione, e la divisione versale è tesa a marcare la scomposizione logica dei costituenti della frase. La segmentazione è data anche dalla scomposizione delle strofe, ognuna delle quali, come ha notato Ghidinelli, ha il proprio soggetto logico: io lirico-marinai-bambini. Si veda anche Sera, dove il
soggetto di entrambe le strofe ritorna attraverso lo stesso sintagma leggermente
variato («Sera agli atri vuoti»; «Sera, al gracile scoglio»), e l’oggetto della prima
strofa si risolve nel v. 2 della seconda («Cadenze lontane»; «Termini in fiore»).
Lo sperimentalismo di Isola nell’ambito del verso breve libero sarà successivamente abbandonato, la metrica andrà incontro ad alcune modificazioni. Morto
ai paesi è la prova della maturazione stilistica avvenuta. Se analizziamo una delle poesie più lunghe, Largo di sera, è interessate notare la rima imperfetta che al
centro del componimento25, fra «notte» e «morte», infrange lo schema a rime al-
nudità di monti / e travalichi, sembra, l’indifesa / fragilità dell’ospedale e affronti // la remota
apparenza della notte. / E la madonna che resiste all’aria / delle corsie attenuate e accorte / in un
silenzio, odora solitaria // l’incertezza saliente dei respiri. / Nella cadenza approssimata il cielo /
dai vetri s’allontana… // Cheta si sguscia la piccola ghiaia / in un vento leggero d’erbe: neve / baciata sulle labbra; in una gaia / beatitudine, ride, fatto lieve // ogni volto dischiuso nel miraggio.
/ Alla finestra consueta appare / il mondo come un piccolo villaggio / intirizzito tra la selva e il
mare. // I confini vaporano in un molle / ricordo di campana: e resta attesa / la lontananza, come
un verde colle / che, lambito dall’aria, ha la sua chiesa» (Mattino all’ospedale).
25
«acuto e netto penetra alla sera / un treno innamorato della notte / che viaggia aprendo
le finestre. Vera, / nell’ansia che rammemora la morte, /è la calma del cielo […]» (Largo di sera).
132 MARCO PROIETTO
ternate. Nella parte precedente, la «notte» è metricamente regolare, rima infatti con «rotte» (v. 17). «Morte» sarà anche la parola conclusiva del testo, in rima
perfetta con «sorte», collocata in posizione parallela all’interno del verso: «dopo
la vita, prima della morte». Tale struttura si ritroverà anche in altri componimenti; in Prato la terza strofa ha una rima imperfetta: «notte:morte». Una lirica interessante per la tecnica del parallelismo, bene evidenziata da Marica Romolini26,
è Notte. Il centro metrico della poesia è costituito dalla terzina che riprende un
verso precedente e presenta una serie di rime:
lo spazio che t’è vento e altezza estrema.
estrema.
In te finito è vero e calmo il mondo
illuminato dal suo freddo: trema
Lo spazio che t’è vento e altezza
infinito ritorna, come tace
nel divieto del corpo e vi si strema
Nella prima occorrenza troviamo il sintagma «in te finito» e la rima con «trema». Nella seconda la rima «eterna:strema», che satura semanticamente il precedente «trema».
Il forte equilibrio interno alla composizione dei testi, nella raccolta del 1937,
è dato dalla frequenza degli accenti propri all’endecasillabo. La ricorsività, la scarsezza delle irregolarità e degli scarti sono precisi fattori tecnici dell’endecasillabo di Gatto27. Nella prima edizione di Isola il sistema ritmico descritto è in via
di formazione, mentre in Morto ai paesi si dimostrerà assestato28. In questa raccolta, anche se aumenta complessivamente il numero degli endecasillabi, diminuisce il numero di tipologie ritmiche, contrariamente a Isola, dove è maggiore la varietà, ma non erano pochi gli endecasillabi irregolari. La metrica si sintonizza sulla coppia endecasillabo/settenario che copre gran parte delle unità
versali, non a caso composte dopo la stesura del saggio su Leopardi (del 1935).
Morto ai paesi rappresenta un momento poetico di forte leopardismo, confermato dall’intensificarsi della tematica funeraria e dalla suggestione all’idillio, oltre ad essere evidente nella predominanza della coppia endecasillabo/settenario.
Un ulteriore avanzamento stilistico lo troveremo nelle poesie della resistenza, che vanno a formare Il capo sulla neve. Lo strumento assunto come cifra del
nuovo realismo rappresentativo è l’endecasillabo, che ritorna come verso do-
«Creano una struttura parallelistica di continui rimandi intertestuali o addirittura interversuali. Pertanto alla tradizionale tetriade archetipica messa in rilievo da Macrí si aggiungono e
intrecciano, spesso dipendendone, altri segnali atti a costruire l’universo e la tonalità cromatica
peculiare di questa raccolta» (M. Romolini, La logica parallelistica in «Morto ai paesi» cit., p. 34).
27
Edoardo Sanguineti, I poeti ermetici: Alfonso Gatto, in Poesia italiana del Novecento, Torino,
Einaudi, 1969, vol. 2, p. 965.
28
«Si constata, come diremo, una crescente sicurezza di disegno, una riscontrabilità di trama,
al cui interno le cose primamente enunciate si rafforzano: senza perdere con questo la facoltà di
stupire chi legge in virtù di certi accostamenti peregrini» (S. Ramat, Un viaggio da isola a isola
cit., p. 6).
26
GRADI DEL MATERNO E METRICA NEL «LAMENTO D’UNA MAMMA NAPOLETANA»
133
minante dopo la raccolta Amore della vita, dunque si rileva un legame fra le
scelte metriche di tipo conservativo e la rappresentazione del periodo bellico.
L’endecasillabo è riscontrabile in sedici dei ventidue testi che formano il volume, negli altri, composti con qualche libertà metrica, l’endecasillabo funge da
cornice regolatrice ai versi brevi, mentre una particolarità si individua nell’assenza generalizzata della rima29. Se prendiamo ad esempio Una notte, gli endecasillabi sono 18 su 28 versi totali, concentrati nella prima strofa e a conclusione del componimento. Nella lirica In memoria di Eugenio Curiel, l’unica nella quale compare un nome proprio, sono tutti inseriti nella terza e ultima strofa, assenti nelle prime due, dove la centralità è assunta dalle continue iterazioni (anastrofe, epifore, germinazioni, parallelismi, refrein) usate per «suggerire la
declamazione e tendere il tono della pronuncia; ma ripetere un elemento è anche il modo più semplice per strutturare un insieme caotico»30.
Infine segnaliamo alcuni punti di tangenza fra Gatto, Ungaretti e Vittorini.
Confrontiamo la lirica In memoria di Eugenio Curiel, considerando l’affinità
tematica e strutturale, con la poesia dedica del Porto Sepolto, In Memoria, nate
in circostanze diverse ma simili per alcuni aspetti formali. Oltre ad avere il titolo analogo, nelle liriche troviamo due personaggi presentati da amici poeti,
rispettivamente Eugenio Curiel da Gatto, Moammed Sceab da Ungaretti, il
primo ucciso da militi delle brigate nere e il secondo suicida. Eugenio Curiel
viene descritto attraverso sintagmi fattitivi («Giorgio era il suo cuore»; «Giorgio
era il partito»; «Giorgio era la sua voce»); contrariamente a Moammed Sceab
(«Non era francese»; «Non sapeva più vivere»; «Non sapeva sciogliere il canto»), individuo smarrito e in crisi d’identità. In Gatto è presente il lessico relativo all’ambito articolato della fisicità («cuore», «voce», «denti», «capo»);
Ungaretti invece ricorre alla formula della negazione («non era», «non sapeva»), tuttavia viene adottata una struttura comune, basata sull’iterazione
del verbo all’imperfetto. In entrambi i componimenti l’elemento principale, oltre alla rievocazione memoriale, è la funzione simbolica che viene attribuita ai soggetti: Moammed Sceab rappresenta «la crisi della società e degli
individui»31, mentre Curiel l’esempio da seguire per sovvertire l’ostilità sociale e politica negli anni della guerra («Perché da morto ci indicava/ la grande strada della primavera»). Un’altra affinità si rileva nella strofa finale, dove
ambedue al momento della sepoltura sono accompagnati dall’amico poeta
(«A maggio lo portammo al cimitero»: In memoria di Eugenio Curiel; «L’ho
accompagnato / insieme alla padrona dell’albergo […] Riposa / nel camposanto d’Ivry»: In memoria).
29
Aurelio Benevento, «Il capo sulla neve». Le poesie senza rima di Alfonso Gatto, in «Critica
letteraria», 4, 2006, pp. 739-749.
30
Walter Siti, Figure di condensazione, in Il neorealismo nella poesia italiana (1941-1956),
Einaudi, Torino, 1980, p. 40.
31
Giuseppe Ungaretti, Il porto sepolto, a cura di Carlo Ossola, Venezia, Marsilio, 1990, p. 95.
134 MARCO PROIETTO
Anche in Preghiera notiamo una ripresa tematica dall’Ungaretti dell’Allegria.
Paragonando il brano con l’omonima poesia ungarettiana, troviamo una simbolica caratterizzata dal nesso peso/memoria («Quando il mio peso mi sarà leggero»;
«La mano / caduta nel suo peso, eterna, piena»). Il dettaglio fisico («mano»), inserito da Gatto all’interno di una dimensione atemporale, recupera l’originaria purezza prenatale («piena»), come abbiamo già visto nel Lamento d’una mamma napoletana, dove i piedi sono metaforicamente bagnati dal liquido della placenta materna («Mare che ci lava i piedi»). Mentre il desiderio espresso da Ungaretti di allontanarsi dal «barbaglio della promiscuità», e dunque dalle apparenze fenomeniche
del mondo, trova riscontro nel sintagma «Dire addio alle estreme sembianze / della luce», in cui il mutare della realtà viene scandito dalla luce/barbaglio. Notiamo
come il naufragio («Il naufragio concedimi signore») venga rielaborato da Gatto nella componente purificatrice delle acque bibliche («Ora preghiamo […] nella furia
/ della tempesta che rinnova il mondo»). L’influenza di Ungaretti (come ha dimostrato Silvio Ramat) non rimane circoscritta soltanto alla prima raccolta (Isola), o a
Morto ai Paesi (come ha indicato Marica Romolini), ma ritorna nel libro del 1947.
Quanto a Vittorini prendiamo il capitolo 40 di Conversazione in Sicilia, all’interno del quale è presente un’immagine che si ritrova, insieme all’ambito sepolcrale, nelle poesie di Gatto. Riportiamo il brano:
La casa era sull’orlo della china di tetti verso il vallone. Salii la scaletta esterna,
fui sul pianerottolo. Sapevo che mi sarebbe piaciuto non aver da entrare, non
aver da cercare cibo e letto, essere piuttosto in treno, e mi fermai. Il freddo era
intenso, e in basso c’erano lumi, in alto pure, a piccoli gruppi sparsi di quattro
o cinque; e l’aria era azzurra. Nel cielo scintillava il ghiaccio di una grande stella
abbandonata. Era notte, sulla Sicilia e la calma terra: l’offeso mondo era coperto di oscurità, gli uomini avevano lumi accanto chiusi con loro nelle stanze,
e i morti, tutti gli uccisi, si erano alzati a sedere nelle tombe, meditavano. Io
pensai, e la grande notte fu in me notte su notte. Quei lumi in basso, in alto, e
quel freddo nell’oscurità, quel ghiaccio di stella nel cielo, non erano una notte
sola, erano infinite; e io pensai alle notti di mio nonno, la notte di mio padre,
e le notti di Noè, le notti dell’uomo, ignudo nel vino e inerme, umiliato, meno
uomo d’un fanciullo o d’un morto.
Nel romanzo di Vittorini viene descritto il risveglio dei defunti («i morti, tutti
gli uccisi, si erano alzati a sedere nelle tombe»), rappresentato attraverso un’analoga figurazione nelle liriche del Capo sulla neve: Per i martiri di piazzale Loreto
(«popolo ridesto dalle tombe»); A uno straniero («dalle tombe scoperte»). Infine
in Preghiera, le tombe diventano «perdute tombe dei padri». L’elemento sepolcrale, in questa raccolta, è già stato individuato da Macrí32, tuttavia, anche se il
«Flagrante è l’uso del vocabolario foscoliano rimpastato in libera e subdola morfematica, e
foscoliano il respiro periodale con iperbati e incarnature» (O. Macrí, Alfonso Gatto tra l’idillio e la
storia, in Il Foscolo negli scrittori italiani del Novecento, Ravenna, Longo, 1980, p. 119).
32
GRADI DEL MATERNO E METRICA NEL «LAMENTO D’UNA MAMMA NAPOLETANA»
135
principale mediatore del tessuto figurativo viene considerato Foscolo, l’influenza
di Vittorini non va esclusa, data la somiglianza riguardante non solo l’immagine
del sepolcro ma l’atmosfera che lo circonda: («in basso c’erano lumi»; «l’offeso
mondo era coperto di oscurità»; «gli uomini avevano lumi chiusi nelle stanze»;
«non erano una notte sola, erano infinite»). La semantica, basata sui lessemi che
costituiscono lo sfondo cimiteriale, da cui si genera una matrice simbolica conferme a quella presente in Conversazione in Sicilia, viene sviluppata all’interno
delle liriche del Capo sulla neve. I vocaboli che la compongono sono: freddo-lume-oscurità-infinito. Soprattutto i termini con i quali Vittorini ritrae la stanza,
luogo chiuso e protetto in cui è racchiusa la speranza, hanno un riscontro puntuale in poesia («affioravano i lumi come ceri nelle stanze»: Alla voce perduta;
«gli uomini avevano lumi chiusi nelle stanze»). La presenza del lume, rilevata in
entrambi gli autori, si estende ad altri testi di Gatto, ruotando attorno al campo semantico dell’attesa e della fiducia verso il futuro (« il lume / d’una speranza»: Ascolta il passo; «i lumi dove tremola la fiamma»: A uno straniero), mentre,
per quanto riguarda la collocazione spaziale, viene precisata in Piangerà chi non
piange («il lume / di casa in casa»), segnalata anche in Conversazione in Sicilia («
e in basso c’erano lumi, in alto pure, a piccoli gruppi sparsi di quattro o cinque
[…] Quei lumi in basso, in alto»). L’oscurità e il freddo invece, che caratterizzano l’ambientazione del capitolo 40 di Conversazione in Sicilia, trovano corrispondenza nella maggior parte delle liriche del 1947, diventando quasi una costante:
«l’aria fredda dei vapori» (Natale al Caffè Florian); «quanto amore patimmo,
quanto freddo […] tutto il freddo della nostra morte» (Come un pianto); «non
guardare nel cielo altro che il freddo» (Ascolta il passo); «all’ombra del Naviglio
[…] chi vive nell’ombra» (Alla voce perduta); «dove scende l’ombra […] quanto
è buio il mondo […] alla terra è un’ombra la memoria»; «sparando / sull’ombra
della luna» (Ascolta il passo); «contro i muri l’ombra intrica» (Agli uomini del
sud); «nel nulla che gli finse l’ombra» (Preghiera); «tutta l’ombra dell’infanzia»
(Piangerà chi non piange).
Non solo, anche la prospettiva temporale indicata da Vittorini («non erano
una notte sola, erano infinite; e io pensai alle notti di mio nonno, le notte di
mio padre, e le notti di Noè, le notti dell’uomo») si articola nel Capo sulla neve,
la cui perifrasi, modulata sulla «notte», viene sintetizzata mediante il vocabolo
«eterno»: («ogni ora eterna brucia»: Per i martiri di piazzale Loreto; «lo sguardo
/ eternamente fisserà le cose»: Come un pianto; «in un eterno momento / su tutti
gli anni passati»: Una notte; «l’orma del suo sonno eterno»: Anniversario; «velati
dalla pioggia eterna»: Preghiera).
Il punto di tangenza riscontrato fra i due autori è rafforzato da un’immagine emblematica: se l’elemento principale dell’opera di Gatto viene espresso dalla neve, simbolo di lutto, troviamo nel romanzo di Vittorini un’occorrenza che
accentua l’affinità: («Giaccio su un campo di neve di sangue da trenta giorni»).
136 MARCO PROIETTO
Altrettanto rilevante sarebbe il confronto riconducibile alla descrizione del Sud,
di cui il referente coloristico «nero» è in entrambi dominante. Insomma, una
volta che la lezione del modello viene interiorizzata ritorna disseminata lungo la
raccolta, congiunta e filtrata nel nucleo tematico che l’autore intende sviluppare.
Alfonso Gatto negli anni 40.
DESSÍ: UNA RADICE ANTROPOLOGICA DELLA MATER DOLOROSA
Martina Romanelli
Tragen muss er, zuvor; nun aber nennt er sein Liebstes,
Nun, nun müssen dafür Worte, wie Blumen, entsehn.
Friedrich Hölderlin, Brod und Wein. An Heinze1
Quando Il disertore viene pubblicato per la prima volta nel 1961 dalla
Feltrinelli, quella che Giuseppe Dessí sottopone al lettore è una vicenda che,
se non soddisfa in pieno i parametri della narrativa a forte indirizzo storiografico, riesce a conciliare la ricerca «filologica»2, molto spesso difficile da imporre su inesattezze e pregiudizi che lavori anche pregevoli3 hanno canonizzato, a
un’angolazione più favolosa e aperta alle suggestioni della fantasia. Era del resto stato difficile fin dal principio riconoscere al Disertore un’impostazione narrativa di indirizzo puramente storiografico, che mal si accordava a una continua
sottrazione linguistico-descrittiva (basata su due livelli antiretorici, coesistenti
e opposti4) e che doveva confrontarsi con un argomento che a tutto si prestava
1
Friedrich Hölderlin, Brod und Wein. An Heinze, vv. 89-90, in Sämtliche Werke, Bd. IV
(Gedichte 1800-1806), besorgt durch Norbert von Hellingrath, Berlin, Propyläen-Verlag, 19232,
p. 122.
2
Anna Dolfi, Presentazione a Giuseppe Dessí, Un pezzo di luna. Note, memoria e immagini
della Sardegna [1987], a cura di Anna Dolfi, Cagliari, Edizioni Della Torre, 2006, p. 15
3
Il caso, per esempio, delle «pagine belle e veloci» di D.H. Lawrence (G. Dessí, Scoperta
della Sardegna, ivi, p. 26).
4
Da un lato l’abuso retorico della compagine politica e della propaganda, dall’altro la reticenza (ricercata da Mariangela, tangibile nella mancanza di linearità e di centralità narrativa
dell’episodio scatenante la diserzione). Da notare che anche la figura di Pietro Coi condivide
per una buona porzione di romanzo la condizione del superfluo, se non fastidioso, riempimento
retorico (Nereide Rudas, come fa notare la critica, parla di una cultura che «ha privilegiato e privilegia il logos, linguaggio del giorno che nomina, definisce, interpreta e modifica il mondo», in
Il disertore: il romanzo del silenzio, in L’isola dei coralli, Roma, Carocci, 2004, p. 268), in quanto i
suoi tentativi di consolazione o di ‘razionalizzazione’ religiosa dell’evento luttuoso altro non sono
agli occhi di Mariangela che la riproposizione della manipolazione ideologica. Cfr., per semplice
contiguità tematica, due note sui diari dessiani (27-28 marzo 1957) sulla consolazione nella
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
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138 MARTINA ROMANELLI
fuorché alla ricostruzione storico-documentaristica5. Non soltanto perché l’esperienza diretta di Dessí bambino connota con dati di parzialità epistemologica gli anni dal 1915 al 1918, ma anche per un problema gnoseologico di fondo che è quello dell’inconoscibilità del reale, per Dessí sempre frammentato e
difficilmente comprensibile come ordine armonico e coeso6. Non poteva essere
altrimenti per chi aveva nei brevi periodi di licenza del padre e nella figura della madre l’unico contatto o le uniche rappresentazioni (processi mediati in ogni
caso) della realtà e di ciò che si trovava al di fuori dell’esistenza individuale. Idee
d’ogni tipo, certo, ma prime fra tutte, nella loro essenziale basilarità, quella della
guerra (presente dai primi anni di vita e interamente caratterizzata dal principio
di sottrazione) e della famiglia, se vale il principio rousseauiano del Contratto sociale7. È chiaro dunque come ogni cosa spinga verso la sottrazione retorica, sia
per qualità intrinseca dell’oggetto – la guerra, l’unità familiare disgregata, ambedue contraddistinte dal principio di negazione – che per vera impossibilità di
acquisizione della conoscenza.
Non è tanto il problema della diserzione (oltremodo complesso sul piano collettivo e personale) a rappresentare questo punto, quanto piuttosto il personaggio di Mariangela Eca. Figura di una radicata marginalità sociale, è lei che più
di ogni altro si carica del dramma umano e ideologico al centro del romanzo.
fede (G. Dessí, Diari 1952-1962, trascrizione di Franca Linari, introduzione e note di Francesca
Nencioni, Firenze, Firenze University Press, 2011, pp. 241-242).
5
«Se dovessi scrivere un romanzo ambientato nell’Italia continentale – paese e ambiente
storico – sarei ossessionato da un manzoniano scrupolo di verità – verità storica. La Sardegna
favolosa e arcaica me ne libera. Ma è un modo a volte facile di evitare il problema senza risolverlo»
(ivi, p. 247).
6
Considerando altri testi dedicati alla Grande Guerra o da essa in un qualche modo caratterizzati (La trincea, il postumo La scelta, ma anche pagine documentario-narrative come Scoperta
della Sardegna, per fare un esempio), si ha sempre l’impressione di leggere ogni vicenda attraverso
gli occhi del bambino Dessí: l’angolazione è, sostanzialmente, quella del bambino-discente, che
si allarga molto spesso alla condizione di non-onniscienza del narratore. La certezza ontologica
sull’esistenza di un sistema basilare, ordinato invisibilmente secondo logica, corrisponde infatti
a un’illeggibilità fondamentale: si pensi al primo capitolo della terza parte della Scelta, in cui il
narratore spiega, rispetto all’Ethica di Spinoza, di aver «trovato la chiave di quel mistero» solo
attraverso il sogno («Prima mi identificai con la substantia espansa e, come tale, ero in grado di
capire tutte le cose, di penetrarne l’essenza. […] Prima di allora non avevo mai avuto cognizione
degli atomi […]. Capivo che ogni atomo era simile a un piccolo sistema solare […] tutta la materia non era fatta altro che di atomi […]. Contemporaneamente avevo la percezione dell’essenza
delle diverse specie di materia, […] differenza dovuta al numero dei protoni rotanti attorno al
nucleo», per esempio), mentre donna Margherita, pur apprezzando il traguardo raggiunto, spiega
che conoscere ‘da svegli’ è «molto più importante» (G. Dessí, La scelta [1978], a cura di Anna
Dolfi, postfazione di Claudio Varese, Nuoro, Ilisso, 2009, pp. 119 e 123).
7
«La plus ancienne des toutes les sociétés et la seule naturelle est celle de la famille» (JeanJacques Rousseau, Du contrat social [1762], livre I, chapitre II – Des premieres societés, in Œuvres
complètes de Jean-Jacques Rousseau, tome III [Du contrat social. Ecrits politiques], édition publiée
sous la direction de Bernard Gagnebin et Marcel Raymond, Paris, Gallimard, «Bibliothèque de
la Pléiade», 1964, p. 352).
DESSÍ: UNA RADICE ANTROPOLOGICA DELLA MATER DOLOROSA
139
La tribolazione (il dubbio) è di Don Pietro: a lui spetta un’incertezza coscienziale che esprime un conflitto quasi irrisolto fra dovere etico individuale e civile (temporale), mentre è in Mariangela che si trova una solidità interiore8 grazie
alla quale il valore più archetipico della verità riesce a opporsi alla situazione ideologicamente oscura del primo dopoguerra. A considerare la vicenda di Saverio
e soprattutto la reazione9 protettiva e ostile di Mariangela (tesa a salvare la memoria e la dignità del figlio da quella che è, in sostanza, un’accusa di perduellio),
è difficile ignorare una rosa di fonti che ruotano attorno all’episodio della crocifissione e che hanno nei testi jacoponici un perno di una qualche solidità. In
altre parole, diventa quasi impossibile non tener conto della figura della mater
dolorosa: una figura che, anche in riprese successive al dittico rappresentato dalla sequentia dello Stabat Mater e da Donna de Paradiso, vede confermate l’iconografia e la caratterizzazione del dolore muto e impenetrabile della Madonna
(basterebbe far riferimento al manzoniano «[…] tu Madre, che immota vedesti / un tal Figlio morir sulla croce»10). Salvo che la lauda drammatica ribalta in
ogni senso il portato tematico-figurale del testo latino e proprio in questo può
sovrapporsi all’intentio generale della scrittura di Dessí, dal momento in cui la
protezione di Saverio coincide con il bisogno di una riappropriazione linguistica (tema secondario, ma importante).
Nel Disertore l’apogeo del silenzio, che è riconosciuto dalla critica come il
vero grande tema del romanzo, coincide con il rifiuto del surplus retorico che
caratterizza l’ambiente istituzionale e culturale in cui Mariangela vive. Siano i
discorsi manierati del sindaco o le prediche («rabbuffi»11, molto spesso) di padre Coi, sempre si tratta di un abuso linguistico che ai suoi occhi cerca senza
successo di gestire il trauma della morte dei figli riconducendolo entro un sistema suo modo stabile e coeso. Statale o religioso che sia, questo sistema è per
Mariangela come un corpo estraneo: non umanizza il dolore, anzi ne è la causa.
8
Si veda Anna Dolfi (La parola e il tempo. Giuseppe Dessí e l’ontonogenesi di un «roman philosophique» [1978], Roma, Bulzoni, 2004, pp. 250-251): «La vastità del paesaggio, delle oscure
montagne dietro il paese di Cuadu, nasce da questo dolore e vive di questo; la presenza degli
alberi, della fitta radura, del monte inaccessibile si nutre della stessa desolata solitudine, dello
stesso ordine, della medesima calma. Pure anche il paesaggio è ferito, lacerato, distrutto; a Don
Pietro quelle montagne amiche, nel momento dell’intimo dubbio, nella privata inquietudine appaiono per la prima volta fratturate e incise, tagliate da frane e da solchi, quelle stesse montagne
che avevano risposto alla gioia improvvisa, totale, di Mariangela nel diverso, duplicato momento
della consapevolezza della vita. Il silenzio necessario, vitale, che le accompagna, è solo l’abnorme
dilatazione della parola, l’offerta dello spazio vuoto nel quale risuona la voce della coscienza».
Ma di Anna Dolfi, sul Disertore, si veda anche l’importante Introduzione all’edizione «Oscar», del
romanzo (Milano, Mondadori, 1976, pp. 5-27).
9
La Rudas parla di una «prepotente e autarchica completezza femminile che prevale su tutto
e che si afferma, nonostante le tragiche circostanze, “contro ragione”» (N. Rudas, L’isola dei coralli
cit., p. 263).
10
La citazione è dai vv. 89-90 della Passione (che leggiamo nell’edizione a cura di Vittorio
Spinazzola – Inni sacri. Tragedie, Milano, Garzanti, 19846, p. 12).
11
G. Dessí, Il disertore [1961], prefazione di Sandro Maxia, Nuoro, Ilisso, 2004, p. 63.
140 MARTINA ROMANELLI
Per cui, al di là della componente sociale, l’isolamento dell’anziana donna sembra assumere caratteristiche che superano una semplice frizione interna alla società civile: si traduce in una ferma ostilità che assume la saldezza granitica del
silenzio12 e porta avanti la sua battaglia contro la distorsione ideologica del dopoguerra. Morto Giovanni, inghiottito dalla guerra – lui sì, per davvero, come
«abbandonato in un fosso, scarnificato dagli uccelli e dalle formiche»13 –, il ritorno inaspettato di Saverio impone a Mariangela l’esigenza di preservare il figlio
maggiore dall’ostilità politico-civile e di farlo a prescindere dalla sua posizione
effettivamente compromessa. A questa missione (naturale, istintiva) Mariangela
si dedica con tenacia, sfidando la compagine politica e religiosa:
[…] una volta che il sindaco di Cuadu in occasione di una di queste pubbliche
celebrazioni (le prime volte lei c’era andata, non sapendo di che si trattava), stava esaltando con eloquenza il sentimento sublime che aveva spinto tante madri
a offrire alla Patria i loro figli, Mariangela, che si trovava in prima fila, come
madre di due caduti, con le due croci di guerra che le avevano appena appuntato
sullo scialle nero, aveva pronunciato a voce alta una parola che lasciò il primo
cittadino letteralmente paralizzato14.
Rispetto all’offesa pubblica, che è il culmine della ὔβρις o della falsificazione
della verità, si distacca con forza sempre maggiore la realtà ricostruita e sostenuta
da Mariangela: nel silenzio, nel segreto, nell’ordine morale che solo una madre
può garantire. Luogo di risoluzione del doppio dramma (biografico e linguistico) interno al Disertore diventa il monumento eretto nella piazza del paese, che
da attestazione memoriale dei costi della Grande Guerra e dichiarazione conclusiva dopo una lunga storia interpretativa rimane l’unico e potente polo d’attrazione in grado di ristabilire, a suo modo, il principio della correttezza storica
e umana minacciata dalla retorica del potere15. Eppure nel monumento rima12
Tralasciando il saluto rituale («Sia lodato Gesù Cristo») scambiato col prete, in effetti i
luoghi testuali in cui Dessí fa parlare Mariangela si possono contare in breve: con la centralità
assoluta del capitolo XVII, sono all’incirca sette le occorrenze in cui si possono trovare riferimenti
a un suo discorso, nella maggior parte dei casi in forma indiretta.
13
G. Dessí, Il disertore cit., p. 63.
14
Ivi, p. 47. Da notare l’effetto lasciato da espressioni quali «eloquenza», «sentimento sublime», «Patria», «[Mariangela era] in prima fila, come madre di due caduti», che trovano una
corrispondenza nella «suggestione della propaganda di quelle maestre che parlavano sempre di
Patria, di olocausto, di madri eroiche» (ivi, p. 51).
15
Un punto che tuttavia rimane, a nostro parere, irrisolto e caratterizzato da un’ambiguità
interpretativa che preclude la possibilità di vedere nel Disertore un finale effettivamente determinante: per questo la distorsione linguistico-interpretativa sarà nell’idea stessa di ‘diserzione’ (cfr.
lo stesso romanzo: «[Saverio] Era lì […] ma come se fosse morto due volte: un disertore, le disse
questa parola, che lei udiva per la prima volta in vita sua, ma il cui senso non le era nuovo, un
bandito, uno sul quale il primo carabiniere che capita può sparare a vista»; ivi, p. 83) e anche in
quello che rimane scritto sulle lastre commemorative dell’arca marmorea per cui la stessa Mariangela è riuscita a imporre la propria battaglia personale. Sulla retorica e sulla manipolazione pro-
DESSÍ: UNA RADICE ANTROPOLOGICA DELLA MATER DOLOROSA
141
ne sempre traccia dello scempio logico e linguistico che è nelle parole del sindaco durante una celebrazione pubblica dei caduti, nella nuova retorica di regime che comincia a insinuarsi sinistramente nell’esaltazione del valore militare.
Ma è evidente che la radice biblico-jacoponica non basta. Mariangela non
è solo il frutto della rielaborazione di tasselli letterari: è una figura che dà voce
e nome all’insieme delle donne sarde fin lì coperte dall’anonimato collettivo16.
Già una scorsa rapida al corpus delle opere di Dessí dà l’opportunità di notare,
oltre a una scelta stilistica costante17, che nella tavola dei personaggi esiste una
significativa differenziazione: all’assenza delle figure maschili, che molto spesso
in senso fisico o narrativo mancano all’appello18, fa da contraltare la presenza di
figure femminili inserite in contesti di forte rilievo. Di solito si tratta di personaggi che contribuiscono in diversi modi alla costruzione della trama e alla formazione (morale e intellettuale) dei protagonisti: in altre parole assumono ruoli
centrali all’interno delle dinamiche familiari e dei processi di maturazione individuale19. Questa differenziazione, che affonda le sue radici nella realtà storicopagandistica o spettacolare degli eventi esistono pensieri piuttosto indicativi affidati dall’autore
ai suoi diari: «La rettorica fa sì che si sia sempre esaltata esageratamente la Rivoluzione Francese
nelle sue manifestazioni più clamorose (Carducci) mentre ciò che vie è di più importante e di
più serio fu la preparazione intellettuale e psicologica, lo slancio vitale che sorresse due intere
generazioni. Il resto, quasi tutto il resto, fu una deviazione»; «Pranzo offerto dalla G. I. a 200
bambini poveri. Presenti le autorità. Una bambina ha offerto a Lina quattro orchidee. Peccato
che si debba dare a queste cose un carattere ufficiale» (G. Dessí, Diari 1949-1951, a cura di
Franca Linari, Firenze, Firenze University Press, 2009, pp. 144 e 146; entrambe le pagine sono
del dicembre 1950).
16
Cfr. sempre la Rudas: «La donna, che sembra impersonare la “sardità” taciturna, è figura
archetipica della femminilità isolana. È prima di tutto, madre. / Anche in questo romanzo sembra confermarsi la matricentricità della cultura tradizionale sarda nella sua trasposizione letteraria» (N. Rudas, Il disertore: il romanzo del silenzio cit., p. 255).
17
Lo stesso Dessí, in una pagina di diario (19 dicembre 1951), dà una definizione calzante
del proprio stile: «Giorgio Bassani, tempo fa, mi esortava a scrivere versi. Io ne ho scritto, fino
ad alcuni anni fa. Ora non credo di poterlo, di doverlo più fare. Penso e sento le parole con una
loro misura prosastica, e dovrei sforzar questo ritmo per usarle nella misura del verso, o comporle
nel verso. La mia lirica è nella prosa, nella sua logica, che ora si sorregge e dura, ora si rompe. La
parola che adopero è grezza e si raffina e si affina nel processo logico e illogico della prosa, non in
quello del canto» (G. Dessí, Diari 1949-1951 cit., p. 224). Non abbiamo riportato i simboli di
cui Linari si è servita nella sua trascrizione.
18
Si tratta di due assenze dal peso diverso, ma dal risultato pressoché simile: sia che la figura
del padre/marito esista (il caso di Gregorio nel Disertore) sia che la madre sia effettivamente vedova (come Sofia Curreli), il rapporto con la figura paterna per il figlio rimane piuttosto ‘obliquo’.
19
Infatti, o sono protagoniste della vicenda (Susanna nei Passeri, Mariangela Eca nel Disertore) o, anche senza dedicar loro troppo spazio, il plot le vede occupare un ruolo di rilievo proprio
in vista della ‘costruzione’ di personaggi e vicenda (l’esempio, ci sembra, di donna Maria Scarbo
e Margherita Fulgheri ne La scelta). Anche nel caso in cui provassimo a focalizzarci sul trauma
della perdita del figlio sarebbe difficile non riconoscere alla figura femminile e materna un ruolo
significativo. Se ad esempio nei Passeri il dramma della perdita riguarda in primis il padre, la figura dell’anziano conte Scarbo occupa un piano secondario della vicenda e sembra condividere col
figlio scomparso una caratterizzazione fortemente antiretorica; considerando poi che le sue vicende familiari devono riallacciarsi retrospettivamente all’Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo,
142 MARTINA ROMANELLI
antropologica della Sardegna: è il suo volto o, meglio, il suo distinguo genetico.
Che poi nella figura di Mariangela (che si inserisce a pieno titolo nella differenziazione bipolare) possano convergere linee diverse, lo confermano varie fonti, alcune d’autore altre esterne o addirittura eterogenee. Possibile, per esempio,
che una qualche suggestione possa averla avuta una scultura di Francesco Ciusa
(la Madre dell’ucciso), che non va sottovalutata almeno nella prospettiva di una
continuità iconografica. Anche se Ciusa non è citato nei diari, un contatto di
qualche tipo fra Dessí e lo scultore risale almeno a una data intermedia fra alcuni testi di Dessí e il romanzo: nel 1951 difatti esce il numero del «Ponte» interamente dedicato alla Sardegna20. Vi compare in apertura un pezzo di Emilio
Lussu21 che cita en passant la famosa scultura. Sarebbe difficile escludere del tutto una suggestione esercitata dalla scultura di Ciusa di fronte a un’aderenza così
precisa al costume e all’idea rappresentata dalla Madre e da Mariangela.
Per cercare di capire gli effetti che ha la scelta di Mariangela bisogna fare riferimento ad alcuni scritti dessiani che di per sé non rispondono a una destinazione editoriale: pagine non dichiaratamente narrative, anzi dal taglio documentario che Dessí dedica alla Sardegna, con intrecci fra suggestioni personali, ricerche storiche, letture tematiche che arrivano a far coincidere le vicende
di un popolo attratto dalla «tentazione di sfuggire al tempo storico europeo»22
con la validità esemplificativa di problematiche universali: una serie di temiguida che superano il nucleo circoscritto della trama e si fanno invece portato-
dove la presenza di Alina ricostruisce l’unità familiare scomposta dalla scomparsa di Joséphine
de la Haye proponendo un’interpretazione sui generis della figura materna. Oppure, se in Paese
d’ombre la vicenda è interamente incentrata sulla figura di Angelo Uras, è in fondo Sofia Curreli
a occuparsi da sola del figlio e a supplire alla scomparsa di Don Francesco, che per Angelo era – e
rimarrà nel tempo – una preziosa guida intellettuale.
20
Cfr. la sezione del carteggio relativo alla collaborazione di Dessí alla rivista nel volume
Dessí e la Sardegna. I carteggi con il «Ponte» e Il Polifilo, a cura di Giulio Vannucci, Firenze, Firenze University Press, 2013 (pp. 55-132); l’edizione permette di consultare in appendice (pp.
269-286) una serie di documenti interamente dedicati al numero monografico e riporta alle pp.
259-260 le copertine, con indice integrale, della pubblicazione.
21
Emilio Lussu, L’avvenire della Sardegna, «Il Ponte», VII, 9-10, pp. 957-964. Lussu istituisce un parallelo fra la Madre di Ciusa e i bronzetti preistorici – il bronzetto di Urzulei, simile a
una Pietà, ora al Museo archeologico di Cagliari (cfr. N. Rudas, L’isola dei coralli… cit., p. 197).
Le zone sono montuose e vicine alla Barbagia, le stesse in cui sembrano più radicate le tradizioni
come notano Le Lannou («si possono cogliere ancora, soprattutto nel Sud e nel centro montagnoso dell’isola, testimonianze delle condizioni etniche primitive: le donne dei villaggi della
Barbagia lavorano accovacciate nella stessa posizione delle donne berbere», in Maurice Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna [1941], tradotto e presentato da Manlio Bragaglia, Cagliari,
Edizioni Della Torre, 20064, pp. 324-325) e Rudas («Nello spazio geografico e antropologico
della Barbagia la morte è ancora attribuita all’intervento […] di un potere extra-mondano e
comunque estraneo […]. Era la madre stessa che improvvisava e cantava la nenia funebre per il
figlio morto o peggio ucciso», in Maternità e orfanità nella Madre dell’ucciso, in L’isola dei coralli
cit., pp. 205-206). L’essenzialità dell’arte protosarda si accosta benissimo alla ricerca stilistica di
Dessí e, più in generale, del Disertore.
22
G. Dessí, Scoperta della Sardegna, in Un pezzo di luna… cit., p. 28.
DESSÍ: UNA RADICE ANTROPOLOGICA DELLA MATER DOLOROSA
143
ri di insegnamenti, di moniti, di esemplarità, nonché denunce. Fra questi testi
spicca soprattutto un articolo steso una decina di anni prima dell’apparizione
del Disertore, nel 1949: pubblicato nella raccolta Donne italiane23, l’articolo Le
sarde (oggi possiamo leggerlo col titolo d’autore La donna sarda) riedito postumo poi nella raccolta Un pezzo di luna24. Si tratta di un testo non isolato, che si
sofferma su una radicata differenziazione (soprattutto qualitativa) fra la componente femminile e quella maschile: quadro ben diverso da quello delle pur apprezzate «pagine belle e veloci»25 di Lawrence «alla ricerca di un’Italia dalle divinità pagane e selvagge» che contrasta con la «Sardegna sommessa […] di una ritualità diversa, giornaliera e comune»26 delle pagine dessiane. Più a ridosso della
scrittura del romanzo si colloca infatti la prosa dedicata alla Leggenda del Sardus
Pater (195727). Diversamente da quanto sostenuto da Lawrence (riferimento diretto di Dessí), non soltanto donne e uomini non vivono in reale armonia, ma
si determina un dislivello ancestrale tra loro, tanto da far parlare del matriarcato come del fondamento identitario della Sardegna:
[…] una specie di matriarcato clandestino vige, in realtà, in Sardegna. Direi
un matriarcato clandestino, che non è tornato alle antiche forme barbariche
solo per una innata delicatezza e discrezione della donna sarda. […] la società
è formata da due parti che legano male, come una medaglia fusa in due metalli
diversi. Se noi consideriamo la vita di qualunque villaggio sardo – la vita di tutti
i giorni, in tutti i suoi aspetti – noi vediamo che esiste una differenza profonda
tra la vita degli uomini e quella della donna; tra la concezione del tempo che
ha l’uomo e quella che ha la donna. E vediamo che tutto ciò che dipende dalla
donna funziona, mentre tutto ciò che dipende dall’uomo funziona male28.
Toni simili Dessí sceglie quasi dieci anni dopo, con tanto di ricorrenze figurali, nel testo dedicato alla divinità autoctona: è così che si va componendo una
diseguaglianza non trascurabile fra la primitività scomposta dei «rozzi e irsuti
guerrieri»29 e «l’intelligenza»30 delle janas nate nientemeno che dalle api, animali fra i più illustri della tradizione poetica. Toni e immagini servono a evidenziale il dislivello fra i sessi, proprio come fa la spesso sibillina saggezza popolare31. È importante che Dessí abbia parlato di matriarcato sardo, perché si trat-
Il periodico a stampa delle Edizioni radio italiana, Torino, uscì proprio nel 1949.
G. Dessí, La donna sarda, in Un pezzo di luna… cit., pp. 46-51.
25
G. Dessí, Scoperta della Sardegna cit., p. 26.
26
A. Dolfi, Presentazione cit., p. 12.
27
Ivi, pp. 52-56. Si tenga presente che parla del Sardus Pater anche un articolo conservato
da Dessí che si trova come allegato nei Diari 1949-1951 cit., pp. 89-91.
28
G. Dessí, La donna sarda cit., p. 47.
29
G. Dessí, La leggenda del Sardus Pater cit., p. 56.
30
Ibidem.
31
Dessí aveva riportato (nel testo Proverbi e verità confluito a sua volta in Un pezzo di
23
24
144 MARTINA ROMANELLI
ta di un elemento che aiuta a completare il senso inquieto lasciato dal conflitto
tra femminile e maschile, soprattutto nel loro essere portatori di contributi ontologici e sociali diversi, se non opposti.
Proprio nel fatto che l’articolo La donna sarda pone l’assioma secondo cui
la figura femminile ha un valore assolutamente positivo, si può leggere il senso
dell’azione di Mariangela. Basterebbe elencare gli aggettivi e le qualità riconosciuti alla donna archetipica del 1949, e ritrovarli in un contesto come quello
del Disertore, per vedere come l’elemento femminile rappresenti il corrispettivo terreno di qualsivoglia entità sovrannaturale benigna. Mentre gli uomini appaiono smarriti, insicuri, alle donne viene riconosciuto d’essere depositarie di
«vere, profonde, silenziose e solide virtù»32 di cui agli uomini restano solo i riflessi. Figure femminili silenziose, dal «lungo passo matriarcale»33: segno o traccia di un’alterità dolce, capace di rendere confortevole la vita altrimenti dura,
impiegabile, faticosa. Ultimo e persistente simbolo di un riscatto possibile, balsamo all’imperfezione dell’esistenza, in grado di rivelare il volto nascosto, segreto, più vero, delle cose altrimenti grevi.
Su questo punto si possono rintracciare dei parallelismi specifici tra le fonti storiche e letterarie, perché l’«arcaicità» e la «protostoricità»34 di Mariangela e
quella delle donne sarde (al singolare nel titolo dessiano, quindi in senso assolutizzante nella sua genericità) sono identiche. Le vesti delle donne sarde sono
scure35 (Dessí parla del loro passo «sotto le vesti scure»36), proprio come quelle di Mariangela «così vecchia, piccola, magra, col grembiale e il fazzoletto nero
del suo perpetuo lutto»37; il passo apparentemente solenne, rituale («matriarcale», appunto) è subito corretto da una leggerezza, da un’agilità che potrebbe riproporsi nell’«andatura trotterellante [di Mariangela] che a Cuadu si chiama “a
luna…, nella versione del 1959) un detto che nell’apparente – esteriore – misoginia nascondeva
un timor sacro per la donna e si basava proprio sul riconoscimento della sua ostinazione inflessibile: «Tres cosas sunt reversas in su mundu: s’arveghe, s’ainu e i sa femina (Tre cose – cioè tre specie
di creature – testarde ci sono nel mondo: la pecora, l’asino e la donna). Sembrano i sette nani
nella famosa stamberga prima dell’arrivo di Biancaneve. E invece no, sono nani pieni di un sacro,
superstizioso timore di perdere Biancaneve» (p. 60).
32
Ivi, p. 48.
33
Ibidem.
34
La Rudas si serve di queste categorie per collocare il dolore espresso dalla scultura di
Francesco Ciusa Madre dell’ucciso (cfr. N. Rudas, Maternità e orfanità nella Madre dell’ucciso cit.,
p. 197).
35
Discordante su questo la ricerca, apprezzata da Dessí, di Maurice Le Lannou (Pastori e
contadini di Sardegna cit.), il quale parla di «colori squillanti» di derivazione iberica (ivi, p. 327).
Ma queste vesti scure sono le vesti del lutto, fin da subito caratterizzanti l’immagine stessa della
‘donna sarda’ («madre per definizione» come dice Rudas a p. 199 de L’isola dei coralli…, cit.,
perché custode del valore della vita).
36
G. Dessí, La donna sarda cit., p. 48.
37
G. Dessí, Il disertore cit., p. 59. La corrispondenza fra il colore delle vesti e quello del
fazzoletto segno di lutto potrebbe non essere indifferente.
DESSÍ: UNA RADICE ANTROPOLOGICA DELLA MATER DOLOROSA
145
sonaglio di cane”»38. E poi le abitazioni primitive restituite al decoro e alla civiltà; le strade in dissesto che diventano snodi per la distribuzione di dolci in sostituzione di ruvide pietre e di povere, terrose, patate. La cura e il senso del valore della vita, la tutela e la protezione dei luoghi familiari, la costruzione o la
fabbricazione di utensili utili alla crescita e alla prosecuzione della vita nella natura, nel mondo: sono qualità che Mariangela eredita non dalla facoltà immaginativa e fantastica di Dessí, ma dalla Sardegna atemporale che rappresenta assieme a tutti i suoi valori ancestrali. Esattamente come le caratteristiche opposte al rumore e alla prepotenza delle istituzioni e della politica di Cuadu: restano
solo la forza d’animo, il silenzio, la discrezione, la delicatezza, l’autenticità primordiale del suo approccio alla realtà circostante. Se gli uomini hanno dovuto
costruirsi un sistema attraverso il quale leggere il mondo e governarlo, alla donna basta soltanto seguire istintivamente la naturalezza, una semplicità innata.
Su39 alcuni dati ricorrenti ci informano anche le ricerche storiche, come quelle di Le Lannou40 che Dessí ben conosceva. Sappiamo che la capanna del pastore sardo è «una misera costruzione con tetto conico di frasche, posato spesso su
delle fondamenta di pietre a secco» e che per abitudine il contadino lascia la casa
«con un chilo di pane nella bisaccia»; sia l’articolo La donna sarda41 che i capitoli
dedicati alla cura di Saverio nel Disertore42 non sono poi così distanti dallo studio di Le Lannou, tanto che si possono isolare piccoli nuclei tematici o figurali:
a. È l’uomo che costruisce la casa,
ma le case sarde sono tra le più brutte e miserabili […]; la donna non
solo rende abitabili queste povere
case, ma dà loro un’impronta di civiltà con poche cose essenziali. L’uomo fa
strade, ma le fa male e non ne cura
la manutenzione. […] Non sarebbe
possibile trasportare […] che […]
pietre, o […] patate. Invece si trasportano dolci […] squisiti e delicati:
si trasportano grazie alle donne.
38
39
nostri.
→
a. [Pietro Coi] Sapeva perché [Mariangela] ogni autunno portava su
un mazzo di giunchi e rafia, e con
quanta cura riparava la capanna e
la rinforzava contro le intemperie
mentre il resto dell’ovile andava in
rovina.
G. Dessí, Il disertore cit., p. 81.
Per le tabelle e per i brani di testo che seguono (salvo nel caso dei titoli), i corsivi sono
Le citazioni si riferiscono allo studio di Maurice Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna
cit., rispettivamente: pp. 223 (la struttura essenziale non prevede, qui, la presenza femminile, ma
a p. 316 si ha una descrizione generale degli ambienti abitativi sardi, sempre condivisi stando alle
ricerche di Le Lannou) e 335.
41
Le citazioni fanno riferimento alle pp. 47-48 (a), 48 (b, c).
42
Le citazioni fanno riferimento alle pp. 82-83 (a), 84 (b.1.), 81-82 (b.2.), 59 (c.1.) e 66 (c.2.).
40
146 MARTINA ROMANELLI
b. Il sardo si sposta come un nomade
[…] dorme all’addiaccio, si cambia la
camicia una volta al mese. La donna
lo raggiunge come può, gli fa sentire
una presenza costante, vigile. E quando il contadino o il pastore sperduto nella solitudine trae dalla bisaccia
il tovagliolo di lino in cui è avvolto il
pane, si spande di là […] la fragranza
della casa. Pane e lino si rifanno a una
tradizione essenziale quanto antica di
civiltà, e solo la donna ne è depositaria
e custode
→
b.1. [Mariangela] Era corsa a Cuadu
[…] era tornata su con le provviste –
pane, formaggio, olio, vino, sigarette
– e la doppietta, smontata in due pezzi e avvolta, con le munizioni, in una
coperta.
b.2. [Mariangela] era stata brava, era
stata pronta a capire […]. Era stata brava, lo aveva protetto, aiutato, tenuto in
vita, per quel poco tempo che il destino gli aveva concesso. Anzi contro lo
stesso destino.
E se Mariangela ha sul capo il «suo fardello»43, le donne sarde senza tempo
«viaggiano con un cestello sulla testa»44. Finché la fermezza dell’anziana donna
non coincide in tutto e per tutto con quella dell’archetipo:
c. E non credo che sia esagerato affermare che le catalogate virtù di cui noi,
uomini sardi, ci fregiamo […] non siano altro che riflessi di vere, profonde,
silenziose e solide virtù femminili a cui
nessuno ha finora pensato di dare un
nome.
→
c.1. [Da giovane Mariangela] Benché
piccola, era forte, resistente, ostinata,
[…] [con] un’espressione di appartata
furbizia. Piccola e forte era.
c.2. [Mariangela] allora aveva i capelli
neri, era forte. Era una donna piccola e
forte, capace di portare sulla testa enormi pesi, instancabile. E anche allora
aveva addosso quell’odore di fumo,
l’odore dei poveri di Cuadu, e l’ostinazione.
Come a significare un’opposizione fra valori e/o verità sostanziali e accidentali. Anche nel caso di Mariangela non c’è una qualità che non sia positiva, cioè
che non sia attratta dai campi semantici della protezione, dell’intelligenza, della
misura, della consapevolezza innata dell’importanza della vita (di «delicatezza e
discrezione»45 aveva parlato Dessí sempre nell’articolo del 1949).
Da questo mondo, prima ancora che dal dittico jacoponico che pure un qualche spunto o un qualche parallelismo lo può suggerire, emerge Mariangela Eca,
perché è sul paradigma della Donna sarda che si basa Il disertore. È partendo da
questo mondo che si comprende la sua reazione di fronte alla (doppia) morte di
43
44
45
G. Dessí, Il disertore cit., p. 98.
G. Dessí, La donna sarda cit., p. 48.
Ivi, p. 47.
DESSÍ: UNA RADICE ANTROPOLOGICA DELLA MATER DOLOROSA
147
Saverio. All’opposto di tutto ciò che orbita attorno alla Grande Guerra (morte,
assenza, propaganda), Mariangela dà volto e nome all’incommensurabile e anonima folla delle donne sarde: la salda discrezione – la clandestinità di cui parlava Dessí, dopotutto – di chi assiste alla caduta degli uomini «senza remissione riprecipitati nella barbarie»46, di chi resta isolato dal «controllo del patire: il
pianto collettivo»47 come la donna raffigurata da Ciusa, di chi è l’unico custode della autentica verità.
Lo stesso monumento ai caduti, ossessione di Mariangela dal momento in cui
viene a sapere del progetto, è l’esempio più eclatante della forza del matriarcato
clandestino di cui parla Dessí, ossia della sua capacità di rappresentare un’alternativa alla realtà snaturata e compromessa. Il monumento è solo un espediente
che cristallizza e riesce a immobilizzare l’idea dell’accaduto, prima che un flusso
incontrollato di parole e di reinterpretazioni manometta la memoria dei caduti. Come la donna sarda, in un tempo lontano, rendeva abitabili le case costruite da mani malaccorte, così il grande mausoleo pubblico viene rielaborato (nella segretezza, con discrezione) da Mariangela perché rappresenti non «la possibilità della sublimazione liberatoria, della sacralizzazione ufficiale, ma la garanzia […] del dolore privato, minacciato […] dalla strumentalizzazione politica
e dalle inquietudini esistenziali»48. Il monumento votivo è l’oggetto del desiderio ricercato con tenacia e caparbietà, in una missione giustificata dalla volontà
di proteggere i figli (Saverio, soprattutto) al di là del diritto che la società civile – gli apparati militari, la politica – si è arrogata. Acquista importanza agli occhi di Mariangela perché vi saranno incisi i nomi dei due figli che la guerra le
ha strappato, ponendo fine alla menzogna propagandistica:
[…] le pareva che il monumento fosse proprio l’opposto di quello che erano le
parole sulla Patria e l’olocausto, che odiava. Sapeva che i nomi sarebbero stati
scritti sull’arca, non altro: il monumento era silenzio. Era la fine di tutti i discorsi, di tutte le sciocchezze che si ripetevano sui giovani morti 49.
È indicativo che a interessare Mariangela sia la scelta di elencare i nomi dei
caduti in guerra: in primis, perché direttamente funzionale alla protezione di
Saverio (la dicitura «Soldato»50 è indelebile, esclude ogni sospetto e gli riconosce
una posizione sociale regolare); poi, perché tocca uno dei temi-guida presenti
dei pre-testi dessiani. Le vicende esterne sono la causa non solo della morte fisica di Saverio e Giovanni, ma – è il caso del primogenito – di una manipolazione dell’identità, di un ulteriore ‘delitto’ di fronte al quale soltanto la madre
46
47
48
49
50
Ivi, p. 48.
N. Rudas, L’isola dei coralli… cit., p. 207.
A. Dolfi, La parola e il tempo… cit., p. 253.
G. Dessí, Il disertore cit., p. 47.
Ivi, p. 133.
148 MARTINA ROMANELLI
può figurare come custode del figlio (divenendo garante di una verità atemporale, sottratta alla manipolazione retorica). Perché dinanzi al trauma della perdita del figlio la reazione di Mariangela non è ‘progressiva’ soltanto quando nasconde Saverio nei boschi (di fatto disconoscendo la legittimità dell’ordine sociale costituito), ma anche quando interviene sugli strumenti stessi che la compagine politico-civile ha per decidere della vita e della memoria del caduto/disertore. In questo Mariangela, mater dolorosa, agisce sul linguaggio, reagendo al
silenzio che connota tutto il romanzo; in questo, forse esiste un’identificazione
(o una convergenza) fra il personaggio e l’autore. È qui che si completa il senso dell’azione di Mariangela. Da un lato, La donna sarda riconosce e giustifica
l’inclusione della scrittura (in generale: l’uso del linguaggio, la codificazione e la
chiarificazione delle idee) nel contesto femminile:
Gli archeologi non hanno abbastanza apprezzato il contributo dato dalle donne
in genere alla civiltà nella creazione dei simboli che divennero poi ideogrammi,
geroglifici e, infine, lettere dell’alfabeto. […] L’uomo, solo in seguito, col suo
razionalismo, li ordinò e coordinò; e ne nacquero geroglifici e alfabeti.
Ebbene la donna sarda non mancò, nemmeno in questo, al suo compito51.
dall’altro, Il disertore dà prova di una riappropriazione linguistica, che significa riconoscere che la società patriarcale (quella in cui domina il principio di
πόλεμος: la disgregazione, l’alterazione della verità) è soltanto una stortura rispetto a un insieme originario di valori ancestrali. La familiarità, di radice arcaica, che esiste fra la donna e la scrittura garantisce che sia lei la depositaria
della correttezza intellettuale e che, di conseguenza, la rivoluzione linguistica
di Mariangela avvenga in ottemperanza alle caratteristiche antiretoriche, clandestine, del matriarcato; introducendo così forti elementi di rottura nei confronti della realtà. La forza della parola pronunciata durante un comizio, esattamente come il mistero che protegge la permanenza di Saverio nella capanna,
si rivela all’improvviso nel capitolo XVII, in cui si legge la più esplicita delle
infrazioni retoriche: quando,
[…] inginocchiata com’era, non per cieca disperazione, ma consapevolmente, a
braccia aperte, aveva gridato, gridato il suo [di Saverio] nome chiamandolo con
tutte le forze, in ragione di quel lungo e silenzioso strazio, e aveva bestemmiato
e maledetto il nome della Vergine e di Gesù.52
La forza eversiva del linguaggio («parole terribili» ma che «erano sue: se le era
portate dentro sempre, per quel momento che doveva arrivare»53) squarcia ogni
51
52
53
G. Dessí, La donna sarda cit., p. 50.
G. Dessí, Il disertore cit., p. 90.
Ibidem.
DESSÍ: UNA RADICE ANTROPOLOGICA DELLA MATER DOLOROSA
149
possibile ricostruzione o giustificazione eteronoma, se così la possiamo definire:
perché se anche «tutto era stabilito da sempre» (secondo la consequenzialità degli eventi), in fondo, «il figlio era lì, davanti a lei, innocente»54 e nient’altro poteva contare. La parola sconosciuta che interrompe il comizio cittadino e l’iscrizione sulla lastra di marmo sono i sigilli, gli estremi che suggellano la rivoluzione ideologico-linguistica di Mariangela. Sconosciuta al mondo esterno (clandestina appunto), ma nota al lettore. Per Mariangela Saverio è figlio; non soldato,
non disertore: questi ultimi sono nomi dati da altri (dalla storia, dalla realtà istituzionale), non dalla natura, e sono irriconoscibili per una madre.
Si può anche arrivare a dire che la vocazione tutelare, tipica delle figure femminili, prosegue su questo piano e sfocia nella possibile sovrapposizione della
missione morale di Mariangela su quella dell’entità-libro, quindi della scrittura. Non a caso, proprio per Il disertore Luciano Curreri ha parlato, in occasione
della giornata seminariale dedicata a Dessí nel 2003 a Firenze, di ‘rienunciazione’ della storia55. Si tratta di concetto che si sposa bene non soltanto col rifiuto
di una scrittura cronachistica o eloquente ma, ci sembra, con l’idea stessa che sta
alla base dell’intentio narrativa di Dessí. ‘Rienunciare’ la storia è un atto di volontaria lettura critica, nonché di reazione etica. Per questo, nel Disertore, procedono di pari passo una narrazione storica e una – discreta, mai esplicita – intenzionalità di giudizio, di lettura dell’evento. Se nella bibliografia critica relativa
al romanzo si trovano titoli come Silenzio sardo, Variationen über das Schweigen,
Bond of Silence, Wahrheit jenseits aller Parolen56, che riassumono il tema portante, sarebbe a dire la forte impostazione antiretorica (dicotomia silenzio-suono,
a sua volta suddivisibile nelle coppie silenzio-rumore57 e silenzio-parola58), l’intentio riposta al di là degli effetti circoscritti alla trama (preservare la memoria
Ibidem.
«[…] un desiderio legittimo del lettore è forse quello di recuperare e di rienunciare la
storia, la guerra, fuori dal plot che le interiorizza a tal punto da renderle a tratti quasi invisibili
come realtà esterne, nonostante Il disertore cerchi davvero una certa oggettività storica» (Luciano
Curreri, La storia e la guerra nel «Disertore» e in altri romanzi italiani del 1961, in Una giornata
per Giuseppe Dessí. Atti di seminario – Firenze, 11 novembre 2003, a cura di Anna Dolfi, Roma,
Bulzoni, 2005, p. 69).
56
Abbiamo preso come esempi, nell’ordine, i contributi di Teresa Buongiorno (su «Rotosei»,
12 febbraio 1962), Alice Vollenweider (su «Neue Deutsche Hefte», nel 1962, pp. 144-146),
Elizabeth A. McScherry (articolo del 14 ottobre 1962 sul «Courant») e Ingeborg Brandt («Die
Welt», 25 maggio 1963). Per una bibliografia completa rimandiamo in ogni caso a Nicola Turi,
Giuseppe Dessí. Storia e genesi dell’opera. Con una bibliografia completa degli scritti di e sull’autore,
Firenze, Firenze University Press, 2014, pp. 240-247.
57
Si pensi alla doppia valenza che possono assumere suoni/rumori quotidiani per Mariangela: da un lato c’è il fastidio per i rumori quotidiani come quelli del lavoro (cfr. la fine del capitolo
XII), dall’altro c’è invece la fuga da confronti verbali per lei insostenibili attraverso rumori che
coprono l’interlocuzione (cfr. la conclusione del capitolo V).
58
In questo caso si tratta evidentemente del contrasto fra il silenzio del ricordo e del sonno
eterno e l’intromissione della retorica ufficiale e dei tentativi (di giudizio, di conforto) di don
Pietro Coi.
54
55
150 MARTINA ROMANELLI
dei figli, soprattutto di Saverio) conduce verso il riconoscimento dell’importanza di un linguaggio ragionato, di un linguaggio che sia eticamente sostenibile e
figuri come risultato di un procedimento logico-critico59.
Poiché il mondo esterno può accogliere soltanto un ricordo adattato di
Saverio, la verità – il suo essere figlio, senza null’altro aggiungere, agli occhi della madre; il suo essere un uomo – rimane segretamente custodita e sigillata per
sempre nell’iscrizione sul monumento. La conclusione del Disertore, divisa fra
quei nomi «stravolti come nei registri del Comune»60 e la piazza restituita al silenzio («Era il silenzio, come lei lo sognava da tempo. Non parole inutili e sciocche. Solo il silenzio»61), lascia in un qualche modo aperto il problema del recupero linguistico di cui la vicenda di Saverio è il nodo centrale, ma rispetto alla
quale non poteva esserci altra soluzione.
A realizzare la spinta ‘rienunciativa’ e la ricostituzione del linguaggio – recuperando l’effetto della lauda jacoponica, se si può mantenere questo parallelo62
– contribuisce il romanzo nel suo insieme. Esattamente come il risultato ottenuto Mariangela (sostanzialmente scegliendo le epigrafi da apporre sul monumento) riafferma un valore, o un senso, umano originario sostituendosi all’insieme di disvalori proposti invece dalla realtà contingente; così il romanzo si
può considerare la realizzazione piena della lotta silenziosa di Mariangela. Nel
suo insieme, Il disertore riesce ad amplificare la vicenda che si svolge a Cuadu,
la rende in un qual modo pubblica e sembra finalmente dare forma compiuta (pienamente, strutturalmente antiretorica) all’alternativa linguistico-concettuale di cui Mariangela è custode e portatrice. Questo, riconoscendo alla scrittura la sua arcaica derivazione dai simboli proposti, in un passato quasi mitico, dalle donne, facendo proprio il dolore e l’ostinazione della mater dolorosa: la
scrittura come testimonianza, come scelta di ragione e come recupero, per evitare che il suo esempio cada nel vuoto e lasci il posto alla «barbarie di cui siamo sempre sull’orlo»63.
59
Varese parla di «un ordine e di una chiarezza nei pensieri, tanto che il suo racconto [Il disertore] molte volte si determina nel lento formarsi di quest’ordine e di questa chiarezza» (Claudio
Varese, La Sardegna lirica e reale di Giuseppe Dessí [1961], ora Giuseppe Dessí VI, in Occasioni e
valori della letteratura contemporanea, Bologna, Cappelli, 1967, p. 341).
60
G. Dessí, Il disertore cit., p. 133.
61
Ivi, p. 134.
62
Non bisogna dimenticare che la ‘parola’ di Mariangela al tempo del comizio del sindaco
(capitolo I) era stata pronunciata «a voce alta» (ivi, p. 47), intromettendosi quindi nel livello
retorico ufficiale.
63
G. Dessí, La donna sarda cit., p. 48.
Francesco Ciusa, La madre dell’ucciso (gesso – 1906-1907; tratto da Giuliana Altea,
Francesco Ciusa, Nuoro, Ilisso, 2004).
Eugenio Tavolara, Pannello per la Via Crucis della Chiesa della Solitudine a Nuoro
(anni 50 – Sassari, collezione eredi Tavolara, da Eugenio Tavolara. Il mondo magico a
cura di Giuliana Altea e Antonella Camarda, Nuoro, Ilisso 2012).
«IL BARONE RAMPANTE» E L’AMOR ‘DE LOIN’ DI UNA MADRE
Marina Paino
«E io non scenderò più!»1. L’irrevocabile e surreale determinazione del dodicenne Cosimo Piovasco di Rondò si pone, nel Barone rampante di Italo Calvino,
alla base del distacco definitivo tra il protagonista e il microcosmo familiare che
lo contorna, da subito articolatamente descritto nella scena d’apertura del fatidico pranzo in cui matura la rivolta del personaggio, con la decisione di rifiutare il poco appetibile cibo (e, fuor di metafora, il poco e malsano affetto) a lui
riservato. Il romanzo anticipa intanto sin dall’incipit l’evoluzione della vicenda, presentandola come una vera e propria dipartita senza ritorno («Fu il 15 di
giugno del 1767 che Cosimo Piovasco di Rondò, mio fratello, sedette per l’ultima volta in mezzo a noi»2), una morte al mondo, un allontanamento irreversibile come tutte le morti, anche se, nell’ottica rovesciata di Calvino, il ‘morto’
è in questo caso un vivo che sceglie di condurre per sempre la propria esistenza
in una alternativa lontananza.
Respingendo l’indigesto piatto di lumache e salendo sugli alberi, il ragazzo si
ribella all’universo dei padri, rappresentato concretamente dalle anacronistiche e
vaneggianti prescrizioni del Barone Arminio, non meno che dalla rigida austerità della madre Corradina, appellata la Generalessa, unicamente dedita alla rappresentazione di quegli scenari di guerra e di vita militare nei quali era cresciuta. Una madre dura, dalla quale il poco più che bambino Cosimo non ha difficoltà a distaccarsi, e che tuttavia, proprio attraverso l’inaspettata perdita del figlio, riscopre il suo ruolo materno, prova emozioni, soffre, restaura un rapporto affettivo autentico, cosa che invece nel romanzo non sono in grado di fare le
altre ripetitive e stralunate macchiette le quali costellano il passato domestico e
terrestre del baroncino rampante3.
Italo Calvino, Il barone rampante, ora in Romanzi e racconti, I, a cura di Mario Barenghi e
Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 2003, p. 559.
2
I. Calvino, Il barone rampante cit., p. 549 e su questo incipit cfr. Giuliana Adamo, Limina
testuali nello sperimentalismo di Calvino, in «Strumenti critici», 2003, 1, pp. 10 e ss.
3
Claudio Milanini sottolinea esplicitamente come il Barone sia «un libro privo di personaggi
descritti in modo analitico» e come Calvino abbia preferito dipingerne i profili solo per tratti e
1
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
154 MARINA PAINO
Du côté de la mère la storia di un’eversione estrema si trasforma così anche in
una storia di amore riscoperto, la perdita in un ritrovamento, offrendo le opportune sollecitazioni – proprio alla luce dell’intensità del sentimento che si annida in questo spicchio del racconto – per una più specifica attenzione alle componenti semantiche di marca materna nascoste sullo sfondo della storia del ragazzo esiliatosi sugli alberi. È da queste che bisogna prendere preliminarmente
le mosse per attribuire il giusto rilievo e riconoscere centralità al rapporto madre-figlio all’interno del Barone e ad una dinamica affettiva di allontanamento
ed avvicinamento che pervade il testo ben aldilà dello spazio narrativo in esso
occupato dal personaggio materno.
1. Una premessa: alberi, madri, giardini… e risvolti autobiografici
Gli alberi, appunto. Nella scelta di Cosimo di allontanarsi dalla vita ordinaria, la vita di tutti, per condurre una vita totalmente alternativa in una sorta di
personalissimo aldilà, significativa è intanto l’opzione per un’esistenza ‘arborea’,
ovvero per una dimensione che nell’immaginario di Calvino era strettamente legata all’universo genitoriale e alle figure di un padre agronomo e di una madre
botanica. Nel sistema metaforico calviniano, il salire sugli alberi non è pertanto solo un cambiamento di prospettiva fecondo e insieme radicale, ma si colora
a livello più profondo di specifiche sfumature che coinvolgono in modo determinante la sfera parentale, proiettando in modo singolare sul testo (inaspettatamente quanto fantasmaticamente) l’ombra del materno prima ancora che del
paterno; e gettare luce su queste ricadute autobiografiche è la necessaria premessa per addentrarsi nelle logiche più autentiche e riposte della separazione del figlio dalla madre all’interno del romanzo.
Si diceva della prevalenza del materno sul paterno: va intanto notato come,
all’interno della coppia genitoriale del Barone rampante, la figura tra le due
con la connotazione alla fine più positiva sia senz’altro quella della Generalessa
Corradina, laddove il Barone Arminio, bloccato in astrusi principi, non riesce
mai a manifestare i propri sentimenti e, dinanzi alla perdita di Cosimo, mostra
casomai contrarietà e rabbia, ma non dolore, in un isolamento emotivo esplicitamente sancito dal figlio-narratore Biagio al momento del racconto della morte del padre: «Cosimo […] nel cimitero non riuscì a entrare perché sui cipressi,
fitti come sono di fronda, non ci si può arrampicare in nessun modo. Assistette
al seppellimento di là dal muro […]. Io pensavo che da mio padre eravamo sempre stati tutti distanti come Cosimo sugli alberi»4.
mai a tutto tondo (Claudio Milanini, Genesi e struttura dei «Nostri antenati», ora in Da Porta a
Calvino. Saggi e ritratti critici, Milano, LED, 2014, p. 224).
4
I. Calvino, Il barone rampante cit., p. 674.
«IL BARONE RAMPANTE» E L’AMOR ‘DE LOIN’ DI UNA MADRE
155
Nell’economia semantica del libro, gli alberi non sembrano avere a che fare
con la sfera del paterno, ma anzi contrappongono già in vita il giovane al padre
(che quello stravagante esilio non aveva mai accettato né capito) e, pure nel momento dell’estremo saluto, sempre gli stessi alberi impediscono al figlio ‘perduto’
di riaccostarsi al genitore, si fanno emblema di una distanza assoluta, assimilabile
appunto solo alla morte, la stessa distanza che aveva permesso al Barone Arminio
di non manifestare autentica sofferenza per l’inattesa ‘dipartita’ di Cosimo: una
figura statica e asfittica, pertanto, quella del padre, estranea alle logiche di trasformazione che governano il romanzo e alle dinamiche profonde che lo attraversano a
partire dalla decisione del protagonista di intraprendere una vita altra e differente.
Nella Bildung libertaria raccontata da Calvino, tra le figure genitoriali è così
senz’altro la madre ad emergere, quale figura più sfaccettata, personaggio in divenire, depositaria del senso stesso della perdita nonché, indirettamente, nume
tutelare dell’esistenza arborea di Cosimo. In questa predominanza della genitrice rispetto alla stereotipata immagine del padre, sotto il segno del materno
e non del paterno (per le ragioni narrative su esposte) può essere infatti autobiograficamente ricondotta anche la scelta del ragazzo di salire sugli alberi e di
non abbandonare mai quello spazio alternativo e tutto suo, conosciuto a menadito, quasi in una ripetizione adeguatamente variata e rielaborata di quanto Calvino scrive a proposito dello stile di vita della propria madre nella Strada
di San Giovanni, una madre, botanica riconosciuta e affermata, che «non usciva mai dal giardino etichettato pianta per pianta»5. Il giardino è quello cui Eva
Mameli Calvino aveva dedicato buona parte della propria esistenza con caparbia e determinazione, come il figlio scrittore non manca con pochi tratti di sottolineare puntualmente: «Senza incertezze, ordinata, trasformava le passioni in
doveri e ne viveva»6. Il giardino, il volontario confino, la passione che si trasforma in dovere: anche Cosimo, dopo il rifiuto delle lumache, privo di incertezze
e con un aspetto ordinato e inappuntabile7, sale sull’albero in preda alla foga e
alla passione, e, senza forse neanche saperne il perché, le trasforma da subito in
un obbligo autoimposto8, ovvero quello di restare sugli alberi per sempre, consegnando ad essi la propria vita. La separazione dalla madre porta dunque con
sé anche forti elementi di paradossale e compensatorio riavvicinamento, secondo una logica perfettamente esemplificata da tutte le dinamiche messe in campo all’interno del romanzo nell’interazione tra il baroncino e la Generalessa.
5
I. Calvino, La strada di San Giovanni, ora in Romanzi e racconti, 3, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 2004, p. 15.
6
Ibidem.
7
«Era vestito e acconciato con grande proprietà […]: capelli incipriati col nastro al codino,
tricorno, cravatta di pizzo, marsina verde a code, calzonetti color malva, spadino e lunghe ghette
di pelle bianca a mezza coscia» (I. Calvino, Il barone rampante cit., p. 558).
8
Nella Nota 1960 a I nostri antenati, Calvino parla espressamente di un Cosimo «che realizza una sua pienezza sottomettendosi a un’ardua e riduttiva disciplina volontaria» (in Romanzi
e racconti, 2, cit., p. 1214).
156 MARINA PAINO
Cosimo-Calvino, pur immergendosi nel mondo naturale appannaggio dei
genitori, sembra pertanto voler apertamente occultare qualsiasi sospetto di recupero del paterno, lasciando spazio nel testo ad un rapporto de loin con quella figura materna originariamente estranea.
È in un giardino, un giardino di alberi e di scrittura insieme, che la «pecora
nera» Calvino riattinge il mondo genitoriale e la «piena sapienza dell’umano»
(quella fatta del sapere della natura e del sapere della letteratura insieme), mentre, attraverso una perdita-allontanamento, il suo alter ego Cosimo riscopre la
madre e la madre riscopre Cosimo.
I luoghi diventano uno scenario metaforico e in essi trova spazio l’articolazione di un legame da Calvino sempre rappresentato con pudore e voluta marginalità, come per altro espressamente ammesso nella Strada di San Giovanni
(«la sua figura [della madre] si affaccia tra queste righe, poi subito si ritrae, resta nel margine»9), perché, se nel proprio romanzo familiare un personaggio c’era, era per lo scrittore sanremese piuttosto quello del padre («mio padre come
personaggio narrativo viene meglio»)10. Ad una lettura di superficie, anche nel
Barone la figura materna sembrerebbe restare a margine, ma in questo caso si
tratta di un margine, o meglio, di un confine, speciale e perciò particolarmente
significativo, ovvero quello lungo il quale si muove una madre costretta a confrontarsi con la perdita di un figlio assente e insieme presente, il quale a propria
volta si pone per sempre al confine tra un al di là e l’al di qua; una perdita che
per il figlio che la determina è insieme aggressione e autodifesa, e che proprio
nel segno di una straniante contraddizione permette al rapporto materno-filiale di ritrovare autenticità.
2. Stabat Mater (et videbat)
Se è vero che nel Barone il personaggio della Generalessa viene toccato dall’evento più doloroso che possa colpire una madre, ovvero quello dell’improvvisa e
inattesa perdita di un figlio, è anche vero che la Baronessa Corradina non sembra
inizialmente turbata dall’accadimento più di tanto. La decisione del ragazzo ha
del resto, da principio, più i contorni del capriccio adolescenziale che non quelli di un allontanamento definitivo, e d’altronde Cosimo non scompare del tutto
agli occhi materni (come nel caso di una morte o di una partenza senza ritorno),
circostanza che rende meno drastico quel distacco, di fatto, tuttavia, irreversibile.
Prima della ribellistica separazione arborea del protagonista («decise di separare la sua sorte dalla nostra», puntualizza il fratello narratore), la lontanan-
I. Calvino, La strada di San Giovanni cit., p. 14.
I. Calvino, intervista rilasciata a Ludovica Ripa di Meana (Se una sera d’autunno uno scrittore), in «L’Europeo», 17 novembre 1980.
9
10
«IL BARONE RAMPANTE» E L’AMOR ‘DE LOIN’ DI UNA MADRE
157
za emotiva tra il ragazzo e il resto della famiglia era comunque già ampiamente descritta nel testo, all’interno della sequenza del pranzo delle lumache, nella quale, proprio la figura materna viene rappresentata con tratti di particolare distacco. A tavola, intanto, la posizione in cui siede la Generalessa è spazialmente contrapposta a quella dei figli ragazzi («Di fronte avevamo la Generalessa
Corradina di Rondò, nostra madre»)11, come in un esplicito antagonismo; la sua
incombente presenza viene espressamente annoverata tra i motivi dell’esasperazione di Cosimo («nostra madre sempre lì davanti»)12, mentre la sua durezza risulta amplificata dall’uso della sua lingua d’origine in luogo dell’italiano, a sancire, anche verbalmente, la distanza affettiva di lei13.
Quello stesso idioma dal suono ostile, apparente corrispettivo della severità paterna, ritorna tuttavia da subito a segnare la prima apprensione materna al
momento della protestataria salita sull’albero di Cosimo che, postosi sui
rami all’altezza delle finestre della sala, imponeva il suo contegno sdegnoso e
offeso alla vista di tutta la famiglia. – Vorsicht! Vorsicht! Ora casca poverino! –
esclamò piena d’ansia nostra madre, che ci avrebbe visto volentieri alla carica
sotto le cannonate, ma intanto stava in pena per ogni nostro gioco14.
L’allontanamento suscita non la rabbia ma l’«ansia» della madre, emozione
istintiva che comincia a distinguere le due figure genitoriali l’una dall’altra (e
del resto nel testo si era già letto che la stessa «passione militare» di Corradina
veniva da lei alimentata «forse per protesta contro suo marito»15), mentre, noncurante della «pena» materna, Cosimo stabilisce ab initio una forte relazione tra
la mancanza di affetto e il bisogno di essere guardato.
È intanto utile mettere in evidenza come, ancora in assenza di una compiuta definizione del proprio personaggio, la Generalessa oscilli con incertezza tra
l’assimilazione al marito e la presa di distanza da lui (elemento fondamentale e
determinante nella dolorosa gestione da parte di lei della separazione definitiva
dal figlio), tanto che, subito dopo l’allontanamento di Cosimo sugli alberi, la
I. Calvino, Il barone rampante cit., p. 549.
Ivi, p. 550.
13
A proposito dell’imposizione, da parte del Barone Arminio, dell’etichetta da seguire a
tavola, le espressioni in lingua straniera pronunciate dalla madre (unite alla sua rozzezza militare)
connotano in modo specifico il personaggio, distanziandola per certi versi anche dal marito, pur
facendone contraddittoriamente al tempo stesso una sua poco convinta alleata, quasi in un’anticipazione della progressiva differenziazione delle due figure genitoriali del romanzo in relazione
alla perdita del figlio: «a casa nostra si viveva sempre come si fosse alle prove generali d’un invito
a Corte […]. Nostra madre la Generalessa non contava, perché usava bruschi modi militari anche
nel servirsi a tavola, – So! Noche in wenig! Gut! – e nessuno ci trovava da ridire; ma con noi teneva,
se non all’etichetta, alla disciplina, e dava man forte al Barone coi suoi ordini da piazza d’armi, Sitz’ ruhig! E pulisciti il muso!» (ivi, p. 551).
14
Ivi, p. 559.
15
Ivi, p. 552.
11
12
158 MARINA PAINO
di lui ‘perdita’ risulta inizialmente affrontata con ostentata indifferenza da entrambi i genitori, un’indifferenza per altro prontamente ricambiata dal ragazzo
sospeso sui rami, in un gioco di sguardi mancati che ribadisce eloquentemente
sin da principio la centralità che il vedere assumerà nella vicenda narrata. Una
persona che scompare viene del resto a mancare tanto alla vista quanto all’affetto dei suoi cari, ed è interessante notare come in questo rapporto madre-figlio
rappresentato da Calvino nel Barone sarà proprio le vista a farsi tramite dell’espressione di amore di Corradina per il suo ragazzo perduto.
La prima scena che descrive il baroncino sull’elce e (senza più la separazione della finestra) con la compresenza dei suoi familiari in giardino è – come si
diceva – tutta giocata all’insegna della distrazione della vista quale metafora del
distanziamento affettivo, con Cosimo che «guardava il mondo dall’albero», felice di quest’«altra prospettiva» che «era già un divertimento»:
Ecco che il Barone e la Generalessa, dopo il caffè, uscivano in giardino. Guardavano un rosaio, ostentavano di non badare a Cosimo. […] Io [Biagio] venni
sotto l’elce, […] cercando d’attirare l’attenzione di Cosimo; lui però mi serbava
rancore e restava lassù a guardar lontano. Smisi, e m’accoccolai dietro una panca
per poter continuare a osservarlo senza essere veduto16.
I genitori, ancora non ben distinti nei rispettivi comportamenti dinanzi all’allontanamento del ragazzo, non guardano dunque Cosimo, ma si concentrano
piuttosto su un rosaio, quasi ad amplificare l’autobiografico tratto genitoriale
botanico che attraversa il romanzo: il giardino sembra avere più importanza del
figlio perduto, e il negare a lui ogni sguardo di attenzione a favore dei fiori ne
diviene il chiaro emblema. Che il guardare abbia in questo caso a che fare con
l’affettività viene per altro subito dopo ribadito dalla ricerca, da parte di Biagio,
dello sguardo del fratello, come in una fanciullesca richiesta di perdono che, negato da Cosimo (sdegnosamente impegnato a propria volta «a guardar lontano»),
costringe il personaggio narratore ad «osservarlo senza essere veduto». La perdita, la vista e la manifestazione dei sentimenti si mostrano chiaramente come fili
intrecciati nella semantica del testo e sarà proprio la Generalessa a farsi espressione di questa sovrapposizione, attraverso la quale ella riuscirà progressivamente a recuperare il proprio ruolo materno.
È significativamente proprio in presenza dei primi sospetti sull’irreversibilità
della scelta del figlio che nel testo la definizione del personaggio di lei si rivela come
non più ritardabile, in una divaricazione di posizione delle due figure genitoriali
che consentirà a Corradina di rapportarsi in modo tutto suo al dramma della perdita. Anche Cosimo ritarda del resto ad avere percezione della divergenza nell’atteggiamento dei due genitori nei suoi confronti, accomunandoli apertamente:
16
Ivi, p. 560.
«IL BARONE RAMPANTE» E L’AMOR ‘DE LOIN’ DI UNA MADRE
159
– T’hanno mandato loro? – fece lui […]. – No […] – dissi in fretta. – […] La
mamma è in pensiero che tu possa cadere e vorrebbe che ti si cercasse, ma il babbo da quando non t’ha visto più sull’elce dice che sei sceso e ti sei rimpiattato in
qualche angolo a meditare sul malfatto e non c’è da aver paura. – Io non sono
mai sceso – disse mio fratello17.
Non vedendolo più, la madre vuole farlo cercare, teme disgrazie per lui, teme
per sé il senso della perdita. Ma Cosimo da quel ribellistico allontanamento non
intende più recedere e lo prende anzi ad occasione per l’infrazione suprema, quella di entrare nel giardino proibito dei Marchesi d’Ondariva, custodito dalla «gelosia» dell’ostile proprietario e «popolato, a quanto si diceva, di specie di piante mai vedute»18. Non è difficile rintracciare, in questo spazio interdetto, ricco
di rarità botaniche19, una trasposizione narrativa del prezioso giardino di Villa
Meridiana accudito da Eva Mameli Calvino: per sfuggire alle costrizioni familiari Cosimo, dunque, trasgredisce alle regole, rifugiandosi tuttavia in un mondo (genitorialmente, ma qui soprattutto maternamente) arboreo ed intrufolandosi subito dopo in un altro spazio verde (esso stesso idealmente materno anche
perché interdetto dall’ostilità di due padri) dal quale era rimasto sempre escluso. La trasgressione delle regole paterne e l’allontanamento dalla madre austera
e militaresca coincide pertanto significativamente con un moto di segno opposto, e cioè con una simbolica immersione nel mondo della madre, resa ancora
più allusiva dall’incontro che il protagonista fa, proprio in quel giardino proibito, con Viola, altro fantasma femminile (attraente e respingente ad un tempo)
intento in quell’occasione a mangiare, guarda caso, il frutto proibito per antonomasia, una mela, poi rubatale dal baroncino rampante.
E in quel giardino, in cui alla fine viene accolto e non cacciato, Cosimo riesce a
fare bella figura con Viola proprio grazie agli insegnamenti della madre Generalessa:
– Ah sì? E fin dove arriva, questo tuo territorio? – […] – Fino in Polonia e in
Sassonia, – disse Cosimo, che di geografia sapeva solo i nomi sentiti da nostra
madre quando parlava delle Guerre di Successione. […] No, io non scendo nel
tuo giardino e nemmeno nel mio. Per me è tutto territorio nemico ugualmente
[…] faremo un esercito tutto sugli alberi […]. Cosimo dal ramo si lasciò scendere giù aggrappato a una delle funi, esercizio in cui era molto bravo perché
nostra madre ci faceva fare molte prove di palestra20.
Ivi, p. 571.
Ivi, p. 562.
19
Già gli antenati del Marchese erano riusciti a «farsi mandare le più preziose rarità botaniche delle colonie, e per anni i bastimenti avevano sbarcato a Ombrosa sacchi di semi, fasci di
talee, arbusti in vaso, e perfino alberi interi, con enormi involti di pan di terra attorno alle radici;
finché in quel giardino era cresciuta – dicevano – una mescolanza di foreste delle Indie e delle
Americhe, se non addirittura della nuova Olanda» (ivi, p. 562).
20
Ivi, pp. 566-567.
17
18
160 MARINA PAINO
La stessa Generalessa, per eludere la pena, cerca del resto inizialmente di incamerare ed esorcizzare la scelta del figlio all’interno del proprio mondo militare, per rendere quell’inaspettato allontanamento in qualche modo più controllabile e meno doloroso. Il distanziamento corrisponde così, anche se ancora in
nuce, ad un avvicinamento, in una ricerca volta a colmare il varco della perdita:
Alla Generalessa venne in mente di certi soldati di vedetta sugli alberi in un
accampamento non so più se in Slavonia o in Pomerania, e di come riuscirono,
avvistando i nemici, a evitare un’imboscata. Questo ricordo, tutt’a un tratto, da
smarrita che era per apprensione materna, la riportò al clima militare suo favorito, e, come fosse riuscita finalmente a darsi ragione del comportamento di suo
figlio, divenne più tranquilla e quasi fiera21.
Nella memoria di Corradina i soldati si salvano attraverso la vista, attraverso
un guardare lontano che li mette al riparo da pericoli e sofferenze. La Generalessa
immagina Cosimo in veste di vedetta, ma in quel processo relazionale in cui tra
i due, proprio grazie alla separazione, riesce ad instaurarsi una diversa comunione, la donna trova alla fine il modo di recuperare il figlio de loin proprio tramite un amore che passa per gli occhi:
Il Barone si spazientiva […]. In nostra madre, invece, lo stato d’ansietà materna,
da sentimento fluido, che sovrasta tutto, s’era consolidato, come in lei dopo un
po’ tendeva a fare ogni sentimento, in decisioni pratiche e ricerche di strumenti
adatti, come devono risolversi appunto le preoccupazioni d’un generale. Aveva
scovato un cannocchiale da campagna, lungo, col treppiede; ci applicava l’occhio, e così passava le ore sulla terrazza della villa, regolando continuamente
le lenti per tenere a fuoco il ragazzo in mezzo al fogliame, anche quando noi
avremmo giurato che era fuori raggio22.
Quel figlio, prima ignorato e poi perduto, viene ora costantemente seguito,
trattenuto e amato grazie ad un cannocchiale che amplifica la vista materna e permette a Corradina di restare sempre in contatto con Cosimo. Dall’azione pratica
(di ascendenza guerresca) passa l’espressione del sentimento e non più l’allontanamento di esso, in un connubio di amore e ansietà che solo il guardare riesce a tenere insieme. Quella di poter vedere il figlio di continuo è non a caso una prerogativa che spetta a lei e non al marito, ormai irrimediabilmente distante dal ragazzo23, e la donna si dedica totalmente a questa attività militar-materna, chiedendo
silenzio e rispetto per il suo compito («faceva cenno […] di star zitti, che non la
Ivi, p. 574.
Ivi, p. 587.
23
«– Lo vedi ancora? – le chiedeva dal giardino nostro padre, che andava avanti e indietro
sotto gli alberi e non riusciva a scorgere mai Cosimo, se non quando l’aveva proprio sulla testa.
La Generalessa faceva cenno di sì» (ivi, p. 587).
21
22
«IL BARONE RAMPANTE» E L’AMOR ‘DE LOIN’ DI UNA MADRE
161
disturbassimo»), pronta a sorridere ogni volta che, dopo averlo perso di vista, lo
ritrovava mettendo a fuoco le lenti («da come le appariva sulle labbra un trepido
sorriso capivamo che l’aveva visto, che lui era lì davvero!»)24. Il guardare le consente
di rapportarsi realmente per la prima volta al figlio, in un monologo amoroso fatto
di uno speciale linguaggio, del quale sono segni anche le militaresche bandierine
che lei posiziona su di una mappa catastale, a seguire e ‘visualizzare’ anche su carta
i geroglifici degli spostamenti arborei del ragazzo: «ne sventolava una e poi l’altra
con movimenti decisi, ritmati, come messaggi in un linguaggio convenzionale»25.
Il suo sembra quasi un gioco, ma quel gioco è la cosa più autentica che lei abbia
mai fatto nel suo ruolo di madre; un gioco di una profonda e segreta verità che
neanche Biagio infatti comprende, geloso di quelle bandierine che la madre non
aveva mai mostrato a loro figli («sarebbe stato bello se ci avesse insegnato a giocare con lei alle bandierine»26), per una connaturata resistenza alla dimensione ‘leggera’ della vita («ma nostra madre non faceva mai nulla per gioco»27) che accomuna ancora una volta il ritratto della Generalessa a quello di Eva Mameli Calvino
(«Che la vita fosse anche spreco, questo mia madre non l’ammetteva»28).
È proprio quel gioco serio e vero che le permette tuttavia di esperire la maternità, di soffrire, «col cuore stretto in gola, e il fazzoletto appallottolato in mano»,
per quel figlio perduto, a dispetto delle apparenze e dei camuffamenti del caso:
«però si sarebbe detto che fare la generalessa la riposasse, o che vivere quest’apprensione in veste da generalessa anziché di semplice madre le impedisse d’esserne straziata, proprio perché era una donnina delicata, che per unica difesa aveva quello stile militare ereditato dai Von Kurtewitz»29.
Davanti alla prova della separazione, il personaggio mostra le proprie debolezze da «donnina delicata», e quelle fragilità materne, che passano attraverso
il cannocchiale, la mettono in diretto rapporto con Cosimo30. A differenza del
marito, la Generalessa non incontrerà mai il figlio per parlargli, per convincerlo
a scendere, proprio perché guardandolo senza sosta riesce a comprendere le ragioni della sua scelta, a rispettarle con amore, pur nella dolorosa certezza di non
poterlo più riabbracciare. Attraverso il pedinamento visivo, la ricerca di contatto col figlio si trasforma anzi in un dialogo corrisposto fatto di segnali, muta testimonianza dell’amore a distanza che tiene legati i due personaggi:
Ivi, p. 588.
Ibidem.
26
Ibidem.
27
Ibidem.
28
I. Calvino, La strada di San Giovanni cit., p. 15.
29
I. Calvino, Il barone rampante cit., p. 588.
30
Il Calvino che sotto lo pseudonimo di Tonio Cavilla firma la prefazione e le note di una
riedizione del testo dice che i personaggi sono sostanzialmente definiti dal contrasto di due qualità opposte: «Così […] la madre di Cosimo è nello stesso tempo una pacifica e dolce donna di
casa e una rigida e bellicosa “generalessa”» (Il barone rampante, prefazione e note di Tonio Cavilla,
Torino, Einaudi, «Letture per la scuola media», 1965, p. 31).
24
25
162 MARINA PAINO
Era lì che agitava una di quelle sue banderuole guardando nel cannocchiale, ed
ecco che s’illumina tutta in viso e ride. Capimmo che Cosimo le aveva risposto.
Come non so, forse sventolando il cappello, o facendo svettare un ramo. Certo
che da allora nostra madre cambiò, non ebbe più l’apprensione di prima, e se
pure il suo destino di madre fu così diverso da quello di ogni altra, con un figlio
così strano e perduto alla consueta vita degli affetti, lei questa stranezza di Cosimo finì per accettarla prima di tutti noi, come fosse paga, ora, di quei saluti
che di là in poi ogni tanto imprevedibilmente le mandava, di quei silenziosi
messaggi che si scambiavano31.
La figura «più lontana da lui» diviene «la sola che riuscisse ad accettarlo com’era», l’unica in grado di dimostrargli un amore che non attendeva egoisticamente
la ricompensa del ritorno, un amore materno fatto anche di piccoli gesti d’apprensione quotidiana, come allorché Cosimo resta ferito in un combattimento
con un gatto selvatico32, o viene nella notte sorpreso dalla pioggia33. Corradina
alterna con crescente frequenza queste per lei inedite preoccupazioni da madre
ordinaria con la consueta maschera della Generalessa, ormai, di fatto, labile camuffamento dinanzi all’emergenza degli affetti, tanto che non le vale neanche
più comandare le feste di casa come fosse una piazza d’armi per occultare il dolore della perdita, ben chiara, infatti, al figlio narratore Biagio («voleva solo sfogare il suo struggimento per l’assente»34). E idealmente Cosimo la ricompensa
per assimilazione affettiva, mettendo in piedi una piccola milizia dedita a proteggere i boschi dagli incendi, con un’iniziativa che si diffonde progressivamente nel circondario e che indulge alla passione militare di Corradina35, non meno
che alla salvaguardia di quel mondo botanico cui aveva dedicato la propria vita
Eva Mameli Calvino. Sin dal primo incontro con Viola, del resto, Cosimo si era
I. Calvino, Il barone rampante cit., p. 588.
«Corsi dalla Generalessa sul terrazzo. – Signora madre, – gridai, – è ferito! – Was? Ferito
come? – e già puntava il cannocchiale. […] – Das stimmt. Subito si diede a far preparare garza
e cerotti e balsami come dovesse rifornire l’ambulanza d’un battaglione, e diede tutto a me, che
glielo portassi, senza che nemmeno la sfiorasse la speranza che lui dovendosi far medicare, si
decidesse a ritornare a casa» (ivi, p. 600).
33
«Corsi da nostra madre: – Piove! Che farà Cosimo, signora madre? […] – Si ritirerà nei
suoi attendamenti. […] – Ma non credete che farei bene a cercarlo per dargli un ombrello? –
Come se la parola “ombrello” d’improvviso l’avesse strappata dal suo posto d’osservazione campale e ributtata in piena preoccupazione materna, la Generalessa prese a dire: – Ja, ganz gewiss! E
una bottiglia di sciroppo di mele, ben caldo, avvolta in una calza di lana! E un panno d’incerato,
da stendere sul legno, che non trasudi umidità… Ma dove sarà, ora, poverino… Speriamo tu
riesca a trovarlo…» (ivi, p. 610).
34
Ivi, p. 629.
35
Alla notizia delle imprese del figlio, la Generalessa, lusingata, risponde non a caso preoccupandosi dei suoi futuri successi militari: «– Hanno armi? – chiedeva, quando le parlavano
della guardia contro gli incendi messa insieme da Cosimo, – fanno gli esercizi? – perché lei già
pensava alla costituzione d’una milizia armata che potesse, nel caso d’una guerra, prender parte a
operazioni militari» (ivi, p. 660).
31
32
«IL BARONE RAMPANTE» E L’AMOR ‘DE LOIN’ DI UNA MADRE
163
fatto bello con la ragazzina proprio attraverso il progetto di un esercito tutto accampato sugli alberi, associando indirettamente ab initio l’amore per il femminile con la dimensione militare e insieme con quella arborea (per Calvino parimenti materna), in un connubio che restituisce pienamente la complessità sentimentale della scelta eversiva del ragazzo.
Si è detto preliminarmente come nel Barone la componente affettiva del rapporto madre-figlio sopravanzi nettamente quella insita nella relazione tra Cosimo
e il padre, a dispetto della stessa contraddittoria (perché simbolicamente sentimental-familiare) immersione del baroncino rampante proprio in quella natura
che il Calvino della Strada di San Giovanni dichiara territorio innanzitutto paterno prima ancora che materno. In quella natura amata da entrambi i genitori
dell’autore, ma presa ad esempio dal ‘letterato’ Italo per sottolineare soprattutto
la propria diversità dal padre36, Cosimo si sprofonda per l’intera vita, amando
quel mondo ‘parentale’, fatto di fronde, di un amore incondizionato e identificativo37. E però nel romanzo è solo il fantasma materno ad essere messo in luce
dall’esilio naturalistico di Cosimo; è con il personaggio della madre che, dopo
la separazione, il ragazzo recupera un contatto proprio grazie alla vita sugli alberi, lasciando fuori da ogni effettiva possibilità di recupero la rancorosa macchietta del Barone padre.
A ben guardare nelle pieghe del testo, tuttavia, Calvino riesce a far sì che lo
struggimento materno per la perdita del figlio, elaborato dalla Generalessa attraverso la vista, dopo la morte del Barone arrivi a rifrangersi indirettamente anche su una figura paterna, associandola idealmente alla sofferenza per l’assenza
dell’amato e coinvolgendola simbolicamente nella riscoperta degli affetti; il padre in questione è uno dei nobili spagnoli esiliatisi sugli alberi che Cosimo incontra nel corso del proprio girovagare tra i rami:
Sull’ultimo albero, un olmo, stava un vecchio, chiamato El Conde, senza parrucca, dimesso nel vestire. […] El Conde con un braccio spostava ogni tanto
un ramo e guardava il declivio della collina e una piana or verde or brulla che si
perdeva lontano. Sulpicio mormorò a Cosimo una storia d’un suo figlio detenuto
nelle carceri di Re Carlo e torturato. Cosimo comprese che […] là, solo quel vecchio soffriva davvero. Questo gesto di scostare il ramo come aspettandosi di veder
apparire un’altra terra, quest’inoltrare pian piano lo sguardo nella distesa ondulata come sperando di non incontrare mai l’orizzonte, di riuscire a scorgere un
paese ahi quanto lontano, era il primo segno vero dell’esilio che Cosimo vedeva38.
36
Nella Strada di San Giovanni si legge: «Cos’era la natura? Erbe, piante, luoghi verdi, animali. Ci vivevo in mezzo e volevo essere altrove. Di fronte alla natura restavo indifferente, riservato, a tratti ostile. E non sapevo che stavo anch’io cercando un rapporto, forse più fortunato di
quello di mio padre, un rapporto che sarebbe stata la letteratura a darmi, restituendo significato
a tutto» (La strada di San Giovanni cit., p. 25).
37
Cfr. I. Calvino, Il barone rampante cit., p. 619.
38
Ivi, pp. 682-683.
164 MARINA PAINO
L’amore materno espresso attraverso la vista si è proiettato anche sul paterno,
in grado, nella figura del vecchio hidalgo, di manifestare apertamente il dolore
della perdita, senza neanche il camuffamento protettivo dell’attivismo militaresco della Generalessa39; e come in uno specchio che rimanda indietro il riflesso,
la struggente passività di El Conde si riflette priva di schermi su Corradina nella
scena finale del personaggio, in cui ella, alle soglie della morte, riesce a ritrovare
il figlio perduto finalmente vicino. Spogliatasi del dinamismo da Generalessa,
Corradina infatti, ormai ammalata d’asma, «non lasciava più il letto». All’arrivo
di Biagio, dal canto suo sicuro di trovare Cosimo lì nei pressi, lei appare «più
grande di quanto non l’avessero [i figli] mai vista», come a recuperare pienamente quel ruolo che ogni madre ha soprattutto agli occhi dei suoi piccoli. E
Cosimo è effettivamente con lei, fonte di luce nella camera da letto in penombra («Nell’ombra della stanza, spiccava la finestra aperta che inquadrava Cosimo
fermo sul ramo dell’albero»40), così vicino da permetterle di interloquire con lui
(«Sempre gli parlava come fosse a un passo di distanza»; «E Cosimo dall’albero le rispondeva»), esattamente come con Biagio che è invece accanto al letto.
Dopo tanta separazione, madre e figlio, che dal giorno del pranzo delle lumache non avevano avuto nel romanzo occasioni di incontro e di dialogo, tornano a parlare come se nulla fosse stato, come se lei avesse sempre saputo che lui
ci fosse e come se lui non si fosse mai allontanato. L’anomalia diviene normale
e la distanza si trasforma in amore e quindi in vicinanza. Lui l’accudisce e asseconda ogni sua richiesta, con un arpione le porge gli spicchi d’arancia e le avvicina lo scialle, ma soprattutto le permette di guardarlo, vegliandola a propria
volta, durante le notti insonni della malattia: «Di notte la mamma non s’assopiva. Cosimo restava a vegliarla sull’albero, con una lucernetta appesa a un ramo,
perché lo vedesse anche nel buio»41.
Il guardare si impone fino all’ultimo come veicolo dell’amore materno in
grado di superare la separazione data dalla lontananza, in un sentimento ‘visivo’
che contagia anche Cosimo: pure lui resta sveglio per guardare la madre, restituendole parte di quell’affetto ricevuto nel tempo attraverso gli occhi. E grazie
alla ritrovata vicinanza di Cosimo, Corradina subisce una nuova, finale trasformazione, mettendo da parte l’austerità e severità di una vita per lasciarsi prendere dalle distrazioni lievi procuratele dal figlio («Cosimo con uno zufolo suonava
delle ariette, o imitava il canto degli uccelli, o acchiappava farfalle e poi le faceva volare nella camera, o dispiegava dei festoni di fiori di glicine»42), fino all’ul-
39
L’amore materno, espresso attraverso la vista, si proietta del resto nel romanzo anche su
Viola, trasferitasi in India al seguito di un nuovo marito, dopo la rottura con Cosimo: «si stabilì
a Calcutta. Dalla sua terrazza guardava le foreste, gli alberi più strani di quelli del giardino della
sua infanzia, e le pareva a ogni momento di vedere Cosimo farsi largo tra le foglie» (ivi, p. 733).
40
Ivi, pp. 698-699.
41
Ivi, p. 699.
42
Ibidem.
«IL BARONE RAMPANTE» E L’AMOR ‘DE LOIN’ DI UNA MADRE
165
tima – la più calviniana – attraverso la quale tra madre e figlio riesce per un attimo a crearsi, pur sempre de loin, una forma di delicato contatto:
Ci fu una giornata di sole. Cosimo con una ciotola sull’albero si mise a fare
le bolle di sapone e le soffiava dentro la finestra, verso il letto della malata. La
mamma vedeva quei colori dell’iride volare e riempire la stanza e diceva: – O
che giochi fate! – che pareva quando eravamo bambini e disapprovava sempre i
nostri divertimenti come troppo futili e infantili. Ma adesso, forse per la prima
volta, prendeva piacere a un nostro gioco. Le bolle di sapone le arrivavano fin
sul viso e lei col respiro le faceva scoppiare, e sorrideva. Una bolla giunse fino
alle sue labbra e restò intatta. Ci chinammo su di lei. Cosimo lasciò cadere la
ciotola. Era morta43.
È quasi un bacio, soffiato verso l’alito del suo respiro da quello strano figlio
lontano, riscoperto vicino. Senza passare attraverso la perdita, la madre non l’avrebbe mai ritrovato e anche quest’ultima forma di contatto tra i due sembra
essere un’estrema condivisione di leggerezza da parte di colui che aveva sfidato per tutta la vita la forza di gravità, nonché le grevi regole imposte dal vivere
in società44. La madre (non più Generalessa) muore con un bacio/bolla di sapone impresso sulle labbra, fissata ad una poetica immagine di levità che lega
la sua figura ad un amore finalmente dato e ricevuto. Il libro non è che ai due
terzi quando Corradina esce definitivamente di scena, ma il cammeo affettivo
rappresentato dalla sua vicenda di madre, tutt’altro che marginale nelle dinamiche profonde del romanzo, non cessa di riverberare il proprio riflesso fino alla
chiusa del racconto.
Assai significativamente questa stessa immagine della bolla fluttuante nell’aria ritornerà infatti nella parte conclusiva del testo, allorché Cosimo, vecchio e
stanco, vola via appeso ad un pallone aerostatico guidato da «due ufficiali con le
spalline d’oro e le aguzze feluche» che «guardavano col cannocchiale il paesaggio sottostante […], osservando l’uomo sull’albero». Quei ‘materni’ aeronauti
in uniforme, un po’ maldestri nelle loro manovre aeree, sembrano incarnare un
punto d’incontro tra il rigore militaresco e una leggerezza fuori dalle regole, in
una salvifica confusione tra il mondo della made e quello del figlio45, sottolineata dal fatto che, mentre loro guardano Cosimo (con un materno cannocchiale), Cosimo guarda a propria volta verso di loro e quella bolla sospesa che viene
Ivi, pp. 699-700.
Scrive Calvino nella lezione sulla Leggerezza: «La mia operazione è stata il più delle volte
una sottrazione di peso: ho cercato di togliere peso […] alle figure umane» (I. Calvino, Saggi, a
cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, p. 643).
45
Il mondo della madre e quello del figlio tornano idealmente ad incontrarsi nel romanzo
anche nella figura del tenente Agrippa Papillon, militare e poeta, a capo di una truppa di soldati
coperta di foglie, muschi e aghi di pino.
43
44
166 MARINA PAINO
idealmente a prenderlo per portarlo in cielo46. E come lui aveva soccorso e assistito la madre malata con l’aiuto di un arpione, al momento di lasciare il mondo è lui a trovare appiglio in un’ancora pendente dalla mongolfiera, supporto inatteso ma provvidenziale per restare fedele alla propria eversione, alla fine
eternata grazie a quella bolla sospesa e idealmente tornata indietro dalla bocca
materna, quasi nel tributo, in limine mortis et libri, di un ultimo atto d’amore.
Calvino, Il barone rampante (Torino, Einaudi, 1970 - in sovracoperta uno dei disegni
di Picasso per La guerre et la paix).
46
Come nel caso della dipartita della madre, anche qui la leggerezza esorcizza in qualche
modo la morte: «Librandosi nel cielo, il barone di Rondò riesce così nell’impresa più ardua:
alleggerire l’avversario più temibile e pesante, la morte» (Giovanni Palumbo, Le Prince Andréj e
il volo di Cosimo: chiose sul finale del «Barone rampante», in «Critica letteraria», 2004, 3, p. 481).
MITO E REALTÀ: DUE MADRI DOLOROSE RECENTI
(E UNA POSTILLA MONTALIANA)
Fabio Pusterla
1. Osservava con forza Wallace Stevens, in un discorso del 19441, che «se l’immaginazione non trae forza dalla realtà, non ha forza alcuna»; precisando tuttavia, poche pagine più avanti, che «le parole di un poeta si riferiscono a cose che
non esisterebbero senza le parole». La contraddizione è solo apparente; in effetti,
si delinea tra queste due affermazioni una dialettica complessa, che mette in dialogo costante l’immaginazione poetica e l’esperienza concreta, vale a dire il territorio della trasposizione mitica con il dato di realtà, stabilendo così una caratteristica essenziale del linguaggio poetico: nel quale le parole, con le loro radici
che le ancorano alla materia esperienziale, «sono pensieri – non solo nostri, ma
anche di uomini e donne ignari di pensare» e «più di ogni altra cosa, sono suoni».
Ho ripensato alle parole di Stevens riflettendo su alcune poesie incontrate
negli ultimi decenni che ripropongono l’antica figura della mater dolorosa, e che
appunto per questo si collocano, ciascuna a proprio modo, sulla linea di confine tra mito e realtà. La prima di queste poesie è di Philippe Jaccottet, e si legge nella raccolta Pensées sous les nuages2. Il titolo, À une jeune mère, suggerisce
immediatamente un’occasione reale, precisa: una giovane madre ha perso il suo
bambino, in circostanze che non ci è dato conoscere, e al suo dolore si rivolge il
poeta. Poesia isolata all’interno della raccolta, come se da sola potesse costituire
una sezione autonoma dell’opera, À une jeune mère risale all’estate del 1981 (lo
dichiara l’autore stesso in nota), e più precisamente ai mesi di agosto/settembre;
e si inserisce perfettamente nella profonda meditazione che si sviluppa in questo libro, nel punto cruciale immediatamente successivo ai due grandi canti di
lutto Leçons e Chants d’en bas (ispirati dalla morte del suocero, Louis Haesler,
1
Wallace Stevens, Il nobile cavaliere e il suono delle parole (discorso letto a Princeton nel
corso di un convegno su Il linguaggio della poesia e successivamente pubblicato nel 1942), in W.
Stevens, L’angelo necessario, a cura di Massimo Bacigalupo, Milano, Coliseum, 1988 (le citazioni
sono alle pp. 81 e 108).
2
La raccolta, composta tra il 1976 e il 1982, appare da Gallimard nel 1983; un decennio
più tardi, nel 1994, verrà riproposta, insieme alla suite À la lumière d’hiver, nella collana «Poésie/
Gallimard»; in italiano si legge in Philippe Jaccottet, Alla luce d’inverno. Pensieri sotto le nuvole, a
cura di Fabio Pusterla, Milano, Marcos y Marcos, 1997.
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
168 FABIO PUSTERLA
le prime e da quella della madre i secondi, avvenimenti tragici che la poesia di
Jaccottet affronta coraggiosamente, ma senza patetismi e svincolando per così
dire la «contemplazione della morte» dalla minuta cronaca degli avvenimenti,
ossia trasponendo questi ultimi su di un piano più generale e più alto). Non c’è
ragione di dubitare del fatto che anche la poesia in questione nasca da un avvenimento preciso: Jaccottet non si concede mai di scrivere gratuitamente, o di
trasformare in versi qualche elucubrazione teorica e intellettuale. E tuttavia, sfogliando le pagine dei suoi diari poetici relative a quel periodo, non si trova nessun indizio particolare, nessun accenno all’occasione scatenante. Si può invece cogliere, in quelle annotazioni, l’infittirsi della meditazione sulla vita e sulla
morte, sul dolore e sulla gioia, che caratterizza il periodo creativo, affidata all’osservazione del paesaggio trascolorante, come in questo passo del luglio 19813:
9 di sera. Nuvole venute dal nord-est, color di tempesta di neve in montagna,
fredde, grigio ferro, aggressive – simili a minacciose colonne di fumo, appena
rosate dal tramonto. Brevi passaggi di pioggia sulle foglie. Come una mano
ghiacciata, una lama fredda che falcia l’aria. Colore di stagno, d’argento, di
ferro. Si direbbe che tutto ciò esca da una bocca demoniaca, da un sepolcro.
Che soffi a partire da un luogo di morte. La pianura sotto i raggi radenti del
sole è viola e verde cupo. Più vicino, alcuni tronchi di pino, come infuocati.
Pioggia spinosa.
Ma anche le letture, inevitabilmente, accompagnano e sorreggono un simile orientamento del pensiero; e se nelle annotazioni di Jaccottet sono frequenti, insieme ai moltissimi riferimenti a questo o a quel poeta francese o straniero, i richiami biblici e le riflessioni sugli antichi testi sacri delle varie religioni, i
mesi estivi del 1981 sono occupati soprattutto, stando ai carnets, dalla rilettura
di Virgina Woolf e dalla scoperta (che si direbbe piuttosto stupefacente, a giudicare dalla frequenza delle citazioni annotate) del filosofo e mistico persiano
Sohravardî, una cui citazione, riportata nei carnets sempre durante il mese di luglio, potrebbe consuonare perfettamente con l’atmosfera della poesia À une jeune
mère: «Abito presso coloro il cui cuore è spezzato»4. Neppure la fitta annotazione di José-Flore Tappy, curatrice del recente volume della Pléiade, ci offre dati
più concreti circa l’origine del testo (salvo osservare giustamente che la poesia/
sezione, come le due successive, rappresentano «trois parties relativement brèves
dédiées à une figure précise: une jeune mère, le poète Pierre-Alain Jourdain, le
compositeur Henry Purcell»5 ); sicché l’eventuale identità della «giovane madre»,
Ph. Jaccottet, La seconde semaison. Carnets 1980-1994, Paris, Gallimard, 1996, p. 37; ora,
con il titolo Carnéts 1980-1994, anche in Ph. Jaccottet, Œuvres, préface de Fabio Pusterla, édition établie per Jose-Flore Tappy, avec Hervé Ferrage, Doris Jakubec et Jean-Marc Sourdillon,
Paris, Gallimard, «Bibliothèque de la Pléiade», 2014 (la traduzione del passo è di chi scrive).
4
Ivi, p. 36.
5
Ph. Jaccottet, Œuvres cit., p. 1488.
3
MITO E REALTÀ: DUE MADRI DOLOROSE RECENTI (E UNA POSTILLA MONTALIANA)
169
o perlomeno qualche traccia del suo passaggio nel mondo, sono verosimilmente destinati a rimanere sconosciuti.
Eppure, sia il titolo, sia l’attacco del primo verso, con quel tu così prossimo,
così familiare che sembra avvicinare emotivamente la figura della madre a quella
del poeta che a lei si rivolge ascoltandone il pianto (con un’ombra di memoria
petrarchesca, si potrebbe pensare…), inducono il lettore a immaginare davanti
a sé una concreta figura femminile, una vera giovane donna attraversata dal più
lacerante dolore; tanto che forse si potrebbero utilizzare qui le splendide parole indirizzate da Jaccottet a uno dei più celebri incipit montaliani («Fu dove il
ponte di legno / mette a Porto Corsini sul mare altro / e rari uomini quasi immoti affondano / o salpano le reti»):
Chi fu Dora Markus? Non ho bisogno di saperlo. Mi sembra che, senza neppure aver avuto bisogno di leggere il seguito della poesia – per quanto un simile
comportamento pecchi di leggerezza –, già il suo titolo faccia apparire dietro
le prime parole, come dal fondo di un sogno indistinto, una figura straniera,
forse d’esiliata, inafferrabile o ancora soltanto inafferrata, che ne fa risuonare
più profondamente gli echi. / Una scena trascorsa, non si sa esattamente quale,
ma legata ad un luogo preciso – che non conosco, che di nuovo non ho bisogno
di conoscere –, in Italia, sulla riva di un lago o di un mare; ed è come se…come
se che cosa? / Come se il qualcosa che laggiù è accaduto, in quel luogo in cui
non andrò mai, legato a quella sconosciuta senza dubbio morta da tanto tempo,
fosse più denso di ciascun momento di ogni vita, denso e aperto, infinitamente
reale eppure permeabile all’irreale, come lo sguardo che vaga sulla superficie
delle acque, ancora scorgendo quel ponte di legno, quel porto, quei pescatori,
ammantato dall’ombra straniera, verso «l’altra riva», finisce per perdersi felicemente nell’illimitato6.
Come non cogliere qui, perfettamente esemplificata, la dialettica di Stevens?
Nella nostra poesia, in effetti, il verosimile dato di realtà iniziale, sottolineato
dal titolo e dal «tu» del primo verso, si trasforma immediatamente dopo, perdendosi «felicemente nell’illimitato», grazie all’appellativo che occupa la seconda parte del verso: «figlia di Sion». Inutile ricordare la vasta gamma di significati che storicamente ha assunto l’espressione; e impossibile stabilire se ci sia stata una ragione contingente, un frammento dell’identità a noi sconosciuta della «giovane madre», a motivare lo spostamento simbolico; o se invece sia bastata la sua realissima disperazione a consentire la metamorfosi immaginifica che
le sovrappone l’immagine di Maria, mitica mater dolorosa e archetipo di ogni
«figlia di Sion». Fatto sta che nel primo verso si gioca l’intera partita di questa
poesia: il passaggio dalla realtà alla dimensione mitica permetterà nei successivi
6
Ph. Jaccottet, E, tuttavia seguito da Note dal botro, trad. di Fabio Pusterla, Milano, Marcos
y Marcos, 2006, pp. 177-179.
170 FABIO PUSTERLA
di introdurre elementi che appartengono all’uno o all’altro piano, con la «culla
in cui specchiavi il tuo sorriso», la «dura estate» e le «lacrime» a testimoniare la
concretezza della situazione; e «il grido che lacera il cielo», l’accenno al «qualcuno» che «potrebbe venire, legarti in fascio le lacrime», con la sua «macina» celeste, e infine il simbolico «pane» dell’alba che chiude il componimento a salire
verso una dimensione altra, metafisica e, appunto, mitica.
2. Ecco dunque un esempio di come l’elemento di realtà che dà origine al
processo creativo sappia e debba aprirsi ad un più vasto orizzonte, proprio per
non rimanere imprigionato in se stesso; si tratta di una direzione del pensiero
immaginativo assai attestata in poesia; e basterebbe forse pensare in questo senso
a molti dei canti leopardiani. Ma può darsi anche il cammino in direzione opposta; cioè il tentativo di partire dall’immagine mitica, per farla scendere verso
il dato di realtà, dandole così, o meglio ridandole, reinventandola, quella forza
espressiva che il tempo e la tradizione parevano aver consumato o affievolito. È
questa forza drammatica, umanissima, che si sprigiona dalla lauda jacoponica;
e che riappare nei secoli in molte raffigurazione che variamente discendono da
quell’antica Donna de Paradiso. Una di esse è originaria del sud della Francia, ad
opera di un poeta assai più giovane di Philippe Jaccottet: Yves Bichet, un autore
nato del 1951, e che nel decennio 1985-1995 ha dato alle stampe tre notevoli
libri di poesia, prima di passare alla scrittura narrativa che attualmente continua
a praticare. La raccolta che qui interessa si intitola Le rêve de Marie (Cognac, Le
temps qu’il fait, 1995), anche se qualche accenno alla figura di Maria era già presente nel volumetto d’esordio di Bichet, La maison du Crabe, di dieci anni precedente. Ma è soprattutto nel poemetto Le rêve de Marie7 che il processo di umanizzazione della figura mitica trova il suo compimento: non solo perché Maria
è sola sulla scena, in preda al suo dolore e momentaneamente abbandonata da
tutti, persino da quel Figlio tutto preso ora dal suo compito divino, dal dialogo
con il ladrone e dall’invocazione al padre, che esaltano da lontano la solitudine
della Madre dimenticata; ma anche perché la meditazione di Maria è tutta volta al proprio ruolo e persino al proprio corpo, strumento dell’incarnazione, sì,
ma trasformato ora in sacco vuoto, «ventre inutile» che riconduce Maria al suo
destino terreno, in cui «io mi dissecco come tutte le donne». Se nell’archetipo
di Jacopone Maria conserva, persino nel suo straziato lamento, un tratto altissimo, eroico e cosciente della sua duplice funzione, umana e divina, tratto sorretto dal dialogo esplicito con il Figlio morente, nel poemetto di Bichet Maria
allontana da sé ogni elemento divino, e guarda con lucidità la propria sconfitta, trasformandosi definitivamente in figura di donna schiacciata dal peso della
Storia e per finire usata per scopi che non la riguardano. Forse il Figlio e il suo
7
Che si può leggere nell’antologia Nel pieno giorno dell’oscurità. Antologia della poesia francese
contemporanea, a cura di Fabio Pusterla, Milano, Marcos y Marcos, 1999.
MITO E REALTÀ: DUE MADRI DOLOROSE RECENTI (E UNA POSTILLA MONTALIANA)
171
significato simbolico avranno il destino che era stato previsto sin dall’inizio; forse il sacrificio produrrà quel che sappiamo, e «il seme raccolto del suppliziato /
[…] scorrerà più tardi, molto più tardi, verso nuove viscere»; ma questo avverrà «sempre // a mie spese». Non per nulla l’inizio e la fine del poemetto allontanano persino il Figlio, quasi assente in quel pronome iniziale («Lo guardo») e
tramutato, nel penultimo movimento, in corpo morto e assente, cui non è più
possibile rivolgersi. In tutto il resto del componimento riappare invece il «tu»,
come se Maria stesse davvero parlando a suo figlio; ma è un tu interiore, che
evoca un’immagine mentale, ricostruita dalla memoria, dall’affetto e dall’amarezza; il Figlio, quello vero, è già altrove, prima occupato nel suo dovere ultimo,
e poi definitivamente allontanato dalla morte e dalla sua metamorfosi ulteriore
in immagine per tutti divina, e per la Madre di «eterno primo nato». Il «tu» che
Maria richiama a sé è invece quello di un figlio vero, di un corpo umano baciato
nell’infanzia e seguito nella sua crescita fino all’orrenda ultima ingiuria. Così la
Maria di Bichet abbandona il suo territorio mitico, e scende nella dolorosa materia del mondo, «come sua madre, assai prima… / Come tutte le madri prima
di loro, pensose, / afflitte dallo spettacolo dell’usura / del sacco vuoto»; ma così
facendo riaccende nella propria figura l’elemento drammatico, la verità espressiva ammutolita nelle infinite raffigurazioni di maniera, più o meno catechistiche, più o meno di superficie.
3. Quasi alla fine della prima sezione delle Occasioni, una poesia di Montale
introduce, in maniera piuttosto enigmatica, la figura antichissima della Madri.
Si tratta di Nel parco di Caserta, che, dopo aver raffigurato in due rapide strofette il paesaggio trascolorante del parco regale casertano, con un cigno che si
contorce «sul pelo dello stagno», accendendo riflessi di luce tra il fogliame e trasformando i rami nodosi dell’araucaria in «braccia di pietra», si conclude con
un distico misterioso: «Le nocche delle Madri s’inaspriscono, / cercano il vuoto». Sulla scia di un’indicazione dello stesso autore, i commentatori chiamano
di solito in causa Goethe; anzi, già nel saggio del 1938, che addirittura anticipava l’uscita della raccolta, Contini poteva osservare, a proposito di questo distico, che l’urgenza teorica che animava Montale in questa fase poteva talvolta
indurlo, come appunto nel caso delle Madri, a convocare «formule troppo gravi, […] quali solo di rado romperanno la scorza della sua abituale discrezione»8.
L’annotazione continiana è ripresa da Dante Isella, che propone di aggiungere
al motivo goethiano sia la variegata statuaria che popola il Parco della Reggia,
sia la visita «in quegli anni, dell’annessa manifattura di sete grezze e lavorate di
San Leucio, con i suoi filatoi, le spolette, i telai, ecc.»9. Non c’è ragione di du-
8
Cfr. Gianfranco Contini, Dagli «Ossi» alle «Occasioni», in «Letteratura», 8, ottobre 1938
(successivamente in Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Torino, Einaudi, 1974, p. 28).
9
Cfr. Eugenio Montale, Le Occasioni, a cura di Dante Isella, Torino, Einaudi, 1996, pp. 66 ss.
172 FABIO PUSTERLA
bitare né dell’allusione a Goethe né delle associazioni suggerite da Isella; ma si
può forse aggiungere un elemento non marginale, forse in grado di motivare
meglio, più concretamente, l’accensione immaginativa di Montale, e di attenuare il giudizio di Contini.
Nel 1845, durante certi lavori di scavo nella frazione di Curti, tra Caserta e
Santa Maria Capua Vetere, viene casualmente riportato alla luce un antico santuario di epoca romana, attivo tra il IV e il I secolo avanti Cristo, che prenderà il nome di Santuario delle Madri di Capua. Nei pressi del muro di cinta, infatti, riemergono dall’oblio più di cento statue in tufo, tutte raffiguranti, in varie fogge, delle figure materne, evidentemente oggetto di culto, e spesso identificate con le Matres matutae. Nelle statue meno stilizzate, e per questo ritenute generalmente meno antiche, il volto, i seni, le braccia e le mani sono perfettamente riconoscibili; e tra le braccia delle Madri appaiono regolarmente le figure di uno o più neonati. Questa straordinaria collezione è oggi visibile nel
Museo provinciale campano di Capua, istituito a partire dal 186910; ed è verosimile pensare che Montale abbia potuto visitare questo Museo, o almeno avere notizia delle Madri capuane. In quest’ottica, le «braccia di pietra» del v. 11,
cioè i rami di «aspetto petroso» (Isella) dell’araucaria, così come la serie verbale
«scioglie» (v.10), «allaccia» (v.11), «sfila» (v. 13), con possibile riferimento alle
bende che sulle statue avvolgono i neonati, sarebbero una prima allusione alla
figura delle Madri che appare poco più avanti, e che è difficile non mettere in
collegamento con la concretezza dei reperti capuani, in tal caso motivo scatenante, e pronto poi a tingersi degli eventuali motivi simbolici di ascendenza goethiana, o eventualmente ad allearsi con la classicheggiante statuaria del parco.
Sarebbe questo un caso interessante, al di là della curiosità montaliana, per
ritornare alla dialettica iniziale: dopo il movimento che conduce dalla realtà verso la dimensione mitica, e quello che dal mito ci riporta alla realtà, avremmo qui
un oggetto di duplice natura, mitica e materica, simbolica e petrosa, che riemerge dal nulla, come un mistero che interroga; trovando subito accoglienza in un
altro mistero, quello del linguaggio poetico di Montale, in cui la sua duplice natura non viene sciolta, ma semmai potenziata e tradotta in moderna inquietudine. Poiché, se le Madri di Capua sembrano a noi oggi rappresentare antichissime divinità, simboli di trionfante, incontenibile fertilità, le Madri di Montale
assumono la tinta delle Parche, o di un’ultima metamorfosi del dolore materno,
se le loro «nòcche […] s’inaspriscono, / cercano il vuoto».
10
Devo ringraziare l’amico Giovanni Nacca, di Pignataro Maggiore, per le preziose informazioni su questo museo, che ho del resto visitato grazie a lui.
MITO E REALTÀ: DUE MADRI DOLOROSE RECENTI (E UNA POSTILLA MONTALIANA)
PHILIPPE JACCOTTET
À une jeune mère
Toi que j’entends pleurer, fille de Sion,
au bord de ce berceau où se mirait ton sourire
et qu’a tari maintenant l’été sévère,
endure! que ta plainte ne se change pas
en cris à déchirer le ciel.
Quelqu’un pourrait venir qui lierait la gerbe de tes larmes.
(Sa meule tourne depuis toujours entre les astres.)
Qui sait, alors, si tu n’auras pas repris goût
à ce pain qu’il t’apporte au lever du jour?
A una giovane madre
Tu di cui ascolto il pianto, figlia di Sion,
presso la culla in cui specchiavi il tuo sorriso
e che una dura estate ha prosciugato,
sopporta! e il tuo lamento non si muti
in grido che lacera il cielo.
Qualcuno potrebbe venire, legarti in fascio le lacrime.
(La sua macina gira da sempre in mezzo agli astri.)
Chi sa se, allora, non avrai ripreso gusto
a questo pane che ti reca al far del giorno?
(trad. di Fabio Pusterla)
173
174 FABIO PUSTERLA
YVES BICHET
Le rêve de Marie
– Je le regarde, désarmé
plus fragile que ma propre chair.
Sur la colline nimbée par les dernières lueurs de ce jour
je songe au baiser da l’autre ami, Judas
au sourire, à l’ouvrage probable
des lèvres et des mains.
Que t’ai-je donné, moi, ta mère
hormis le pagne et ce sexe de nouveau né
que je baisai à Bethléem
pour oublier mon ventre vide, immaculé
notre piège, n’est-ce pas?
notre piège à tous deux.
Il pleut. Il n’y a plus de témoins.
Les trois arbres de la colline s’inclinent vers le sol
pour que leurs habitants se taisent, épaules
et cou fléchis sur le monde.
Il pleut.
Je regarde les gouttes. Elles existent.
J’en éprouve la fraîcheur.
Il pleuvait déjà dans la grotte.
Tu semblais pressé lorsque tu vis le monde.
Et si fragile que je rêvai
un temps
de protéger ta courte vie humaine.
Mais les bêtes ne nous réchauffaient pas
trop occupées par la digestion
par les Mages
par les retours intempestifs de Joseph
MITO E REALTÀ: DUE MADRI DOLOROSE RECENTI (E UNA POSTILLA MONTALIANA)
qui tremblait
devant la porte ouverte de mon ventre.
Lui tremblait aussi
Dieu, surtout lui
ton père invisible
chair absente devant la chair neuve
mettant de l’ordre
en ce monde
faute de pouvoir m’aider à souffrir,
à crier correctement.
Maintenant tu parles au larron,
tu chuchotes.
Et moi qui t’ai porté si longtemps,
du haut de ton arbre penché tu ne m’implores pas.
Tu gémis, tu appelles ton père.
Tu dissimules ce sexe d’enfant
ce ventre effondré que je laverai, petit
avec les femmes de la colline paîenne
afin de porter ta semence
vers les siècles à venir
afin de proclamer un jour à la face du monde:
– Voici le fils du Fils
L’homme second
la chair retrouvée, le sujet de la deuxième histoire
Dieu resurgi
comme reviennent parfois mes vieux désirs d’enfants
mes rêves de fillette
mes amours de mère sans lendemain.–
J’ai souvent regardé ton visage.
J’ai regardé tes yeux du matin dans la chambre,
les draps froissés.
Et j’ai pensé que l’ombre prenait déjà possession
175
176 FABIO PUSTERLA
alentour
car nous tous, ton maître Joseph
ou moi-même lorsque les disciples
réclamaient à manger et parlaient jusqu’à l’aube,
nous attendions le sommeil réparateur
nous espérions le repos, la nuit qui lave et purifie.
Mais toi, la nuit te voûte.
Elle te ridait dans ton lit
comme le vieux berger, souviens-t-en
avec ses ravines de peau autour des lèvres.
Le sommeil le vieillissait chaque soir.
On se moquait de lui.
Il sacrifiait des agneaux.
Déjà on sacrifiait des agneaux.
Déjà je baisais ton épaule d’enfant.
Te voici à nouveau.
Je t’accueillerai,
je baiserai ton grand corps de racine fendue.
Jusqu’à ce que me transperce à nouveau
que me fouille le souvenir du mal-joli
ce mal des porteuses
posé dans mes entrailles au temps que ma mère
pansait son propre ventre…
Comme sa mère bien plus tôt…
Comme toutes les mères auparavant, songeuses,
affligées devant le spectacle de l’usure
du sac vide.
Me voici.
Voici le sac de Dieu, mon petit, le ventre inutile
une consigne amère et laide
où glissera ton visage épuisé.
Il me brûlera les chairs, vois-tu.
Déjà il m’écartèle.
MITO E REALTÀ: DUE MADRI DOLOROSE RECENTI (E UNA POSTILLA MONTALIANA)
Pourquoi m’as-tu abandonnée?
Tu parles au larron. Tu implores ton père.
Et moi, ta mère
je me dessèche comme toutes les femmes.
Déjà les pèlerins accourent.
La montagne est sale.
Joseph s’occupe du bois fendu
du bois traîné.
Cet homme, mon compagnon, mon arbre de toujours
viendra s’asseoir.
Il lavera nos deux souffrances de bêtes
distraitement, l’une après l’autre
comme si l’attache primitive
ne comptait que pour nous, les femmes, et les fils.
Il baissera les yeux. Je le trouverai beau.
Tout à l’heure, pour la déposition
son ventre et ses paupières durciront comme marbre.
Puis nous partagerons nos bouches.
On dit qu’une agonie
est toujours profitable aux vivants.
Voici la mort du Fils.
L’eau du rêve,
et la semence recueillie du supplicié
qui coulera plus tard, beaucoup plus tard
vers des nouvelles entrailles
jusqu’à ce que le mal-joli revienne
dans la gîte même de Dieu
puis grandisse à nouveau
comme s’il était possible en dormant
en rêvant
de pousser encore la porte humaine
de présenter au monde l’enfant puîn‚
177
178 FABIO PUSTERLA
des larmes et de la joie terrestre
au coeur,
au paupières
moi qui n’en eus jamais.
Et toi, petit, surtout toi
mon éternel premier-né
debout
vagissant contre les brisants de ce monde
jusqu’à ce que chacun
se dispute à nouveau le droit d’organiser
le très simple
le très beau partage de ton corps d’homme sacrifié
toujours
à mes dépens.–
Il sogno di Maria
– Lo guardo, disarmato
fragile più della mia propria carne.
Sulla collina circonfusa dagli ultimi bagliori di questo giorno
penso al bacio dell’altro amico, Giuda
al sorriso, all’opera probabile
delle labbra e delle mani.
Cosa ti ho dato, io, tua madre
eccetto il panno e questo sesso di neonato
che ho baciato a Betlemme
per scordare il mio ventre vuoto, immacolato
la nostra trappola, vero?
La stessa per te e per me.
Piove. Non ci sono più testimoni.
MITO E REALTÀ: DUE MADRI DOLOROSE RECENTI (E UNA POSTILLA MONTALIANA)
I tre alberi della collina s’inclinano verso il suolo
affinché i loro abitanti si tacciano, spalle
e collo incurvati sul mondo.
Piove.
Guardo le gocce. Esistono, loro.
Ne sento la frescura.
Pioveva già nella grotta.
Tu sembravi di fretta quando hai veduto il mondo.
E così fragile che io sognavo
una volta
di proteggere la tua breve vita umana.
Ma le bestie non ci scaldavano
troppo occupate dalla digestione
dai Magi
dai ritorni intempestivi di Giuseppe
che tremava
di fronte alla porta aperta del mio ventre.
Lui anche tremava
Dio, soprattutto lui
il tuo invisibile padre
carne assente davanti a carne nuova
che metteva un po’ d’ordine
in questo mondo
non potendomi aiutare a soffrire,
a gridare correttamente.
Adesso tu parli al ladrone,
tu bisbigli.
E io che ti ho portato tanto a lungo,
dall’alto del tuo albero piegato non m’implori.
Gemi, chiami tuo padre.
Dissimuli quel tuo sesso bambino
quel ventre prostrato che io laverò, minuscolo
179
180 FABIO PUSTERLA
con le donne della collina pagana
per condurre il tuo seme
verso i secoli a venire
per proclamare un giorno in faccia al mondo:
-– Ecco il figlio del Figlio
L’uomo secondo
la carne ritrovata, il soggetto della storia seconda
Dio risorto
come ritornano talvolta i miei antichi desideri infantili
i miei sogni di bambina
i miei amori di madre senza domani.–
Spesso ho guardato il tuo viso.
Ho guardato i tuoi occhi del mattino nella camera,
le lenzuola sgualcite.
E ho pensato che l’ombra già prendeva potere
attorno
perché noi tutti, il tuo mastro Giuseppe
o io stessa quando i discepoli
chiedevano da mangiare e parlavano fino all’alba,
noi si attendeva il sonno riparatore
noi si aspettava il riposo, la notte che lava e purifica.
Ma te, la notte ti incurva.
Ti raggrinziva nel letto
come il vecchio pastore, non scordarlo
con i suoi solchi di pelle attorno alle labbra.
Il sonno lo invecchiava ogni sera.
Si rideva di lui.
Sacrificava agnelli.
Di già si sacrificavano agnelli.
Di già baciavo la tua spalla di bambino.
Eccoti di nuovo.
Ti accoglierò,
bacerò il tuo vasto corpo di radice spezzata.
Finché mi trafigga di nuovo
MITO E REALTÀ: DUE MADRI DOLOROSE RECENTI (E UNA POSTILLA MONTALIANA)
mi frughi dentro il ricordo del mal grazioso
doglia di donna incinta
posato nelle mie viscere quando mia madre
bendava il proprio ventre…
Come sua madre assai prima…
Come tutte le madri prima di loro, pensose,
afflitte dallo spettacolo dell’usura
del sacco vuoto.
Eccomi qui.
Ecco il sacco di Dio, figliolo, il ventre inutile
una consegna amara e laida
in cui scivolerà il tuo volto spossato.
Mi brucerà le carni, lo sai.
Che già mi squarta.
Perché mi hai abbandonata?
Parli al ladrone. Implori tuo padre.
E io, tua madre,
io mi dissecco come tutte le donne.
Già i pellegrini accorrono.
La montagna è sporca.
Giuseppe si occupa del legno tagliato
del legno strascinato.
Quest’uomo, il mio compagno, il mio albero di sempre
verrà a sedersi.
Laverà le nostre due sofferenze di bestie
distrattamente, una dopo l’altra
come se il primitivo legame
contasse solo per noi, le donne, e i figli.
Abbasserà i suoi occhi. Lo troverò bello.
Tra poco, per la deposizione
il suo ventre e le sue palpebre induriranno come marmo.
181
182 FABIO PUSTERLA
Poi ci divideremo le nostre bocche.
Si dice che un’agonia
sia sempre proficua ai viventi.
Ecco la morte del Figlio.
L’acqua del sogno,
e il seme raccolto del suppliziato
che scorrerà più tardi, molto più tardi
verso nuove viscere
fino a che il mal-grazioso ritorni
nella stessa dimora di Dio
poi cresca di nuovo
come se fosse possibile dormendo
sognando
spingere ancora la porta umana
presentare al mondo il bambino secondogenito
con lacrime e gioia terrestre
nel cuore,
alle palpebre,
io che non ne ebbi mai.
E tu, figliolo, soprattutto tu
mio eterno primo nato
ritto in piedi
vagendo contro i frangenti di questo mondo
finché ciascuno
si disputi di nuovo il diritto d’organizzare
la semplicissima
la bellissima spartizione del tuo corpo d’uomo sacrificato
sempre
a mie spese. –
(trad. di Fabio Pusterla)
MITO E REALTÀ: DUE MADRI DOLOROSE RECENTI (E UNA POSTILLA MONTALIANA)
EUGENIO MONTALE
Nel parco di Caserta
Dove il cigno crudele
si liscia e si contorce,
sul pelo dello stagno, tra il fogliame,
si risveglia una sfera, dieci sfere,
una torcia dal fondo, dieci torce,
– e un sole si bilancia
a stento nella prim’aria,
su domi verdicupi e globi a sghembo
d’araucaria,
che scioglie come liane
braccia di pietra, allaccia
senza tregua chi passa
e ne sfila dal punto più remoto
radici e stame.
Le nòcche delle Madri s’inaspriscono,
cercano il vuoto.
183
Roger van der Weyden, El Descendimiento (ante 1443 – Madrid, Museo Nacional del Prado).
IL «COMPIANTO» MULTIMEDIALE.
FIGURE E FORMATI DELLO STABAT MATER
NELL’EUROPA CONTEMPORANEA
Samuele Fioravanti
1. Il dono e la perdita
La metafora del dono riveste un ruolo significativo nello studio delle relazioni fra testo e immagine: di volta in volta conferma o smentisce la possibilità che
l’oggetto di una transizione passi efficacemente da un polo a un altro o, nello
specifico, dalla visione alla lettura1. Tale metafora permette di esaminare i casi
in cui, nella traduzione da un codice visivo a un codice verbale, l’immagine iniziale si esaurisce interamente nel nuovo testo (e cioè tutto quello che è stato donato da un formato viene acquisito dall’altro, senza scarti) e i casi in cui la trasfusione non è completa. Se il testo ottenuto resta indebitato con l’immagine di
partenza, l’opera potrà essere considerata multimediale.
L’analisi che qui si intende condurre riguarderà le riproposizioni dell’iconografia dello Stabat Mater in quattro opere d’arte contemporanea (performance,
film, poesia e installazione), che abbiano assimilato e aggiornato lo schema del
compianto sotto la croce, restando tuttavia in relazione manifesta con il modello figurativo di partenza. Le immagini possono infatti fornire lo stimolo e l’occasione di un testo2, così come il testo riesce talora a dare evidenza visiva all’immagine servendosi di strategie propriamente letterarie3, ciononostante la donazione dal formato visivo al verbale non è necessariamente neutra. Può costituire una verifica o persino un atto d’accusa contro i limiti di uno dei due codici,
Per un’indagine approfondita e un’estesa casistica relativa alla metafora del dono negli studi
di cultura visuale, rimando a Kelly Fuery, The Gift and Visual Culture. Doubles, Disruptions and
Exchange, Saarbrücken, VDM Verlag, 2008.
2
Si veda un’introduzione al problema in Michele Cometa, Topografie dell’èkphrasis: romanzo
e descrizione, in Laura Anna Macor e Federico Vercellone (a cura di), Teoria del romanzo, MilanoUdine, Mimesis, 2009, pp. 61-77.
3
Se ne è recentemente occupato Cardilli nel numero monografico della rivista elettronica
«Elephant & Castle» dedicato all’intermedialità: Lorenzo Cardilli, L’immagine nel verso: per uno
studio della sintassi figurale del testo poetico, in «Elephant & Castles», novembre 2016, 15, <cav.
unibg.it/elephant_castle/web/numeri_monografici/prospettive-transmediali/28>.
1
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
186 SAMUELE FIORAVANTI
nel caso in cui l’immagine debba integrare un testo carente o viceversa. Il dono
e l’interazione mèdiano diversi tipi di rapporto.
La relazione fra testo e immagine può essere concepita come un omaggio delle
qualità di un codice a favore dell’altro (ricodifica)4, ma anche come scambio reciproco (contaminazione)5 e come compenso di uno sforzo6 o di una perdita che
uno dei due formati deve integrare a vantaggio dell’altro (didascalia, illustrazione, commento)7. Se il testo deve risarcire una qualche insufficienza dell’immagine, implica altresì che la sola visione non dicesse abbastanza.
Mi concentrerò su quest’ultima congiuntura – perdita/compensazione –
considerando un campione di quattro titoli contemporanei (1990-2013): una
performance irlandese, un film britannico, una poesia italiana e un’installazione in Bosnia Erzegovina. Nelle opere selezionate, il topos del «Compianto della
madre» si esprime attraverso il concorso di strategie letterarie accanto a componenti visuali. Le diverse sfumature di integrazione verbo-visiva saranno esami-
4
«We think, for instance, that the visual arts are inherently spatial, static, corporal, and
shapely; that they bring these things as a gift to language. We suppose, on the other side, that
arguments, addresses, ideas and narratives are in some sense proper to verbal communication,
that language must bring these things as a gift to visual representation» (William John Thomas
Mitchell, Picture Theory: Essays on Verbal and Visual Representation, Chicago, University of Chicago Press, 1994, p. 160).
5
«[We could think] of the whole ekphrastic gesture as a kind of ritual exchange. One of the
most frequent sites of ekphrasis in classical poetry is the singing contest between two shepherds
who describe and exchange artifacts as tokens of mutual esteem (see, for instance, Theocritus’
Idyll, Virgil’s Eclogue V). […] The Shield of Achilles is a gift from the hero’s goddess mother, and
the ekphrasis of this shield by Homer is a gift from his muses, that is, in turn, given to the reader/
listener» (ivi, n. 25).
6
Sulla ricompensa del lettore si veda Richard Howells, Visual Culture, Cambridge, Polity
Press, 2003, p. 1: «Visual texts can be read with just the same rigour and with the same reward
as the printed word».
7
Bredekamp traccia una brevissima storia dell’insofferenza nei confronti dei limiti delle
immagine, che sono stati progressivamente corretti da nuovi dispositivi e nuove tecnologie. «Alle
immagini è stata data la parola poiché sono mute; [le immagini] sono state sostituite da corpi,
poiché costituite da materia inanimata; in loro è stato infuso il movimento, poiché si rifiutano
di muoversi; infine, sono state artificialmente animate, anche sul piano emotivo, poiché prive
di emozioni» (Horst Bredekamp, Theorie des Bildakts, Berlino, Suhrkamp Velag, 2010, trad. it.
di Simone Buttazzi, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico, Milano, Raffaele Cortina,
2015, p. 135). L’interazione verbo-visiva viene impiegata anche come strategia di compensazione
quando i singoli codici devono confrontarsi con una qualche forma di censura o soppressione.
Si veda in proposito il caso sovietico descritto in: John Bowlt e Nicoletta Misler, Verbi migratori:
le nostre parole prendono il volo, in Claudio Parmiggiani (a cura di), Alfabeto in sogno. Dal carme
figurato alla poesia concreta, Milano, Mazzotta, 2002, p. 359: «Fu soprattutto nei libri stampati o
litografati dell’avanguardia che venne raggiunta un’organica unità estetica. […] Con l’imposizione del realismo socialista dal 1934 in avanti, il ruolo e la destinazione della lettera, della parola
e della pagina cambiarono radicalmente. […] Siamo di fronte a parole e immagini in cattività,
enunciate, spedite e ricevuta secondo una traiettoria priva di deviazioni». Lo stesso Parmiggiani,
curatore del volume, è co-autore di uno Stabat Mater in cui testo e immagine interagiscono in
un’edizione a tiratura limitata: Jean-Luc Nancy, Stabat Mater, Dies Irae. Deux Contrepoints, con
sei xilografie originali di Claudio Parmiggiani, Tallone Editore, Alpignano, 2016.
IL «COMPIANTO» MULTIMEDIALE NELL’EUROPA CONTEMPORANEA
187
nate secondo una progressione graduale: dal concorso di testo e immagine, fino
alla sostituzione integrale dell’immagine con un’azione collettiva. Mi soffermerò innanzitutto sulla cooperazione fra il testo dello Stabat Mater e la proiezione video, presentando di seguito i quattro casi. Nel primo, il testo affiora appena dall’impasto audiovisivo sicché è lo schermo a sopraffare la pagina8; nel secondo caso il filmato accoglie apertamente il testo letterario secondo il processo
che Mitchell descrive come «annidamento» («un medium appare dentro un altro come suo contenuto»9). Nella poesia seguente il testo include un riferimento
televisivo, e tuttavia non riesce a renderne l’effetto a causa della resistenza che già
Nescio individuava nelle «maledette cose» che sfuggono alla rappresentazione10.
Nell’ultimo caso l’azione spodesta testo e immagine (decretando il collasso sia
della pagina scritta sia della visione), a favore di un esito schiettamente giuridico.
Lo studio delle rivisitazioni contemporanee del «Compianto della madre»
richiede quindi un’attenzione particolare ai formati multimediali, che ridiscutono la tradizione plurale (figurativa, letteraria e musicale) dello Stabat Mater.
Il campione in analisi si compone sia di recuperi espliciti (Pergolesi o una saeta quaresimale andalusa), sia di opere del tutto autonome. Ciascuno dei titoli in esame può comunque essere considerato l’interpretazione contemporanea
di uno schema dato (comprensivo, da un lato, del supplicium della Mater dolorosa e, dall’altro, delle poenas del Filius vulneratus). Il personaggio della madre,
in questa sede, non deve essere quindi inteso su un piano strettamente biologico11 ma soprattutto su un piano etico, secondo il modello del «pensiero mater8
Per un’introduzione esaustiva alle differenze tra lettura su carta e lettura su schermo, si
veda Andrew Dillon, Reading from paper versus screens: a critical review of the empirical literature,
in «Ergonomics», ottobre 1992, XXXV, 10, pp. 1297-1326. Una versione del testo integrale è
leggibile online: <ischool.utexas.edu/~adillon/Journals/Reading.htm>. Al paragrafo 7.11 di tale
versione figurano alcune interessanti conclusioni sull’insondabilità delle ragioni che motivano l’inefficacia della visione su schermo come performance di lettura: «Although reading from computer screens may be slower and occasionally less accurate than reading from paper, no one variable
is likely to be responsible for this difference. It is almost certain that neither inherent problems
with the technology nor the reader are causal factors».
9
W. J. T. Mitchell, I media visuali non esistono, in Id., Pictorial turn. Saggi di cultura visuale,
Duepunti, Palermo, p. 89.
10
Mi riferisco all’ambiguità delle esigenze che entrano in gioco nel rapporto fra oggetto e autore della rappresentazione così come sono ritratte da Nescio nel racconto Piccoli titani: «Bavnik
ha perso la sua battaglia contro le “maledette cose”. Le cose che volevano essere dipinte, ma che
quando decidevi “e va bene, così sia” ci ripensavano e non volevano più saperne» (Nescio, De
Uitvreter, Titaantjies, Dichtertje, Mene Tekel, Amsterdam, Nijgh & Van Ditmar, 1933, trad. it. di
Fulvio Ferrari, Storie di Amsterdam, Milano, Iperborea, 2015, p. 93).
11
Per un’introduzione alla complessità degli atteggiamenti biologici, sociali e intellettuali
che riguardano la maternità, basti qui richiamare un saggio che muove proprio dall’iconografia
della Mater dolorosa: Julia Kristeva, Stabat Mater, in Susan Rubin Suleiman (a cura di), The Female Body in Western Culture: Contemporary Persprectives, Cambridge (Massachussets), Harvard
University Press, 1986, pp. 99-118. Problematiche simili tornano anche nel romanzo: Éliette
Abécassis, Une hereux événement, Parigi, Albin Michel, 2005, trad. it. di Maria Laura Vanorio,
Lieto evento, Venezia, Marsilio, 2006.
188 SAMUELE FIORAVANTI
no» individuato da Sara Ruddick:12 un atteggiamento che pratica dedizione e richiede responsabilità nei confronti degli altri, a prescindere dalla consanguineità.
2. Dorothy Cross, «Stabat Mater» (2004)
L’artista irlandese Dorothy Cross (Cork, 1956) lavora a stretto contatto
con la propria terra d’origine, cercando di visualizzare i rapporti fra il paesaggio atlantico, la memoria e le credenze locali13. La sua produzione si è focalizzata soprattutto sugli scenari della costa irlandese sud-occidentale, dalla regione di Connemara14 al fiordo di Killary Harbour, nel quale riconosce una sorta di «vuoto» paesaggistico adatto all’eremitaggio15. Per la realizzazione del proprio Stabat Mater, l’artista ha invitato i musicisti della Dublin Opera Theatre
Company a eseguire la composizione sacra di Pergolesi in una cava d’ardesia dismessa a Valentia Island, al largo della Contea di Kerry. Ancora una volta l’artista ha insistito sull’arco Ovest dell’arcipelago irlandese, rendendo non solo visibile ma anche esperibile la storia del sito. La cava per l’estrazione dell’ardesia,
infatti, è stata successivamente convertita in una grotta mariana16 sicché la scelta dello Stabat Mater sembra aderire alla funzione acquisita dal luogo dopo la
12
1990.
Sara Ruddick, Maternal Thinking: Toward a Politics of Peace, New York, Ballantine Books,
13
Per un breve profilo dell’artista, rimando al sito della Tate Modern Gallery di Londra, che
recita: «Cross uses a wide range of materials in her work, including found objects which have
been in her family’s possession for many years, constructed objects, photographs and animal
skins. She has recently made several works using cow hides and, in particular, cows’ udders. Central to her work as a whole are themes of sexual and cultural identity, personal history and memory» (Ellen Dunn, Artist Biography, marzo 1997, <tate.org.uk/art/artists/dorothy-cross-2357>).
14
Per il rapporto tra Cross e la regione del Connemara si veda in particolare Dorothy Cross,
Connemara, Letterfrack, Artisan House, 2014, catalogo della mostra personale dell’artista tenutasi lo stesso anno al Turner Contemporary di Margote, nel Regno Unito (<turnercontemporary.
org/exhibitions/connemara>).
15
Per una breve descrizione dello scenario, si legga Emma Crichton Miller, ‘Dorothy Cross:
Connemara’, Turner Contemporary, Margate, in «Financial Times», 27 settembre 2013 (<ft.com/
content/62e5d57c-1971-11e3-afc2-00144feab7de>): «I have driven miles across the Irish Republic to visit Dorothy Cross, one of the country’s most distinguished contemporary artists.
She lives in the far west of Connemara, beyond the fretwork of bog and lake, beyond the sharppeaked Twelve Bens looming beneath a shifting sky, where the coastline fragments into inlets
and islets. From the window of her simple farmhouse you see the entrance to Killary Harbour,
Ireland’s only fjord, and the “smooth bald hill”, the impressive Mweelrea, rising beyond. This
empty landscape, best known from the paintings of Paul Henry, Jack B Yeats and others, seems
fit for hermits and visionaries».
16
Per un’intervista a Cross sulla performance, segnalo Arminta Wallace, A baroque opera
seti in stone, in «The Irish Time», 14 agosto 2004, <irishtimes.com/news/a-baroque-opera-setin-stone-1.1153407>: «Each component, taken on its own, sounds perfectly plausible: it’s only
when you put them together that you begin to wonder whether you can have heard correctly.
Opera Theatre Company. Pergolesi. Stabat Mater. Giant screen. Dorothy Cross. Valentia Island.
Slate quarry».
IL «COMPIANTO» MULTIMEDIALE NELL’EUROPA CONTEMPORANEA
189
dismissione. Ciononostante, l’abbigliamento dei musicisti, del tenore leggero e
del soprano, durante le tre esecuzioni estive (19-21 agosto 2004), comprendeva
caschi protettivi e giubbotti di segnalazione catarifrangenti, a memoria dell’origine mineraria e industriale del set. La postazione per la platea è stata ricavata
all’ingresso della grotta, dove i cantanti raggiungevano l’orchestra uscendo lentamente dalle gallerie della miniera per conquistare la scena. Al termine dell’esecuzione, un maxischermo sospeso su un’impalcatura metallica scorreva dalla parete di fondo della cava verso l’esterno, avvicinandosi progressivamente al
pubblico convenuto. Tra le videoproiezioni figuravano le registrazioni delle varie fasi estrattive per la lavorazione dell’ardesia, ma anche il primo piano di una
bocca spalancata, quasi un’icona di sutura tra la musica barocca (bocca/canto)
e lo spazio della cava (gola/galleria)17. La recensione di Brian Hand focalizza in
particolare la «qualità distintamente secolare, profana, persino terrena di questa versione dello Stabat Mater»18. Il momento in cui l’esibizione canora viene
sostituita dal sopravanzare dello schermo costituisce l’acme della performance,
in cui l’opera video subentra all’esibizione dal vivo e l’immagine esautora il testo della sequenza sacra.
Cross’ attention with the video imagery (which dramatically took centre stage
after the live performance) was specifically focused on factory production at the
quarry. Close-up shots of engineering technology cutting and polishing slate
were transformed in scale into the spectacle of utilitarian power, the power of
the male machinists over nature demonstrated by a destructive torrent from a
saw blade slicing stone effortlessly. The repeated cutting in the context of the
passion of the Virgin Mary in Stabat Mater almost invited a comparison between the mining that has taken place in the quarry and an industrial tragedy19.
Un’immagine delle proiezione in loco, messa all’asta da Adam’s nel 2006, è tuttora visibile sul sito adams.ie (<adams.ie/searchresult/33900/Dorothy-Cross-b-1956-Stabat-MaterLimited-edition-photographic-print-56-x-39-5cm-Signed-and-dated-2004-Numbered-fromand-edition-of-15-33900?auction_no=&ipp=9&keyword=&view=lot_detail>).
18
Brian Hand, Miming a Quarry, Stabat Mater by Dorothy Cross, in «Circa Magazine», estate
2005, 12, pp. 34-37. La traduzione è mia: il testo originale recita: «There was a distinct secular,
profane, and even mundane quality to this recital of Stabat Mater.» Un estratto del testo può
essere letto alla pagina: <publicart.ie/main/directory/directory/view/stabat-mater/c6b3fc96199
b20f123f2f0fb3dfb0fd1/?print=1>.
19
Ibidem. Il comunicato stampa della personale di Dorothy Cross, tenutasi l’anno seguente
all’IMMA (Irish Museum of Modern Art), descrive così la performance: «Among the films in
the exhibition is Stabat Mater, 2005, documenting an event which took place in a disused slate
quarry – now a Marian grotto – on Valentia Island, off the coast of Co Kerry, in 2004. Using
the proscenium arch of the quarried cave, Cross produced with Opera Theatre Company a performance of Pergolesi’s Stabat Mater. As the music came to an end, it was replaced by the roar of
industry accompanied by video images of the trinity that Cross had brought together in the work
– nature, industry and religion». Il testo completo compare al sito ufficiale dell’IMMA (imma.ie)
alla pagina: <imma.ie/en/page_75137.htm>.
17
190 SAMUELE FIORAVANTI
Lo schermo riacquista la propria funzione etimologica: scherma il set, anziché
limitarsi a illustrare il testo o integrare il luogo della performance. I termini in
cui lo spazio viene rappresentato (la sua storia e la messa in scena multimediale)
ne offuscano la visione diretta e avanzano una pretesa nei confronti del pubblico, richiedono uno sforzo aggiuntivo. Nella versione di Dorothy Cross, il compianto e la compartecipazione non si esprimono sull’asse esclusivo madre-figlio,
bensì mirano a coinvolgere nella composizione sacra l’esperienza dei minatori e
la memoria di tale esperienza. L’esercizio di scavo nella roccia ricolloca la sacralità della liturgia in una dimensione esplicitamente terrena, giacché Cross compie uno sforzo di precisione letterale: penetra la terra, visualizza espressamente
il rapporto istituitosi nel tempo tra la costa atlantica e gli insediamenti locali.
Dorothy Cross rilegge la storia del luogo (da miniera a spazio sacro) e la ripercorre a ritroso (dal testo sacro al video della miniera). La concretezza della
cava è stata sublimata dalla conversione in grotta mariana, pertanto l’operazione di Dorothy Cross mira a contraddire la mistificazione e prova ad attuare la
trasformazione inversa. Sostituisce il testo dello Stabat Mater con l’immagine di
una lama che incide una lastra e restituisce l’immagine della roccia estratta alla
sua sede originaria. Eppure la scelta del brano eseguito dall’orchestra del Dublic
Opera Theatre è stata del tutto contingente. In un’intervista rilasciata all’«Irish
Time», Cross confessa che, subito dopo aver visitato la cava di Valentia Island
per la prima volta, avrebbe voluto ambientare l’Orfeo di Monteverdi all’imbocco
delle gallerie20. Avendo dovuto rinunciare al dramma di Euridice per l’alto numero di musicisti che avrebbe richiesto, l’artista ha ripiegato sulla composizione di
Pergolesi, persuasa appunto dalla presenza di un altare dedicato alla Vergine già
presente nella cava. Se l’opera di Monteverdi fosse stata ambientata all’ingresso
della grotta, l’intera performance sarebbe inequivocabilmente ruotata attorno
alla nozione di restituzione: Euridice sarebbe stata restituita agli Inferi alla fine
dello spettacolo, come la cava abbandonata sarebbe tornata a essere una cava a
sipario calato. Il fatto di aver infine optato per lo Stabat Mater ha reso necessaria l’integrazione delle immagini video, che, nel finale dello spettacolo, permutassero esplicitamente il tempio mariano nella miniera, riconsegnando la terra
alla terra. La performance di Dorothy Cross è una sorta di contro-liturgia che
esprime apertamente una richiesta di comprensione: chiede al pubblico di vedere il sito della cava per quello che è, al di là dei versi cantati.
20
«When [Dorothy Cross] saw the cave, she immediately thought of staging Monteverdi’s
opera Orfeo there “because it was like a giant hole into the underworld”. At the time she didn’t,
she adds ruefully, know about the giant orchestral forces required by that particular opera. “But
the Stabat Mater is perfect. Two singers, nine players. And the grotto is itself a shrine to the Virgin Mary; I’ve seen photographs of hundreds of people up there in their headscarves and good
shoes, going to Mass”» (A. Wallace, A baroque opera set in stone cit.).
IL «COMPIANTO» MULTIMEDIALE NELL’EUROPA CONTEMPORANEA
191
3. Nina Danino, «Stabat Mater» (1990)
Anche l’artista britannica Nina Danino (Gibilterra 1955)21, come già Dorothy
Cross, riflette sulla propria terra d’origine, il litorale iberico meridionale. Il suo
è uno Stabat Mater multimediale in cui il formato filmico ospita un’esecuzione
canora, la recitazione di un passo della Jeune née (Hélène Cixous) e del monologo finale di Ulysses (James Joyce)22. Gli estratti letterari integrano il medium cinematografico, elaborando una rete di connessioni attorno alla figura ancipite
della Mater dolorosa, la madre che soffre e che dona. Il film (16 mm, 8 minuti)
è ambientato nel paesaggio mediterraneo dei Giardini La Alameda a Gibilterra.
Le prime inquadrature dell’obiettivo mobilissimo e nervoso riprendono a scatti
il cielo diurno, il fogliame di una palma e una scultura vernacolare della Vergine
Maria. Su queste immagini d’apertura, si alza il canto di una saeta andalusa quaresimale. Nella raccolta di saggi The Sacred and the Feminine: Imagination and
Sexual Difference, Nina Danino commenta così l’inizio del filmato:
My mother sings; she sings in Spanish to the Mother, the Mater. She sings a
form which is archetypal, a sung lament. I ask her to sing two improvised laments, which, in the rise and rise of the voice, reach for an impossible register
of virtuosity and feeling. These improvisations are based on the form of the
saeta –meaning an arrow–, a song without music, for solo voice. The saeta is a
vernacular form of sacred song –a low form, sung from the street, balconies and
pavements, sung to te agony of Christ or to His Mother during Passion Week.
That is, to the Stabat Mater, who is the Mother at the foot of the Cross –an
iconic emblem of sorrow23.
Gli aspetti formali della saeta coincidono, in effetti, con le tecniche di videoripresa impiegate dall’artista, che consistono «in un flusso» unico, le cui singole unità sono «interrotte, disarticolate e reiterate», in un «crescendo che rag-
21
Una versione integrale del filmato è stata digitalizzata e caricata sulla piattaforma Lux
Online, <luxonline.org.uk/video/artists/nina_danino/stabat_mater.html>. La stessa piattaforma
contiene anche una citazione di Nina Danino relativa allo Stabat Mater: «The songs at the beginning and end are the two pillars of the film – the voice of my mother singing two laments,
a saeta, a type of song sung during holy week to the Mater dolorosa. It attempts to locate that
which is lost, contained by the body but outside of objectification, absent and unnameable». Per
una scheda dell’opera, provvista di alcuni fermo-immagine e di un profilo dell’artista, si veda
<luxonline.org.uk/artists/nina_danino/stabat_mater.html>.
22
Una documentazione relativa al film è stata recentemente pubblicata in Italia: Nina Danino, «…and the fig trees in the Alameda Gardens», Milano, Mousse Publishing, 2013. Il titolo cita
un passaggio del monologo finale di Molly Bloom, tratto dall’ultimo capitolo di Ulysses, che viene
recitato in voice over nel corso dello Stabat Mater.
23
Nina Danino, Stabat Mater – A Nameless Place. Film the Feminine and the Sacred, in Griselda Pollock (a cura di), The Sacred and the Feminine: Imagination and Sexual Difference, Londra,
I.B. Taurus, 2008, p. 150.
192 SAMUELE FIORAVANTI
giunge il picco emotivo» dell’opera24. I pochi versi del testo poetico, improvvisato in spagnolo, assumono la forma di un inno cletico grazie all’esecuzione canora; la saeta così concepita viene a sua volta inglobata nel video come elemento critico, depositario di una tradizione popolare da contrapporre al registro
alto dello Stabat Mater, caposaldo della storia musicale europea. Il film di Nina
Danino mira ad attivare simultaneamente queste intersezioni, al fine di costruire uno «spazio interconnesso, uno spazio femminile condiviso»25 in cui la Mater
dolorosa entra in contatto, attraverso il canto, con la madre dell’artista, Elena
Danino, quasi in un dialogo di invocazione e ascolto. Il film innesta così l’iconografia della «Sacra conversazione» nello schema del «Compianto» sul Golgota26.
Non sono estranei alla letteratura italiana contemporanea simili spazi virtuali, deputati all’incontro fra diverse generazioni, nonché al contatto fra icone della maternità e figure del vissuto personale dell’artista. Penso alla raccolta
di Livia Candiani Bevendo il tè con i morti27 o alla poesia di Rossella Renzi, che
muove da analoghe premesse e approda a un risultato paragonabile allo Stabat
Mater di Nina Danino, mettendo a fuoco squarci di fogliame in un panorama
marittimo attraversato dal canto.
(nonna)
di sera al freddo sulla sabbia
canta il silenzio dei rami
sposta appena i capelli
dalla fronte di mio figlio.
Raccogli le voci sulla riva del mare
dove hanno seminato le spade
e dove il sangue delle madri
nutre il sonno degli uccelli28.
24
Traduzione mia dall’inglese: «The saeta traditionally consists of a short, two or three line
poem sung by a single unaccompanied voice, in which the flow of the lines is broken up, disjointed and repeated to enable the voice to stretch in an ever-upwards pitch, reaching a crescendo at
its highest peak of emotion» (ibidem).
25
«Another kind of song is heard in the opening lines of the film, spoken by a woman’s
voice, describing the power of the woman’s voice as “the first voice of love which every women
preserve alive”, which evokes a connective space, a shared feminine space» (ivi, p. 151).
26
Per una rapida panoramica sulla storia delle rappresentazioni artistiche della Vergine,
rimando a Renato Piasi, Maria nell’arte: iconografia e iconologia mariana in venti secoli di Cristianesimo, Roma, Gangemi, 2000. Per quanto riguarda le raffigurazioni della Madonna a colloquio
coi santi o simbolicamente ritratta in un giardino, come nello Stabat Mater di Nina Danino, si
vedano i capitoli Il mondo gptico: la «Madonna del colloquio», pp. 43-46, e Il periodo tardo-gotico:
«la Madonna del roseto», pp. 47-52.
27
Livia Candiani, Bevendo il tè con i morti, Milano, Viennepierre, 2007, riedito a Novara
da Interlinea nel 2015.
28
Rossella Renzi, I giorni dell’acqua, Forlì, L’Arcolaio, 2009, p. 18. La poesia citata è tratta
IL «COMPIANTO» MULTIMEDIALE NELL’EUROPA CONTEMPORANEA
193
Il lessico (figlio, madri, spade) trova riferimenti puntuali nello Stabat Mater
medievale (Filius, Mater, gladius) ma, nel distico finale di Rossella Renzi, la nozione di nutrimento si sovrascrive al «sangue delle madri», istituendo un parallelo tra dolore e sostentamento. Anche Nina Danino riconosce una parentela
tra la sofferenza e il nutrimento, paragonando lo spillare del latte dal seno della
Vergine allo spillare del sangue dal costato di Cristo29. L’artista si riferisce esplicitamente all’ipotesi della scrittrice londinese Marina Warner che vede nella
«Madonna del latte» una controfigura della «Crocifissione»30, poiché la madre
che nutre e il dio che muore concorrono allo stesso progetto: donano se stessi.
Il distico finale di Rossella Renzi si inserisce nel solco di una linea specificamente italiana che allude alla Vergine non solo come Mater dolorosa ma anche
come Maria lactans31. Sotto forma di madre addolorata, Maria infonde compassione ma, durante l’allattamento di Gesù neonato, alimenta la fecondità e
la fede. Una Mater simultaneamente dolorosa e lactans è pertanto un’icona del
dono e dell’offerta, il cui culto richiede, a sua volta, oboli ed elargizioni, così da
attivare un rapporto interattivo (la Madonna dona al fedele che le si affida)32.
Attorno alla Vergine si instaura un circuito di donazioni che costituisce un’occasione fruttuosa di traduzione intermediale33, poiché il culto mariano si compie all’insegna dello scambio reciproco tra figure diverse (le madri/la Madre) e
dalla prima sezione della raccolta, intitolata Di madre di terra, in una sorta di endiadi. Il testo
inaugurale (p. 15) si apre infatti col verso «Due siamo la pietra dura» e si chiude con «una cosa
sola unita», in cui la sovrapposizione tra corpo e pietra corre parallela alla fusione tra due vite: il
contatto induce una trasformazione. Anche gli Stabat Mater di Cross e Danino hanno studiato
i modi in cui la pietra e la terra (Valentia/Gibilterra) sono stati alterati (la miniera/il giardino)
e poi riconvertiti dal contatto simbolico con la figura materna. Un ulteriore esempio in questa
direzione può essere ritracciato nella contrapposizione (scena sacra/pietra) che informa l’ultima
raccolta di Filippo Strumia (Marciapiede con vista, Einaudi, Torino, 2016). La concretezza della
pietra è messa in relazione (stavolta per contrasto) con la scena della Crocifissione: «ma il sasso ha
più vento / delle fiabe e di tutti i crocefissi» (p. 121).
29
N. Danino, Stabat Mater – A Nameless Place. Film the Feminine and the Sacred cit., p. 151.
30
Marina Warner, Alone All of Her Sex: The Myth and the Cult of the Virgin Mary, New York,
Vintage Books, 1983, p. 194.
31
Per un’introduzione alla figura, rimando alla storica dell’arte medievale Calò Mariani che
ipotizza un’origine copta per l’icona della Madonna in allattamento (galaktotrophousa) e ne
traccia un rapido profilo in Maria Stella Calò Mariani, Il Medioevo occidentale, in Pietro Amato
(a cura di), Imago Mariae: tesori della civiltà cristiana, Milano, Mondadori, 1988, p. 18.
32
Per un inquadramento della figura di Maria lactans nella tradizione letteraria italiana, si
veda Yael Manes, Motherhood and Patriarchal Masculinities in Sixteenth-Century Italian Comedy,
Londra, Routledge, 2011. Commentando La Mandragola di Machiavelli, Manes scrive: «Mary’s
milk was percieved as a valued commodity that could bring high profits, both spiritually (the
locality would become a station in Europe’s pilgrimage routes) and commercially (the pilgrims
who stopped would make donations and would purchase all manner of goods)» (ivi, p. 30).
33
Michele Cometa dedica un intero capitolo (La Madonna del pensiero) alla Madonna sistina
di Raffaello, intesa come icona fondamentale nei rapporti fra testo e immagine all’interno della
cultura europea. Si veda M. Cometa, La scrittura delle immagini. Letteratura e cultura visuale,
Milano, Raffaele Cortina, 2012, pp. 239-262.
194 SAMUELE FIORAVANTI
tra codici interrelati (iconografia/poesia/rito), per mezzo di una similitudine (il
sangue/il latte)34. Maria di Nazareth, in quanto vergine, «non ha mai visto il
sangue»35, ma l’emblema della Mater dolorosa ha conosciuto la sofferenza e ha
saputo condividerla col fedele per saziarne lo spirito («Fac me plagis vulnerari» recita lo Stabat Mater medievale). La Madonna ai piedi della croce si fa intermediaria tra il fedele e Cristo, così come l’icona mèdia il rapporto diretto tra
l’orante e Dio36.
Nelle due quartine di Rossella Renzi si trovano riunite quattro generazioni:
la sagoma della nonna e l’allusione alle madri, la persona loquens e il figlio. La
«riva del mare» appare al v. 5, com’era apparsa nel set gibilterrino dello Stabat
Mater, e traccia una linea di confine: un tratto liminare riconosciuto da Nina
Danino anche nella pratica cinematografica «che si annida ai margini, in uno
spazio semiotico liminale»37. Danino ritiene infatti che le opere d’arte sperimentale debbano risiedere sul limite, sull’orlo, poiché si impongano principalmente
due obiettivi: «espandere e mettere alla prova i discorsi dominanti per creare, in
tal modo, spazi adeguati all’espressione di ciò che prima era precluso»38. In questo processo di dilatazione (diversi codici provano a dire quel che era impedito
a uno solo), Danino ipotizza che le opere sperimentali contemplino sempre un
che di «femminile», qualcosa, cioè, «che risiede al di fuori del linguaggio (il lin-
«This veneration of the Virgin’s milk stems partly from the belief that milk and blood were
the same substance: milk was produced from the mother’s blood fo feed her baby. Hence the
Virgin’s milk was almost as powerful and holy a relic as Christ’s blood» (Y. Manes, Motherhood
and Patriarchal Masculinities in Sixteenth-Century Italian Comedy cit., p. 30).
35
Uno studio sull’immagine del sangue mariano appare in: Riccardo Di Segni, «Colei che
non ha mai visto il sangue». Alla ricerca delle radici ebraiche dell’idea della concezione virginale di
Maria, in «Quaderni storici», n. s., 75, 1990, pp. 757-789.
36
Penso allo Stabat Mater commentato da Bredekamp (Anonimo, Crocifssione, XV secolo,
Berlino, Gemäldegalierie): «La pala di una crocifissione realizzata, si suppone, in Boemia intorno
al 1400 rappresenta una formulazione molto sottile di questo problema [il rapporto tra corpo e
rappresentazione pittorica], in quanto il sangue non cola nello spazio vuoto della rappresentazione, come parrebbe a un primo sguardo, bensì scorre sulla superficie dipinta. Sono soprattutto
i rivoli di sangue che sgorgano dai chiodi a far capire che essi non seguono la superficie legnosa
della croce, bensì colano a piombo su quella della tela. È come se la tavola stessa fosse uscita da
sé per fungere da pelle di Cristo in un’altra forma. Qui non è il telo di Veronica a schiacciarsi sul
volto del Salvatore, bensì, al contrario, sono il supporto e i colori del dipinto a proiettarsi verso
l’esterno diventando il suo corpo» (Horst Bredekamp, Theorie des Bildakts, Berlino, Suhrkamp
Velag, 2010, trad. it. di Simone Buttazzi, Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico, Milano, Cortina, 2015, pp. 202-203).
37
Danino cita espressamente Raymond Bellour: «[T]he “other cinema”, which “has never
stopped haunting the great representation cinema” by lurking on the borders of its master dominant discourse, inhabiting the liminal or “semiotic” spaces of representational cinema and also
migrating into the spaces of the gallery» (N. Danino, Stabat Mater – A Nameless Place. Film the
Feminine and the Sacred cit., p. 154).
38
«Experimental forms perhaps aim to do two things: to expand and challange the dominant discourse, and in doing so, perhaps to create sites for the enunciation of what was previously
foreclosed» (ibidem).
34
IL «COMPIANTO» MULTIMEDIALE NELL’EUROPA CONTEMPORANEA
195
guaggio dei codici filmici) e che sfugge a una rappresentazione integrale», qualcosa che «non può essere colonizzato dal linguaggio»39. Un atteggiamento intellettuale cosiddetto «femminile» serberebbe insomma per Danino un nucleo
misterico, che non esige analisi o chiarimenti, ma invita alla dedizione – al di
là delle parole. Il contatto fra la madre dell’artista e la Madre di Dio si stabilisce solo attraverso il lamento (la saeta) e, del tutto similmente, l’intimità tra la
Madonna e il Figlio si instaura attraverso il compianto (il planctus), insomma
nel gesto e nell’espressione più che nelle parole.
Un’opera come lo Stabat Mater di Nina Danino include canto e letteratura perché mira a sperimentare forme adeguate a dire ciò che non poteva essere
detto con il solo formato cinematografico. I codici devono essere aggiornati affinché possa essere introdotta una forma filmica che non si sforzi di descrivere
o definire, bensì di realizzare un contatto. Per ottenere questo effetto di accoglienza, Danino concepisce il proprio medium (il video) come spazio dialogico
in cui le opere, le voci e persino i media altrui siano ricevuti e preservati. Con
un ribaltamento di ruoli40 la madre (di Dio o dell’artista) diventa quindi oggetto di accoglienza nell’opera della figlia. Questa madre accolta è la stessa madre-passerotto che «sta nel palmo di una mano» nella già citata raccolta di Livia
Candiani41 o la madre subacquea che «[vuole] rannicchiarsi / tra le branchie di
[suo] figlio», nei versi di Rossella Renzi42. È fragilissimo anche il personaggio
della madre delineato nel più recente Stabat Mater (2016)43 dell’artista viennese
«Perhaps the experimental always has a feminine dimension, which is outside language
(the language of film codes) and is perhaps, like Lacan’s psychoanalytic notion of the feminine,
something “other”. […] As art, it is perhaps a form of practice which cannot be entirely represented or fully embodied in linear language, neither by the codes of representation in film, nor by
symbolic language. If so it also occupies a privileged place that cannot entirely be colonized by
language, a place which is enunciated throught the dialectical tensions – in Pasolini’s terms – of a
free indirect discourse of different registers, which nevertheless must come together and cross in
(aesthetic) discourse – otherwise there would not be communication» (ibidem).
40
Sull’inversione dei ruoli a partire da un ribaltamento iconografico destra/sinistra si è
espresso Pinotti in Andrea Pinotti, Il rovescio dell’immagine. Destra e sinistra nell’arte, Mantova,
Tre Lune Edizioni, 2010. Nell’antologia finale del volume, figura anche un testo di Heinrich
Wöllfflin (Destra e sinistra dell’immagine, pp. 179-207), che fa riferimento alla Mater dolorosa nella Crocifissione di Lucas Cranach (1503 ca.), conservata all’Alte Pinakothek di Monaco. Wöllfflin
osserva «la consuetudine [pittorica] di cominciare a sinistra con una forma tagliata in funzione
di quinta per poi completare il disegno verso destra. Sebbene non manchino esempi contrari, il
numero di quelli che si rifanno allo schema citato è talmente predominante che si può tranquillamente affermare che questa disposizione sia avvertita come la più naturale» (ivi, p. 183). Nei
tentativi di protezione rivolta alla madre da parte dei figli, l’inversione dei ruoli potrebbe quindi
corrispondere, nelle poesie citate, alla stessa significativa forzatura che Wöllfflin individua nelle
crocifissioni in cui la quinta scenica sia chiusa a destra e la Madonna si trovi a slittare sullo stesso
lato, concludendo – anziché introdurre – la lettura del dipinto.
41
«Mia madre è un passero cattivo» (L. Candiani, Bevendo il tè con i morti cit.).
42
«La notte inghiotte il mondo, tutto è spento» (R. Renzi, I giorni dell’acqua cit.).
43
In occasione della mostra tenutasi alla Kunsthalle di Winterthur, nell’autunno del 2016,
«My Art Guides» (<myartguides.com/exhibitions/dabernig-josef-stabat-mater/>) pubblicava il
39
196 SAMUELE FIORAVANTI
Josef Dabernig, un cortometraggio (bianco e nero, 35 mm, 16 minuti44) presentato all’ultima Viennale della capitale austriaca45. Sul modello di Nina Danino,
Dabernig si serve del medium cinematografico come di un formato ospitale, prefigurando tuttavia uno scenario opposto. Le affinità con il film di Danino sono
indiscutibili, a partire dal set mediterraneo (stavolta è Santa Cesarea Terme, in
Puglia) e dall’integrazione di un testo letterario (l’autore è lo scrittore svizzero
Bruno Pellandini) recitato in voice over; eppure, alla costruzione dello spazio dialogico di Nina Danino, Dabernig contrappone le inquadrature di un santuario dell’incomunicabilità. È l’architettura deserta di un hotel italiano fuori stagione, dove, in assenza di riferimenti simbolici o religiosi, il lutto di una madre
non riesce a trasformarsi produttivamente in un’occasione di incontro ma genera solo silenzio e ronzio.
4. Alba Donati, «Pianto sulla distruzione di Beslan» (2009)
Il 7 marzo del 2009, il Teatro Verdi di Firenze annunciava che l’Orchestra
Regionale della Toscana avrebbe eseguito la prima stesura per archi dei sette adagi
di Haydn, Die Sieben Letzten Worte unseres Erlösers am Kreuze, accompagnando la
recitazione del Pianto sulla distruzione di Beslan di Alba Donati (Lucca 1961)46.
comunicato stampa: «Since Josef Dabernig began working with film in 1996, he has been interested in the relation between image and sound. For the exhibition at Kunsthalle Winterthur,
Dabernig has chosen to show Stabat Mater (2016) [which] explore the link between image and
sound through the incorporation of the writings of Swiss writer and essayist Bruno Pellandini, in
the form of spoken narrative voice. As in all of Dabernig’s works, the film employs a reductionist
and austere formal language: a small cast of actors, black & white imagery, and the use of long
and mostly static camera positions. [The] tragic memory of a lost son is juxtaposed with camera
angles of a hotel complex during the changing seasons in Santa Cesarea Terme, Italy. […] The
actors appear controlled and calculated, though the stories would normally ask for the highest
emotion. The narration retains a literalness due to its re-contextualization, while within the visual
language of the film, a sense of displacement leads to the protagonists appearing formulaic, their
behaviour purely functional and at no point calling for our empathy. They remain unaccessible,
and thus, seemingly obnoxious or unlikeable».
44
La scheda tecnica appare sul sito dell’artista all’indirizzo: <dabernig.net/film/stabat-mater>.
45
Due proiezioni: lunedì 24 ottobre 2016 e martedì 25 nella sala Stadkino e al cinema Metro di Vienna (<viennale.at/en/films/stabat-mater>).
46
Dal sito del Teatro Verdi (<teatroverdionline.it>): «Per le Festività Pasquali l’ORT ha scelto i sette adagi, che compongono l’Oratorio composto da Haydn nel 1785. Scritto su richiesta
della Cattedrale di Cadice è nella sua prima stesura destinato alla formazione orchestrale; successivamente Haydn elaborerà altre versioni strumentali, (per quartetto d’archi, per pianoforte) e nel
1794, con l’inserimento delle voci, ne farà un oratorio lirico. Nel concerto in programma ascolteremo la prima versione per orchestra d’archi, e l’esecuzione sarà impreziosita dall’accostamento
della musica ai testi poetici di Alba Donati, apprezzata scrittrice e poetessa d’oggi, che dà voce
ad una sua composizione inedita scritta nel 2005. Si tratta del Pianto sulla distruzione di Beslan
ispirato al massacro avvenuto nella scuola di Beslan (settembre 2004) dove trovarono la morte
centinaia di persone, e tra questi 186 bambini». L’estratto è apparso il 7 marzo 2009 all’indirizzo:
IL «COMPIANTO» MULTIMEDIALE NELL’EUROPA CONTEMPORANEA
197
Come per lo Stabat Mater di Dorothy Cross, si è quindi trattato di una performance multimediale (in questo caso, musica e letteratura). Il testo del Pianto è
poi confluito nella raccolta Idillio con cagnolino, pubblicata a Roma nel 2013,
con un’aletta di Claudio Damiani che avverte: «Come gli idilli di Leopardi, anche questi non hanno niente di idilliaco. Sono visioni nitide, chiare, di tutto
intero l’esistere, fino a toccare il fondo del tragico, quella cosa più terribile della morte che è la violenza sui bambini, come nel poemetto sulla strage degli innocenti di Beslan che chiude il libro e lo corona»47.
Quarta e ultima sezione della raccolta, il Pianto costituisce a tutti gli effetti un
episodio significativo nella serie dei «Compianti» contemporanei; è un planctus
dedicato ai bambini coinvolti nella strage della scuola di Beslan, in Ossezia del
Nord, tra il primo e il terzo giorno di settembre 2004, pianificata da un gruppo di terroristi caucasici ai danni della popolazione civile, tra cui bambini e madri48. Le quattro occorrenze del termine mamma/madre nel testo di Alba Donati
non riguardano infatti una sola donna ma «centinaia di mamme»49 e, pertanto,
quelli che erano gli emblematici «lamenti» (p. 79) della Mater dolorosa si moltiplicano in un pianto corale. Nel componimento finale di Idillio con cagnolino,
poi, la sofferenza delle donne ossete è ulteriormente amplificata dalle trasmissioni televisive (p. 87) fino al parossismo poetico, rappresentato da una pretesa
di coesione e partecipazione emotiva.
E chi non piangerà
per tanta rovina
chi non dispererà
per tanti morti
chi non proverà pietà
per tanti piccoli
sovrani uccisi? (p. 86)
<teatroverdionline.it/archivio/calendario-eventi/dettaglio-evento.html?evento=07_04_2009_
concerto_di_pasqua.html>.
47
Alba Donati, Idillio con cagnolino, Roma, Fazi, 2013. Il Pianto sulla distruzione di Beslan
è alle pp. 69-87.
48
Per un’inchiesta riguardante le conseguenze dell’evento sulla popolazione locale e sui cittadini della Federazione russa, rimando alle interviste e agli articoli di Anna Politkovskaja usciti
su «Novaja Gazeta» e ripubblicati in italiano nella terza sezione (intitolata Beslan) di Anna Politkvoskaja, Proibito parlare. Cecenia, Beslan, Teatro Dubrovka: le verità scomode della Russia di
Putin, a cura di Erika Casali, Martino Cocchini e Davide Girelli, Milano, Mondadori, 2007,
pp. 211-253.
49
A. Donati, Idillio con cagnolino cit., p. 77. Segue «madre» alle pp. 78, 79 e 81. La prima
apparizione delle madri apre una sorta di tragica pàrodo nella quale sfilano anche «centinaia di
papà, di nonni, di fratelli» che «piangono»: la scena viene subito riposizionata in un contesto
sacrale («è un pellegrinaggio») che tenta un «dialogo segreto» con le vittime.
198 SAMUELE FIORAVANTI
Riguardo alla partitura sotterranea del testo, la nota d’autrice specifica che il
Pianto per la distruzione di Beslan è in effetti il «rifacimento di un testo anonimo russo» del XIII secolo, intitolato Pianto sulla distruzione di Rjazan’ e relativo all’invasione mongola del 123750. Lavorando su questo modello antecedente,
Alba Donati riplasma le notizie di cronaca del 200451 e rielabora lo schema del
«Compianto della madre» in forma laica. In questo senso, assume un particolare rilievo, tra i versi citati dal Pianto, la parola «pietà», centrale nell’iconografia mariana e sottolineata dalle due rime alternate (precedenti e quindi preparatorie) nonché da un’enfatica rima interna e dall’anafora («chi non…»). Questa
sorta di «Pietà», celata fra le righe, viene immessa in una serie di referenti precisi
– madre, lutto, televisione – che mettono il Pianto di Alba Donati in relazione
con molta della letteratura contemporanea costruita sullo schema dello Stabat
Mater. Penso, per esempio, al romanzo L’altra madre (2016) di Andrej Longo52
o alla Pietà (1967) di Wisława Szymborska, un testo ugualmente costruito sulla sequenza madre-lutto-televisione.
Nella città dove è nato l’eroe,
[…]
chiedere dove abita la madre,
bussare, spingere la porta che cigola.
Si mantiene dritta, capelli lisci, sguardo limpido.
Dire che si arriva dalla Polonia.
Salutare. Fare le domande a voce alta e chiara.
Sì, lo amava molto. Sì, era sempre stato così.
Sì, lei allora si trovava dietro il muro della prigione.
50
Ivi, pp. 89-90: «Il Pianto sulla distruzione di Beslan nasce dal rifacimento di un testo anonimo russo, una narrazione epica» che racconta l’invasione «dell’Orda d’Oro dei mongoli, eredi
di Gengis Khan, che, nel 1237, distrussero Rjazan’. Il Pianto sulla distruzione di Rjazan’ (uscito
nel 1992 a cura di E. T. Saronne per Pratiche Editrice) si distingue da altre narrazioni dell’epoca
per aver preso partito, perdutamente, per la rassegnazione e il dolore».
51
Sempre dalla nota d’autrice (ivi, p. 90): «Un ringraziamento lo devo a Giampaolo Visetti,
inviato de “la Repubblica” a Beslan nei giorni del massacro. Le sue cronache, prive di retorica
e totalmente al servizio dell’orrore e della tristezza, ho saccheggiato in maniera sistematica. Gli
occhi che guardano sono i suoi, e mi sono bastati». Il riferimento agli occhi altrui concorre
a stabilire il ruolo testimoniale di una letteratura che vorrebbe farsi αὐτοψία, visione diretta,
documentazione. Sul piano degli studi visuali, questa poesia, che si nutre di uno sguardo altro,
presuppone ancora una volta la metafora del dono come strumento. La visione di Giampaolo Visetti deve essere trasferita ad Alba Donati, a costo di ricorrere a una forzatura («saccheggio», non
offerta), motivata dall’urgenza morale di rispondere all’orrore con la condivisione e l’assunzione
di responsabilità. L’immagine vista da Visetti deve essere subìta anche dalla poetessa mediante la
parola scritta.
52
Andrej Longo, L’altra madre, Milano, Adelphi, 2016. Penso in particolare al passo in cui la
protagonista realizza che la figlia è scomparsa e la televisione sembra schermare la perdita e acuire
il bisogno di un contatto: «Se lo grida da sola. Morta morta morta morta morta morta. Ma più se
lo ripete, più quella parola sembra che non tiene senso. […] Accende la televisione, gira i canali
uno appresso all’altro, poi spegne. “Tania, stellina mia, perché non rispondi?”» (p. 78).
IL «COMPIANTO» MULTIMEDIALE NELL’EUROPA CONTEMPORANEA
199
Sì, aveva sentito la scarica.
[…]
Ha letto alla radio la sua ultima lettera.
Ha cantato alla TV le ninnananne di un tempo.
Ha perfino preso parte a un film, in lacrime
per via dei riflettori. Sì, la memoria la commuove.
Sì, è un po’ stanca. Sì, passerà.
Alzarsi. Ringraziare. Accomiatarsi. Uscire,
incrociando nell’atrio i turisti successivi53.
Come i film di Nina Danino e Josef Dabernig, la poesia di Szymborska introduce in uno spazio di dialogo; le istruzioni sono chiarissime: innanzitutto
«bussare» e «spingere la porta che cigola», infine «uscire»54. In questa spazio deputato all’incontro, la testimonianza del lutto si trasforma gradualmente: dapprima è parola (la lettura in radio), quindi immagine (le riprese filmiche) eppure, durante il travaso da un medium all’altro, sembra che la visione si oscuri e
lo sguardo, che era «limpido» nei primi versi, si offusca a causa della luce artificiale troppo violenta. Per evitare l’appannamento, l’opera di Alba Donati segue
una traiettoria opposta, dalla visione al testo. Nel Pianto, le immagini televisive
si convertono dapprima nelle parole di una lingua sconosciuta55 e infine diventano poesia. La visione oscurata forse si rischiara. Sia la conclusione della Pietà di
Szymborska, sia il testo di Donati accennano alla processione dei visitatori che
desiderano omaggiare il luogo del compianto, ma agli ellittici «turisti successivi», la poetessa italiana contrappone i vividi dettagli della cerimonia funeraria.
Hanno lasciato i villaggi dell’Ossezia,
dell’Inguscezia, delle rive del Don,
in pulmini scassati, camion, furgoni,
Pietà (in italiano anche nel testo originale), in Wisława Szymborska, Sto pociech, Varsavia, Państwowy Instytut Wydawniczy, 1967, trad. it. di Pietro Marchesani, Uno spasso, in
Wisława Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009), Milano, Adelphi, 2009,
pp. 224-225.
54
L’anno prima dell’uscita della raccolta Sto pociech, nel 1966, usciva a Varsavia anche il manifesto di un gruppo di artisti legati alla galleria Foksal: Wprowadzenie do ogolnej Teorii Miejsca.
Il saggio evidenzia come lo spazio dell’esibizione prevarichi il valore delle singole opere d’arte
raccolte in una mostra, costituendo in effetti in medium in sé, più efficace dei diversi formati di
ciascuna opera. Allo stesso modo, lo spazio dell’incontro tra la madre e la poetessa nella Pietà di
Szymborska mi sembra produrre un incontro e una testimonianza più fruttuosi dei singoli tentativi in radio o in televisione, allusi nei versi centerali. Per una trazione in inglese del manifesto
polacco, si veda Introduction to the general Theory of Place, in Laura Hoptman, Tomas Pospiszyl (a
cura di), Primary Documents: A Sourcebook for Eastern and Central European Art since the 1950s,
Cambridge (Massachussets), The MIT Press, 2002, pp. 88-91.
55
La poesia 3 settembre 2004, ore 11 – Beslan, che chiude la sezione del Pianto, recita ai vv.
11-13: «Dopo vidi la tv senza capire, poi dormii. / C’erano rumori lontani, appena udibili, voci
basse, proverbi detti all’orecchio, in una lingua che non capivo» (A. Donati, Idillio con cagnolino
cit., p. 87).
53
200 SAMUELE FIORAVANTI
hanno ucciso, nella notte,
tori, vitelli e montoni, per non mancare
all’omaggio dei figli del Caucaso fucilati,
violati, bruciati vivi in una scuola56.
La solennità del convito funebre si sovrascrive ai versi dell’epica russa (il
Pianto sulla distruzione di Rjazan’) e risulta tanto esaltata da ricordare le cerimonie mortuarie descritte nei canti tradizionali osseti57.
Il Pianto sulla distruzione di Beslan è quindi la riscrittura di un testo medievale
russo, ispirata dalle notizie di cronaca e costruita sull’iconografia del «Compianto»
e della «Pietà». L’esecuzione multimediale al Teatro Verdi è stata organizzata proprio in occasione delle festività pasquali, coi sette movimenti di Hydn dedicati alla Crocifissione, a riconferma della contiguità fra il pianto mariano e il lamento per la tragedia di Beslan. Persino l’impaginazione del testo nell’edizione del 2013 (Idillio con cagnolino) conserva un indizio di interconnessione fra i
diversi media. L’ultima sezione del volume è costituita infatti da quattro testi e
paratesti interagenti: il primo (intitolato Contenuto del Pianto) è un sommario
dei temi trattati, quasi un kit preparatorio alla lettura dei versi; il secondo – il
compianto vero e proprio – (senza titolo) è composto da una serie di lasse numerate (i cui contenuti corrispondono appunto al sommario); nel terzo (intitolato 3 settembre 2004, ore 11 – Beslan) la poetessa apprende della strage dalla
televisione, mentre il quarto è la nota d’autrice. Proprio quest’ultimo passo risulta indispensabile per apprezzare la natura del testo (che è una riscrittura) e le
ragioni che ne hanno motivato la messa in versi. Riferendosi infatti alle inchieste del quotidiano «la Repubblica» e al planctus russo medievale, Donati spiega
che i «due pre-testi [le] hanno dato conforto, aiutandola a scrivere il già scritto, senza il fastidioso e colpevole rischio dell’invenzione e della poetizzazione»58.
La trasmissione della testimonianza (il Contenuto del Pianto) può scorrere
dall’immagine televisiva alla pagina scritta solo a patto che la poesia non racconti la tragedia, bensì tenti un risarcimento. Anche nei versi di Tiziano Rossi,
la poesia funziona come «strano risarcimento» e risponde al senso di smarrimen-
Ivi, p. 78. La preparazione dei banchetti funebri suona particolarmente toccante poiché
segue immediatamente i versi in cui sono descritti i resti del cibo sottratto dagli attentatori alla
mensa scolastica: «Hanno tenuto per loro il cibo dei bambini. / I contenitori di uova vuoti, sparsi
sui tavoli, / in cucina i pacchi per il pane, i cartoni del latte. // Si sono saziati» (ivi, pp. 77-78). Il
riferimento al latte e i versi seguenti entrano in collisione con la figura della «madre», che rinverrà
sullo stesso pavimento «una piccola confezione / di pasta» della figlia. Il latte di cui si sono letteralmente appropriati i terroristi è stato simbolicamente sottratto alle madri, pertanto la «piccola
confezione di pasta» rinvenuta dovrà essere raccolta dai parenti delle vittime e portata in famiglia
come risarcimento («La madre stringe il pacchetto. Lo riporta a casa»).
57
Georges Dumézil, Le livre des héros, légendes ossètes sur les Nartes, Parigi, Gallimard, 1965,
trad. it. di Bianca Candian, Il libro degli eroi, Milano, Adelphi, 1969.
58
A. Donati, Idillio con cagnolino cit., p. 90.
56
IL «COMPIANTO» MULTIMEDIALE NELL’EUROPA CONTEMPORANEA
201
to indotto dalla cronaca televisiva59. Parole già pronunciate (quasi appartengano a un patrimonio condiviso di compassione) vengono offerte da Alba Donati
per esprimere il desiderio di un contatto, poiché la scrittura tenta di compensare la perdita, non deve ideare modi per narrarla o produrla.
Il rischio della «poetizzazione» del male è stato illustrato da Pietro Montani
nel saggio L’immaginazione intermediale60, proprio in relazione al massacro di
Beslan. Rileggendo gli eventi con gli strumenti della critica visuale, Montani sottolinea innanzitutto che il sequestro è avvenuto durante la cerimonia della consegna dei doni tra vecchi e nuovi studenti61. A questo primo scambio mancato
(la cerimonia viene interrotta dall’attacco terroristico) segue un secondo scambio che rischia di fallire: la testimonianza dell’accaduto.
L’impressione è che, di fronte all’enormità di quell’orrore, chi lo stava documentando fosse stato assalito, non sempre, certo, ma con una frequenza significativa,
dall’insorgenza di una sensibilità del tutto anomala, per la forma che sarebbe stato necessario conferire a quel documento. Accadde così che quelle corse
affannose dei soccorritori con i bambini straziati tra le braccia fossero spesso
presentate al rallentatore. Talvolta accompagnate da una colonna sonora che
qualcuno dovette trovare appropriata. Come se quelle immagini fossero al contempo da distanziare e da confermare. Come se la loro capacità di testimoniare
la realtà dei fatti fosse al tempo stesso così eccessiva e così precaria da richiedere
la cura di una presentazione particolare (p. VIII).
La poesia di Alba Donati sembra reagire a questa crisi della testimonianza,
sembra rispondere con un testo che non vuole descrivere l’orrore, ma esprimere
un’assunzione di responsabilità collettiva62. La voce con cui Alba Donati si espri59
I testi Tivù e Poesia sono stati pubblicati in Tiziano Rossi, Pare che il paradiso, Milano,
Garzanti, 1998, ora in Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 2003, p. 342 e p. 353. I versi finali di
Tivù recitano: «mentre la tua / scardinata mandibola / più niente pronuncia». Tivù apre la IV sezione della raccolta, mentre la V è conclusa da Poesia: in un efficace pendant («Dunque la poesia,
che appiccica le toppe / sopra qualche petto lancinato, e in compassione / sistema qua e là due
ricami modesti. / […] Oppure di sbieco ci infila – precise faccine – / in un dipinto smisurato, a
strano / nostro risarcimento»).
60
Pietro Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo
visibile, Roma-Bari, Laterza, 2010.
61
Montani resoconta brevemente gli eventi nell’introduzione (p. I): «Il 1° settembre del
2004, alle 9.30, un commando di terroristi armati (almeno 32, ma il numero non è stato accertato) fece irruzione nella scuola N. 1 di Beslan, nell’Ossezia del Nord, barricandosi nella palestra
dell’istituto con circa 1200 ostaggi: bambine e bambini che, insieme a molti genitori e insegnanti, festeggiavano l’inizio dell’anno scolastico con una cerimonia tradizionale – lo scambio dei fiori
– definito “giorno della conoscenza”. Non fu chiaro, e non lo è tuttora, se i sequestratori fossero
separatisti ceceni (il leader separatista Maskhadov sconfessò l’azione) o se appartenessero a una
formazione più eterogenea».
62
I versi finali di 3 settembre 2004, ore 11 – Beslan recitano: «Dio, quella notte, troneggiava
nei miei sogni, urlava, / inveiva contro tutti, tutti, diceva, nessuno escluso. / Sembrava uno
scrittore russo, uno di un altro tempo». Mi sembra di particolare interesse l’assimilazione di Dio
202 SAMUELE FIORAVANTI
me vuole essere esplicitamente una voce materna, al punto da includere in esergo al Pianto uno squarcio autobiografico. Come avveniva nello Stabat Mater di
Nina Danino, la famiglia dell’artista viene apertamente coinvolta anche in Idillio
con cagnolino. Se nel film si trattava della madre Elena Danino, stavolta è la figlia
di Alba Donati63. Il compianto è quindi letteralmente un «Compianto della madre», perché l’intera raccolta è inarcata sulla dedizione e sull’assunzione di responsabilità, attraverso «il dialogo serrato tra madre e figlia»64. Anche la televisione torna da protagonista in un testo autonomo della raccolta, ma «questo schermo di
fatti minuti» è nuovamente impiegato come incentivo alla ricerca di un contatto
umano, al di fuori dell’immagine trasmessa65. In qualità di stimolo alla relazione,
lo schermo «sembra sacro» poiché, grazie alla precarietà della visione, invita all’integrazione e al risarcimento66. Stimola a cercare un linguaggio che possa parlare di
Beslan67. La Donati, pertanto, esprime l’esigenza di un’offerta, non tanto perché è
madre biologica, bensì perché interpreta quel maternal thinking teorizzato da Sara
Ruddick, secondo la quale «il pensiero nasce e [si forma] dalle pratiche» che le persone «esercitano»68. In analogia con il pensiero nomade di Deleuze, il pensiero materno deriverebbe dalla pratica o dalla riproposizione di atteggiamenti materni:
Modi specifici di concettualizzare, ordinare e valutare il mondo, in quanto l’esperienza della maternità sviluppa capacità intellettuali, giudizi, riflessioni, va-
a un narratore, quasi che un punto di vista ultraterreno fosse l’unico plausibile per esprimere la
strage di Beslan. Ma il riferimento alla letteratura russa ricontestualizza la conclusione, mettendola in attrito con la gestione dell’attacco terroristico da parte della autorità russe sul campo, e
richiamandole direttamente in causa al momento delle invettive («nessuno escluso») pronunciate
da Dio.
63
Si legge nel corsivo dell’esergo (Idillio con cagnolino cit., p. 69): «Io vorrei che non esistessero bambini ma solo un mondo di Wen Xuan!». Il riferimento criptico viene spiegato ancora una
volta in una nota, che entra nel testo come parte integrante (p. 89): «Wen Xuan non sa l’italiano,
è cinese, è il bambino preferito di mia figlia, tra i suoi compagni di classe». Il dettaglio della barriera linguistica mette in rilievo che la confidenza con Wen Xuan debba necessariamente trovare
canali comunicativi extralinguistici e stabilire, quindi, un rapporto affettivo simile a quello che
la poesia di Alba Donati vorrebbe istituire con le vittime di Beslan: un contatto umano al di là
della parola.
64
Cito nuovamente dall’aletta di C. Damiani per Idillio con cagnolino.
65
Ivi, p. 28. Il testo si intitola Tv: «Mentre guardi la televisione / io guardo te […] // Io lo
ammiro, questo schermo di fatti minuti / vi osservo le vicende del giorno / vi osservo le previsioni
della tua anima / così semplice mi appare allora il globo terrestre / e io lo guardo e quello schermo
che vedo / mi sembra sacro».
66
Sul ruolo della televisione nell’Italia contemporanea rimando a Carlo Freccero, Televisione,
Torino, Bollati Boringhieri, 2013. Cito in particolare il passo: «Da quando ha perso il suo ruolo
pedagogico, la TV di servizio pubblico continua a interrogarsi sulla sua identità, sino a dubitare
della sua stessa utilità» (ivi, p. 145).
67
In quest’ottica può essere letto anche il titolo scelto per la traduzione del libro di Julija
Juzik, Dizionario di Beslan, a cura di Roberta Frediani, Empoli, Ibiskos, 2013.
68
Francesca Rigotti, Essere madri, in Nicla Vassallo (a cura di), Donna m’apparve, Torino,
Codice Edizini, 2009, p. 35.
IL «COMPIANTO» MULTIMEDIALE NELL’EUROPA CONTEMPORANEA
203
lori e attitudini metafisiche di tipo particolare. Centrali al pensiero materno
sarebbero, in particolare, forme di attenzione e di amore che le madri praticano,
dal momento che importante è non quello che le madri sono, bensì quello che
le madri fanno. Questa premessa toglierebbe il pensiero materno dal rischio
di diventare essenzialista, ovvero di rispecchiare una presunta essenza o natura
femminil-materna69.
Anche tra le inchieste di Anna Politkvoskaja su Beslan figura un’intera sezione riservata alle madri delle vittime70. Politkvoskaja cita e discute la pubblica lettera scritta dalle madri agli insegnanti della scuola attaccata, una lettera durissima che chiede appunto di esercitare una specifica sensibilità morale e pretende
un’assunzione di responsabilità non tanto dalle autorità71, quanto dalle maestre
accusate di non aver sofferto abbastanza72, Anna Politkvoskaja si esprime decisamente contro lo «slittamento di responsabilità» e ipotizza che «qualcuno [abbia] forse saputo manipolare gli infelici»73.
5. Aida Šehović, «Što te nema?» (2004)
Ruota attorno all’accertamento delle responsabilità anche l’installazione di
Aida Šehović (Banjaluka, 1977), intitolata Što te nema? ed esposta per la prima volta l’11 luglio 2004 a Sarajevo. Što te nema? è un monumento collettivo
e temporaneo, periodicamente allestito e smantellato in memoria del massacro
di Srebrenica (luglio 1995)74. L’installazione è stata annualmente ricomposta e
Ibidem. Rileggere il testo latino dello Stabat Mater sotto quest’ottica permetterebbe di
concentrarsi sul fatto che la prima parola della sequenza sacra sia proprio il predicato. La madre
merita devozione non perché è madre, ma perché stava, cioè seguiva il figlio fino al tremendo
supplizio e, per amore, restava.
70
A. Politkvoskaja, Proibito parlare cit., pp. 235-245.
71
Ivi, p. 240: «E i terroristi? Molto strano, ma di loro si parla pochissimo. Ovviamente li
si maledice, ma sempre meno di quanto non si faccia con gli insegnanti sopravvissuti. Anche la
polizia viene lasciata in pace, benché l’attacco terroristico sia stato una provocazione nei suoi
confronti: la scuola n. 1 è vicinissima al distretto di polizia, a piedi distano un minuto. E Dzasochov [ex presidente dell’Ossezia del Nord]? Anche di lui si parla poco. E Putin? Non se ne parla
proprio».
72
Cito dalla lettera alle insegnanti: «Non rinfacciamo a nessuno di essere rimasto vivo mentre i nostri bambini sono morti. Ma cosa possiamo fare noi genitori? Chiedere perdono ai nostri
figli fino alla fine dei nostri giorni perché non siamo stati in grado di proteggerli? Perché abbiamo
avuto fiducia in un’insegnate per cui la loro salvezza non era la prima preoccupazione e li abbiamo mandati in una scuola la cui direzione li ha trattati con indifferenza?» (ivi, p. 236).
73
Ivi, p. 240.
74
Per uno studio sulle iniziative commemorative del genocidio di Srebrenica, rimando a:
Hariz Halilović, Long-distance Mourning and Synchronised Memories in a Global Context: Commemorating Srebrenica in Diaspora, in «Journal of Muslim Minority Affairs», XXV, settembre 2015,
3, pp. 410-422. L’articolo può essere scaricato all’indirizzo: <tandfonline.com/doi/full/10.1080
/13602004.2015.1073956>.
69
204 SAMUELE FIORAVANTI
disfatta con l’aiuto del pubblico, di volta in volta intervenuto nelle diverse piazze americane ed europee che hanno ospitato il lavoro di Šehović75. Gli spettatori possono infatti partecipare attivamente all’iniziativa attraverso il dono di una
piccola tazza in porcellana, da posizionare a terra accanto alle altre migliaia predisposte durante l’allestimento, affinché il numero delle componenti aumenti
di anno in anno, parallelamente al numero crescente delle vittime di Srebrenica
identificate e sepolte76. Le tazzine sono quindi riempite di caffè bosniaco, preparato in loco a più riprese durante la giornata, poiché «prendere una tazza di
caffè insieme è un rituale fortemente radicato nella cultura bosniaca e il desiderio di bere un caffè con i defunti è un’espressione di intimo dolore»77.
Persino durante l’assedio di Sarajevo, la condivisione del caffè in un giardino fiorito costituiva, nelle parole di Zlatko Dizdarević, un momento di sorprendente confidenza78, mentre Dževad Karahasan e Aleksandar Hemon constatano
che nella «cultura gastronomica» di Sarajevo «si riflette l’interezza della città, così
come nella sfera di cristallo si rifletterebbe l’intero mosaico di cui essa è parte»79.
L’installazione Što te nema? dipende certamente dal coinvolgimento del pubblico, che coopera alla riuscita del «rituale», ma il nucleo iniziale di fildžani (tazzine), dal quale è poi germinata l’opera, è stato raccolto e donato dall’associazione Women of Srebrenica, sicché sono ancora una volta le donne a incaricarsi di trovare modi e formati per esprimere il compianto attraverso un’offerta80.
Per una documentazione fotografica rimando al sito dell’artista (<aidasehovic.com>) che
raccoglie immagini dell’installazione a Sarajevo (2006), Tuzla (2008), L’Aia (2009), Stoccolma
(2010), Burlington (2011), Istanbul (2012), New York (2013), Toronto (2014), Ginevra (2015),
Boston (2016).
76
Cito dal sito dell’artista (<aidasehovic.com/#/sto-te-nema-nomadic-monument/sarajevo-2006/>): «The monument consists of a growing collection of fildžani, small porcelain coffee
cups, continuously collected and donated by Bosnian families from all over the world. The total
number of fildžani roughly corresponds to the growing number of body remains found, identified, and buried to date».
77
Traduzione mia dall’inglese: «As Aida explains, sharing a cup of cofee in Bosnian culture
is a deep-rooted ritual and longing to share a cup of coffee with the deceased is an intimate expression of sorrow» (Alon Halevy, The Infinite Emotions of Coffee, a cura di Orana Li Halevy, Los
Altos (California), Macchiatone Communication, 2011, p. 68).
78
Zlatko Dizdarević, Journal de guerre. Chronique de Sarajevo assiégé, Parigi, Spengle éditeur, 1993, trad. it. di Adriano Sofri, Giornale di guerra. Cronaca di Sarajevo assediata, Palermo,
Sellerio, 1994, pp. 42-43: «In un giardino, sotto le foglie verdi di un albero, la gente ha tirato
fuori caffettiera e tazze e beve un caffè. È probabile che siano sopresi per il passante sconosciuto,
come è successo a me scorgendoli. […] Abbiamo bevuto il caffè insieme. Erano contenti di avere
lì un giornalista al quale rivolgere delle domande. Quanto a me, ero felice di non aver mancato
la primavera. […] Attorno a quel caffè, il migliore della mia vita, mi hanno chiesto: “Giornalista,
dicci, santo Dio, quando finirà tutto questo?”».
79
Dževad Karahasan, Dnevnik selidbe, Zagabria, Duriex, 1993, trad. it. di Nicola Janigro e
Cristina Beretta, Sarajevo centro del mondo, diario di un trasloco, Lugano, ADV Publishing House,
2012, p. 25. Per un’interpretazione metaforica sulla preparazione del borscht, si legga Aleksandar
Hemon, The Books of My Lives, Londra, Picador, 2014, pp. 37-39.
80
A tal proposito si è espressa la storica olandese Selma Leydesdorff in Surviving the Bo75
IL «COMPIANTO» MULTIMEDIALE NELL’EUROPA CONTEMPORANEA
205
In quest’ottica, è particolarmente significativo che l’organizzazione fondata ad
Amsterdam, per agire nell’interesse dei parenti delle vittime di Srebrenica, sia
stata espressamente chiamata Stichting Mothers of Srebrenica, il cui recente successo è sfociato nella sentenza cedu «Madri di Srebrenica»81. L’assunzione di un
nome apertamente connesso alla nozione di maternità non è un episodio isolato: basti pensare all’Asociación Madres de Plaza de Mayo o al caso della European
Union Naval Force, informalmente chiamata Operazione Sophia, dal nome della
bambina nata a bordo di una nave europea, durante una missione di salvataggio
nel Mediterraneo82. Nel corso della trattazione, allo schema iconografico dello
Stabat Mater è subentrata una nuova costellazione di contributi eterogenei. Non
sono interventi necessariamente artistici o letterari e pertanto hanno espanso i
tòpoi del «Compianto» e della «Pietà», includendo espressioni più specificamente etiche o giuridiche, ma anche partecipative e istituzionali. Riguardo all’eccidio di Srebrenica, Olivera Simić si è espressa sull’opposizione tra una retributive justice e una restorative justice, focalizzando la distinzione tra un’assunzione di
responsabilità e una richiesta di risarcimento che facilitino il superamento dei
contrasti e un modello deteriore che tenda, invece, a complicarlo: «Retributive
justice […] focuses on prosecution and punishment of perpetrators, [whilst] restorative justice emphasizes the restoration of common bonds and the transformation of subjective factors than can harm community such as resentment, anger, and desire for vengeance»83.
Il portale britannico «Remembering Srebrenica» prova a favorire l’emersione
di procedimenti inclusivi e intermediali, attraverso un archivio online, in continuo aggiornamento, al quale è possibile collaborare inviando testi, preghiere
o brani musicali a fini commemorativi84. Tra le iniziative è stata segnalata anche l’installazione di Aida Šehović85, in cui il pensiero materno di Sara Ruddick
sembra porsi come stimolo e movente. Il procedimento implica, infatti, l’individuazione di una perdita, cui tale atteggiamento si dedica con l’intenzione di
compiere un atto compensativo.
snian Genocide: The Women of Srebrenica Speak, Bloomington (Indiana), Indiana University Press,
2011.
81
Il testo completo della sentenza può essere consultato nell’archivio online della Corte
Europea per i Diritti dell’Uomo, <hudoc.echr.coe.int/eng#{“itemid”:[“001-122255”]}>.
82
Per un quadro riassuntivo degli scopi e dei paradossi della missione, rimando a: Isabella
Querci, Cos’è la missione militare UE nel Mediterraneo, in «Zeppelin» (<thezeppelin.org>), 21
ottobre 2015, alla pagina: <thezeppelin.org/cose-la-missione-militare-ue-nel-mediterraneo/>.
83
Olivera Simić, What Remains of Srebrenica? Motherhood, Transitional Justice and Yearning
for the Truth, in «Journal of International Women’s Studies», X, ottobre-dicembre 2009, 4, p.
227. Il testo integrale può essere consultato online: <vc.bridgew.edu/jiws/vol10/iss4/14>.
84
L’indirizzo del portale è <srebrenica.org.uk>. I materiali già archiviati possono essere consultati alla pagina: <srebrenica.org.uk/information/poems-and-prayers//information/
poems-and-prayers/>.
85
Una documentazione relativa a Što te nema? può essere visualizzata all’indirizzo: <srebrenica.org.uk/resources/research-resources/art-photography/aida-sehovic/>.
206 SAMUELE FIORAVANTI
Dorothy Cross e Nina Danino hanno cercato di restituire agli spettatori
una visione responsabile dell’ambiente in cui hanno operato (Valentia Island,
Gibilterra) e delle relazioni umane che vi si sono stabilite. Alba Donati e Aida
Šehović hanno reinvestito l’eredità di una tradizione (l’epica russa e la preparazione del caffè) nel tentativo di visualizzare l’orrore, per poi rispondere stabilendo nuovi legami. Tutte e quattro le opere concepiscono la maternità come un
ingaggio morale, al di fuori dei ruoli biologici, e considerano il compianto come
un mandato sociale, a partire dall’iconografia del dolore condiviso.
POSTILLA PER UNO STABAT MATER DI OGGI
Oleksandra Rekut-Liberatore
Nel racconto degli ingranaggi del reale e quindi del pulsare della vita e delle sue ferite, un posto a parte spetta alle madri che hanno perso un figlio e che
Nicole Loraux qualifica come τὰς πενθοῦσας1 exemplaires. Riflettendo sulla
morte in seconda persona, Jankélévitch riporta un esempio crudo e significativo: «Nessuna forza quaggiú può far rivivere questo prezioso, questo incomparabile hapax letteralmente unico in tutta la storia del mondo. Niente assomiglia
di più alla disperazione di morire della desolazione di questa madre affranta»2.
In alcuni testi presi in esame – Sia fatta la tua volontà di Stefano Baldi, Il segreto è la vita di Alessandro Cevenini e Il talento della malattia di Alessandro
Moscè – la voce narrante è ascrivibile al figlio colpito da cancro. Elaborare una
narrazione è un processo di costituzione di un senso della sofferenza; in questo caso la propensione mimetica appartiene ad autori giovanissimi che decidono di rendere pubblica (in modo più scopertamente autobiografico Cevenini
e Moscè) la loro dimensione empirica, fatta di presente immobile e inesorabile
approssimarsi della fine. La mater dolorosa appare dunque attraverso la filigrana
della visione del figlio: più realistica nel Segreto è la vita e nel Talento della malattia, quasi astratta – icona dell’oblatività dell’amore senza limiti – in Sia fatta
la tua volontà. Il suo tacito dolore è sia il silenzio riluttante di Tiresia che vuole e deve celare verità indicibili, che quello di Giocasta che fa presagire al coro
l’erompere di un’inevitabile sciagura. Non si trovano le parole giuste per descriverla, né per attenuarla con l’ausilio della pagina letteraria: «les mots n’ont de
pouvoir véritable qu’à condition de mettre à nu leur fondamentale impuissance à réparer quoi que ce soit du désastre du monde»3. Significativo è il fatto che
1
Sintagma greco per definire le «donne in lutto», in Nicole Loraux, Le madri in lutto [1990],
Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 23.
2
Vladimir Jankélévitch, La morte [1966], a cura di Enrica Lisciani Petrini, Torino, Einaudi,
2009, p. 26.
3
Philippe Forest, L’enfant éternel, Paris, Gallimard, 1997, p. 219. A proposito del silenzio
materno, Forest evoca il rimprovero della moglie a Stéphane Mallarmé di coprire il corpo del loro
figlio scomparso con la follia verbale incarnata in Pour un tombeau d’Anatole.
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
208 OLEKSANDRA REKUT-LIBERATORE
non sia stato mai stabilito un vocabolo per definire il genitore che ha perso un
figlio4. L’ineffabilità dell’evento straziante, che ancora oggi impone spesso il silenzio alle madri, non impedisce ai figli, che stanno per congedarsi da questa
esperienza terrena, di rappresentarle.
In Sia fatta la tua volontà di Baldi ci imbattiamo in una tipologia di madre
che riesce a vivere il maelstrom dove è precipitato Luca – colpito da un «carcinoma bronchiolo-alveolare mucinoso»5 – privilegiando la fede in una gerarchia
cosmica e tentando l’ardua trasformazione alchemica del negativo in positivo.
L’autore, riuscendo ad abitare i pensieri materni, proietta sul terreno finzionale la rottura del continuum della vita; in tal modo può proporle una prospettiva
escatologica e, al contempo, suggerirle la postura mentale più appropriata quando corpus morietur. Un forte stimolo per non soccombere al lutto è la presenza del primogenito Giorgio, diversamente abile e dunque bisognoso della forza
materna. Così Teresa Pagnozzi – la madre mimetica – vive i primi momenti seguenti al funerale di Luca:
Come rapito da un’urgenza improvvisa, Giorgio si alzò da tavola e, senza dire
una parola, corse in camera sua. La madre lo accompagnò con lo sguardo fin
dove poté. Poi lui sparì, dietro la porta della cucina. Sentì i pesanti passi, su per
la scala, e sentì la porta al piano di sopra. // Non lo vedeva più, e ora nemmeno
lo sentiva. Però c’era, al di là di qualche muro, soltanto un po’ più in alto. E
questo doveva valere anche per Luca. Non era cancellato: c’era. In un modo diverso, al di là di qualche muro, soltanto un po’ più in alto. // Era ora di alzarsi.
La polvere doveva essere spazzata via. // E il mondo andava spinto avanti. Le sue
mani servivano a quello. A stringere quelle di Luca, ora c’era qualcun altro. Si
concesse un’ultima lacrima, che subito asciugò. Poi si alzò in fretta, infilandosi
il grembiule6.
Una Cariatide che si appresta, con la sua dimensione emotiva incava e ricettiva, a sostenere il mondo tutto. Alla comunicazione del cancro non ha versato
lacrime, per rispetto e per essere alla pari col figlio che ha dimostrato, trovando
le parole per comunicarlo, coraggio e temperamento:
Per tutto il viaggio in macchina, aveva pensato alle parole da dire e a come
avrebbe potuto sostenere lo sguardo della madre. Non voleva ucciderla, povera
donna. Non lo meritava […]. // come il più stronzo dei figlioli prodighi, stava
tornando da lei solo per spezzarle il cuore dicendole «muoio». // Aveva paura:
non sarebbe mai riuscito a dirle tutto senza sentirsi la voce rotta, senza cedere al
4
Quando muore un compagno di vita chi rimane è «vedovo»; quando muore un genitore,
il bambino è «orfano». Quando muore un figlio, non c’è una parola che possa dire cosa sono
quell’uomo, quella donna. Manca un nome, manca la parola per dirlo.
5
Stefano Baldi, Sia fatta la tua volontà, Bologna, Pendragon, 2009, p. 140.
6
Ivi, pp. 318-319.
POSTILLA PER UNO STABAT MATER DI OGGI
209
desiderio di mettersi a piangere lui stesso come un bambino. // Invece ci riuscì,
anche se non per merito suo7.
Il testo, oltre a tessere una storia sul cancro, effigia una mater fons amoris;
è grazie a lei che il dominio del tempo, che collassa e dilegua, assume un senso e una pienezza inaspettati. Pilastro portante sostenuto da un’ostinazione che
è un modo altro di nutrire la relazione e declinare l’amore filiale pur nel cuius
animam gementem trova sempre una parola, un gesto o un momento di silenzio appropriati:
Non avrebbe mai dimenticato, Teresa, la faccia di Luca, quel giorno. Non avrebbe mai dimenticato quegli occhi già troppo gonfi di sofferenza per poter parlare.
Lo ascoltò, crollando pian piano, in silenzio. Cercando di non fare rumore o
fumo con le sue macerie. Sforzandosi di non far divampare le lacrime. Gli accarezzò semplicemente la testa, dolcemente, con la sua mano ruvida di lavoro
e di mille anni di fatiche, trattenendo con forza lacrime che avrebbe pianto
volentieri. // Non gli disse «non ti preoccupare», perché non voleva mentirsi. //
Non gli disse «ce la faremo», perché una voce le diceva che non ce l’avrebbero
fatta. Preferì essere sincera, e disse solo l’unica cosa di cui fosse certa, in quel
momento «Il Signore non ti abbandonerà»8.
Nel Segreto è la vita di Alessandro Cevenini la madre entra in scena quando
il figlio accusa un vago malessere. Non sottovalutando la gravità della febbre alta
e altri sintomi in apparenza poco preoccupanti, immediatamente si attiva ed è
grazie alla sua prontezza che Alessandro viene ricoverato d’urgenza. Qui l’ordine
delle rivelazioni risulta invertito. È la madre che, conscia della diagnosi di leucemia mieloide acuta, si mostra titubante sull’opportunità di renderne edotto il
figlio. La voce tremante e il pianto davanti ai medici non ostano al fatto che è
proprio lei – nel cerchio stretto degli affetti – a decidere obtorto collo di svelargli
la verità. «Mamma!»9, in una sorta di reiterazione del primigenio sillabare, risulta la prima parola profferita dal figlio, improvvisamente consapevole dopo lunghe settimane di coma. È di nuovo lei, attenta e vigile, ad accorgersi di questo
risveglio miracoloso. Il male si fa symbolon e riunisce, per forza maggiore, i genitori divorziati in una preghiera collettiva. Ed è sempre per l’azione unificante
della famiglia, temporaneamente ricostituita, che più di duecento amici si dichiarano disposti a donare il sangue ad Alessandro. Nonostante l’unità d’intenti e la somma delle forze, la malattia riprende vigore dopo un ritrarsi illusorio e
breve. La madre – come il Dio della tradizione cristiana – legge nel pensiero e sa
indovinare i desideri reconditi e le paure del figlio assillato dalla degenerazione
7
8
9
Ivi, p. 148.
Ivi, p. 151.
Alessandro Cevenini, Il segreto è la vita, Milano, Piemme, 2012, p. 36.
210 OLEKSANDRA REKUT-LIBERATORE
corporea. La dolcezza avvolgente del suo sguardo e la sua stretta di mano sono
un caldo conforto, mentre si è al cospetto del volto oscuro e tirannico della malattia – memori del freudiano primo soccorso all’esordio traumatico della vita:
Io me la stringo. Mi fa tenerezza, così agitata, così emozionata. Mi guarda con
l’intensità che hanno i suoi occhi in questi mesi. Le faccio l’occhiolino. Sì, voglio dirle, sto bene. E non «abbastanza bene», ma proprio bene. Sono appena
un poco gonfio per il cortisone e per gli antibiotici. Ma la «stronza» è sotto
controllo, stavolta l’abbiamo davvero presa in contropiede10.
Dopo vari tentativi infruttuosi, si ricorre all’extrema ratio di un trapianto con
le cellule compatibili del fratello. Anche stavolta è la madre ad accompagnare
al nosocomio e ad apprendere, col figlio a fianco, che le terapie stanno per finire in un vicolo cieco:
Mamma conosce la mia determinazione e io gliela mostro ancora una volta,
perché so che ne ha bisogno. So che i medici non le hanno dato buone notizie.
Lo vedo nel suo sguardo, nella sua calma studiata, voluta, nei suoi gesti di affetto, che non sono mai mancati, sempre gli stessi, eppure oggi sono carichi di
un’intensità nuova11.
Quando c’è di mezzo un figlio adulto, il rapporto si evolve in una protezione vicendevole. Lo struggimento si avvita in un climax che culmina, nonostante
il coraggio e la determinazione inesausti, con la morte del suo «amoroso giglio»:
«Io guarirò, mamma. Ci credi?» // Mamma si siede sul letto, sospira. Anche oggi
mi ha portato da mangiare cose buone. La mamma che nutre il suo bambino:
l’abc dell’amore umano. // «Certo che ci credo, Alex. Ci credo perché ti vedo
così forte e perché qui nessuno si arrende, lo sai». // L’abbraccio forte. Non riesco ad alzarmi in piedi, ma voglio che sappia che non le mancherà mai, il mio
abbraccio, qualunque cosa dovesse succedere12.
Gradualmente le parole si trasformano in carezze e in «singhiozzi trattenuti a forza»13 negli ultimi sguardi della madre e degli altri familiari che il morente riesce a percepire.
Altre sfumature sul medesimo tema sono presenti nel Talento della malattia
di Alessandro Moscè. Pagine autobiografiche a lieto fine che raccontano il patimento materno a causa del sarcoma di Ewing del figlio. Disvelare alla madre,
dopo un lungo periodo di occultamento del male da parte dell’adolescente, la
10
11
12
13
Ivi, p. 122.
Ivi, p. 217.
Ivi, p. 218.
Ivi, p. 225.
POSTILLA PER UNO STABAT MATER DI OGGI
211
presenza di una ciste addominale risulta ostico. Solo quando i dolori si fanno
strazianti e la tumefazione cresce a dismisura, si approda, dopo varie perifrasi,
all’articolazione dell’inconfessabile. La fiducia accordata «ai medici e alle cure»14
dalla mamma di Alessandro, non è pari a quelle di altre che, talvolta, scaramantiche, intravedono tra le scaturigini della malattia oncologica le energie negative dei malocchi, dei demoni, delle fattucchiere e dei maghi che «preparano gli
influssi malefici, oggetti che si mettono nei cibi, nei cuscini, dentro i cassetti»15.
Memorabile, in tal senso, è la madre del compagno di stanza, Sergio, sofferente per una metastasi che gli gonfia l’arto:
La madre, superstiziosa, pregava la Madonna. Era convinta che Satana si impossessasse dei ragazzi. Uno strumento maligno per le persone cattive. Il diavolo
si presentava sotto forma di malattia. // – Gli spiriti cattivi cercano tutte le vie
possibili per togliere gli uomini alla vita, specie i più deboli, gli indifesi – ripeteva. // Lo diceva credendo che il figlio potesse guarire solo con un esorcismo. E
pensava che il male fosse contagioso16.
La donna, sorta di santona visionaria, disturba e impedisce la gestione delle
terapie, opponendosi ferocemente all’amputazione della gamba del figlio. Il graduale peggioramento di Sergio trova alfine una mesta conclusione con la morte
nella stanza ospedaliera. È la madre che per prima ha l’inequivocabile percezione tattile del corpo freddo del figlio; rifiuta, in ogni caso, la verità e pensa, ingannando se stessa, alla bassa temperatura dell’ambiente o alla semplice noncuranza e sbadataggine del personale sanitario:
Una mattina [Sergio] incominciò a tossire. Quel suono gutturale sembrava provenire da un corpo cavernoso e distante, era un grido senza parole, strozzato in
gola, finché divenne un sibilo. A un certo punto la tosse non lo tormentava più.
Dormivo, finché la madre di Sergio mi svegliò toccandomi un braccio. – È freddo, è freddo. Ha il ghiaccio addosso, bisogna accendere i termosifoni. // – Suoni
il campanello – le dissi. Accorse un’infermiera sbadigliando. Gli coprì la testa
con un lenzuolo. // – Ma cosa fa? Così non respira più. // – Si sieda, signora.
// – Perché ha le mani fredde? // – Suo figlio ci ha lasciati. // – Non ci credo…
L’avete ucciso17.
L’incredulità per la fine della vita è una delle reazioni più diffuse che si può
riscontrare nei testi odierni sul cancro.
Ancora più lacerante ed estrema è l’esperienza quando a essere colpito è un bimbo – depositario par excellence della pietas – che porta su di sé
14
15
16
17
Alessandro Moscè, Il talento della malattia, Roma, Avagliano, 2012, p. 167.
Ibidem.
Ivi, p. 166.
Ivi, p. 168.
212 OLEKSANDRA REKUT-LIBERATORE
le impronte di un destino avverso. Il critico e romanziere francese Philippe
Forest18 afferma:
Si le cancer apparaît comme un scandale supplémentaire lorsqu’il touche les
enfants, les raisons en sont assez évidentes. Elles tiennent à l’extrême rareté
statistique d’une maladie dont les cas, en pédiatrie, se comptent au nombre
de quelques milliers seulement chaque année. Elles tiennent aussi au caractère
contre nature de la menace de mort extraordinairement prématurée qu’elle fait
peser sur une existence qui vient tout juste de commencer et à laquelle davantage de temps devrait équitablement être dû19.
E altrove:
Dans la vraie vie, les enfants meurent rarement. Dans les livres, l’événement est
plus improbable encore. Les écrivains reculent devant ce qui leur semble n’appeler que le silence, ils ne se sentent jamais de taille à forcer les frontières de cet
indicible-là. Ce scandale fait taire toute métaphysique. En comparaison, tout
drame prend des allures de pirouette savante20.
La specificità di una morte così precoce è l’inconsapevolezza dell’infante
ignaro. Il peso di un così devastante dolore viene sostenuto dai genitori, anche
se con un’asimmetria emotiva. A differenza dei testi precedenti, la voce narrante del Regno di Op – acronimo di oncologia pediatrica – appartiene alla madre.
Rivolgendosi a se stessa con il tu, Paola Natalicchio – mamma di Angelo, ricoverato, a soli due mesi, nel Regno di Op – così descrive il primo impatto con
la malattia: «Tu pensavi solo: perché non a me, che magari posso sopportarlo?
Perché a mio figlio? Proprio a mio figlio?»21. L’atteggiamento della narratrice è
esente da tristezze neghittose foriere di vittimismo e passività; anzi il telos evidente del libro è spronare e incoraggiare i parenti degli oncomalati a coltivare la
speranza, affinché il cancro si trasformi in una malattia da cui si possa guarire:
Poi ci fai pace, con le chemioterapie. La paura la perdi. Diventi bravo a chiuderla in un armadio e a buttare la chiave. Sorridi alle infermiere che entrano con
in mano le siringhe giganti […]. // Ci fai pace perché lentamente impari che
un tumore di otto centimetri si può sciogliere come ghiaccio. E che il Regno di
Op non è una prigione, ma un posto dove si possono guarire i bambini – e dove
con un po’ di pazienza, un po’ di fortuna, forse guarirà anche il tuo. Bisogna
concentrarsi su questo22.
18
19
20
21
22
Il decesso infantile per tumore è una delle sue tematiche più frequentate.
Ph. Forest, Tous les enfants sauf un, Paris, Gallimard, 2007, p. 69.
Ph. Forest, L’enfant éternel cit., p. 193.
Paola Natalicchio, Il Regno di Op, Torino, Einaudi, 2013, p. 5.
Ibidem.
POSTILLA PER UNO STABAT MATER DI OGGI
213
Siamo al cospetto di una pedagogica educazione alla prossimità. Il racconto del
felice superamento di un fibrosarcoma addominale, un tumore «alla pancia impossibile da prevedere e da spiegare»23, s’intreccia alle storie dei tanti bambini ricoverati nel Regno di Op. Non esiste una linea di demarcazione; crucifixo condolere, gioie e sofferenze, vengono condivise da tutto il reparto. Loraux, nel saggio Le madri
in lutto, osserva che «tra madri afflitte esiste una sorta di terribile complicità»24, o
meglio «una società»25, per dirla con Shakespeare. Emblematico, in questo senso, è l’episodio della morte di Bernardo nel Regno di Op per un ependimoma, «un
rarissimo tumore del midollo spinale»26. L’ineffabile dolore della madre Serena la
porta a interagire con un’empatia superiore con i genitori di malati oncologici:
Poi Serena mi ha preso la faccia tra le mani. E abbiamo pianto in silenzio. Poi
abbiamo pianto più forte. E poi mi ha detto due cose, che raccontano bene lei
chi è. «Perché sei venuta? Perché ti stai prendendo pure questo dolore? Tornatene da Angelo, non è giusto che ti metti a piangere per noi». E ancora: «Lo sai che
ci ho parlato, mentre se ne andava via? Gli ho detto che adesso si deve occupare
di Astrid, di Manuel e di tutti. Adesso vi deve portare fuori da lì. Mi ha detto
che ci pensa lui»27.
Ma un libro ancora più struggente, segnato dalla morte del giovanissimo
protagonista (Manuel, 9 anni) colpito da neuroblastoma al lV stadio, è Il piccolo guerriero della Luce. La madre di Manuel – Enza Maria Milana – col figlio
ancora in vita, ma in realtà senza più speranze, prende appunti, colleziona disegni, raccoglie le preghiere e le lettere che compaiono nel racconto. La ritrosia iniziale per questa attività dall’acre sapore di «testamento, di morte annunciata»28,
viene accantonata, davanti alle numerose richieste di uomini di chiesa di conoscere meglio i pensieri e i sentimenti di un giovane martire, ma soprattutto per
tener fede al desiderio del figlio che ha scelto lei – mamma Enza – come testimonial della sua sofferenza e della sua fede. Colpisce la maturità dell’imberbe
malato e il fatalismo della madre che rassegnata, riconosce malgré elle le arcane e
poco eque dinamiche del destino che prevalgono sul bisogno primario materno
di vivere accanto al figlio, il più a lungo possibile. L’allusione a una figura evangelica, presente d’altronde a chiare lettere, è quindi giustificata:
Conoscendo l’intesa con il suo Amico [Gesù], nell’ultimo ricovero all’ospedale,
Enza lo [il figlio] supplica di chiedergli di alleggerire le sue sofferenze. E lui,
Ivi, p. 4.
N. Loraux, Le madri in lutto cit., p. 7.
25
Ibidem.
26
P. Natalicchio, Il Regno di Op cit., p. 22.
27
Ivi, p. 72.
28
Enza Maria Milana-Valerio Bocci, Manuel. Il piccolo guerriero della Luce, Torino, Elledici,
2015, p. 65.
23
24
214 OLEKSANDRA REKUT-LIBERATORE
quasi stizzito: // «Mamma, ma che ti prende? Non lo sai che non posso pregare per
me?». // Risposta profonda ma difficile da accettare. Si può solo accoglierla nel
silenzio e rimanere accanto al figlio come Maria quel giorno sul Calvario29.
Manuel, seppure in uno stato afflittivo, si mostra protettivo e promette alla
madre, per consolarla, di visitarla quotidianamente dopo la morte. Ed è proprio
Enza, esaurite le scorte di coraggio e forza, tenendolo per mano, che «gli si avvicina all’orecchio e gli sussurra: “Manuel, basta soffrire. Vai dal tuo amico Gesù.
Vai, gioia mia, ti sta aspettando”»30. Quattro giorni dopo la fatidica autorizzazione alla resa, Enza avverte che i battiti del cuore di Manuel perdono forza e
ritmo e fa appena in tempo a chiedere ai sacerdoti di impartirgli la Comunione
e l’unzione. Ma come testimonia la recente pubblicazione del Piccolo guerriero della Luce, l’impegno costante di Mamma Milana nel sostenere i bambini e i
genitori che popolano i reparti oncologici, il lascito del bimbo e il fertile dialogo madre/figlio permane vivo e fruttifero.
Stabat Mater dolorosa: il silenzio o lo sfogo logorroico, l’isolamento o la disponibilità verso gli altri, la fede o la scelta laica, l’abbattimento o l’incredulità
sono alcune delle possibili modalità espressive della madre afflitta, axis mundi
familiare, nel suo impervio tentativo di un cammino di redenzione, quando il
supplizio si fa misura della vita che anticipa l’elaborazione del lutto.
29
30
Ivi, p. 143.
Ivi, p. 186.
SULL’ECO DELLA MUSICA
ALLE ORIGINI DELLA «RELIGIONE DELLA MUSICA» ROMANTICA
WACKENRODER FRA STABAT MATER, SUGGESTIONI CECILIANE
E TENTAZIONI FAUSTIANE
Patrizio Collini
Le Effusioni di cuore di un monaco innamorato dell’arte di Wackenroder, incunabolo (1796) del Romanticismo tedesco, costituiscono un precipitato di
tutte le riflessioni romantiche sull’arte e la letteratura: dall’iniziale celebrazione
degli antichi maestri della grande pittura rinascimentale e di un’arte dimentica
del proprio tempo ad una bruciante passione musicale, una vera e propria religione della musica il cui vangelo di redenzione del mondo è annunciato nell’ultima cronaca della raccolta, l’unica di natura musicale e l’unica dedicata ad un
artista contemporaneo: La straordinaria vita del compositore Joseph Berglinger.
Che in questa repentina svolta dall’elemento figurativo pittorico a quello acustico/musicale l’«ascolto» delle confuse «voci» del mondo contemporaneo (ovvero della Rivoluzione e dei fatti di Francia) svolga un ruolo determinante e maieutico è fuor di dubbio, apparendo il «rumore del mondo» come il passato ancestrale della musica:
È spaventoso se ci penso! Tutta la vita sto qui seduto, eremita lascivo, e succhio tutti i giorni interiormente belle armonie e bramo d’assaggiare l’ultima
ghiottoneria della bellezza e della dolcezza. E quando ascolto le notizie di come
instancabilmente scorra vicinissima la storia del mondo umano con migliaia di
cose importanti e grandi […] e poi, la cosa più sconvolgente, come le ingegnose
schiere guerresche della miseria, vicinissime intorno a me, torturino con migliaia e migliaia di differenti sofferenze, malattia, affanno e bisogno, come oltre alle
spaventose guerre, la guerra sanguinosa dell’infelicità impazzi ovunque […]. E
in mezzo a questo tumulto io rimango tranquillamente seduto come un bambino sul suo seggiolone e esalo brani musicali come bolle di sapone nell’aria…1
Le stazioni della conoscenza musicale e esistenziale di quel vero e proprio calvario costituito dalla storia di Joseph Berglinger – prototipo di tutte le tragiche
figure di musicisti della letteratura romantica e oltre (dal Kreisler hoffmanniano
1
Wilhelm Heinrich Wackenroder, Una lettera di Joseph Berglinger, in Opere e lettere, Milano,
Bompiani, 2014, p. 503 (trad. di Federica La Manna).
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
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218 PATRIZIO COLLINI
al Faustus thomasmanniano) – si compiono sulla falsariga di un paradigma cristologico ricorrente nel Romanticismo tedesco e conducono dagli spasmi dello
Stabat Mater alle fantasie ceciliane, fino alla febbricitanti fantasticherie faustiane di un dominio del mondo per tramite della musica.
La meditazione sullo Stabat Mater da parte di Berglinger sfocia in una sua
investitura, non solo musicale, essendo palese come la devozione a Frau Musica
produca infine un’identificazione del giovane e lacerato musicista con l’Uomo
dei dolori redentore del mondo. Questa fantasia cristologica e mariana riposa
verosimilmente non solo sui versi dello Stabat Mater, le cui prime due strofe
sono citate per esteso2, ma anche sulla breve e tragica vita del compositore del
più celebre degli Stabat Mater: Giovan Battista Pergolesi. Vita davvero memorabile che costituisce forse la prima fonte della Straordinaria vita del compositore Joseph Berglinger3. È noto infatti come Wackenroder possedesse una raffinata cultura musicale acquisita sotto il magistero di uno dei più grandi compositori della sua epoca, Johann Friedrich Reichardt, ed è altresì noto come intorno
alla figura di Pergolesi e al suo tragico destino «romantico» si andasse coagulando nella Germania della seconda metà del Settecento una vera mitologia, attestata anche dalle traduzioni che del testo dello Stabat Mater fecero due dei più
grandi scrittori tedeschi del Settecento: Klopstock e Wieland4.
Le tappe della vita di Berglinger, dagli inizi oscuri e improduttivi fino alla
composizione di quel suo capolavoro terminale, l’oratorio «in cui si raccolgono
tutti i dolori del mondo» – e nel quale si consuma l’agonia e la trasfigurazione
del giovane musicista – appaiono ricalcate su quelle di Pergolesi che dall’oscuro apprendistato degli esordi pervenne alla creazione dei capolavori degli ultimi
cinque anni della sua brevissima esistenza culminante nell’atto finale dello Stabat
Mater5. Ma la carriera di Berglinger non costituirebbe a sua volta quel davvero
memorabile exemplum, anzitutto letterario-musicale, se in essa non si succedessero inopinatamente le più sorprendenti metamorfosi musicali. La meditazione sullo Stabat Mater costituisce infatti solo l’abbrivio di una passione musicale che, muovendo dal pio raccoglimento ai piedi della croce, sfocerà in una febbricitante ed ebbra devozione nei confronti di Frau Musica il cui culto tutto se-
2
W. H. Wackenroder, La straordinaria vita del compositore Joseph Berglinger, in Opere e lettere
cit., p. 267 (trad. di Andrea Benedetti e Federica La Manna).
3
Cfr. Claudia Albert, Zwischen Enthusiasmus und Kunstgrammatik: Pergolesi als Modell für
Wackenroders Berglinger-Erzählung, in Gabriele Brandstetter (a cura di), Ton-Sprache. Komponisten in der deutschen Literatur, Bern, Haupt, 1995, pp. 5-27.
4
A proposito della straordinaria fortuna dello Stabat Mater nella Germania della seconda metà del Settecento va rilevato come la sua ricezione sia sovraconfessionale, da parte protestante e cattolica (cfr. Dirk Kemper, Sprache und Dichtung. W.H. Wackenroder im Kontext der
Spätaufklärung, Stuttgart/Weimar, 1993, p. 239 e Jacob de Ruiter, Wahre Kirchenmusik oder
Heuchelei? Zur Rezeption des Stabat Mater von Pergolesi in Deutschland bis 1820, in «Die Musikforschung», 1990, 43, pp. 1-15.
5
Sull’ultimo Pergolesi cfr. la raccolta di saggi Il caso Pergolesi, Bergamo, Bolis, 1985.
ALLE ORIGINI DELLA «RELIGIONE DELLA MUSICA» ROMANTICA
219
colare si sostituisce a quello religioso verso Cristo. Questa entusiastica «religione della musica» si compie nel segno di Santa Cecilia, la cui vicenda di martire
e patrona della musica si colora di conturbanti accenti erotici che certo avranno contribuito non poco alla devotio ceciliana dei romantici6:
[…] Oh Santa Cecilia! / Guarda come fuggo il mondo intero, / e in silenzio
dinanzi a te mi inginocchio / Oh, t’imploro, restami vicina! / i tuoi suoni meravigliosi / a cui, stregato, mi abbandono, / l’animo mio hanno reso folle. / Sciogli
allora dei sensi l’affanno / e fa ch’io mi dissolva in un canto / che rapisce così
tanto il mio cuore […] / Apri a me degli uomini lo spirito, / con la potenza dei
suoni, / delle anime loro esser signore; / che il mio spirito per il mondo possa
risuonare, / sì che… di fantasia lo riesca a inebriare7.
Si noti come l’invocazione di Berglinger a Santa Cecilia trapassi inaspettatamente da un’esclusiva devozione alla Santa della musica, che impone una
monacale fuga dal consorzio umano, a un’orgiastica celebrazione del mondo
dei suoni culminante nell’implorazione alla Santa affinché ella lo consacri «signore delle anime degli uomini» grazie all’ebbra e fantastica «potenza dei suoni». Non si può non rilevare come si insinuino qui inusitati accenti faustiani, ulteriormente ribaditi nei seguenti versi di Berglinger dedicati all’irrefrenabile e sinistra potenza della musica che prende possesso del giovane come
un’«estranea potenza» conducendolo nelle inospitali e disumane regioni della musica assoluta:
cos’è che mi opprime / e in un fervido abbraccio mi stringe / così che con lei
debba andare lontano / e dalla casa del padre fuggire? / Ahimè, che tentazione
e tormento / dovrò, senza mia colpa, patire? […] Se non mi trai presto a te e
mi salvi / o nel grembo della terra non mi accogli, / a quell’estranea potenza mi
dovrò arrendere, / dovrò, atterrito, alla volontà cedere, / diventare preda di forze
oscure/ che dal fianco di mio padre mi vogliono strappare!8
La «potenza straniera» cui soggiace qui Berlinger è la stessa che centocinquant’anni più tardi, a Palestrina, comparirà davanti a Adrian Leverkühn proponendogli un patto che ne farà il più geniale e disumano dei musicisti. È così
che nella davvero «memorabile storia» di Wackenroder si intuiscono, profeticamente, i destini e gli abissi di un’arte assoluta, autoreferenziale e intransitiva a
venire: «la poesia assoluta, la poesia senza fede, la poesia senza speranza, la poe-
6
Cfr. Hanna Schöllkopf, Santa Cecilia nella Germania romantica fra canto devozionale e
«canto di Taide», in «Rivista di Letterature moderne e comparate», 2013, 1, pp. 17-30.
7
W. H. Wackenroder, La straordinaria vita del compositore Joseph Berglinger cit., p. 271.
8
H. Schöllkopf, Santa Cecilia nella Germania romantica fra canto devozionale e «canto di
Taide» cit., p. 273.
220 PATRIZIO COLLINI
sia fatta di parole che vengono messe insieme per affascinare»9. La grandezza di
Berglinger risiede però nel fatto che egli, memore dei versi di Jacopone e forse
della musica di Pergolesi, riuscirà a sottrarsi infine a questa davvero mortale tentazione, per comporre in punto di morte quella musica di Passione «in cui erano racchiusi tutti i tormenti della sofferenza umana»10, che ne faranno il primo
martire della religione romantica della musica.
9
Gottfried Benn, Probleme der Lyrik, in Gesammelte Werke, Wiesbaden, Hg. von Dieter
Wellershoff, 1, 1958, p. 524.
10
W. H. Wackenroder, La straordinaria vita del compositore Joseph Berglinger cit., p. 285.
LE «STABAT MATER» DE PERGOLESE: DE DIDEROT À A. DUMAS
Béatrice Didier
On trouve de curieuses résurgences de représentations religieuses chez les
écrivains qui cependant semblent le plus détachés de toute appartenance à une
église. La moisson, encore peu explorée, se révèle abondante, en particulier pour
le XVIIIe siècle et le XIXe, périodes où s’opère un tel bouleversement de l’imaginaire collectif1. D’abord circonscrite au domaine esthétique, ou relégué au rang
de la superstition, la foi qui reprend vie après la Révolution, entraîne inévitablement une transformation de la représentation du sublime, tandis que la sensibilité joue un rôle croissant dans la perception esthétique. Ces interférences
de divers courants sont particulièrement visibles si l’on interroge ce que disent
les écrivains de l’art religieux: peinture ou musique. Mais les propos généraux
sont toujours dangereux, et je profite de l’invitation d’Anna Dolfi pour étudier un thème apparemment limité: la place du Stabat mater de Pergolèse chez
quelques écrivains des Lumières au Romantisme: il ne s’agit là que de sondages
qui n’épuisent pas la totalité des nombreuses références que l’on pourrait relever.
Les artistes qui se sont inspirés de cette scène tragique de la mère du Christ
au pied de la Croix, sont très nombreux et pour la plupart ne connaissent pas cet
hymne du XIIIe siècle dont ils s’inspirent cependant. Les textes mêmes de l’Evangile s’attardaient très peu sur cette présence de la Vierge à ce moment pourtant
particulièrement tragique. Dans l’Evangile de Marc: «il y avait aussi des femmes
qui regardaient de loin entre autres Marie Madeleine, Marie, mère de Jacques»:
pas question de Marie, mère de Jésus. De même dans Mathieu, 27: «il y avait
plusieurs femmes qui regardaient de loin; elles avaient accompagné Jésus depuis
la Galilée», et l’apôtre de citer plusieurs Marie, mais non la mère. On peut se reporter encore à Luc, 23: les femmes auront un rôle important lorsqu’elles découvriront le sépulcre vide, mais aucune n’est évoquée debout au pied de la Croix, et
Marie, mère de Dieu n’est pas nommée dans les trois synoptiques. C’est l’Evangile de Jean (19), le plus sensible, qui évoque la scène d’où est née la représen-
1
Voir Béatrice Didier, L’infâme et le sublime. Représentations du sacré des Lumières au Romantisme, Paris, Champion, 2017.
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
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222 BÉATRICE DIDIER
tation de la Vierge au pied de la Croix: «Près de la Croix, se tenaient la mère de
Jésus et la sœur de sa mère, Marie, femme de Clopas, et Marie Madeleine. Jésus
ayant vu sa mère, et à côté d’elle le disciple qu’il aimait, dit à sa mère: “Femme,
voilà ton fils”; puis il dit au disciple: “Voilà ta mère”; et dès ce moment, ce disciple la prit chez lui».
Tardivement, un hymne en latin que l’on a attribué à Jacopone da Todi (mort
en 1306), exalte cette scène tragique2, et c’est de ce poème que vont s’inspirer
de nombreux artistes. On ne citera pas ici la multitude des peintres et des musiciens qui ont développé ce thème particulièrement dramatique; pour la musique: Palestrina, Scarlatti, Vivaldi, Haydn, M.-A.Charpentier et bien d’autres
jusqu’à notre temps (Poulenc, Arvo Pärt, Penderecki qui intègre son Stabat à
la Passion selon Saint Luc et opère une synthèse entre grégorien et sérialisme).
Au XVIIIe siècle, en France, on cite en général le Stabat de Pergolèse3, et c’est
ce que fait Diderot. D’où le rapprochement du Stabat et de la Serva Padrona,
œuvres aussi dissemblables que possible, puisque la Serva Padrona est un opéra-comique. Ainsi le Stabat se trouve mêlé de façon surprenante à la Querelle des
Bouffons, telle que le Neveu de Rameau l’évoque dans son langage truculent:
On devrait défendre par une ordonnance de police, à quelque personne, de
quelque qualité ou condition qu’elle fût, de faire chanter le Stabat de Pergolèse.
Ce Stabat, il fallait le faire brûler par la main du bourreau. Ma foi, ces maudits
bouffons, avec leur Servante maîtresse, leur Tracollo, nous en ont donné rudement dans le cul4.
Le Neveu fait ainsi l’éloge paradoxal des Bouffons, et annonce la mort de
l’opéra français, plus précisément des œuvres de l’oncle Rameau. Alors que
le public français connaît très mal la musique religieuse italienne, le Stabat
de Pergolèse, curieusement mêlé à la querelle des Bouffons, se trouve magnifié. Traditionnellement exécuté dans les églises, il l’est aussi, à plusieurs reprises, dans les Concerts spirituels qui permettent d’entendre de la musique
en temps de Carême, puisqu’alors l’opéra est fermé. Les discussions autour
de la musique italienne et de l’opéra bouffe expliquent pourquoi parmi tant
Voir le texte en appendice. Il existe deux versions de chant grégorien (cfr. Antiphonaire
romain: Solesmes, 1988, pp. 375-377) de cet hymne chanté le 15 septembre dans la célébration
de «Notre dame des douleurs». La séquence transformée en cantique strophique sur une mélodie
populaire est devenue un des chants les plus répandus de la Semaine sainte (cfr. Marc Vignal,
Dictionnaire de la musique, Paris, Larousse). Jean-Juste Lansperge (1489-1543) a composé un
Stabat mater que les Chartreux récitent encore à l’office de Sexte de la Passion (Divinis amoris
pharetra, Cologne,1580. Cent prières des Chartreux, réunies par Nathalie Nabert, Paris, Albin
Michel, 2009, p. 35)
3
Création à Paris par Philidor, peu de temps après sa composition par Pergolèse qui est mort
en 1736.
4
D. Diderot, Œuvres complètes, éd. Lewinter, Paris, Club français du livre, 1969-1973, X, p.
381. Tracollo est une autre œuvre de Pergolèse.
2
LE «STABAT MATER» DE PERGOLESE: DE DIDEROT À A. DUMAS
223
d’autres Stabat, celui de Pergolèse est retenu. Mais est-ce là tout l’intérêt qu’y
trouve Diderot?
Une lettre à Grimm en 1771 permet de voir que le Philosophe était soucieux d’avoir la partition elle-même pour sa fille (on supposera une version pour
chant et clavecin), et montre aussi les difficultés auxquelles on se heurtait pour
obtenir les textes. Angélique a reçu de Grimm un carton de musique: «on se
jeta dessus dans l’espérance de trouver le Stabat, qu’on fut bien étonné de n’y
pas trouver […]. Elle n’a jamais possédé ce Stabat qu’un demi-quart d’heure. Il
lui venait de Naigeon qui l’apporta, le remporta, le lui promit et lui manqua»5.
Il ne faut donc pas attendre de Diderot, pas plus d’ailleurs que d’autres écrivains, une analyse musicale proprement dite, ni un quelconque sentiment religieux qu’aurait pu déclencher cette musique, mais plutôt par delà le Stabat, une
défense de l’expressivité en musique, expressivité qui serait plus directe dans la
musique italienne, quoique Diderot, à la différence du personnage du Neveu,
ait été très capable d’apprécier la musique de Rameau.
L’émotion qu’éprouve le «Philosophe», en entendant le Neveu chanter les
Lamentations de Jommelli donne une idée de ce que pouvait éprouver Diderot
en entendant le Stabat, les deux œuvres se trouvant réunies dans ce passage du
Neveu de Rameau: il est bouleversé par l’intensité de l’expressivité dans deux
œuvres de musique religieuse qui expriment la douleur. L’esthétique musicale
est alors en train d’abandonner le principe classique de l’imitation; la musique
ne peut imiter, comme la peinture, les formes de la nature, mais elle excelle à
peindre les sentiments de l’homme: on s’achemine vers l’esthétique romantique
dans cette évolution, et alors la musique devient le premier, «le plus violent» des
arts, parce que plus apte que tout autre à susciter l’émotion.
En chantant un lambeau des Lamentations de Jomelli, il répétait avec une précision, une vérité et une chaleur incroyable, les plus beaux endroits de chaque
morceau; ce beau récitatif obligé où le prophète peint la désolation de Jérusalem, il l’arrosa d’un torrent de larmes qui en arrachèrent de tous les yeux. Tout
y était, et la délicatesse du chant, et la force de l’expression; et la douleur […]
s’emparant de nos âmes, et les tenant dans la situation la plus singulière que j’aie
jamais éprouvée6.
C’est bien essentiellement à la sensibilité que fait appel aussi Chateaubriand,
mais, évidemment, dans des perspectives idéologiques tout autres. Et il n’y a pas
que l’idéologie qui a changé entre Diderot et Chateaubriand, il y a aussi eu un
progrès de la connaissance du grégorien. Le siècle des Lumières avait été méprisant pour cette musique qu’il considérait comme primitive et qu’il n’avait guère
l’occasion d’entendre, puisque, même lors des cérémonies catholiques, il avait
5
6
Diderot, Œuvres complètes cit., IX, p.1003, mars 1771.
Ibidem, p. 384.
224 BÉATRICE DIDIER
été défiguré, par un souci de lui appliquer les règles de la musique classique, aussi bien pour le rythme, la mélodie, que la transcription; on adjoignait souvent
à ces mélodies grégoriennes des accompagnements tout à fait hors de propos.
Les articles de l’Encyclopédie sur le chant grégorien sont déficients, et Rousseau
comble un peu ce manque dans son Dictionnaire de musique. Son goût pour
l’unité et la simplicité de la mélodie, la façon dont il dénonce la manie de vouloir noter toutes les musiques selon le système de Rameau (y compris les chants
iroquois!) l’ont mis sur une voie qui annonce, de loin cependant, la redécouverte de la spécificité du grégorien au XIXe siècle, avec Don Guéranger et les
bénédictins de Solesmes. La sévérité du Génie du Christianisme pour Pergolèse
découle donc autant de l’idéologie de Chateaubriand que de ces timides progrès de la musicologie:
Pergolèse a déployé dans le Stabat Mater la richesse de son art; mais a-t-il surpassé le simple chant d’Eglise? Il a varié la musique sur chaque strophe; et pourtant
le caractère essentiel de la tristesse consiste dans la répétition du même sentiment, et, pour ainsi dire, dans la monotonie de la douleur […]. Pergolèse a donc
méconnu cette vérité, qui tient à la théorie des passions, lorsqu’il a voulu que
pas un soupir de l’âme ne ressemblât à un soupir qui l’avait précédé. Partout où
il y a variété, il y a distraction, et partout où il y a distraction, il n’y a plus de
tristesse, tant l’unité est nécessaire au sentiment; tant l’homme est faible dans
cette partie même où gît sa force, nous voulons dire dans la douleur7.
Cette analyse du Génie du Christianisme, on le voit, semble dépasser le souci apologétique pour avancer une théorie romantique de la douleur et des passions, mais cette théorie elle-même sert la cause de l’apologiste, puisque le «christianisme est sérieux comme l’homme, et son sourire même est grave. Rien n’est
beau comme les soupirs que nos maux arrachent à la religion»8.
Entre Diderot et Stendhal, ce n’est pas seulement une certaine approche de
la spécificité du chant grégorien qui se manifeste, c’est aussi le paysage musical de l’Europe qui a changé, et la musique allemande après la Révolution commence à être connue en France. Quoique Stendhal soit amoureux de l’Italie, il
consacre un de ses premiers écrits à Haydn et à Mozart; il n’ignore pas que celui qu’on appelle «le Saxon» a écrit aussi un Stabat. Mais se représentant la musique de Haydn comme essentiellement gaie, il considère ce Stabat comme une
exception: «Haydn n’a jamais pu être vraiment triste que deux ou trois fois dans
sa vie, dans un verset de son Stabat mater et dans deux adagio des Sept paroles»9.
7
François-René de Chateaubriand, Génie du Christianisme, Paris, Gallimard, La Pléiade,
1978, pp. 789-790.
8
Ibidem, p. 789. Comme dans le Neveu de Rameau l’évocation du Stabat Mater est suivie par
celle des Lamentations de Jérémie, autre monument de la douleur.
9
Stendhal, Œuvres complètes, éd. Del Litto, Genève, Cercle du bibliophile, XLI, 1970 p. 61.
LE «STABAT MATER» DE PERGOLESE: DE DIDEROT À A. DUMAS
225
On pourra s’étonner que Stendhal ne sente du pathétique que dans un seul
verset. Curieux aussi qu’il trouve des motifs gais même dans le Stabat de Pergolèse:
«Il y a des motifs gais jusque dans le Stabat mater»10. Malgré tout, Pergolèse reste
lié à l’opéra bouffe, même si Stendhal cite aussi un opéra seria (L’Olympiade):
«Les chefs d’œuvre [de Pergolèse] sont le Stabat mater, l’air Se cerca se dice de
L’Olympiade et la Servante maîtresse»11.
Le rapprochement du Stabat avec La Serva Padrona qui a d’abord contribué à
sa popularité dans les querelles musicales du XVIIIe siècle, subsiste à l’arrière-plan
et peut restreindre la perception du tragique dans le Stabat. Cependant les mentions du Stabat reviennent à plusieurs reprises dans des notes marginales que
Stendhal consigne, à son habitude, sur ses manuscrits ou sur ses propres textes
imprimés qu’il est en train de relire. Comme il note aussi les dates, on peut ainsi
savoir dans quelles circonstances il entend le Stabat. Le 26 mars 1836, en marge
du Brulard, il évoque, en même temps que le Stabat, la lettre de congé qu’il vient
de recevoir et qui va lui permettre de revenir à Paris. Il juge le texte même qui
sert de base à la musique, ce qui est assez rare (la plupart des auditeurs ne s’attachent qu’à la musique): «vieux couplets barbares en latin rimé, mais du moins
absence d’esprit à la Marmontel»12. À l’époque de Stendhal on n’a que mépris
pour le latin tardif et Rimbaud n’est pas encore venu exalter la poésie de ces vieux
hymnes. La notation de Stendhal est donc intéressante, qui exprime son mépris
pour une certaine fadeur polie de la poésie du XVIIIe siècle. Autre note, cette
fois-ci en marge de La Chartreuse de Parme, «19 janvier 1842. Stabat. Grisi»13.
S’il n’y a pas de Stabat, dans les reproductions de tableaux qui enrichissent
le manuscrit de Brulard, il y a cependant une Pietà de Mantegna qui peut amener à sentir combien les représentations de la mère près du Christ mort ou mourant trouvaient une résonnance dans l’imaginaire profond de Stendhal, inversant en quelque sorte le drame profond de son enfance, où c’était lui, le fils, qui
avait été auprès de sa mère mourante, et morte. On remarque alors que les deux
notes marginales que nous venons de citer, se trouvent justement dans les deux
œuvres de Stendhal – l’autobiographie et la Chartreuse – où l’écrivain a le plus
laissé s’exprimer les zones profondes de l’imaginaire. On remarque aussi que ces
deux notes appartiennent aux dernières années de l’écrivain.
Bien évidemment, il connaissait le Stabat dès les débuts de sa carrière littéraire
et les Lettres sur Métastase (1815) avaient été l’occasion d’écrire une rapide bio-
Stendhal, Œuvres complètes cit., XXX, 1969 p. 323 (Voyage en Italie de 1811).
Ibidem, p. 322. Ce passage est repris textuellement dans Œuvres complètes cit., XLI, p. 7
et présenté comme la traduction d’un abbé «fou de violoncelle» et «naturellement porté au genre
bouffon» (XLI, p. 137).
12
Ibidem, XXI, p. 370, reproduit aussi Œuvres complètes cit., XXXII, dans le « journal reconstitué ». On espère que la courageuse équipe grenobloise qui s’est attaquée aux «Papiers et
journaux» en viendra un jour à ces années tardives de la vie de Stendhal!
13
Ibidem, XXXII, p. 293, sur l’exemplaire annoté dit «Chaper».
10
11
226 BÉATRICE DIDIER
graphie de Pergolèse, puisque le livret de l’Olympiade est l’oeuvre de Métastase:
«Pergolèse, retiré seul dans sa petite maison, il allait à Naples tous les huit jours
pour faire exécuter les morceaux de musique qu’il avait composés. Il fit à Torre
de Greco son fameux Stabat»14.
Le Stabat de Pergolèse lui semble préférable à celui de Haydn dans la mesure où il peut se passer d’orchestre et où tout l’intérêt est concentré sur la voix:
«Une belle voix et un accompagnement médiocre peuvent faire jouir du Stabat
de Pergolèse. Il faut à ce ouvrage de Haydn vingt quatre chanteurs et soixante
instruments au moins»15.
Cette préférence pour la voix n’est pas seulement chez Stendhal une résurgence des partis pris de Rousseau et des Philosophes à l’endroit de la musique
instrumentale; elle répond à son affect profond; dans l’opéra ce qui l’intéresse,
c’est la voix; il ne traite pratiquement pas des œuvres purement instrumentales.
On pourra là aussi, et on n’a pas manqué de le faire, voir dans cette fascination pour la voix et pour les cantatrices, en particulier la Pasta (qu’il préfère à la
Grisi), une nostalgie de la mère perdue. Il faut aussi noter que le Stabat mater
a été donné de très nombreuses fois au Théâtre des Italiens, dans les premières
années du XIXe siècle, théâtre où excellait la Pasta. Or on sait combien Stendal
était un fidèle des soirées de ce théâtre et qu’il en deviendra même le critique
dans le «Journal de Paris»16.
Mais on sera étonné de la réapparition du Stabat dans une œuvre de Stendhal
aux antipodes de toute poésie, aux antipodes de la Chartreuse, dans un roman picaresque qui eût été d’un réalisme agressif et parfois même sordide: Don Pardo.
Commencé à un moment d’«humeur sombre», de migraines, comme une sorte
de distraction de courte durée (du 31 mars au 2 avril 1840), le roman ne fut
pas terminé et la Bibliothèque de Grenoble possède le Plan et la rédaction du
début17. L’action se situe dans les bas-fonds de Civitavecchia et le picaro, qui
est plutôt un lazzarone, va accomplir son ascension sociale grâce aux procédés
les plus douteux. Constatant que la cantatrice la Diuda «a besoin d’un intrigant
pour exploiter sa beauté», il va s’y employer; «il ne quitte la société de Diuda où
l’on exécute le Stabat de Pergolèse»18. Pourquoi cette œuvre si belle et si pure
est-elle la seule évoquée dans le répertoire de cette cantatrice, alors que la tonalité de ce roman relèverait d’une «ignominie bestiale» selon l’expression vigoureuse de Ph. Berthier?19 Quel développement Stendhal aurait-il donné à cet épi-
Ibidem, XLI, p. 345.
Ibidem, XLI, p. 196.
16
Ces articles ont été réunis sous le titre Notes d’un dilettante, cfr. ibid. XXIII, p. 283 et sq.
On trouvera un relevé des articles de presse consacrés aux soirées du Théâtre des Italiens dans Le
Théâtre des Italiens, textes réunis par J. Mongrédien, 7 vol.
17
B.M.G., R 5896,t.VII, f. 60-79.
18
Œuvres romanesques complètes, Paris, Gallimard, «La Pléiade», III, 2014, p. 1098.
19
Ibidem, p.1481.
14
15
LE «STABAT MATER» DE PERGOLESE: DE DIDEROT À A. DUMAS
227
sode pour lequel nous n’avons que le plan? Simple contraste? Ouverture vers un
monde de pureté? En tout cas, voilà un témoignage encore de l’importance du
Stabat dans ces dernières années de l’écrivain, rejoignant ainsi l’époque des premiers écrits musicaux de sa jeunesse. Si l’on établit un lien – hypothétique certes
– entre le Stabat et le deuil de la mère à jamais perdue, ce retour à cette œuvre
lorsque l’écrivain se sent menacé par la mort prendrait tout son sens. La placer
dans une œuvre burlesque serait-il un moyen d’exorciser la douleur?
On ne saurait ici évoquer toute la place que peut tenir le Stabat dans la réflexion sur la musique à l’époque romantique. Avec Hoffmann la dimension
fantastique que peut prendre la musique va devenir un thème dominant. Nous
prendrons l’exemple d’Alexandre Dumas: il avait éprouvé une forte émotion en
entendant le Stabat mater de Pergolèse dans l’église de Souvigny, et se souvient
du Stabat dans un chapitre de La femme au collier de velours, intitulé Antonia,
nom qui fait lui-même référence à Hoffmann; Maître Gotlieb, le père d’Antonia, est absorbé par la musique de Pergolèse et note dans son cabinet le Stabat.
Antonia se plaint:
Bonjour, père, dit-elle, pourquoi n’avez-vous pas encore embrassé votre Antonia? Ah! voilà, je comprends, Il matrimonio segreto, le Stabat mater, Cimarosa,
Pergolèse, Porpora! qui est-ce Antonia auprès de ces grands génies? Un pauvre
enfant qui vous aime, mais que vous oubliez pour eux20.
Certes le rapprochement avec le Matrimonio segreto nous ramène à l’amalgame des querelles musicales du XVIIIe siècle pas encore dissipé à l’époque romantique, mais le choix du Stabat dans cette atmosphère de conte fantastique
a aussi une résonnance plus profonde, nous semble-t-il. Intervient le thème de
l’écriture, du passage de l’oral à l’écrit: il s’agit d’une copie faite par un homme
d’une œuvre d’un musicien. Intervient aussi le thème de la relation père-fille,
inversant la relation dramatique du Stabat, de la Mère et du Fils. Dans les deux
cas, une douleur, évidemment moins tragique chez Antonia.
Si limitée que soit notre enquête, elle peut cependant permettre quelques réflexions plus générales. Et d’abord d’ordre historique: nous avons vu comment
le Stabat de Pergolèse se trouvait entraîné dans les querelles musicales du XVIIIe
siècle français et d’une façon surprenante rapproché de l’opéra bouffe; on voit
aussi avec Rousseau et Chateaubriand s’introduire des perspectives d’histoire de
la musique qui amènent à rapprocher Pergolèse non plus de l’opéra italien, mais
du chant grégorien qui accompagnait l’hymne du XIIIe siècle; ce rapprochement,
à la différence de la référence à la Serva padrona, aboutissait à une certaine sévérité pour Pergolèse: cette sévérité elle-même est complexe; elle découle d’un
Merci à Claude Schopp de m’avoir aidée à retrouver cette référence. La femme au collier de
velours qui fait partie du recueil de nouvelles, Mille et un fantômes, a été rééditée chez Gallimard,
«Folio».
20
228 BÉATRICE DIDIER
certain primitivisme – le chant grégorien étant considéré (bien à tort) comme
«primitif» –, ou d’un culte romantique pour la douleur et sa valeur mystique.
Si l’on n’en reste pas à ces considérations historiques, on proposera des interprétations plus risquées, mais que nous ne croyons pas déplacées puisqu’elles partent
de certaines évidences: la présence de la mère et de la mort. Le Stabat exalte plus
la douleur de la mère que celle du fils lui-même: la douleur morale par sympathie
domine; l’atrocité physique du supplice est perçue à travers la douleur de celle qui
le contemple. Invite à la contemplation que retiennent les exercices spirituels recommandés aussi bien par Saint Ignace que par Saint François de Sales. Mais ce
n’est pas dans cette direction, semble-t-il, qu’il faille comprendre la résonnance
de cette scène chez Rousseau ou chez Stendhal, traumatisés dans leur enfance par
la mort de la mère. Leçon de courage de la mère qui se tient debout: stabat? mais
aussi constatation de sa passivité, de son impuissance à conjurer la mort, comme
le fils a été incapable de conjurer la mort de la mère. Reste alors la douleur, mais
aussi la possibilité que montre la musique de transformer le deuil en œuvre d’art.
Appendice 1 – Le poème latin
Stabat mater dolorosa
Juxta crucem lacrimosa
Dum pendebat Filius
Cujus animam gementem
contristatam et dolentem
Pertransivit gladius
O quam tristis et afflicta
Fuit illa Benedicta
Mater Unigeniti!
Que maerebat et dolebat
Pia mater, cum videbat
Nati poenas incliti
Quis est homo qui non fleret
Matrem Christi si videret
In tanto supplicio?
Quis non posset contristari
Piam matrem contemplari
Dolentem cum filio?
Pro peccatis suae gentis
vidit Iesum in tormentis
LE «STABAT MATER» DE PERGOLESE: DE DIDEROT À A. DUMAS
229
Et flagellis subditum
Vidit suum dulcem Natum
Morientem,desolatum
Cum emisit spiritum
Quando corpus morietur
Fac ut aniae donetur
Paradisi gloria.
Selon la traduction littérale de Solesmes:
«Debout, la Mère des douleurs, près de la Croix était en pleurs quand son Fils
pendait au bois.
Alors son âme gémissante, toute triste et toute dolente, un glaive la transperça.
Qu’elle était triste, anéantie, la femme entre toutes bénie, la mère du Fils de
Dieu.
Dans le chagrin qui la poignait cette tendre Mère pleurait son Fils mourant sous
ses yeux.
Quel homme sans verser de pleurs, verrait la Mère du Seigneur, endurer si grand
supplice?
Qui pourrait dans l’indifférence contempler en cette souffrance la Mère auprès
de son Fils?
Pour toutes les fautes humaines, elle vit Jésus dans la peine et sous les fouets
meurtri.
Elle vit l’Enfant bien aimé mourir tout seul, abandonné et soudain rendre l’esprit.
O Christ, à l’heure de partir, puisse ta mère me conduire à la palme des vaiqueurs?»
On voit que dans les textes littéraires que nous citons, ne sont pas retenues par
nos auteurs la notion de culpabilité et l’invocation pour une bonne mort, avec
l’aide de la Vierge Marie.
Appendice 2
Pergolèse (1710-1736). «le Stabat mater [est l’] ouvrage ultime d’un grand tuberculeux qui n’en devait jamais entendre l’exécution. Maladie, pauvreté, fosse
commune, ce sont des points qu’il partage avec Mozart», écrivent Jean et Brigitte
Massin, tout en contestant ce rapprochement. Il est curieux qu’aucun des écrivains que nous citons, ne fasse allusion à ce contexte biographique si tragique.
C’est probablement qu’ils l’ignorent, trompés par la réussite posthume des opéras de Pergolèse – les Massin citent à juste titre un passage de Stendhal (où il
n’est pas question du Stabat, mais des opéras): «savoir d’avance que la musique
230 BÉATRICE DIDIER
de tel opéra est de Pergolèse me fait trouver l’opéra beaucoup meilleur que si
j’ignorais le nom de l’auteur» -. Par ailleurs, le jugement des Massin sur le Stabat
est assez proche de celui de Chateaubriand: «Le Stabat si admiré, fait alterner
des passages d’une grande intensité dramatique et des pages d’une sensiblerie
assez redoutable» (Histoire de la musique occidentale, sous la direction de Jean et
Brigitte Massin, Paris, Fayard, 1985, pp. 484-485).
«MATER DOLOROSA», OTTOCENTESCA LACRIMOSA
LA «INES DE CASTRO» DI CAMMARANO PER GIUSEPPE PERSIANI
Camillo Faverzani
Come ritrarre la mater dolorosa in chiave operistica ottocentesca? Nonostante
la secolare ed illustre tradizione musicale che, da Giovanni da Palestrina e Roland
de Lassus a Zoltán Kodály, Francis Poulenc e Arvo Pärt, ha suggellato la fortuna
della preghiera comunemente attribuita a Jacopone da Todi, passando tramite
Alessandro Scarlatti, Antonio Vivaldi, Giovanni Battista Pergolesi, Giocchino
Rossini e molti altri, è con la massima riluttanza che ci accingiamo a proporre
una lettura melodrammatica del compianto della madre sulla spoglia del figlio.
Operazione quasi blasfema in ambito ottocentesco, secolo in cui le passioni esacerbate dalla librettistica implicano perlopiù affetti amorosi proscritti, ben lungi
dall’accasciarsi innocente di una vergine in lacrime? Diversamente da quanto si
potrebbe credere istintivamente, il teatro musicale non rigurgita di madri addolorate sul cadavere o sulla tomba del figlio, e la nostra prima riserva deriva probabilmente dalla violenza delle relazioni che sottendono al Trovatore verdiano
(1853), la cui azione è in gran parte determinata dalla madre forse più famosa
della storia della lirica. La questione viene posta fin dall’introduzione dell’opera con l’aria di sortita di Ferrando che rievoca allo spettatore uno degli elementi essenziali dell’antefatto, la vendetta della «maledetta / Figlia»1 dell’«Abbietta
zingara, fosca vegliarda» (I, 1):
Compì quest’empia nefando eccesso!
Sparve il bambino… e si rinvenne
Mal spenta brace nel sito stesso
Ov’arsa un giorno la strega venne!…
E d’un bambino… ohimè!… l’ossame
Bruciato a mezzo, fumante ancor!
Storia poi ripresa dalla diretta interessata nell’aria di narrazione in cui Azucena
1
Salvatore Cammarano, Il trovatore, in Giuseppe Verdi, Tutti i libretti d’opera, a cura di Piero
Mioli, Roma, Newton Compton, 1996, I, pp. 374-400.
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
232 CAMILLO FAVERZANI
confida finalmente a Manrico che «Il figlio giunsi a rapir del Conte, / Lo trascinai qui meco!… le fiamme ardean già pronte» (II, 1), con relativi particolari
sulla sua supposta scomparsa: «… La mano convulsa tendo… stringo / La vittima… nel foco la traggo, la sospingo!…». E nonostante l’immediata smentita
alla richiesta del perplesso protagonista – «Non son tuo figlio?… E chi son io,
chi dunque?…» –, non sfugge all’attento ascoltatore la confessione del misfatto,
per quanto generato dal «fatal delirio»: «Il figlio mio, / Mio figlio avea bruciato!»
Ma non c’è spazio per il pianto. Similmente, se nelle ultime parole dell’epilogo
il trovatore rivolge un estremo pensiero alla madre – «Madre!… oh madre, addio!». (IV, scena ultima) –, il risveglio di costei – « Manrico!… Ov’è mio figlio?»
– giunge troppo tardi per salvare in extremis colui che conoscono tutti come suo
figlio, e la replica finale è ancora pervasa da uno spirito di rivalsa nemesica: «Sei
vendicata, o madre!». Nell’estemporaneità della conclusione, la commiserazione viene completamente elusa.
Sappiamo che nella fattispecie Azucena è solo madre adottiva, benché, nel
concepire il personaggio, Giuseppe Verdi e Salvatore Cammarano si siano principalemente interessati al rapporto generazionale e in particolare alla devozione filiale, come ben sintetizzato dalla celeberrima cabaletta conclusiva della terza parte: «Era già figlio prima d’amarti» (III, 6). Abbiamo già avuto occasione
di soffermarci sulle relazioni familiari nell’opera verdiana2, sebbene principalmente imperniate sul conflitto padre-figlia, più raramente padre-figlio, e da cui
il compianto della madre per il figlio morto risulta decisamente escluso. Non
ci sembra eccessivo estendere tali considerazioni al melodramma ottocentesco in genere, se non addirittura al repertorio lirico nel suo insieme, pur escludendo, ovviamente, la musica sacra e l’oratorio. Nei primi decenni del secolo,
la memoria del figlio sacrificato viene riesumata dall’eroina dell’Ecuba (1812)
di Nicola Antonio Manfroce, su versi di Giovanni Schmidt. Trattandosi di un
personaggio omerico in un libretto che tenta di inscenare la caduta di Troia,
ci troviamo in presenza di una sorta di mater dolorosa ante litteram, precorritrice della tradizione cristiana. Quantunque il ruolo operistico si affermi maggiormente come una Azucena in fieri, ancora mossa dal desiderio di riscatto,
reso chiaramente esplicito dalla seconda aria del soprano: «Figlio mio! vendetta avrai»3 (II, 3). La rappresentazione dell’Ecuba a Napoli va situata nell’orbita della politica napoleonica di diffusione della cultura francese in Italia. E in
effetti l’opera è di derivazione transalpina, ma non, come spesso avviene, tra2
Ci permettimo il rimando al nostro «E s’ei fosse quell’indo maledetto». Esotismi nei libretti
italiani di fonte francese, Roma, Bulzoni, 2007, pp. 171-179 (p. 178 per Il trovatore).
3
ecuba,|tragedia per musica,|in tre atti.|rappresentata per la prima volta nel real
teatro|di s. carlo nell’inverno dell’anno 1812.|napoli,|dalla tipografia de’ fratelli
masi,|[...]; l’edizione originale è bilingue, le pagine pari sono in francese, le dispari in italiano: (hécube,|tragédie lirique,|en trois actes.|représentée pour la première fois sur le
théâtre|royal de s.charles l’hyver de l’an 1812.|naples,|de la typographie .des frères
masi,|[…]).
«MATER DOLOROSA», OTTOCENTESCA LACRIMOSA
233
mite la fonte letteraria. Il frontespizio del libretto la presenta come una traduzione dell’«Originale francese del Sig. Milcent». In realtà, l’opera italiana è del
tutto indipendente dal modello, soprattutto per quanto riguarda la concezione musicale. Nondimeno il poema adatta in modo piuttosto fedele l’Hécube
(1800) composta da Georges Granges de Fontenelle proprio su testo di JeanBaptiste de Milcent. Nella scena corrispettiva l’archetipo declina: «O mon fils!
tu seras vengé»4 (II, 5). Tuttavia l’Hécube parigina esterna sentimenti poi soppressi nell’azione napoletana. L’incipit dell’aria precedente indurrebbe a pensare ad una maggiore compassione:
O mon fils! ô mon cher Hector!
Dans la nuit éternelle
A ma douleur mortelle,
Es-tu sensible encor?
A gémir condamnée,
Ta mère infortunée
Brûle de partager ton sort.
Je vois ton ombre gémissante
A mes côtés toujours errante (II, 3).
Se non fosse che anche questa prima esternazione lascia trasparire la sete di
vendetta che si preciserà poco dopo: «Je vois encor fumer le sang / Qu’un cruel
fit couler de ton cœur expirant»; «Je ne vivais que pour aimer Hector, / Je ne vis
plus que pour haïr Achille!». D’altronde, in Hécube, come poi nell’Ecuba, la pietas familiare è maggiore prerogativa del padre che non della madre. Fin dall’aria di sortita, Priam/Priamo esterna il proprio cordoglio per la scomparsa prematura di Hector/Ettore:
O mon fils, tu le sais, mon deuil est éternel!
Le trépas seul fermera sa blessure.
Il n’est plus de repos pour mon cœur paternel.
Ombre magnanime et chérie,
Pardonne un trop pénible effort! (I, 2)
Figlio amato! tu lo sai,
Sarà eterno il mio dolor.
Quando cessi in me la vita,
Chiuderò la mia ferita…
hécube,|tragédie-lyrique,|en trois actes.|Représentée pour la première fois, sur
le|théâtre de la république et des arts,|le 13 Floréal, an 8.|[…]|a paris,|De l’Imprimerie de
ballard, Imprimeur dudit Théâtre,|[…]|an viii de la république.
4
234 CAMILLO FAVERZANI
Ahi che cerca invan riposo
Questo mio paterno cor! (I, 2)5.
Nel 1641 l’Ecuba de La Didone di Francesco Cavalli, su libretto di Gian
Francesco Busenello, aveva già una scena particolarmente struggente, primo intervento veramente significativo dal punto di vista musicale, ma il suo lamento
non viene suscitato dal ricordo del figlio da tempo spirato: innanzi al delinearsi dell’immagine della patria sconfitta e asservita, il suo destino non può che accomunarsi a quello di tutte le madri ormai atterrite da un avvenire più che incerto. Mentre l’Hécube de Les Troyens (1856-1858) di Hector Berlioz è ridotta
alla parte incongua di corifea delle prime scene.
A nostro parere, la vera scena della madre addolorata per la morte del figlio in
campo operistico ottocentesco è il finale della Lucrezia Borgia (1833) donizettiana,
su un poema di Felice Romani, fonte delle nostre esitazioni a proporne la trattazione nel presente contesto. La cabaletta della protagonista è la più viva espressione dell’afflizione materna sul cadavere di Gennaro, epilogo della rapida soluzione
conclusiva in cui si ritrovano i due personaggi, il giovane sempre in atto di sfida,
benché in punto di morte, contrapposto all’estrema apprensione della duchessa di
Ferrara che gli rivela infine la propria maternità e ne suscita la reazione inorridita:
Era desso il figlio mio,
la mia speme, il mio conforto…
Ei potea placarmi, Iddio…
Me parea far pura ancor.
Ogni luce in lui mi è spenta…
il mio cor con esso è morto…
Sul mio capo il cielo avventa
il suo strale punitor6 (II, s.u.).
Patetica appendice evitata dall’archetipo vittorhughiano, più estemporaneo nella
rappresentazione del supremo sacrificio che accomuna in ultimo madre e figlio7. Ma
sappiamo quanto poco rispettabile sia la fama dell’eroina, qui sospettata dal marito duca di essere l’amante del capitano di ventura contro il quale vuole vendicarsi.
5
Per ulteriori informazioni in merito ad entrambe le opere, ci si consenta il rimando al capitolo Tradurre la morte d’Achille, tradurre la distruzione d’Ilio: “Ecuba” di Nicola Antonio Manfroce,
nel nostro Ginevra e il cardinale, Lucca, Libreria Musicale Italiana, 2015, pp. 89-107.
6
Felice Romani, Lucrezia Borgia, in Tutti i libretti di Donizetti, a cura di Egidio Saracino,
Milano, Garzanti, 1993, pp. 703-722.
7
Sulla filiazione del libretto, sugli antecedenti storici e sulla genesi, cfr. anche il saggio di
Gianni Venturi, «Ah !... tu m’as tuée ! – Gennaro ! je suis ta mère !» Lucrèce Borgia-Lucrezia Borgia
da Victor Hugo a Gaetano Donizetti, in Sur l’aile de ces vers. L’Écriture et l’Opéra. Journée d’étude du
9 Avril 2010. Séminaires 2009-2010 (Saint-Denis, Université Paris 8-Paris, Institut National d’Histoire de l’Art), sous la direction de Camillo Faverzani, Saint-Denis, Université Paris 8, «Travaux
et Documents», 2011, pp. 59-79.
«MATER DOLOROSA», OTTOCENTESCA LACRIMOSA
235
E si aggiunga l’attrazione fisica provata da costui nei confronti della dama mascherata che gli dimostra un affetto probabilmente materno, ma equivocamente interpretato in modo da lasciar planare il dubbio su una relazione incestuosa in divenire.
In ambito donizettiano, ci pare necessario rievocare anche il primo contributo del compositore, cronologicamente assai prossimo, a quella trilogia estense
o ferrarese, probabilmente partorita inconsciamente, cioè la Parisina del 1833,
sempre di Romani8. La cabaletta finale della sposa di un altro signore della città
si addice al nostro intento forse ancor più del pianto di Lucrezia, dal momento che il personaggio reclama il corpo esangue del defunto, cui aspira a ricongiungersi nella speranza di trovare un’eterna requie al proprio accasciamento:
«Ugo!… è spento! A me si renda / la sua fredda esangue salma!… / Che sovr’esso io spiri l’alma… / L’alma oppressa dal dolor!»9 (III, s.u.). Tuttavia la strofa seguente abbandona completamente un tal spirito di abnegazione per dar sfogo
ad una sete di vendetta più profana, nello stile dell’Azucena verdiana: «Scenda,
indegno, ah! su te scenda / il suo sangue infin che vivi!… / Ei del sol, del ciel ti
privi, / ti ricolmi di squallor». Inoltre Parisina, come Lucrezia, non è insensibile
al fascino dell’estinto che, nel corso dell’azione, si rivela essere il figlio di Azzo
d’Este e di conseguenza figlio putativo dell’eroina, proprio come Manrico rispetto alla gitana del 1853, pur senza la componente sentimentale.
D’altronde Donizetti aveva già trattato la turpe passione di una madre adottiva per il figliastro nella Fausta (1832) di Domenico Gilardoni. Si tratta dell’imperatrice Fausta, figlia di Massimiano e seconda moglie di Costantino I, la quale, Fedra rediviva, arde d’un amore non corrisposto per Crispo, progenie del sovrano. Anche in questo caso il cordoglio prende forma nell’ultima grande scena
della primadonna, il cui cantabile finale assume la forma di una supplica all’essere sacrificato, in modo da riceverne il perdono postumo:
Tu che voli già spirto beato
all’eterno felice soggiorno,
il mio priego accogli placato,
mi perdona un sacrilego amor!
Io te ’l chiedo per quanto t’ho amato;
in compenso di tanto dolor!10 (II, 10).
Per quanto fonte d’eterna pena, l’allusione al trasporto amoroso è qui più
che esplicita11. Come pure nell’originale precristiano, la Fedra (1820) di Luigi
8
Il terzo titolo è Torquato Tasso (1833) su libretto di Jacopo Ferretti; le tre opere, dello stesso
anno, si susseguono in ordine di tempo una dopo l’alta.
9
Felice Romani, Parisina, in Tutti i libretti di Donizetti cit., pp. 659-676.
10
Domenico Gilardoni, Fausta, ivi, pp. 569–582.
11
Sull’opera, cfr. pure L’altra Norma, o il volto nascosto del Neoclassicismo operistico napoletano, nel nostro Ginevra e il cardinale cit., pp. 181-199.
236 CAMILLO FAVERZANI
Romanelli per la musica di Giovanni Simone Mayr, uno dei non numerosi adattamenti operistici del dramma della consorte di Teseo, infatuatasi per il figliastro
Ippolito. Il pentimento tarda a manifestarsi, sebbene l’andante lasci già trasparire le lacrime del rimorso, pur persistendo l’incognita circa l’identità del defunto:
Qual suon ranco di tube,
e flebile contento
Quel cocchio infranto…
Ahi! Mi richiamano
Sugli occhi il pianto…
Ah! chi sa mai qual vittima
Co suoi frequenti palpiti
Mi presagisce il cor!12 (II, 10).
Ma l’illusione è di breve durata. La diatriba con Teseo, ormai conscio dell’avvenuto, la riporta alla cruda realtà dell’andantino conclusivo:
Se fiero, Ippolito,
Mi fosti in vita,
La tua nell’Erebo
Ombra romita,
Forse al mio piangere
Si placherà.
Che mai… che spero?
Ei più severo
Mi fuggirà.
Nonostante il rinnovarsi del pianto sulla spoglia dello scomparso, qui mutuata dalla scontata metafora, tipica della librettistica e più in generale di una certa lirica, ha immediatamente il sopravvento la coscienza di un misfatto che non
ammette perdono. D’altronde nella prima versione del libretto, anteriore di sei
mesi e destinata al compositore Ferdinando Orlandi, la cui partitura è oggi perduta13, l’estremo commiato viene intonato dal coro:
Tu giaci, o misero
Figlio innocente,
12
fedra|melodramma serio| in due atti|di|Luigi Romanelli|da rappresentarsi|nell’imperiale regio teatro|alla scala|il carnevale dell’anno 1821.|milano|dalla stamperia di giacomo pirola|[…]; ovviamente, l’anno 1821 sta per la stagione di Carnevale, che inizia tradizionalmente l’indomani di Natale dell’anno precedente, giorno in cui venne data l’opera in
questione, quindi nel dicembre 1820.
13
Su queste due opere, cfr. anche Sulle orme di Racine: le due versioni della «Fedra» di Luigi
Romanelli per Ferdinando Orlandi e Giovanni Simone Mayr, nel nostro Ginevra e il cardinale cit.,
pp. 133-157.
«MATER DOLOROSA», OTTOCENTESCA LACRIMOSA
237
Nella ridente
Tua fresca età.
Sei, qual da vomere
Reciso fiore
Sul primo albòre
Di tua beltà14 (II, 9).
Accoramento che si adatterebbe perfettamente al lutto di una madre in angustie, se non fosse che a Fedra si riserva solo un breve commento, ancora di
autocommiserazione: «A me quel painto, a me quel duolo, e tutto / Di si fiero spettacolo l’orrore / Conviene a me… spoglie adorate… è colpa / Il richiamarvi così?…».
Ma a dire il vero, anche lo Stabat Mater è più un compianto dei fedeli sulla madre addolorata che non il cordoglio della mater dolorosa sul figlio morto.
Ed è quindi in questa prospettiva che desideriamo proporre un’analisi più circostanziata dell’Ines de Castro di Giuseppe Persiani15 (1799-1869) e di Salvatore
Cammarano16 (1801-1852), tragedia lirica in tre atti, portata sulle scene del
Teatro di San Carlo di Napoli il 28 gennaio 183517, tutta imperniata sulla compassione per le sventure di una madre indifesa, benché in questo caso i figli siano due. A prescindere dal dolore materno, pur sfiorato nell’addio supremo, l’opera si rivela particolarmente interessante per la rete di rapporti familiari che vi
sono ritratti, non solo tra la protagonista e i pargoli, ma anche per il sentimento provato dal padre per gli stessi e dagli affetti reciproci che lo legano al proprio genitore, il quale, a sua volta, non è insensibile nei confronti dei fanciulli
e persino della presunta nuora.
I fatti rappresentati hanno uno sfondo storico, o perlomeno i ruoli principa-
14
fedra|melodramma serio| in due atti|da rappresentarsi| in padova|per
l’apertura|del nobilissimo nuovo teatro|nella prossima fiera del santo 1820| poesia
espressamente composta|dal sig. luigi romanelli|[…]|con musica nuova|del sig. maestro ferdinando orlandi|[…]|padova| nella tipografia penada.
15
Non ci sembra questo il luogo in cui dare informazioni bio-bibliografiche inerenti agli autori, compito cui assolvono egregiamente enciclopedie e dizionari d’ogni genere e in varie lingue;
ricordiamo tuttavia che Persiani ebbe una discreta carriera operistica di una ventina d’anni tra il
1826 e il 1846; tra i suoi titoli, notiamo quattro libretti di Romani: Danao re d’Argo (1827), Gastone di Foix (1827), Eufemio di Messina ossia la distruzione di Catania (1829), Il fantasma (1843).
È anche il marito del soprano Fanny Tacchinardi, prima interprete delle donizettiane Rosmonda
d’Inghilterra (1834), Lucia di Lammermoor (1835) e Pia de’ Tolomei (1837).
16
Uno dei maggiori librettisti dell’Ottocento, Cammarano ha steso la sola Ines de Castro
per la musica di Persiani, benché si sia pure occupato del rifacimento dell’Eufemio di Messina nel
1836; inoltre, nel 1837 i due progettarono una Teresa Foscarini per il Théâtre-Italien di Parigi (cfr.
in merito John Black, The Italian Romantic Libretto. A Study of Salvatore Cammarano, Edimburg,
Edimburg University Press, 1984, pp. 33, 40, 162, 309).
17
Sulla datazione, cfr. quanto dimostrato da Paola Ciarlantini, Giuseppe Persiani e Fanny
Tacchinardi. Due protagonisti del melodramma romantico, Bologna, Il lavoro editoriale, 1988, pp.
91-92.
238 CAMILLO FAVERZANI
li possono venire identificati con personaggi del passato. Ines de Castro (1327?1355) è la figlia illegittima di Pedro Fernández de Castro, signore di Monforte
de Lemos e Sarria, imparentato con la famiglia reale di Castiglia. Educata alla
corte, diventa dama di compagnia di Costanza Manuel, promessa dell’erede al
trono del Portogallo, futuro Pietro I, figlio di Alfonso IV. Costei è la seconda
moglie del principe, dopo l’annullamento del breve matrimonio non consumato con Bianca di Castiglia, e gli dà tre figli: Luigi, Maria e Ferdinando, successore. Innamoratosi di Ines, Pietro la sposa in segreto dopo la morte della seconda
moglie in seguito al parto del terzo figlio e gli dà quattro discendenti: Beatrice,
Alfonso, Giovanni e Dionigi. Osteggiata dal re, la situazione diventa insostenibile quando l’erede ufficializza le nozze. Recatosi al monastero di Santa Clara,
presso Coimbra, assieme ai nobili castigliani ostili a Ines, il sovrano si lascia impietosire dalle lacrime della fanciulla, ma, sul punto di ritirarsi, la sua volontà
viene oltrepassata dai nobili che si avventano sulla giovane e la accoltellano. Ne
consegue una breve guerra civile contro il padre. Salito sul trono, Pietro si vendica, facendo giustiziare gli assassini della moglie e la proclama regina postuma
del Portogallo. Le sovravvivono i figli, eccetto Alfonso, morto in tenera età18.
Fin dal Cinquecento, i tragici eventi vengono recuperati dalla letteratura, ispirando l’elegia 455 Gritando va el cauallero di don Juan Manuel, raccolta nel Cancionero General (1511), a cura di Hernando del Castillo. L’episodio è
poi rievocato dalle strofe 118-136 del canto III de Os Lusíadas (1572) di Luís
Vaz de Camões. Giunge poi a teatro con la tragedia Castro (1555-1556, 1558,
1587) di António Ferreira. E la fortuna letteraria del soggetto si mantiene almeno fino a La Reine Morte (1942) di Henri de Montherlant19 o ancora con il
racconto L`amore di Don Pedro nei Volatili del Beato Angelico (1987) di Antonio
Tabucchi, nella tragedia Corona de amor y muerte (1955) di Alejandro Casona
e ne La reine crucifiée (2005) di Gilbert Sinoué, cui si aggiunga una sorte operistica non meno favorevole20. In campo cinematografico, ricordiamo la Rainha
Cfr. anche Suzanne Cornil, Inès de Castro. Contribution à l’étude du développement littéraire du thème dans les littératures romanes. De l’histoire à la légende et de la légende à la littérature,
Bruxelles, Académie Royale de Belgique, «Mémoires», XLVII, pp. 7-29; si vedano anche gli accenni in Edgar Prestage, Portugal in the Middle Ages, in The Cambridge Medieval History, edited
by Charles William Prévité-Orton and Zachary Nugent Brooke, Cambridge, University Press,
1936, vol. VIII, p. 518; e nel capitolo The Ines de Castro Theme, in António Ferreira, The Tragedy
of Ines de Castro, translated into English with introductory essays by John R.C. Martyn, 1987,
Coimbra, Universidade de Coimbra Press, pp. 95-100.
19
Sulla questione, cfr. ancora S. Cornil, Inès de Castro cit., pp. 54-128.
20
La storia musicale del personaggio appartiene soprattutto all’Ottocento, nonostante qualche titolo di fine Settecento, come l’Inez de Castro, Trauerspiel di Bernhard Anselm Weber su
libretto di Friedrich Soden del 1789, l’inedita Ines de Castro (1790) di Nicolas-Alexandre Dezède
e quelle di Giuseppe Giordani e di Gaetano Andreozzi, entrambe del 1793, sullo stesso testo di
Cosimo Giotti; di Francesco Bianchi su versi di Luigi De Sanctis del 1794 (ripresi l’anno seguente in una nuova versione a otto mani con Giuseppe Cervellini, Ignazio Gerace e Sebastiano
Nasolini); di Nicola Zingarelli, su un poema di Antonio Gasparini del 1798, riutilizzato nel 1803
18
«MATER DOLOROSA», OTTOCENTESCA LACRIMOSA
239
depois de Morta, Inês de Castro (1910) di Carlos Santos e l’Inês de Castro (1945)
de José Leitão de Barros.
Nell’introdurre il libretto, Cammarano ribadisce la popolarità dell’argomento, «comparso finora su tutt’i teatri d’Europa»21 e dice di aver consultato principalmente «le due tragedie di De La Mothe e di Bertolotti, varii programmi
di reputati coreografi […]; il Don Pietro del Greppi, e per ultimo il piano d’un
dramma tragico giudiziosamente condotto da un mio ragguardevole amico».
Cioè l’Inès de Castro (1723) di Antoine Houdar de La Motte, il Don Pietro di
Portogallo soprannominato il crudele (1789) di Giovanni Greppi, l’Ines de Catro
(1826) di Davide Bertolotti, oltre, verosimilmente, alle coreografie di Antonio
Cortesi per la propria musica, coadiuvato da Luigi Maria Viviani, e di Salvatore
Taglioni per Placido Mandanici, entrambe del 1827, rispettivamente per il Teatro
Regio di Torino e per la Scala di Milano22, senz’altro preferibili per prossimità geografica all’Inès de Castro (1821) di Charles-Louis e Auguste Didelot per
Adrien Boïeldieu, data al Marinskij Teatr’ di Pietroburgo23. Quanto al «ragguardevole amico» si tratterebbe di Giovanni Emanuele Bidera che avrebbe fornito
da Vittorio Trento, nel 1806 da Giuseppe Farinelli, Stefano Pavesi e dallo stesso Zingarelli, e nel
1827 da Carlo Valentini; di Giovanni Paisiello, su parole di Filippo Tarducci del 1799, ripresa
nel 1805 da Pietro Carlo Guglielmi; nell’Ottocento abbiamo le nuove Ines de Castro di Marcos
António Portugal e Vincenzo Migliorucci, su libretto di Jacopo Ferretti del 1810, l’opera inedita
di Giuseppe Marco e Felice Blangini all’incirca dello stesso anno e l’opera di Manuel Inocencio
dos Santos, su versi di G. Profumo del 1839; i lavori inediti di Francesco Antonio Faccio del
1865 e di Alfred Holmes del 1869, e quello di Frank Kullak, su testo di Wilhelm Fellechner del
1877; sotto altri titoli, ritroviamo una Ines ès Pedro (1814) di János Spech, su libretto di Philipp
Der Vogel des Bruders, Inès de Portogal (1864) di Fréderich Gérolt, su versi di Julien Duchesne,
Ines di Castiglia (1886) di Abdon Seghettini, su testo di Timoleone Garagnani, Don Pedro di
Castiglia (1888) di Alvise Castagnaro, su parole di Volebela; nel Novecento, rievochiamo la zarzuela di Rafael Calleja Gómez e Vicente Lleó Balbastre, su versi di José Juan Cadenas, del 1903,
l’opera di Vicente Costa y Nogueras del 1905, il titolo inedito di David de Sousa del 1910 circa,
l’Inês de Castro (1925) di Rui Coelho, su libretto di António Patrício tratto da António Ferreira,
l’Inés de Castro (1996) di James MacMillan, su versi di John Clifford, l’Inés de Castro (1976) di
Thomas Pasatieri, su testo di Bernard Stambler, l’inedito di Nikos Xanthulis, circa del 2000, e
fino al Wut (2006) di Andrea Lorenzo Scartazzini, su parole di Christian Martin Fuchs e all’Inês
(2009) di James Rolfe, su libretto di Paul Bentley, oltre al Requiem per Ines de Castro (2012) di
Pedro Macedo Camacho (sul repertorio operistico inerente al personaggio di Ines de Castro, cfr.
pure Saverio Durante, Le «Ines de Castro» e la «Ines» di Giuseppe Persiani, Milano, Scuola Grafica
Figli della Provvidenza, 1970, 128 pp. e più di recente Paola Ciarlantini, Storia e Mito nei libretti
italiani d’opera seria tra il 1825 e il 1850, in «Università di Macerata-Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia», 2007-2008, XL-XLI, pp. 326-327).
21
ines de castro|tragedia lirica|IN TRE ATTI|da rappresentarsi|nel|real teatro di s.
carlo|L’inverno del 1835.|napoli,|Dalla Tipografia Flautina.|1835.|, p. 3; per i rimandi al libretto,
ci riferiremo sempre alla presente edizione.
22
Black propende per il primo (cfr. J. Black, The Italian Romantic Libretto cit., p. 172).
23
Per quanto riguarda la danza, si ricordino anche i balli tragici di Giuseppe Canziani e
Antonio Muzzarelli, entrambi del 1775, seguiti dall’Inez de Castro (1778) di Peter von Winter e
dall’Ines von Castro (1796) di Christian Ludwig Ditter; poi nel Novecento la Dona Inés de Castro
(1952) di Joaquin Serra e l’Inés de Castro (1988) di Germinal Casado.
240 CAMILLO FAVERZANI
al giovane librettista le grandi linee della trama24. In effetti, come ricorda anche
John Black25, Ines de Castro è il primo libretto scritto da Cammarano, perché,
se La sposa di Egisto Vignozzi viene rappresentato nel novembre dell’anno precedente, il testo è di stesura posteriore a quello per Persiani. È quindi plausibile
che, nell’accingersi ad un tale lavoro, abbia chiesto il parere se non l’aiuto di un
uomo di lettere concittadino che, oltre a non essere alle prime armi con la scena
operistica26, ha alle proprie spalle una solida esperienza di drammaturgo. Inoltre
Black annovera Ines de Castro tra le opere il cui argomento era stato utilizzato
per un lavoro teatrale rappresentato al Teatro dei Fiorentini, ma non ci dice quale27. In ogni caso non si può trattare dell’adattamento di un dramma preesistente di Bidera. Nonostante sul libretto compaia solo il nome di Cammarano, lo
si è talvolta attribuito ad una collaborazione tra gli autori28, come riportato dal
periodico napoletano «Omnibus», citato da Paola Ciarlantini29, il quale ascrive a Bidera piano, distribuzione e stesura in prosa dell’opera e a Cammarano la
sola versificazione.
La sera della prima, la compagnia di canto è la seguente: Maria Malibran
(Ines), Gilbert-Louis Duprez (Don Pedro), Carlo Ottolini Porto (Alfonso IV),
Napoleona Albini (Bianca di Castiglia), Achille Balestracci (Gonzales), Teresa
Zappucci (Elvira) e Domenico Raffaelli (Rodrigo). Nelle proprie memorie,
Duprez allude alle perplessità della Malibran circa la qualità dell’opera durante
le prime prove, in gran parte generate dal difficile rapporto della cantante con
il pubblico napoletano; ma non appena il collega le mostra al pianoforte i pregi della partitura, costei si ravvede e si impegna per eseguirla nel migliore dei
modi30. Duprez testimonia anche il successo ottenuto la sera della prima e durante le repliche successive, a tal punto che la polizia deve intervenire per far
cessare gli applausi che affaticano troppo i membri della corte presenti alle rappresentazioni: viene emanato un decreto per impedire ai cantanti di venire a salutare il pubblico più di una volta31. Come recensito anche da Ciarlantini, l’opera viene apprezzata in ogni sua parte e i cantanti sono tutti osannati per la
propria esecuzione32, e anche la Malibran sembra aver smentito le prime riser-
Cfr. anche P. Ciarlantini, Giuseppe Persiani e Fanny Tacchinardi cit., p. 88.
J. Black, The Italian Romantic Libretto cit., p. 23.
26
Aveva da poco fornito a Donizetti i versi per Gemma di Vergy (1834) e Marin Faliero
(1835), quest’ultima non ancora rappresentata.
27
Cfr. J. Black, The Italian Romantic Libretto cit., p. 160.
28
Cfr. ivi, p. 24.
29
Cfr. P. Ciarlantini, Giuseppe Persiani e Fanny Tacchinardi cit., p. 93.
30
Cfr. Gilbert Duprez, Souvenirs d’un chanteur, Paris, Calmann Lévy, 1880, pp. 116-117.
31
Cfr. ivi, pp. 117-118.
32
Cfr. P. Ciarlantini, Giuseppe Persiani e Fanny Tacchinardi cit., pp. 92-93, che riferisce
quanto pubblicato sui periodici napoletani, l’«Omnibus» del 31 gennaio e l’«Emporio teatrale»,
quindi i milanesi «Il Figaro» del 14 febbraio e «Il censore universale dei teatri» del 25 febbraio, il
quale lascia intendere che, in confronto ai titoli del passato, l’esito dell’opera possa venire parago24
25
«MATER DOLOROSA», OTTOCENTESCA LACRIMOSA
241
ve, dal momento che il compagno Charles de Bériot ne parla con entusiasmo33.
D’altronde l’interprete non esita a riprendere il titolo a Lucca nell’agosto del
183534. Per Thomas Kaufman si tratterebbe persino del lavoro di maggior successo tra quelli scritti apposta per la cantante35. Black e Ciarlantini, specialisti rispettivamente di Cammarano e di Persiani, divergono quanto al numero di recite del Carnevale 1835, nove per il primo, sette per la seconda, che situa l’ultima in data 2 marzo36. L’opera non viene più replicata a Napoli37, probabilmente perché invisa alla censura a causa dell’argomento considerato come eccessivamente cruento.
Ines de Castro conosce poi una certa fortuna in Italia e all’estero. Oltre alla citata ripresa di Lucca, essa viene riproposta con Carolina Ungher nel ruolo della
protagonista ad Ancona, a Palermo e a Firenze, rispettivamente nel maggio del
1835, nell’autunno dello stesso anno e nell’aprile del 1836. Talvolta con esito
più incerto, come a Roma e a Genova, tra il dicembre 1835 e il gennaio 1836,
e a Torino e a Milano, nello stesso periodo dell’anno successivo. Nel maggio
1836, a Bologna, la iscrive al proprio repertorio Fanny Tacchinardi, di cui diventa una sorta di cavallo di battaglia, poiché la ripropone a Modena in giugno, a
Venezia nel gennaio del 1837 e la esporta quindi a Parigi e a Londra nel 1839 e
nel 1840, in una versione che implica qualche modifica, soprattutto per la parte
di Ines. La si rappresenta un po’ ovunque in Italia, a Chieti, a Padova, a Trieste,
a Verona, a Piacenza, a Messina, a Lugo, a Rovigo, a Ferrara, a Rimini, a Prato,
a Brescia, a Pisa, a Faenza, a Siena, ad Ascoli Piceno, a Jesi, a Parma, a Livorno, a
Macerata, ad Assisi, a Catania, a Perugia, a Città di Castello, a Pesaro, ad Arezzo
e a Forlì. All’estero, fa una prima comparsa a Madrid nel maggio 1837, e nella penisola iberica gode di un certo favore, dato che la ritroviamo a Lisbona nel
1838, a Barcellona e a Palma di Maiorca nel 1839, quindi a Cadice e a Siviglia
nel 1846, a Gibilterra nel 1847 e a Malaga nel 1851, ultima recita di cui si attesta nell’Ottocento. L’argomento forse percepito come spagnoleggiante può in
parte spiegare il discreto successo in terra ispanica. La prima parigina è preceduta
in Francia dalla ripresa marsigliese del 1838. Nelle isole ioniche, si registrano le
rappresentazioni della primavera del 1837 a Corfù e a Zacinto38. L’opera scomnato solo a quello della Zelmira (1822) rossiniana (cfr. anche Thomas G. Kaufman, Giuseppe and
Fanny Persiani, in «The Donizetti Society Journal», 1988, 6, p. 127).
33
Cfr. P. Ciarlantini, Giuseppe Persiani e Fanny Tacchinardi cit., p. 94.
34
Cfr. ivi, p. 105.
35
Cfr. Thomas G. Kaufman, Giuseppe and Fanny Persiani cit., p. 127.
36
Cfr. J. Black, The Italian Romantic Libretto cit., p. 24 e P. Ciarlantini, Giuseppe Persiani e
Fanny Tacchinardi cit., p. 92.
37
Cfr. J. Black, The Italian Romantic Libretto cit., p. 24.
38
Per la fortuna dell’opera, cfr. P. Ciarlantini, Giuseppe Persiani e Fanny Tacchinardi cit., pp.
104-106, 127-128, 150-151, 153, oltre al prospetto attinto sia da Giuseppe Radiciotti, Teatro,
musica e musicisti in Recanati, Recanati, Simboli, 1904, pp. 157-160, sia da S. Durante, Le «Ines
de Castro» e la «Ines» di Giuseppe Persiani cit., pp. 35-46, e alla tabella in Thomas G. Kaufman,
242 CAMILLO FAVERZANI
pare poi dalle scene fino alla resurrezione del settembre 1999 al Teatro Pergolesi
di Jesi, diretta da Enrique Mazzola, con Maria Dragoni nel ruolo di Ines e la regia di Marisa Fabbri39.
Tra i titoli di Cammarano, Ines de Castro è il libretto maggiormente sfruttato, essendo stato musicato almeno altre quattro volte, da Fabio Marchetti nel
1840 a Mantova, da Pietro Antonio Coppola nel 1841 a Lisbona e, con il titolo Don Pedro di Portogallo, da Luigi Gibelli nel 1849 a Novara e da Riccardo
Drigo nel 1868 a Padova40. Tutte le riedizioni avvengono prima della morte del
poeta, eccetto l’ultima. Si rievochi infine il riutilizzo di gran parte dei versi per
la Malvina di Scozia (1851) di Giovanni Pacini, sempre al San Carlo di Napoli,
probabilmente un modo per eludere la censura41. Per cui si è talvolta lasciato intendere che l’autore abbia iniziato e concluso la propria carriera sulle scene operistiche adattando la storia di Ines42, fenomeno non del tutto smentibile,
se si considera che Il trovatore è incompiuto e la stesura dei versi della Virginia
(1866) di Saverio Mercadante, postuma, risale al 1849. E proprio sul capolavoro verdiano sta lavorando lo scrittore, quando deve soddisfare alla meglio anche alla richiesta di Pacini.
Ricordiamone in breve la trama. Oltre ai personaggi precedentemente menzionati, le prime pagine del libretto indicano pure «Due figli di Don Pedro e
d’Ines che non parlano», componente non trascurabile ai fini della nostra analisi. Vengono allora precisate anche le varie sezioni del coro: «Dame della corte reale. / Damigelle d’Ines. / Grandi del regno. / Guerrieri». Quindi le comparse: «Dame, e cavalieri castigliani, paggi, scudieri di Don Pedro, seguaci di
Gonzales, arcieri reali». Seguono il luogo e il secolo: «la scena è parte nella reggia
di Coimbra, parte nel castello d’Ines. L’epoca rimonta al 1349». L’unità di luogo
è dunque apertamente elusa, dato che, fin dall’atto I, passiamo dalla «Magnifica
sala negli appartamenti del Re» (I, 1) al «Giardino nel castello d’Ines» (I, 4), per
poi far ritorno alla «Gran sala del trono» (I, 11) e, nell’atto II, dall’«Atrio d’una torre annessa alla reggia» (II, 1), attinente alle prigioni, al «Carcere» (II, 5)
vero e proprio, in cui è rinchiusa la protagonista, infine dalla «Sala con due porte laterali» (III, 1) alla tomaba di Costanza (III, 5) delle ultime scene. L’atto III
dà anche qualche indicazione temporale – «È notte» (III, 1) –, confermata dalla «luna […] coverta da tenebrose nubi» (III, 5), per cui, se presumiamo sposta-
Giuseppe and Fanny Persiani cit., p. 136-138; sulla versione parigina, cfr. P. Ciarlantini, Giuseppe
Persiani e Fanny Tacchinardi cit., pp. 97, 150-153.
39
Fortunatamente ne rimane una testimonianza sonora, l’unica registrazione commerciale
esistente finora: Giuseppe Persiani, Ines de Castro, Bologna, Bongiovanni, s.d., GB2263/64-2.
40
Cfr. J. Black, The Italian Romantic Libretto cit., pp. 25, 307; Ciarlantini aggiunge anche la
versione di Tomás Giribaldi del 1887 per Montevideo, ma non rappresentata (cfr. P. Ciarlantini,
Storia e Mito nei libretti italiani d’opera seria tra il 1825 e il 1850 cit., p. 327).
41
Cfr. J. Black, The Italian Romantic Libretto cit., p. 25.
42
Ibidem (cita il necrologio pubblicato dall’«Omnibus»).
«MATER DOLOROSA», OTTOCENTESCA LACRIMOSA
243
menti piuttosto rapidi, possiamo supporre un’unità di tempo cha va dai primi
albori della giornata alla più profonda oscurità. Come vedremo, l’azione non
prevede trame secondarie ed è tutta imperniata sull’amore che lega Ines a Don
Pedro e sulla sventura che incombe sulla loro progenitura.
La scena si apre su re Alfonso indignato dal rifiuto del figlio di sposare l’infante di Castilgia, Bianca (I, 1-3). Segue la comparsa di Ines in ansia per l’assenza dell’amato (I, 4-5) che, nel sopraggiungere, smentisce le prossime nozze e
propone alla fanciulla di unirsi subito in matrimonio (I, 6-7). Arriva Gonzales,
innamorato dell’eroina e deciso a vendicare sui bimbi il di lei rifiuto: comunica
a Don Pedro l’ordine del padre di recarsi a corte e, appena questi se ne va, entra
Elvira in ansia per la scomparsa dei pargoli (I, 8-10). A palazzo si festeggia l’ingresso in città della principessa spagnola (I, 11), quando Gonzales fa parte al re
dell’insuccesso della propria missione, poi confermato personalmente da Don
Pedro che, rifiutando di unirsi in matrimonio, è immediatamente seguito dalla comparsa di Ines, la quale, estremamente angosciata, reclama le proprie creature; il giovane comunica la notizia delle avvenute nozze; Bianca si considera
oltraggiata (I, 12-15). Don Pedro si accinge a riunire un esercito contro il padre per liberare i figli (II, 1); compare il re per indicare all’erede il proprio dovere, facendosi minaccioso nei confronti di Ines e dei bambini (II, 2); un messaggio di Rodrigo reca la richiesta di Ines di essere udita; Alfonso si commuove
(II, 3); eppure Gonzales si dice certo della sorte funesta della protagonista (II,
4). Costei piange l’innocenza dei primi anni (II, 5); sopravviene Bianca a proporle la scelta tra l’esilio e la morte (II, 6), mentre Alfonso minaccia di infliggere la stessa pena a Don Pedro; la fanciulla si accinge a lasciare la corte, ma i
bimbi devono rimanere in ostaggio; alle suppliche della madre, il re e l’infanta
si commuovono; Gonzales le porge una bevanda per rinfrancarla (II, 7-8). Don
Pedro piange la scomparsa dei pargoli e la prossima morte del padre, immediatamente confermata de Rodrigo (I, 1-4). Tra le tombe regie, Ines vaga in preda
alla pazzia e a un’ingiustifcabile arsura, rivendica la propria innocenza e reclama i figli; nel riprendere coscienza, si ritrova al cospetto dell’amato, ma è troppo tardi: il veleno versato da Gonzales nel liquido bevuto dalla giovane fa ormai
effetto; Ines si accascia sulla tomba di Costanza, prima moglie di Don Pedro;
questi trafigge il traditore (III, 5-s.u.).
Vistosissime sono le libertà prese da Cammarano con la storia. La presenza a
corte di Bianca di Castiglia, prima moglie del principe Pietro, il cui matrimonio,
non consumato e annullato, precede l’unione con Costanza Manuel e quindi
l’arrivo di Ines de Castro in Portogallo. La morte dei figli che, come sappiamo,
non vennero implicati nella vendetta del partito castigliano contro la fanciulla. La fine della stessa protagonista, qui avvelenata. Ovviamente il delirio conseguente alla pozione letale si addice meglio alle aspettative della censura e del
pubblico napoletani degli anni trenta dell’Ottocento, già abbastanza prevenuti nei confronti di una certa crudeltà insita nell’opera. Più verosimile, invece, è
il nome del traditore, Gonzales, possibile forma italianizzata di uno dei congiu-
244 CAMILLO FAVERZANI
rati, Álvaro Gonçalvez43, per quanto privo del nome. Come pure la scena finale
sulla tomba di Costanza, benché senza fondamento alcuno.
La partitura si compone di undici numeri dopo la sinfonia44. Ines ne è l’eroina a tutti gli effetti, contabilizzando il numero massimo di interventi, con
un’aria in ogni atto: la cavatina di sortita «Quando il coro in te rapito» (I, 4), la
romanza «Cari giorni a me ridenti»45 (II, 5) e la grande scena finale «Sono innocente… Ah! placati…» (III, 5). Condivide un duetto con Don Pedro, «Che
non dice al cor tremante // Quell’arcan che il labbro cela» (I, 6) e il terzetto con
Bianca e Alfonso, «Morir fra i vostri amplessi // (In lor l’immago, o Dio! // (Di
tanto affanno, oh Dio!» (II, 8), e partecipa al finale I, per un totale di sei presenze. Non è quindi sorprendente che varie primedonne vi si siano illustrate, poiché l’opera permette loro un certo primato al quale nessuna interprete di quegli
anni, e probabilmente degli anni e dei secoli a venire, poteva essere insensibile. Oltre alla Malibran, subito ravvedutasi dalla pur singolare esitazione iniziale,
alla Ungher e alla Persiani, già ricordate, si aggiungano altre dive del calibro di
Anna Del Sere, Rita Gabussi e Teresa Belloc. Padre e figlio ottengono la stessa
quantità di prestazioni. Alfonso apre la nostra tragedia lirica con l’introduzione
«Le tue smanie, il lungo pianto» (I, 3), subito dopo quel coro «Quale oltraggio!
Il saluto non rende» (I, 1) che Black considera come uno dei migliori esempi di
«intergrated opening chorus»46, dal momento che l’ansia espressa dai cortigiani permette allo spettatore di addentrarsi facilmente in una situazione ostile e
gli astanti dialogano poi con Gonzales, il quale viene così a singolarizzarsi come
avversario del principe e del suo agire nei confronti di Bianca. Canta con Pedro
all’inizio dell’atto II, «Innanzi a’ miei passi già schiuso è l’avello // Giurata ho la
fede… l’accolse l’Eterno…» (II, 2) e irrompe nel citato terzetto con Ines e Bianca.
Don Pedro esegue i due duetti con Ines e con il padre e ha un’aria nell’atto III:
«L’orror mi rese immobile» (III, 3). E intervengono entrambi nel finale centrale, assieme a Bianca e ai ruoli secondari, per un totale di quattro numeri ciascuno. Da parte sua, la principessa castigliana annovera due presenze47.
Come molti titoli di quel tempo, Ines de Castro è un’opera a tendenza estremamente cabalettistica, poiché, se si eccettua la romanza della protagonista nell’atto II, tutti i numeri della partitura si concludono su un allegro o una stretta. La
Gli altri sono Pêro Coelho e Diego López Pacheco.
Abbiamo consultato la partitura per piano e canto: […]|inès de castro|Opera Seria|en
trois actes,|[…]|[…]|[…]|[…]|[…]|g. persiani|[…]|à Paris, chez Bernard-Lattes[…]|[…]|s.d.
[1840]; nonostante l’impaginazione in francese, la partitura è in italiano.
45
Come rievocato anche da Ciarlantini, diverso è il testo del libretto della prima («Nel dolore è scorsa intera»), per cui è desumibile che Persiani abbia inserito l’aria all’ultimo momento su
testo nuovo (cfr. P. Ciarlantini, Giuseppe Persiani e Fanny Tacchinardi cit., pp. 98-99).
46
J. Black, The Italian Romantic Libretto cit., p. 192.
47
La partitura che abbiamo consultato le attribuisce anche un’aria all’inizio dell’atto II, i
cui versi sono assenti dal libretto; considera inoltre l’introduzione all’atto III come un numero
a sé stante.
43
44
«MATER DOLOROSA», OTTOCENTESCA LACRIMOSA
245
sortita di Alfonso sfocia così sulla cabaletta «L’indegna ripulsa, l’oltraggio fatale » (I, 3), la cavatina di Ines sbocca sull’allegro brillante «Nell’ ebbrezza dell’amore » (I, 5), l’aria di Don Pedro si riversa nella cabaletta «Ah! Nell’eccesso di
tante sventure» (III, 4)48 e il finale dell’eroina approda a «Quelle lagrime scorrenti » (III, s.u.), moderato seguito dall’indicazione affrettando, poi affrettando
crescendo. Lo stesso dicasi delle prestazioni non solistiche, come il duetto InesDon Pedro, che esterna la letizia delle prossime nozze nell’allegro brillante «Ah!
sì, gioisci, ò cara… // Oh! come esulta il core!…» (I, 7), o il duetto padre-figlio
che inscena i reciproci rimproveri nell’allegro agitato «La pietà de’ miei tormenti // La ragione, in tai momenti » (II, 3), o ancora il terzetto, la cui riconciliazione assume la forma dell’allegro brillante assai «Ciò ch’io provo in tal momento »
(II, 8). Il finale centrale si conclude, come di dovere, sulla stretta «M’abbandona
all’estrema sciagura…» (I, 15).
Dal punto di vista metrico, il libretto di Cammarano ricorre in modo del
tutto preponderante all’ottonario. A questo verso sono da ascrivere l’aria di
Alfonso, cavatina e cabaletta di sortita di Ines, l’allegro agitato del duetto InesDon Pedro, il coro precedente l’ingresso di Bianca nel finale I, «Della gioia si
diffonda» (I, 11) e il successivo moderato della stessa «Ah! non più: mi tocca il
core», l’allegro agitato già rievocato del duetto Don Pedro-Alfonso, la romanza
di Ines nell’atto II, in entrambe le versioni, l’allegro giusto «Di due Re gli sdegni e l’ire // Qui lasciando il core e I’alma» (II, 6) di Ines e Bianca in preambolo al terzetto, l’allegro del terzetto del finale II e il moderato finale dell’eroina. Seguono in quantità paragonabile per frequenza il settenario e il decasillabo, come nell’allegro del duetto Ines-Don Pedro, nel larghetto del terzetto e nelle arie di Don Pedro e di Ines dell’atto III, per il primo, nel coro dell’introduzione, nell’allegro mosso del coro nell’aria di sortita di Ines, «Lieve, lieve, lontano, lontano» (I, 5), nella stretta del finale I e nell’allegro dell’aria di Don Pedro.
Compaiono poi tre dodecasillabi, ma in realtà sempre senari accoppiati49, nella cabaletta di Alfonso, nel duetto Ines-Don Pedro «Oh! figli innocenti di misera madre // Se in mezzo alle pompe felice non sono» (I, 7) o nel larghetto del
duetto Don Pedro-Alfonso. E si noti in ultimo la presenza del quinario nel largo del finale centrale, «(D’arcano orribile» (I, 15) e nella prima versione della
cabaletta di Don Pedro.
Ines, mater dolorosa. Fin dal recitativo precedente l’aria di sortita, il pensiero della giovane la definisce quale amante fedele di Don Pedro e madre, sebbene già in ambasce: «Compiuto appena il mio trionfo, io volo / Ad abbracciar-
Anche in questo caso, nel libretto napoletano abbiamo versi diversi: «Sì, tregua ai gemiti».
Sull’uso del senario vero e proprio da parte di Cammarano, Black nota che, piuttosto raro
nei suoi libretti, il metro compare solo in sei opere e in percentuale piuttosto bassa, ma raggiunge
il proprio apice in Malvina di Scozia, nei passi nuovi, non attinti da Ines de Castro (cfr. J. Black,
The Italian Romantic Libretto cit., p. 264).
48
49
246 CAMILLO FAVERZANI
ti, a rivedere i figli50» (I, 4). E non appena sopraggiunge il principe, la reazione
immediata è di richiedere la presenza dei figli a una delle damigelle che la assecondano. Si designa allora quale «palpitante madre» (I, 6), cui subentra immediatamente la «misera madre» (I, 7), sacrificata a un matrimonio di interesse da
parte dell’erede al trono, succube della ragion di stato, la quale, al giungere dei
«figli innocenti», condotti da Elvira, ma ormai privi dell’affetto paterno, li invita a piangere su un fato iniquo. Nel contempo, di soppiatto, il cospiratore tesse la tela della vendetta e quando «Elvira conduce i fanciulli in uno de’ viali del
giardino», Gonzales «li segue lungamente con l’occhio» (I, 8), per dare poi la
propria definizione dei pargoletti – «Frutti abborriti della colpa!…» –, nell’accennare ai suoi seguaci di non perderli di vista. Dopo il breve alterco con Don
Pedro, la sorte dei bimbi è irreversibile, poiché il traditore si affretta a inoltrarsi «nel viale ove furono condotti i fanciulli» (I, 9). Le sue intenzioni non possono venir fraintese. Si prepara così il sacrificio degli innocenti, rapiti nella scena successiva, in cui accorre Elvira ansante. Don Pedro è assente e, nella foga
della partenza per recarsi a corte, Ines si singolarizza rispetto a Elvira affermando la propria maternità: «Madre non sei!…» (I, 10), contrappone alla compagna che sembra esitare.
Il lamento di Ines è quindi generato dalla scomparsa dei figli. La supplica
presso il re, assieme all’addio ai pargoli e alla scena di pazzia51 sono i momenti più eloquenti di un tal proposito. Innanzi al re, l’eroina ne implora la restituzione: «Ti domando il sangue mio… / I miei figli io chieggo a te» (I, 15), invoca al cospetto anche di Bianca. Disposta a morire pur di liberarli – «… io son
la rea… / Qui trafiggimi ai tuoi piedi; / Ma pietà… pietà di lor, / Del tuo serto
son gli eredi…» –, essa reitera un tal intento e il proprio sconforto nella stretta
del finale I: «M’abbandona all’estrema sciagura… / Ines muoia fra mille tormenti… / Salva solo i miei figli innocenti, / E ne’ figli la madre vivrà». Alle pressioni di Bianca e di Alfonso, e confrontata al dilemma del sacrificio di Don Pedro,
Ines non ha più che la scelta dell’esilio – «… io disperata / Porto altrove il mio
dolor» (II, 7) –, pur definendosi «madre sventurata» (II, 8) nell’apprendere che
dovrà separarsi anche dai fanciulli, trattenuti in ostaggio:
Morir fra i vostri amplessi,
Morir almen potessi…
50
Virgolettati, tali versi non vengono musicati, forse per la scarsa comprensibilità dell’allusione al proprio trionfo.
51
In merito, Saverio Durante, poi corroborato da Ciarlantini, affianca la pazzia di Ines a
quella di Lucia nella Lucia di Lammermoor (1835) di Donizetti, posteriore di pochi mesi e portata sulle scene del San Carlo dalla Tacchiardi (cfr. S. Durante, Le «Ines de Castro» e la «Ines» di
Giuseppe Persiani cit., p. 114 e P. Ciarlantini, Giuseppe Persiani e Fanny Tacchinardi cit., p. 100);
indipendentemente dalla grande differenza che separa le opere da un punto di vista sia musicale
sia estetico, si aggiunga che il compositore bergamasco aveva al suo attivo ben altre scene di pazzia
o di delirio.
«MATER DOLOROSA», OTTOCENTESCA LACRIMOSA
247
O figli… o mia delizia…
Mai più non ci vedremo!…
Questo è il momento estremo
In cui v’abbraccio… ancor!…
Parte del sangue mio…
L’aria finale inscena l’illusorio ricongiungimento della protagonista con la
propria progenitura: « Giorno di gioia è questo… / L’ira del Re si estinse… /
[…] / I figli al seno ei strinse / I figli! E dove sono?» (III, 5). Per poi ripercorrerne il destino fino all’epilogo cruento:
Non è Gonzales?… Barbaro,
Minacca i figli!… ah! no…
Snuda un pugnale!… Immergilo
In questo sen materno,
Ma i figli… Oh crudol… arrestati…
T’arresta… Ah! li svenò!52
In ultimo il moderato rivolge un pensiero estremo ai figli, ormai non lontani: «Ti conforta… i miei tormenti / Lascio in terra… e un... fragil velo… / Ma
non moro… vado in cielo / I miei figli… a riveder…» (III, s.u.).
Ma sappiamo che Ines de Castro è anche l’opera degli affetti familiari. A sua
volta Don Pedro ostenta sentimenti paragonabili a quelli della madre. Al suo
giungere, si accinge ad abbracciarli, quando sente già nascere in sé il rimorso per le prossime nozze che considera come un tradimento nei loro confronti: «Oh! miei figli!… oh figli miei! / E tradirvi?… ah! Nol potrei… / Cor di padre il ciel mi diè!» (I, 7). E alla notizia del rapimento, reagisce istintivamente,
da uomo d’armi deciso a riprenderli con la forza, pur anteponendo al loro il riscatto dell’amata: «Padre e marito io son; la sposa e i figli / Mi venner tolti…
Ripigliarli è d’uopo / Col brando… Ad Ines pria, / Quindi a’ miei figli si provvegga…» (II, 1). La sua aria dell’atto III anticipa il lamento di Ines e ne è quindi il corrispettivo. Se le immagini cruente dell’andante rievocano il compianto del Farnace vivaldiano – «Gelido in ogni vena / Scorrer mi sento il sangue. /
L’ombra del figlio esangue / M’ingombra di terror»53 (II, 5) – tanto nella concezione ritmica quanto nella suggestione suscitata dal settenario – «L’orror mi
rese immobile / Come persona esangue!… / Colà de’ figli tepido / Ancor rosseggia il sangue!…» (III, 3) –, il precedente moderato non doveva essere sconosciuto al Verdi del 1847, in quanto il grido disperato di Macduff nell’atto IV
52
Versi rotti di questo tipo vengono considerati da Black come uno dei marchi di fabbrica
di Cammarano e in proposito cita proprio la pazzia di Ines (cfr. J. Black, The Italian Romantic
Libretto cit., pp. 215-216).
53
farnace|Dramma per Musica|Da Rappresentarsi nel Teatro|di Sant’Angelo|Nel Carnevale
dell’Anno 1726.|in venezia, M.DCCXXVI.|Apresso Marino Rossetti […]|[…]|[…].
248 CAMILLO FAVERZANI
del Macbeth – «O figli, o figli miei! da quel tiranno / Tutti uccisi voi foste54…»
(IV, 1) –, riecheggia in parte la disperazione di Don Pedro: «Ivi trafitti i figli! /
Ed ivi spira il genitor!…» (III, 2).
Le ultime repliche precisano anche un altro vincolo familiare dell’opera non
trascurabile, quello tra padre e figlio. Se, nel rivedersi, i due si scontrano, pur li
lega uno schietto e profondo affetto. Alfonso accusa Don Pedro di parricidio,
ma questi risponde che vuole solo riprendersi ciò che gli spetta: «…Il mio soltanto io chieggo: / I figli e la consorte» (II, 2). Indi si contrappongono l’un l’altro la propria paternità: «Son padre… // Ed io nol sono?». Ma per il momento
il re ha un solo obiettivo e per raggiungerlo è disposto a ricorrere ad ogni mezzo, anche al più crudele – «Ma per Ines trema, indegno, / E pei figli… Il sangue lor…» –, cosicché il principe vede delinearsi il destino di vittime promesso
ai pargoli. Se il monarca non può ammettere disobbedienza, che almeno il padre sia clemente:
La pietà de’ miei tormenti
Che sei padre a te rammenti…
La pietà e il cor ti schiuda,
Ed al padre ceda il Re.
Senza i figli, senza lei
Sempre in lutto i dì trarrei (II, 3).
In apparenza, l’autorità non cede – «Che sei figlio a te rammenti» –, ma in
cuor suo il genitore comincia a dubitare: «Al suo pianto, al suo dolore / Geme il
padre e tace il Re!», dice in disparte la seconda strofa dell’allegro agitato. Possiamo
quindi presupporre che l’espediente utile a far piegare Ines – la vagheggiata esecuzione di Don Pedro – non sia del tutto sincero, tanto più che il terzetto con Ines
e Bianca ricalca in qualche modo il duetto con l’erede, dal momento che Alfonso
si intenerisce alla rievocazione dei nipotini, nonostante la replica venga ancora
isolata: «(In lor l’immago, o Dio! / Sculta è del figlio mio!…» (II, 8). Allora il
sovrano non può che lasciarsi commuovere dallo spettacolo dei pargoletti prostrati ai suoi piedi e, nel perdonare, si vuole padre anche per Ines55 – «Padre…
tuo padre appellami…» – in un abbraccio paterno cui la fanciulla non ha motivo di sottrarsi – «O caro… padre… o teneri / Miei figli…» –, aprendo la via ad
un ipotetico lieto fine: «Fra miei figli un dì giulivo / Fia la vita ognor per me!».
Sappiamo che la realtà è ben diversa. La morte del re è commentata dal coro,
che raffigura l’ormai raggiunta pace familiare – «Tra’ suoi figli, e Bianca assiso /
Stava il sire a lieta mensa…» (III, 1) –, quando interviene Gonzales a spezzare
l’incanto: «E del prence i figli il vile… / Ahi!… nel sonno trucidò». La pietà filiaFrancesco Maria Piave, Macbeth, in G. Verdi, Tutti i libretti d’opera cit., II, pp. 174-196.
Notiamo che fin dal primo incontro, l’eroina si rivolge ad Alfonso negli stessi termini:
«Comune padre e Re dei Re» (I, 15).
54
55
«MATER DOLOROSA», OTTOCENTESCA LACRIMOSA
249
le porta quindi Don Pedro a dirsi «figlio misero» (III, 3) e, al lutto per la scomparsa del padre, antepone solo la preoccupazione per la condizione dell’amata:
Della sposa si voli all’aita
E si sveni quel vil traditor56.
Quindi sul cenere
Del padre mio
Di pianto un rio
Saprò versar (III, 4).
Come osserva il coro, si noti che in tal contesto luttuoso Bianca è compartecipe del dolore generale. Innanzi alla disperzione di Ines – «… in suon di pianto / Fa la reggia rimbombar» (III, 1) – non può rispondere che con la propria
commiserazione: «Stassi Bianca a lei d’accanto / In silenzio a lagrimar». Nella
scena del perdono è proprio la promessa sposa ad incoraggiare Alfonso all’indulgenza – «Che tardi?… abbracciali / Nol vedi? Io già perdono…» (II, 8) –,
anch’essa pervasa dal rimorso: «(Di tanto affanno, oh Dio! / Sola cagion son io!».
D’altronde, al suo apparire, l’infanta ha un’effusione materna per il popolo cui
la destina il prossimo matrimonio: «Lusitani, il vivo amore / D’una madre io vi
prometto» (I, 11). Così, nell’incontro con la rivale, essa cerca dapprima di convincerla a rinunciare a Don Pedro al fine di evitare una guerra con la Castiglia
che farebbe spargere «fiumi di sangue» (II, 6) e il suo pensiero va alle vittime,
«Orfanelli gementi, / Orbate madri e vedove dolenti» di manzoniana memoria.
Nella seconda metà del secolo e nel primo Novecento, ci pare che le uniche
vere eredi di Ines, ed eventualmente di Lucrezia Borgia, siano la Margherita del
Mefistofele (1868, 1875) di Arrigo Boito e Suor Angelica (1917) di Giacomo Puccini,
su libretto di Giovacchino Forzano. Il repertorio annovera altre madri, vere o adottive, ma il compianto sulla salma del figlio o del figliastro viene perlopiù eluso o
reso vano. In terra di Francia, per esempio, fondamentale è il vincolo affettivo che
lega Jean de Leyde alla madre Fidès ne Le Prophère (1849) di Giacomo Meyerbeer,
su testo di Eugène Scribe e Émile Deschamps. La trama è disseminata di tribolazioni che, interponendosi tra di loro, in un primo tempo li separano, per poi ricongiungerli nella grande scena e duetto dell’atto V e soprattutto nel comune supplizio del rogo finale: «Ah viens, divine flamme57» (V, 7). Eppure, per un certo lasso di tempo, il giovane è creduto morto e nel ritrovare Berthe, la di lui promessa,
Fidès lo rievoca con accenti assimilabili a un lamento funebre:
Non, plus d’espoir, lueur dernière,
Tout mon bonheur a disparu!
56
Il libretto napoletano è meno esplicito nei confronti di Ines: «Pria morte all’empio / Vil
traditor».
57
Eugène Scribe-Giacomo Meyerbeer, Le Prophète, Paris, Stock, 1924.
250 CAMILLO FAVERZANI
Que faire encor sur cette terre?
Mon pauvre enfant, je t’ai perdu!
Hélas! et pour toujours! (IV, 3).
Intona quindi la preghiera alla Madonna, nella speranza di raggiungerlo presto nella morte: «Mes yeux n’ont plus qu’à pleurer, / […] / Mon fils, près de toi,
/ Ah! rappelle-moi!»
Ne La Jacquerie (1895), partitura di Édouard Lalo, compiuta da Arthur
Coquard, su versi di Édouard Blau et Simone Arnaud, il protagonista, Robert,
intrattiene pure un rapporto intenso con la madre Jeanne, che spicca particolarmente nella scena dell’atto II, in cui essa tenta di dissuadere il figlio dal prendere
la guida della rivolta contro il feudatario locale in vece del più violento Guillaume.
Le sue parole sono già foriere di morte: «Toi, leur chef? Non, jamais! / […] / Ce
serait la mort58» (II, 2) – e il proprio affetto filiale le palesa la realtà della situazione: «Ô mon enfant, quel sacrifice». Ma gli argomenti del figlio non potrebbero essere più sconcertanti. Rivolgendosi al calvaire delle disposizioni sceniche,
indica alla madre il modello supremo: «Mais vois! Notre-Dame Marie / Laissa
Jésus le roi des rois / Monter pour nous sur cette croix». Mentre il coro di contatini intona un profetico «Stabat mater dolorosa». Alla morte del conte, gli altri signori si uniscono per reprimere l’insurrezione e Robert viene pugnalato da
Guillaume che lo accusa di tradimento. Jeanne ricompare in tempo per assistere alla sua morte, ma l’azione è troppo veloce per permetterle un ultimo compianto e Blanche, l’amata figlia del conte trucidato, che nell’antefatto, raccontato dallo stesso Robert nell’atto I, aveva salvato la vita al giovane ferito, si ritira in convento. Spetta quindi alla didascalia, e all’eventuale regista, il compito
di dipingere la mater dolorosa, in risposta al «Mourir était si doux!» (IV, 6) del
figlio: «Robert tombe dans les bras de sa mère qui le soutient». L’unica replica
concessale è allora un disperato «Ah! Mon enfant! Mon enfant!» Mentre era proprio quell’atto II premonitore ad inscenare una sorta di lamento-preghiera, in
cui il cordoglio di Jeanne si associa al pianto della madre archetipa: «Vierge du
ciel, puisque vous êtes mère, / Vous comprenez que je me désespère. / Et que je
tremble, et que j’ai comme vous / Le cœur percé de la lance et des clous» (II, 2).
Tra le madri adottive, sempre in Francia, abbiamo anche l’Élisabeth de Valois
del Don Carlos (1867) verdiano, poesia di Joseph Méry e Camille Du Locle.
Sappiamo che la tradizione operistica fiorita attorno al personaggio dell’infante
è ben anteriore e soprattutto italiana59, ma nella fattispecie la sorte del principe
non ci è del tutto nota e lo sconforto della regina non può che riassumersi in un
58
Édouard Blau-Simone Arnaud, La Jacquerie, Venezia-San Lorenzo de El Escurial, Palazzetto Bru Zane Centre de Musique Romantique Française-Ediciones Singulares, 2016, pp. 74-121.
59
Cfr. Johannes Streicher, Schiller e il «Don Carlos» nell’opera italiana prima di Verdi, in Verdi
und die deutsche Literatur/Verdi e la letteratura tedesca, Laaber, Laaber, 2002, pp. 217–247 e il
nostro Echi alfieriani nel «Don Carlo» di Giuseppe Verdi, in Ginevra e il cardinale cit., pp. 347-348.
«MATER DOLOROSA», OTTOCENTESCA LACRIMOSA
251
terrorizzato «Grand Dieu!»60 (V, 3). L’addio al figliastro avviene nel duetto precedente – «Adieu, ma mère! // Adieu, mon fils! // Et pour toujours! // Adieu,
mon fils, adieu et pour toujours» (V, 2) –, sebbene nell’aria introduttiva all’atto V l’eroina avesse già dato commiato ai sogni di gioventù, con toni non privi di un funesto presagio: «Adieu, rêve doré… illusion!… Chimère! / Tout lien
est brisé qui m’attache à la terre! / Adieu, jeunesse, amour!… Succombant sous
l’effort, / Mon cœur n’a qu’un seul vœu, c’est la paix dans la mort!» (V, 1). Per
quanto tali considerazioni siano più l’espressione di aspirazioni personali che
non il compianto sul destino del figlio putativo.
Ma Élisabeth non è mai Fedra e il suo amore per Carlos rimane sempre innocente. Fedra e Parisina ricalcano la scena operistica ai primi del Novecento, entrembe su versi di Gabriele D’Annunzio. La prima nel 1915 per la musica di Ildebrando
Pizzetti. Se dapprima la sposa di Teseo sembra voler compatire la morte di Ippolito
con lacrime materne – «… Ch’ei sia solo. / Ch’ei sia velato. Sotto il capo ei s’abbia
/ la sàgari amazonia, la materna / arme, e sia solo»61 (III) –, non appena profferisce la propria confessione – «… perché, o Tèseo, / Ippolito è più puro del libame, /
sacro e dell’acqua lustrale, più limpido / che la pupilla dell’aria…» –, si risvegliano
l’odio e l’astio d’un tempo – «Distruttore d’Antiope / e d’Ariadne, tu non puoi colpirmi» – e anche l’estremo cordoglio non è privo dell’antica lussuria: «…Un fuoco
bianco / io porto all’Ade. Ippolito / io l’ho velato perché l’amo. È mio / là dove tu
non regni. Io vinco»; «…Ippolito è meco / Io gli ho posto il mio velo, perché l’amo. / Velato all’Invisibile, / lo porterò su le mie braccia azzurre, / perché l’amo…».
Diversamente dalla Parisina di Donizetti, quella di Pietro Mascagni, del 1913,
non si accascia vagamente dopo un magnifico rondò, presago di morte, ma viene giustiziata assieme al figliastro in una scena finale, in cui Nicolò d’Este, il
marito, sorprende gli amanti sul punto di consumare la propria passione. Forse
nell’intento di salvare l’amato, gli accenti dell’ultima replica, nella loro pervicacia, la accomunano maggiormente a una Fedra che non ad una matrigna involontariamente sedotta da una forza superiore e arsa dal rimorso:
Or guarda me, che sola son la fiera
a te dinanzi,
vedi, più maculata che la pelle
del leopardo,
corrotta sin nell’ossa
dal mio retaggio ontoso,
nata d’un sangue
di rubatori, traditori e drude62 (III).
Joseph Méry-Camille Du Locle, Don Carlos, in G. Verdi, Tutti i libretti d’opera cit., II,
pp. 197-255.
61
Gabriele D’Annunzio, Fedra, Milano, Treves, 1909.
62
G. D’Annunzio-Pietro Mascagni, Parisina, Milano, Sonzogno, 1913.
60
252 CAMILLO FAVERZANI
Un pensiero va comunque al «dolce fanciullo», che però non cade nel tranello e confessa di essere stato a sua volta «inebriato d’un divino sogno», immolandosi su «l’istesso ceppo» dell’amata.
Ma paragoniamo il paragonabile. Per quanto cronologicamente vicino al Don
Carlos, non ci pare incongruo affiancare il Mefistofele di Boito all’estetica dannunziana o pucciniana, e la sua Margherita alle eroine in fieri. Mater dolorosa
fin de siècle di una scena evitata, una decina d’anni prima, da Charles Gounod,
nel cui Faust (1859) la salvezza di Marguerite viene diversamente concepita, la
fanciulla è condannata a morte per aver ucciso sia il figlio sia la madre. Eppure
il suo canto sembra volerla quasi assolvere da tali colpe, dal momento che l’azione funesta viene attribuita ad agenti esterni, al plurale, probabilmente Faust
e Mefistofele: «L’altra notte in fondo al mare / il mio bimbo hanno gittato, / or
per farmi delirare / voglion ch’io l’abbia affogato63» (III). Anche la giovane ne è
vittima e la scena successiva, con Faust, ne rivela la pietas più che l’improbitas:
…Là… fra le zolle
più verdeggianti... stenderai mia madre
dov’è più vago il cimiter… Discosto…
ma pur vicino… scaverai la mia…
la mia povera fossa… e il mio bambino
poserà sul mio sen.
E in qualche modo l’aspirazione alla pace eterna ricalca l’anelito della coeva Élisabeth verdiana.
La più autentica commiserazione materna per la morte del figlio, sebbene lontana sia nello spazio sia nel tempo, è il sincero compianto di Suor Angelica alla
notizia della scomparsa del bimbo nato da una relazione considerata come peccaminosa e fonte della segregazione in convento. Nel rapido susseguirsi di versi
volutamente brevi, tutta l’aria assume il ritmo di una litania, adattandosi all’ambiente circostante nel rievocare l’aspetto fisico della salma in ogni suo particolare:
Senza mamma,
bimbo, tu sei morto!
Le tue labbra,
senza i baci miei,
scoloriron
fredde, fredde!
E chiudesti,
bimbo, gli occhi belli!
Non potendo
carezzarmi,
63
Arrigo Boito, Il primo Mefistofele, a cura di Emanuele d’Angelo, Venezia, Marsilio, 2013.
«MATER DOLOROSA», OTTOCENTESCA LACRIMOSA
253
le manine
componesti in croce64.
Mentre l’appendice meditativa reitera l’inflessibile amore materno: «E tu sei
morto / senza sapere / quanto t’amava / la tua mamma!».
Altro secolo, altra estetica. Probabilmente per la scelta che lo sottende di rappresentare gli umili e le difficoltà dell’esistenza, il cosiddetto verismo operistico,
perlopiù impropriamente circoscritto, sembra concedere nuove e più genuine
possibilità alla rude preghiera medievale. Altra estetica, altro canto…
64
1997.
Giovacchino Forzano, Suor Angelica, in Giacomo Puccini, Il Trittico, Milano, Ricordi,
Eugénie Servières, Inès de Castro se jetant avec ses enfants aux pieds d’Alphonse IV roi de Portugal,
pour obtenir la grâce de don Pedro, son mari.1335 (1822 – Château de Versailles).
MATERNITÀ NEGATA E MONACAZIONE FORZATA IN «SUOR ANGELICA»
DI PUCCINI
Giovanni Antonio Murgia
Sebbene le traversate in nave, specie quelle transoceaniche, fossero ancora pericolose a causa della grande guerra, verso la metà del settembre 1918 il direttore
d’orchestra Roberto Moranzoni salpava verso New York dove, al Metropolitan
Opera House, avrebbe diretto la prima esecuzione assoluta del Trittico di Giacomo
Puccini. Portava con sé gli spartiti delle tre opere in un solo atto sulla cui composizione il musicista aveva rimuginato per quasi vent’anni. Fin dagli inizi del
Novecento, infatti, il compositore aveva pensato di cimentarsi nella realizzazione di una nuova forma teatrale costituita non da un’opera singola divisa in atti o
in quadri, ma da una successione di tre diverse opere brevi, in un solo atto, differenti tra loro per argomento e genere. Il risultato del suo lavoro e della sua ricerca fu la creazione dei tre atti unici riuniti nel cosiddetto Trittico ognuno caratterizzato, secondo il desiderio del compositore, da una diversa «tinta»: drammatica e violenta la prima, Il tabarro; spirituale e tragica la seconda, Suor Angelica;
una buffa «fiorentinata» la terza, Gianni Schicchi. A questa soluzione, tuttavia,
arrivò solo dopo un lungo periodo di ripensamenti ed esperimenti.
Ripensamenti e modifiche che non cessarono neanche in vista della prima
newyorkese, dal momento che, già nel mese successivo, ormai troppo tardi per
farla eseguire al Metropolitan, Puccini scrisse una nuova aria per la protagonista
del pannello spirituale, Suor Angelica, il cui incipit, «Senza mamma, oh bimbo,
tu sei morto», presenta subito l’essenza del libretto: il dolore di una madre per
la morte del figlio da cui è stata costretta a separarsi. È cantata dalla protagonista, Angelica, alla quale l’aristocratica famiglia ha imposto di prendere i voti per
aver partorito un bambino fuori dal matrimonio; per sette anni la donna ha vissuto nel convento senza mai avere notizie della sua creatura e si è adattata alla
vita claustrale dedicandosi alla cura delle piante, apprendendone i poteri curativi.
La vicenda si svolge in un convento italiano verso la fine del 1600 sul cui
chiostro si apre il sipario. È la fine della giornata quando la luce del tramonto
fa splendere di riflessi dorati l’acqua della fontana del convento, uno spettacolo a cui le suore possono assistere solo poche sere all’anno a causa dei rigidi orari. Nonostante la disciplina e le punizioni assegnate per lievissime mancanze,
ci sono ancora delle suore come la giovane Genovieffa che si entusiasmano alla
vista dello spettacolo, mentre per altre è solo il segno del trascorrere di un alAnna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
256 GIOVANNI ANTONIO MURGIA
tro anno. Pensando di assecondarne il desiderio, Genovieffa, propone di versare
un poco di quell’acqua sulla tomba di una consorella morta nel corso dell’anno, tuttavia Angelica le fa notare che i morti non hanno desideri. Anche le suore, secondo la severa Zelatrice, non dovrebbero avere desideri; Genovieffa, invece, che prima di entrare in convento portava le greggi al pascolo, confessa di
voler vedere ancora una volta un agnellino. Tutte si affrettano a dichiarare di
non avere desideri, compresa Angelica, tuttavia le suore sanno che mente e che
una sola aspirazione la tormenta da quando è entrata in convento: avere notizie della famiglia che non le ha mai fatto visita e che, a detta di alcune di loro, è
ricca e importante. Suor Angelica, del resto, non parla mai del proprio passato
e si dedica umilmente alla cura delle piante di cui si serve per alleviare i piccoli mali delle consorelle e per questo motivo viene chiamata quando una di loro
viene punta da una vespa.
Come di consueto rientrano dalla questua le suore elemosiniere con le provviste ricevute in dono che provocano la gioia di Suor Dolcina di cui è nota la
passione per i buoni bocconi. Quella sera, però, al convento giunge anche una
lussuosa carrozza decorata da uno stemma nobiliare. Dopo un momento di eccitazione da parte di tutte le suore, ansiose di ricevere visite e incuriosite dall’arrivo della ricca berlina, la Badessa convoca Suor Angelica in parlatorio.
Accompagnata dalla Badessa e dalla Suora clavaria, avanza solennemente la
zia di Angelica, la Principessa, una anziana in gramaglie, severa e algida, che
incede con passo altero tra le monache. Senza mostrare il minimo segno di affetto e umanità nei confronti della nipote, illustra subito il motivo della visita: la divisione del patrimonio familiare di cui è diventata amministratrice alla
morte dei genitori di Angelica. Poiché la sorella più piccola, Anna Viola, è in
procinto di sposarsi, deve essere firmato l’atto di divisione del patrimonio e
solo per questo motivo – chiarisce freddamente l’anziana – si è vista costretta
a rivedere la nipote. Angelica ricorda con tenerezza la sorellina che ha salutato
bambina sette anni prima e che ora si accinge a sposarsi e chiede chi sia il futuro marito; la zia implacabile le risponde che è l’unico che, per amore, ha acconsentito alle nozze nonostante il disonore da lei procurato alla casata, partorendo un figlio al di fuori dal matrimonio. Per questo stesso motivo, continua a rinfacciarle l’anziana, ogni sera si ritira in preghiera rivolgendo un solo
pensiero alla nipote: che possa espiare! Angelica, affranta, risponde di riuscire a
sopportare ogni privazione ma di non poter scordare il figlio che le è stato tolto alla nascita e di cui chiede ansiosamente notizie. Dopo alcuni istanti di angosciante silenzio, l’algida zia risponde laconicamente che il bambino è morto due anni prima a causa di un male incurabile. A questa notizia Angelica dà
sfogo a tutta la propria disperazione e al proprio dolore desiderando soltanto
di morire per poter rivedere il bimbo. Mentre le suore intonano canti di lode
alla Vergine, lei, quasi in delirio, si reca nell’orticello di erbe officinali decisa a
preparare un veleno per darsi la morte. Dopo averlo bevuto, in un momento
di lucidità, si rende conto di aver commesso, suicidandosi, un peccato morta-
MATERNITÀ NEGATA E MONACAZIONE FORZATA IN «SUOR ANGELICA» DI PUCCINI
257
le e implora la Vergine di perdonarla. Poco prima di spirare le appare in visione, avvolta nella luce, la Vergine Maria con a fianco un bambino che le sospinge dolcemente incontro.
La storia piacque subito a Puccini che la prediligeva rispetto alle altre del
Trittico e si rammaricava che pubblico e critica non fossero dello stesso parere
preferendole Gianni Schicchi, il cui libretto fu scritto dallo stesso autore, il giornalista e uomo di teatro Giovacchino Forzano. Toscano di Borgo San Lorenzo,
Forzano era un uomo dai molteplici interessi che aveva intrapreso gli studi da
medico per poi concluderli da avvocato, scoprendo intanto di possedere una
discreta voce baritonale e uno spiccato talento per il teatro1. Verso il teatro e la
scrittura, infine, anche in qualità di giornalista, orientò la sua professione. Dopo
alcune esperienze come cantante, infatti, si dedicò alla realizzazione di pièce teatrali e libretti d’opera e d’operetta. Oltre che per Puccini, Forzano scrisse libretti
anche per Mascagni, Leoncavallo, Franchetti, Wolf-Ferrari e altri compositori,
ma soprattutto divenne, grazie anche all’appoggio del regime fascista e all’amicizia personale di Mussolini, uno dei più importanti cineasti italiani dell’epoca,
direttore della casa cinematografica «Tirrenia», fondatore degli «Studi Pisorno»,
regista e sceneggiatore di film anche di propaganda; inoltre fu promotore dei
«Carri di Tespi», sorta di teatri popolari ambulanti. Tuttavia il ruolo più importante di Forzano fu quello di regista teatrale di spettacoli di prosa – in particolare si ricordano le messe in scena dei drammi di D’Annunzio al Vittoriale – e
d’opera, tanto che a lui fu affidata la regìa della ripresa italiana del Trittico, della Turandot e, con l’intento di esaltarne la romanità, di una grandiosa edizione
del Nerone di Boito.
Puccini e Forzano si incontrarono per la prima volta a Viareggio nel 1915,
in occasione della vendita all’asta degli effetti personali di Louise de la Ramée,
la scrittrice più conosciuta con lo pseudonimo di Ouida, che nella cittadina toscana era morta nel 1908. Puccini era intervenuto all’asta per potersi aggiudicare i diritti del suo Two little wooden shoes (I due zoccoletti). In quell’occasione
Forzano era stato coinvolto come perito letterario e Puccini doveva esserne rimasto favorevolmente colpito tanto da proporgli di trarre da La Houppelande
di Didier Gold, il libretto di quello che sarebbe diventato il primo pannello del
Trittico, ossia Il tabarro. Tuttavia Forzano declinò la proposta dichiarando di preferire lavorare su soggetti originali (salvo poi smentirsi in seguito visto che dallo stesso scritto di Ouida ricavò il libretto di Lodoletta [1917] per Mascagni)2.
Qualche anno dopo, comunque, rifacendosi a un soggetto già approntato precedentemente per qualche produzione di prosa, Forzano propose a Puccini il
testo di Suor Angelica la cui composizione si risolse in pochi mesi, dato che il
1
Come rileva Julien Budden, si tratta curiosamente di un percorso simile a quello di Antonio Ghislanzoni, librettista dell’Aida di Verdi (Julien Budden, Puccini, Roma, Carrocci, 2005,
p. 387).
2
Ibidem.
258 GIOVANNI ANTONIO MURGIA
libretto fu consegnato all’inizio del 1917 e già nel settembre dello stesso anno
l’opera era pronta; inoltre, nel frattempo, i due autori avevano lavorato anche
per il libretto e la musica di Gianni Schicchi, l’opera buffa ispirata all’episodio
riportato nel XXX Canto dell’Inferno dantesco, completata nell’aprile del 19183.
Visto che il compositore e il librettista nel periodo di preparazione dell’opera vivevano in località vicine, potevano vedersi e confrontarsi di persona perciò
di questo lavoro abbiamo pochissime testimonianze epistolari, tuttavia ci sono
pervenute le lettere scambiate con l’editore Tito Ricordi4, dalle quali traspare
l’apprezzamento di Puccini per il libretto di Suor Angelica e delle quali ci dà testimonianza lo stesso Forzano nel suo libro di memorie Come li ho conosciuti. Il
7 marzo 1917 Forzano scrive a Ricordi: «Sono lieto di dirle che la prima scena
è già avanti musicalmente, e che il Maestro ha trovato degli accenti così semplici, così nobili, così chiaramente… francescani, tali che il lavoro più felice inizio non potrebbe avere».
E ancora poco tempo dopo:
Il lavoro procede celermente e son certo che ella dividerà il mio entusiasmo
quando sentirà la musica che Puccini sta scrivendo! Non è un’impressione causata dal fatto che il libretto è mio, no; è proprio perché a me sembra – e non
solamente a me – esser questa (almeno fino ad ora) la musica più alta e più
semplice […] scritta da Puccini.
Infine Forzano arriva ad affermare che «Suor Angelica minaccia di diventare
una Gran Madre badessa delle opere!» Lo stesso Puccini riferisce al suo librettista
ciò che ha scritto a Ricordi, usando un gioco di parole tipico del suo stile e che
esprime chiaramente l’entusiasmo per il lavoro: «Dissi angelicamente a Tito del
veleno nell’insalata con pioggia di marenghi e ne rimase sbalordito. […] Ormai
per me è indifferente tutto ciò che non sia angelico»5.
Le ragioni che potrebbero spiegare tanto entusiasmo sono molteplici.
Innanzitutto Forzano era riuscito a risolvere la questione del Trittico, ossia quella
di dare a Puccini i libretti per completare il suo progetto di riunire in un unico
spettacolo tre opere brevi, un progetto che il musicista vagheggiava fin dall’inizio
del secolo quando aveva pensato di comporre una trilogia comica incentrata sul
personaggio Tartarin di Alphonse Daudet, anche se in seguito, probabilmente
temendo il confronto con il Falstaff verdiano, desistette dall’intento. L’idea della trilogia si fece più concreta nel 1904 quando volle misurarsi con tre atti unici
di Gor’kji, La Zattera, Kan e suo figlio, I 26 per uno, e intitolarli come la raccolta
3
Prima della soluzione offerta da Forzano, Puccini cercò il suo pannello comico nelle opere
di George Bernard Shaw, di Sacha Guitry e in quelle della coppia Flers e Caillevet (ivi, p. 391).
4
Molto più nutrito lo scambio di lettere tra Puccini e Ricordi riguardante l’elaborazione del
Tabarro (cfr. Claudio Sartori, Puccini, Milano, Nuova Accademia, 1958, pp. 315- 319).
5
J. Budden, Puccini cit., p. 391.
MATERNITÀ NEGATA E MONACAZIONE FORZATA IN «SUOR ANGELICA» DI PUCCINI
259
delle traduzioni italiane, Racconti della steppa. Le trame dei racconti, secondo le
sue intenzioni, dovevano rappresentare tre diverse «tinte»: «la ideale, la poetica,
la sentimentale, oppure la tragica, la tremendamente tragica». L’idea fu accantonata soprattutto perché non si riuscì a ricavare un buon libretto da La Zattera6.
Tuttavia il musicista non aveva abbandonato l’intenzione di scrivere un’opera buffa come confessa al suo librettista Illica in una lettera del marzo 1905:
«Stasera ho voglia di scrivere un’opera buffa, ma buffa nel vero senso, buffa italiana». Una soluzione di compromesso parve alla fine quella di unire le due idee:
«Tartarin per l’opera buffa, Gor’kij per la seria»7. Si sa che neanche questa fu
la soluzione e che Puccini, intanto, si era rivolto al teatro di David Belasco per
scrivere Madama Butterfly (1904) e La fanciulla del West (1910) e aveva tentato
anche una incursione nel mondo dell’operetta, salvo poi ricredersi per trasformare il suo lavoro in un’opera, La Rondine (1917).
Mentre lavorava a La Rondine, Puccini si era messo a «tradurre in note l’Houppelande», che, ridotto in versi dal nuovo collaboratore, Giuseppe Adami8, lo
stesso della Rondine, sarebbe diventato Il tabarro. Il processo compositivo delle due opere è stato perfettamente parallelo tanto che a pochi mesi di distanza
l’una dall’altra, entro il novembre del 1916, entrambe erano pronte; tuttavia Il
tabarro, come l’originale pièce teatrale da cui derivava, era costituito da un solo
atto e occorreva trovare altri due atti per poter presentare al pubblico il lavoro,
compiuto in sette mesi, che il musicista era ansioso di vedere in scena. In un
primo momento pensò a una sola opera in due atti e, dopo aver chiesto invano un nuovo dramma di quelle dimensioni a Didier Gold e scartato l’ipotesi di
accorpare Il tabarro alla sua giovanile opera Le Villi9, si rivolse anche a Forzano
per lo stesso motivo10.
Il librettista a quel punto presentò a Puccini Suor Angelica e il soggetto ebbe
piena approvazione, in parte perché gli consentiva di tornare sul progetto dei tre
atti unici e in parte perché, leggendo questo libretto, il compositore trovò molti
aspetti a lui congeniali. Suor Angelica consentiva a Puccini di tornare alle tematiche a cui aveva dedicato, con successo, la parte centrale della sua carriera, ossia
l’amore colpevole, come in Manon Lescaut, e l’amore frainteso, come in Madama
Butterfly, vissuto pienamente dalle due eroine. Manon acquista consapevolezza
della propria negatività in una lunga agonia nel deserto; Cio-Cio-San, alla pari
del padre prima di lei, trova nel suicidio l’unico mezzo di riscatto. Con l’eroina
giapponese, inoltre, Angelica condivide la condizione di reietta dalla famiglia
Michele Girardi, Giacomo Puccini: l’arte internazionale di un musicista italiano, Venezia,
Marsilio, 1995, pp. 263-264.
7
Ivi, p. 264.
8
Venne coinvolto anche un altro librettista, Dario Niccodemi, perché desse alle parole «il
colore necessario a quel dramma in argot» (ivi, p. 337).
9
Ivi, p. 367.
10
Ivi, p. 337.
6
260 GIOVANNI ANTONIO MURGIA
e il destino di vedersi togliere il figlio. L’ultimo incontro tra Cio-Cio-San e il
bambino biondo nato dall’unione con il capitano americano Pinkerton, si svolge, per certi versi, come la scena finale di Suor Angelica. Dopo aver saputo che
il capitano, insieme alla nuova moglie11, è tornato dagli Stati Uniti per prendere con sé e portare per sempre nel proprio paese il bimbo, che ha significativamente chiamato «Dolore», lei decide di darsi la morte; però, poco prima di colpirsi, il piccolo viene introdotto nella stanza sospinto da Suzuky, così come l’apparizione spingerà il bimbo verso Angelica morente, e lei lo accoglie tra le proprie braccia cantando «Tu, tu piccolo Iddio» chiamandolo «Giglio», come fa la
Madonna rivolta a Cristo crocifisso in Donna de Paradiso di Jacopone da Todi12.
Un altro richiamo tra le due opere è il riferimento ai fiori: in Butterfly vi è il cosiddetto duetto dei fiori tra Cio-Cio-San e Suzuky, mentre in Suor Angelica, poco
prima di darsi la morte, la protagonista canta l’aria dei fiori, elencando le piante che userà per preparare il veleno, anche se si tratta di un brano che, fin dalle
prime esecuzioni, venne tagliato.
Puccini sicuramente trovava affascinante l’ambientazione monastica visto
che aveva apprezzato l’opera di Jules Massenet, Le jongleur de Notre Dame, del
1902, la quale presenta diverse affinità con Suor Angelica. L’opera di Massenet,
ispirata a una leggenda medievale, e trasformata in libretto da Maurice Léna,
narra la storia del giullare Jean che, per espiare la colpa di aver cantato nella piazza dell’abbazia dei versi poco rispettosi nei confronti della Vergine, viene spinto dal priore a convertirsi e a espiare vivendo nel monastero. Il giullare in un primo momento accetta soprattutto per poter godere di un tetto e di
pasti regolari, poi però, col tempo, comincia ad apprezzare la vita di lavoro e
di preghiera dei monaci che offrono il frutto delle loro giornate alla Madonna.
Jean si rammarica di non avere nulla da offrirle e confida il suo cruccio al frate Bonifacio, il quale lo rassicura dicendogli che anche il dono più semplice è
gradito alla Vergine. Rincuorato dalle parole del frate, Jean decide di offrire l’unica cosa che possiede: la propria arte di giullare e comincia a ballare e cantare davanti alla Statua della Madonna posta nella cappella. I monaci accorsi per
il chiasso sono scandalizzati da tale spettacolo e stanno per bloccarlo quando
la statua si anima e benedice con un sorriso il giullare che, con una espressione di estasi nel volto, spira.
11
Le origini della vicenda di Madama Butterfly, oltre che dalla pièce di Belasco tratta da Long
e Loti e suffragate da fatti storici, affondano le loro radici nel mito greco di Medea che, come
l’eroina giapponese, ha rinnegato la famiglia per unirsi al conquistatore arrivato al di là del mare,
il quale, poi, pur avendo avuto dei figli da lei, la abbandona per un’altra donna. Medea, come è
noto, uccide i propri figli per vendicarsi dell’uomo che l’ha tradita e lo stesso gesto è meditato
dalla sacerdotessa gallica Norma (protagonista dell’opera belliniana) che, tuttavia, desiste dal
compiere l’omicidio ma affida i due bambini alla donna che ha preso il suo posto nel cuore del
loro padre, il generale romano Pollione.
12
«O figlio, figlio, figlio, / figlio, amoroso giglio! / Figlio, chi dà consiglio / al cor me’ angustïato» (Jacopone da Todi, Donna de Paradiso, vv. 40-44).
MATERNITÀ NEGATA E MONACAZIONE FORZATA IN «SUOR ANGELICA» DI PUCCINI
261
Oltre all’ambientazione in un monastero, l’opera di Massenet condivide con
Suor Angelica anche il miracolo e la conseguente grazia concessa ai protagonisti.
Le due composizioni hanno un altro importantissimo aspetto in comune, infatti, se Puccini era stato un pioniere nell’affidare alle sole voci femminili la sua
opera, Massenet aveva compiuto un’analoga operazione con la propria, scrivendo per sole voci maschili13.
Per un certo periodo anche Puccini cercò un libretto il cui contesto storico
fosse il medioevo e tra i titoli da lui vagliati figura quello di Monna Vanna, di
Maeterlinck (1902) ambientato «nella Toscana medievale dei grandi condottieri». Dello stesso scrittore belga probabilmente conosceva anche la pièce teatrale
Sœur Béatrice (1901) la cui protagonista, come Angelica, è una monaca e dove
anche in questo caso è descritto un miracolo operato dalla Madonna. La pièce
di Maeterlinck traeva spunto da un exemplum medievale noto come La leggenda
della sagrestana, che ha avuto molte varianti nazionali, tra le quali si distingueva per compiutezza di forma e finezza psicologica il poema neerlandese Beatrijs
che ha ispirato, oltre allo scrittore belga, anche Lope de Vega (1610)14. La vicenda narra di Beatrice, sagrestana in un convento che, per seguire un seduttore, lascia la sua cella dove tuttavia, dopo anni di vita mondana, torna per pentirsi scoprendo che, nel corso della sua assenza, è stata sostituita dalla Madonna.
Puccini, inoltre – facendo sempre riferimento a vicende ambientate in sacri edifici medievali – fu particolarmente attratto dal celebre romanzo di Victor
Hugo, Notre-Dame de Paris, di cui aveva già immaginato (ispirandosi a quello
del Mefistofele di Boito e probabilmente ripensando al Te Deum della Tosca) un
grandioso prologo notturno, all’interno della cattedrale così descritto in una sua
lettera a Luigi Illica del 7 giugno 1904: «organo, corali, canti di fanciulli (accordi, non note di sole campane). Un quadro musicale stupendo, nuovo, grandioso
con fuga alla Bach». Un’altra vicenda ambientata nel medioevo che per un certo periodo catturò l’attenzione di Puccini fu il «fresco dugentesco» Margherita
da Cortona, di Valentino Soldani, il quale, tuttavia, non riuscì a trarne un libretto altrettanto efficace15. Leggendo Suor Angelica Puccini ha sicuramente ritrovato qualche eco della vicenda di Margherita che, legata a un nobiluomo da
un rapporto di concubinaggio, alla morte di questi viene cacciata via dai parenti insieme al figlio. La donna, che aveva vissuto nel lusso e nel peccato, in segno
di conversione, affida il bambino ai frati e si chiude in convento dove conduce
una vita di dure penitenze e di preghiera.
Massenet e Puccini ebbero occasione di confrontarsi con la stessa fonte letteraria quando entrambi vollero cimentarsi con un’altra vicenda il cui protago13
miste.
Entrambi, comunque, per i cori angelici nella scena del miracolo, si avvalgono di voci
14
Luisa Ferrini, Beatrijs. La leggenda della sacrestana, Pisa, ETS, 2004, p. IX, <www.dbnl.
org/tekst/_bea001beat20_01/_bea001beat20_01.pdf> (consultato il 1 novembre 2016).
15
J. Budden, Puccini cit., pp. 294-295.
262 GIOVANNI ANTONIO MURGIA
nista appartiene al mondo ecclesiastico e in cui, oltre a una storia d’amore «irregolare», sono presenti i temi del pentimento e della penitenza, ma anche quelli
dell’abbandono e del suicidio di una madre: si trattava del quinto romanzo del
ciclo dei Rougon-Macquart di Zola, La faute de l’Abbé Mouret, la cui protagonista femminile, Albine, come Angelica, si uccide con dei fiori, portando con sé
il bimbo, frutto della «colpa» dell’abate. Sebbene Puccini a varie riprese abbia
cercato di tornare su questo soggetto, la gara per aggiudicarsi il diritto di utilizzare il romanzo per trarne un libretto fu vinta da Massenet, il quale, tuttavia,
non riuscì a comporre l’opera16.
Tra gli altri soggetti che vengono accostati all’opera di Puccini possiamo annoverare il breve bozzetto lirico Mese Mariano (1910) di Umberto Giordano,
tratto da un dramma in dialetto napoletano di Salvatore di Giacomo. Anche in
questo caso la scena si svolge in un ambiente conventuale, un orfanotrofio napoletano gestito da religiose a cui Carmela, la protagonista, ha affidato il figlio
avuto da un uomo che li ha abbandonati. Dopo essersi sposata con un operaio, Carmela ha dovuto separarsi dal figlio che non è stato accettato dal marito.
Il giorno di Pasqua si reca all’orfanotrofio per portare un dolce al bambino ma
le suore, alle quali ha raccontato la propria triste storia, non hanno il coraggio
di confessarle che è morto nel corso della notte e le dicono che non può vederlo perché impegnato con le celebrazioni del mese Mariano.
Al di fuori dei teatri d’opera furono molteplici le fonti letterarie che trattarono il tema, divenuto un topos nella letteratura tra Seicento e Ottocento, della monacazione forzata, alle quali Forzano potrebbe essersi rifatto. Soprattutto
in area francese e italiana abbiamo numerosi esempi di opere ispirate (sovente
scritte in prima persona e sotto forma di epistolario) alla vita di donne costrette
a prendere il velo. Tra i titoli più importanti possiamo ricordare, nel Seicento,
gli scritti di Arcangela Tarabotti (1604-1652), suora veneziana che, sotto vari
pseudonimi, denunciò la condizione propria e di tante altre giovani costrette al
velo17; allo stesso periodo risale un’altra opera apparentemente biografica e in
forma epistolare, la raccolta delle Lettres portugaises, di autore anonimo ma attribuite a Gabriel-Joseph de Lavergne, conte di Guilleragues, e pubblicate a Parigi
per la prima volta nel 1665. In pieno Illuminismo Denis Diderot, ispirandosi a varie fonti storiche e letterarie e in ottica anticlericale, scrisse il romanzo La
Religieuse18, completato nel 1780 e pubblicato postumo nel 1796. L’esempio
Ivi, p. 124.
Susanna Mantioni, Monacazioni forzate e forme di resistenza al patriarcalismo nella Venezia
della Controriforma, Tesi di Dottorato, Scuola Dottorale in Scienze Politiche, Sezione Questione
Femminile e Politiche Paritarie, Università Roma 3, a-a. 2011- 2013 (<www.dbnl.org/tekst/_bea001beat20_01/_bea001beat20_01.pdf>, consultato il 1 novembre 2016).
18
Anne Coudreuse. La Religieuse de Diderot: une critique de la claustration conventuelle.
Communication au Colloque Rapport hommes/femmes dans l’Europe Moderne: Figures et paradoxes de l’enfermement, Montpellier, novembre 2012 (<https://halshs.archives-ouvertes.fr/
halshs-00845469>, consultato il 1 novembre 2016).
16
17
MATERNITÀ NEGATA E MONACAZIONE FORZATA IN «SUOR ANGELICA» DI PUCCINI
263
più illustre nella letteratura italiana, tuttavia, è quello della Signora di Monza,
il celeberrimo personaggio de I promessi sposi, ispirato alla figura di suor Maria
Virginia de Leyva, che Puccini e Forzano dovevano conoscere indubbiamente.
Il capolavoro di Manzoni, inoltre, è ambientato nello stesso periodo storico in
cui Forzano ha immaginato si svolgessero le vicende di Suor Angelica, e ha fornito la materia all’opera omonima del 1856 di Amilcare Ponchielli, insegnante di
Puccini a Milano. Nella seconda metà del secolo, proseguendo questa carrellata
cronologica, Giovanni Verga, in un romanzo ancora una volta in forma epistolare, ha raccontato la vita della monaca Maria, in Storia di una capinera (1871).
Se il romanzo di Manzoni fu la fonte letteraria per l’opera di Ponchielli, da
Verga e dalla sua raccolta di novelle Vita dei campi (1880) derivò il libretto, in
unico atto, di Cavalleria rusticana di Menasci e Targioni-Tozzetti che ha lanciato l’astro di Pietro Mascagni, inaugurando la stagione del verismo musicale italiano e anche la moda delle opere brevi nel nostro teatro. Vincendo il Concorso
Sonzogno del 1890, il compositore livornese con Cavalleria rusticana sconvolse
l’assetto del panorama musicale italiano facendo crollare le ultime resistenze di
chi avrebbe desiderato il ritorno ai canoni pre-verdiani da una parte, o l’avvicinamento al linguaggio wagneriano da un’altra, oppure guardava ai fasti del GrandOpéra francese. Tutti si adoperarono per accogliere le idee del nuovo e in poco
tempo venne realizzato un certo numero di ricalchi dell’atto unico di Mascagni19.
Tuttavia non tutti i tentavi ebbero successo e sono pochi i titoli rimasti in
repertorio che hanno adottato lo stesso formato; anche Pagliacci di Leoncavallo
che, insieme a Cavalleria rusticana è l’opera più rappresentativa di quella stagione, è strutturata in due atti e tante altre opere del verismo hanno adottato la
tradizionale partizione in tre o quattro atti, come molte dello stesso Leoncavallo
e di Mascagni, ma anche di altri compositori della «giovane scuola», tra i quali Puccini.
Degli atti unici derivati da quella stagione ci rimangono titoli che hanno
avuto breve successo e che ora sono quasi del tutto scomparsi dal repertorio.
Ricordiamo, oltre l’intermezzo di Ermanno Wolf-Ferrari, Il segreto di Susanna
(1909), lavori come Zanetto dello stesso Mascagni (1896) e Paolo e Francesca di
Luigi Mancinelli (1907), o ancora, oltre a Mese mariano, Il Re di Giordano del
1929, o Madonna Imperia di Franco Alfano del 192720. Di diverso respiro fu la
produzione di atti unici nei paesi di lingua tedesca nel corso del primo ventennio del secolo, alla cui diffusione e successo contribuirono in maniera rilevante
le composizioni di Richard Strauss, la cui preferenza per questo mezzo espressivo è attestata dal fatto che, su un totale di quattordici opere composte, otto
sono atti unici. Tra queste annoveriamo capolavori come Salome (1905), Elektra
19
Roman Vlad, Novità del linguaggio in Cavalleria Rusticana, in Atti del primo convegno di
studi su Pietro Mascagni, Milano, Casa musicale Sonzogno di Pietro Ostali, 1987, p. 34.
20
M. Girardi, Giacomo Puccini: l’arte internazionale di un musicista italiano cit., p. 376.
264 GIOVANNI ANTONIO MURGIA
(1909), Ariadne auf Naxos (1912; 1916, con un Vorspiel) e Capriccio (1942). Di
Alexander von Zemlinsky, invece, ricordiamo due titoli tratti, come Salome di
Strauss, da Oscar Wilde: Eine florentinische Tragödie (1917) e Der Zwerg (1922).
Anche il linguaggio espressionista di Arnold Schönberg si avvalse efficacemente
dell’atto unico producendo lavori di assoluto pregio come Die Glückliche Hand
e Erwartung, composti tra il 1909 e il 1913 ma proposti al pubblico nel 1924.
Sempre in area germanica Paul Hindemith compose Sancta Susanna (1922) e
Hin und Zurück, (1927). In Francia già nel 1872 Georges Bizet aveva presentato
la sua Djamileh in forma di opéra-comique, cui fece seguito nel 1911 Heure espagnole di Maurice Ravel. In area russa, nel periodo considerato, si contano sedici atti unici tra i quali si possono citare Iolanta di Čajkovskij (1892), il dramma
coreografico di Nikolaj Rimsk’ij Korsak’ov Shéhérazade (1910) e l’opera buffa
Mavra di Stravinskij (1922)21.
È più probabile che Puccini guardasse ai successi di Richard Strauss, o ai
Ballets Russes di Djagilev piuttosto che agli effimeri calchi di Cavalleria rusticana quando ritornò sul più volte accarezzato progetto di realizzare degli atti unici.
Con Cavalleria rusticana e l’opera verista venne inoltre introdotto un importante cambiamento rispetto al melodramma verdiano, ossia la rivalutazione
del ruolo della madre in confronto a quello del padre. Come ben illustra Luigi
Baldacci nel saggio Padri e figli parlando di un modello di figura materna molto frequente nelle opere di Verdi:
Al Dio Padre di sapore biblico si contrappone come figura neotestamentaria
quella della madre (non altri che la Madonna), tuttavia secondaria nella drammaturgia verdiana, quasi sempre morta anzi tempo e disposta di una generica
funzione propiziatrice […]. La stessa figura della madre-Madonna è in Rigoletto,
la tutta pura assunta in cielo, per la quale possono valere le parole che nel Simone Boccanegra si riferiscono alla madre di Amelia: «Il serto a lei degli angeli,
pietoso il cielo dié»22.
Con il verismo si verifica l’opposto e in scena troviamo figure materne sempre più rilevanti. Se i padri verdiani rappresentavano uno «specchio del principio d’autorità», continua Baldacci, con le produzioni della nuova stagione prevale una concezione della libertà, anche se si tratta dell’equivoco concetto di libertà suggerito dalla cultura fin de siècle. Ora un inedito rapporto naturalistico-biologico (anti-ideologico) impersonato dalla madre va spesso a sostituirsi
al rapporto autoritario, impersonato dal padre23. Già nella Carmen di Georges
Bizet, considerata come una delle opere che ha anticipato la stagione verista, la
figura della madre di Don Josè è evocata, come emblema della vita familiare,
21
22
23
Ivi, p. 376.
Luigi Baldacci, Padri e figli, in Libretti d’opera e altri saggi, Firenze, Vallecchi, 1974, p. 183.
Ivi, p. 200.
MATERNITÀ NEGATA E MONACAZIONE FORZATA IN «SUOR ANGELICA» DI PUCCINI
265
del piccolo mondo rurale e degli affetti casalinghi, in una dolcissima nenia che
fa da contraltare a quella intonata in Traviata da Giorgio Germont, figura paterna autoritaria verdiana, per esortare Alfredo a tornare al «mar e al suol» della natìa Provenza. Nei Pagliacci Leoncavallo, compositore e librettista, a Nedda
che sta andando incontro alla morte per mano di Canio, fa esclamare: «No, per
mia madre!». Giordano nella Fedora, su libretto di Colautti tratto dal dramma di Sardou, ribalta la consueta conflittualità padre-figlio presente in Verdi,
in uno scontro tra il protagonista maschile, Loris Ipanov, e sua madre24; mentre in Andrea Chénier la contessa di Coigny è un’aristocratica la cui morte per
mano dei rivoluzionari è raccontata dalla figlia Maddalena nella splendida aria
La mamma morta. Lo stesso Forzano, librettista per Mascagni, delinea una figura chiave della trama nella madre del protagonista del Piccolo Marat. Anche
Giorgetta, la protagonista del Tabarro, è una madre: lei e il suo bambino amavano farsi avvolgere dal tabarro di Michele finché la morte del piccolo ha decretato anche la fine della felice unità della famigliola. Non bisogna inoltre dimenticare il personaggio di Mamma Lucia25 della Cavalleria rusticana. Con Mamma
Lucia, Verga e poi i librettisti di Mascagni hanno tracciato un’autentica trasfigurazione della Madre Dolorosa la cui condizione è messa in risalto dal fatto che il
tragico epilogo della vicenda si svolge nella mattina di Pasqua allorché, mentre
nella chiesa si celebra il trionfo del Cristo Risorto e la gioia della Vergine dopo
il lutto ai piedi della croce, Lucia, in un moto tragicamente contrario, va incontro al dolore di vedere il figlio ucciso. Il dolore di mamma Lucia, tuttavia, è un
dolore muto – non espresso in brani musicali paragonabili al Senza mamma di
Angelica o all’addio di Cio-Cio-San rivolto al bimbo prima del suicidio – che
noi possiamo solo immaginare nei potenti accordi finali dopo lo straziante urlo
della popolana che annuncia a tutti che «Hanno ammazzato compare Turiddu!».
L’affetto rivolto da Puccini all’opera claustrale potrebbe essere stato favorito
anche da ragioni biografiche. Pur non essendosi mai distinto come uomo pio,
il compositore visse in un milieu fortemente cattolico, a cominciare dal contesto urbano di Lucca, sua città natale, ricchissima di edifici religiosi; discendeva
inoltre da una antica famiglia di musicisti (quinta generazione) che svolgevano
il loro servizio in qualità di organisti e maestri di cappella nella cattedrale cittadina. Il padre Michele fu organista e direttore dell’Istituto Musicale che sarebbe stato intitolato a Giovanni Pacini, e dopo la sua morte, raggiunta la maggiore età, Giacomo sarebbe stato destinato a succedergli se il sacro fuoco del teatro
Ivi, p. 184.
Una figura materna di un certo rilievo è stata tracciata da Leoncavallo in Catalina Croce
nel suo bozzetto sardo mai completato Tormenta, su un soggetto ispirato in buona parte ad alcune opere di Grazia Deledda. In questo libretto, posto in versi da Gualtiero Belvederi, mamma
Catalina ha un ruolo fondamentale nello svolgimento dei fatti e, alla fine, arriva anche a compiere un omicidio per salvare il figlio Bastianu (cfr. in proposito Giovanni Antonio Murgia, I modelli
letterari nascosti di Ruggero Leoncavallo, in Biblioteche reali e biblioteche immaginarie, a cura di
Anna Dolfi, Firenze, Firenze University Press, 2015, pp. 557-576).
24
25
266 GIOVANNI ANTONIO MURGIA
non lo avesse distolto. Comunque, per gran parte del suo apprendistato, prima
di arrivare nella classe di Ponchielli a Milano, aveva prodotto una certa quantità di musica sacra che, probabilmente, è confluita in molte composizioni successive26. I primi incarichi professionali di Giacomo Puccini furono perciò legati alle funzioni religiose e al servizio di organista e accompagnatore delle corali di varie chiese. Il giovane studente, tuttavia, aveva già sviluppato una certa
attitudine allo scherzo, che avrebbe coltivato per il resto della vita, e aveva l’abitudine di inserire melodie d’opera e popolari nei suoi servizi d’organo scandalizzando i fedeli e procurandosi le reprimende della sorella maggiore, Iginia,
che sarebbe diventata suor Giulia Enrichetta, agostiniana e madre superiora del
convento di Vicopelago. A lei e alle sue consorelle, che il compositore bonariamente definiva «le mie cuffie», fece ascoltare in anteprima, grazie a un permesso
del vescovo che gli permise di aggirare lo status di clausura del convento, alcune
pagine di Suor Angelica al pianoforte, per capire se era riuscito a rendere l’ambientazione claustrale e per saggiare le emozioni delle suorine. Tra le conoscenze di Puccini si annoverano due sacerdoti che hanno descritto in brevi memoriali gli incontri con il compositore: Dante del Fiorentino e don Pietro Panichelli.
Dante del Fiorentino conobbe il musicista quando questi affrontò la lunga convalescenza dovuta all’incidente automobilistico del 1903; dopo la guerra, poi,
fu nominato parroco di Torre del Lago, dove Puccini viveva, e in seguito emigrò in America dove scrisse un memoriale sui suoi incontri con il musicista27.
Don Pietro Panichelli, invece, si presentò a Puccini in occasione di un incontro
in una filiale romana di Casa Ricordi nel 1897. Il sacerdote gli offrì la propria
consulenza mentre componeva Tosca, fornendo indicazioni sul testo di alcuni
inni sacri, sull’intonazione della campana di San Pietro e di Sant’Andrea della
Valle, sulle processioni del Te Deum e persino sulle uniformi delle guardie svizzere28. Anche durante la fase compositiva di Suor Angelica Puccini si rivolse al
suo «pretino» scrivendogli a questo proposito nel maggio 1917:
Scrivo un’opera claustrale o monacale. Mi occorrono dunque diverse parole latine ad hoc. La mia scienza non arriva fino… al cielo vostro. Dunque metterò
alcune parole delle litanie, per esempio: «Turris Eburnea, Foederis Arca», ecc.
(non ricordo) ma invece dell’«Ora pro nobis» ho bisogno di un’alta risposta esaltante anch’essa la Vergine. Per metterti in trance ti dirò che c’è un’apparizione
della Madonna, la quale è preceduta da canti d’angeli da lontano, e voglio le
litanie e alcune frasi delle medesime. Dunque niente prega per noi. Ci vuole un
«Nostra Regina», oppure «Santa delle Sante»; ma una cosa da ripetersi uguale
in latino. Pensa che sono gli angeli che magnificano Maria. Poi, al momento
26
27
1952.
28
Mosco Carner, Giacomo Puccini. Biografia critica, Milano, il Saggiatore, 1961, p. 594.
Immortal Bohemian An Intimate Memoir of Giacomo Puccini, New York, Prentice Hall,
Claudio Casini, Giacomo Puccini, Torino, UTET, 1978, pp. 204-209.
MATERNITÀ NEGATA E MONACAZIONE FORZATA IN «SUOR ANGELICA» DI PUCCINI
267
del miracolo, vorrei la «Marcia Reale della Madonna». Non mi va tanto l’«Ave
Maria Stella» che ho già fatto cantare dalle monache. Ti prego di aiutarmi.
Don Pietro29, trovò le parole adatte alla circostanza nel suo breviario e si affrettò a comunicarle a Puccini che le incluse nella versione finale del libretto e
le affidò ai cori angelici che introducono l’apparizione della Vergine cantando
«O gloriosa Virginum, Sublimis inter sidera».
Suggerimenti di Panichelli a parte, il libretto fu concepito integralmente da
Forzano su un soggetto originale, che Puccini trovò estremamente funzionale
e adatto alle sue esigenze, dotato, inoltre, di una grande forza teatrale. Il progetto di Forzano prevedeva di costruire la vicenda come una Via Crucis in sette stazioni ciascuna con un titolo diverso: La preghiera, Le punizioni, La ricreazione, Il ritorno dalla cerca, La zia Principessa, La grazia, Il miracolo, raggruppati in due parti il cui snodo centrale è costituito dall’arrivo della zia Principessa.
Abilmente, come evidenziato da Budden, Forzano sembra anticipare nella prima
parte dell’opera, con degli episodi apparentemente insignificanti che hanno per
protagoniste le suore del convento, ciò che avverrà nella seconda parte, in maniera amplificata, a Suor Angelica: la punizione delle suore, per cominciare, ha
il suo corrispettivo «in quella infinitamente più grande che tocca ad Angelica; il
desiderio di un agnellino da parte di Genovieffa nello struggimento di Angelica
per suo figlio, mentre i fiori che curano le sofferenze di Suor Chiara (episodio
della puntura di vespa) cureranno Angelica da un’agonia più profonda. Perfino
il “miracolo” della fontana che diventa d’oro può essere visto come il presagio
del miracolo alla fine dell’opera»30.
Nella prima parte viene presentato il mondo del convento, fatto di quelle
«piccole cose» che Puccini amava e che aveva evocato in Butterfly la quale ne era
«avvezza», le stesse che Mimì, in Bohème chiama «poesia» e che sarebbero comparse anche nel progetto di Two Little Wooden Shoes, i cui abbozzi musicali sono
confluiti nella prima parte di Suor Angelica. La musica di Puccini qui si fa chiara
e appare costituita da lievi pennellate con le quali tratteggia i brevi episodi iniziali, delle «musiquettes», come le definisce Mosco Carner, «brevi frasi flessibili, ora
gaie e vivaci ora lente e colorite di dolce malinconia»31. Forzano, da parte sua,
gli fornisce dei versi modellati con un linguaggio adatto a ricostruire l’ambientazione antica e fa ricorso a un vocabolario desueto e in parte immaginario che
traeva spunto dai preziosismi dannunziani, dalla tendenza di quel periodo alle
ricercatezze e ai vocaboli rari, che lo portò a inventare «una specie di trecentismo fatto di riboboli»32. Ecco dunque apparire espressioni, nate anche da greci29
Scrisse anche lui un volumetto sul proprio rapporto con Puccini: Pietro Panichelli, Il
‘pretino’ di Giacomo Puccini racconta, Pisa, Nistri-Lischi, 1939.
30
J. Budden, Puccini cit., 420.
31
M. Carner, Giacomo Puccini. Biografia critica cit., p. 601.
32
C. Casini, Giacomo Puccini cit., p. 413.
268 GIOVANNI ANTONIO MURGIA
smi e antichi toscanismi, che non dovettero dispiacere al lucchese Puccini: «rose
scarlattine», «spera del sole», «il sole sull’acòro», «l’erba col latticcio», e anche
frasi sentenziose e dal sapore proverbiale: «I desideri son i fior dei vivi», oppure
«O sorella, la morte è vita bella»33, o ancora « a lamentarsi crescono i tormenti».
La svolta drammatica dell’intreccio avviene con l’ingresso in scena della Zia
Principessa, anticipato musicalmente fin dall’annuncio dell’arrivo della carrozza
da un tema ripetitivo, che prosegue, insinuandosi fino all’ingresso della ieratica aristocratica, durante tutto il colloquio. Tutti gli studi hanno riconosciuto la
potenza di questo personaggio, che è l’unico di un certo rilievo all’interno della
galleria pucciniana ad essere affidato alla voce di contralto. La Zia Principessa è
stata paragonata a Scarpia della Tosca: entrambi carnefici e torturatori, il primo
con le percosse, la seconda con sferzanti parole34. La calma spietatezza di questo personaggio, oltre che dall’atteggiamento e dall’aspetto, viene sottolineata
dalla linea musicale che l’accompagna e che richiama l’idea di un serpente che
si attorciglia nelle proprie spire. La musica si avvolge verso l’alto evocando la figura di un «rettile nell’atto di sollevar lentamente la testa per assestare il colpo
mortale»35: un «canto declamato che si avvolge come una serpentina per gradi
congiunti e scolpisce l’immagine di una figura immota che il tempo ha congelato in un passato pieno di sordo rancore»36. Il duetto tra la zia e Angelica, in cui
una delle parti mantiene una linea statica e l’altra passa attraverso diversi gradi di emozione, secondo la studiosa americana Helen Greenwald ne ricorda un
altro in cui si contrappongono due autorevoli personaggi, Filippo e Il Grande
Inquisitore, nel Don Carlo di Verdi37, anche in questo caso un confronto tra un
anziano spietato e un genitore a cui si chiede il sacrificio del figlio.
Dopo la notizia della morte del bimbo, data con un gelido cenno del capo
da parte della zia, che si congeda dopo aver ottenuto la firma sul documento,
Angelica sfoga il suo dolore, trovando nel suicidio l’unica soluzione per poter
rivedere il bambino, nell’aria Senza mamma. Il brano scritto per questo momento è l’unico pezzo chiuso dell’opera ed è «uno dei brani meglio strutturati e
al tempo stesso più appassionati che Puccini abbia mai affidato alla voce di soprano». Poco prima di preparare la pozione incontra per l’ultima volta le suore
che, ignare di tutto, si dicono contente per lei che finalmente ha ricevuto la visita che attendeva da sette anni. Ma ormai Angelica ha tutto chiaro in mente:
«Già vedo, sorelle, la meta… / Sorelle, son lieta! son lieta!», e di lì a poco andrà
a preparare il veleno per giungere infine al suo scopo: «O dolce fine d’ogni mio
dolore, / quando in cielo con te potrò salire?». A questo punto c’è la scena della
Ibidem.
Ivi, p. 597.
35
Ivi, p. 595.
36
M. Girardi, Giacomo Puccini: l’arte internazionale di un musicista italiano cit., p. 406.
37
J. Budden, La Gran Madre badessa delle opere, in Puccini, Il Trittico, 2000-2001, [programma di sala], Lucca, Teatro del Giglio, 2000, p. 3.
33
34
MATERNITÀ NEGATA E MONACAZIONE FORZATA IN «SUOR ANGELICA» DI PUCCINI
269
raccolta delle erbe che Angelica, nelle prime edizioni, commentava con un’aria
particolarissima rivolgendosi ai fiori. Si tratta di un brano musicalmente molto complesso perché costruito su tonalità indefinite e disseminato di dissonanze
che non permettono alla musica di fissarsi su armonie tradizionali e per questo,
oltre che per gli equilibri drammatici, fin dagli esordi le cantanti chiesero di tagliarla. Venne sostituta da un’altra frase, molto più breve, ripresa dall’episodio
della puntura della vespa: «Suor Angelica ha sempre una ricetta buona, fatta coi
fiori». Perciò, a dispetto di quanto si tendeva a fare, tale scena non poté più essere eliminata, mancando, in caso contrario, il riferimento speculare e amaramente ironico del secondo episodio sul primo. Bevuto il veleno, Angelica invoca la grazia: «O Madonna, Madonna, / per amor di mio figlio / smarrita ho la
ragione! […] una madre t’implora… / O Madonna, salvami!». La grazia arriva
col miracolo che, secondo i critici anche dell’epoca, è il punto più debole dell’opera. Mosco Carner lo definisce «religiosità di cartapesta»; secondo Girardi era
inteso da Puccini come una sorta di allucinazione causata dalle erbe velenose e
non come un fatto soprannaturale38. All’indomani della prima il critico newyorkese James Gibbon definisce la scena del miracolo una «cartolina di Natale
illuminata» e tutta l’opera «un falso Maeterlinck», con un chiaro riferimento
alla sua Sœur Béatrice39.
Il Trittico debuttò il 14 dicembre 1918 al Metropolitan di New York, diretto allora dall’italiano Giulio Gatti Casazza. Gli interpreti della serata, oltre
a Moranzoni sul podio, furono: Giulio Crimi che prestò la sua voce di tenore a Luigi nel Tabarro e a Rinuccio in Gianni Schicchi; sempre nel Tabarro cantarono il soprano Claudia Muzio, nel ruolo di Giorgetta, e il baritono Luigi
Montesanto che interpretò Michele. La creatrice del ruolo di Suor Angelica fu
il soprano Geraldine Farrar, che fu anche la prima Butterfly americana, mentre
la Zia Principessa venne interpretata per la prima volta da Flora Perini. Il primo
a vestire i panni di Gianni Schicchi fu il baritono Giuseppe De Luca e Lauretta
ebbe la voce di Florence Easton.
Il pubblico e la critica americani decretarono il trionfo del pannello comico, mentre l’inviato del «Morning Telegraph», John H. Raferty, fu l’unico a trovare il Tabarro, il miglior dei tre. Per Suor Angelica tutte le critiche furono negative40, fatto di cui Puccini si rammaricò profondamente, e si impegnò moltissimo, visto che non aveva potuto seguire la prima negli Stati Uniti, per il de-
M. Girardi, Giacomo Puccini: l’arte internazionale di un musicista italiano cit., p. 412.
Ivi, p. 210.
40
In merito all’accoglienza del Trittico ci rimane una testimonianza piuttosto feroce di Leoncavallo in cui emerge l’antica e mai sopita rivalità con Puccini: «Io so cosa valgono quei tre
aborti e so che a New York il successo non c’è stato che nel telegramma di Gatti Casazza. E se
Gianni Schicchi si è un po’ salvato è stato perché è giunto con una nota un po’ allegra a scuotere
la vuota monotonia dei due lavori precedenti!» Viareggio, 7 gennaio 1919 (Lettera di Ruggero
Leoncavallo a Gualtiero Belvederi, Fondo Leoncavallo di Locarno, doc. n. 70210).
38
39
270 GIOVANNI ANTONIO MURGIA
butto italiano al Teatro Costanzi di Roma. L’autore provò al pianoforte le parti
con i cantanti e si prodigò anche per la messa in scena discutendo sui bozzetti
del Tabarro con lo scenografo Rota e, per Suor Angelica, escogitando di mettere
al centro del palcoscenico un parlatorio in cui ambientare l’incontro con la Zia
Principessa per metterne in risalto la scena41.
La prima italiana ebbe luogo l’11 gennaio del 1919, alla presenza dell’autore. Quella sera il direttore fu Gino Marinuzzi e nel cast figuravano Carlo Galeffi,
il celebre baritono che interpretò Michele e Gianni Schicchi, il tenore Edoardo
Di Giovanni (Edward Johnson) ebbe la parte di Luigi e di Rinuccio, mentre il
soprano Gilda Dalla Rizza, una tra le favorite di Puccini, prestò voce e corpo a
Lauretta e a Suor Angelica. Giorgetta fu interpretata da Maria Labia che, in questo ruolo, rimase la preferita dell’autore.
Anche la stampa italiana decretò il trionfo di Gianni Schicchi e fu in parte riabilitata anche Suor Angelica, mentre il Tabarro ricevette le critiche più feroci a causa del ritorno a un verismo troppo aggressivo. Toscanini, presente in
sala, abbandonò ostentatamente il teatro dopo la prima calata di sipario e per
un certo periodo finì sulla lista nera di Puccini, guadagnandosi il poco gentile epiteto di «pig».
Negli anni successivi alla prima, come suo solito, Puccini apportò alcune modifiche alle tre opere. Il pannello comico rimase quasi invariato, a parte l’innalzamento di mezzo tono dell’aria di Rinuccio per dare maggiore lucentezza alla
voce del tenore, mentre nel Tabarro gli interventi più rilevanti riguardarono l’aria di Michele «Scorri, fiume eterno!», prima accorciata e infine completamente rimaneggiata per l’edizione scaligera del gennaio 192242.
Anche Suor Angelica subì degli importanti rimaneggiamenti: l’introduzione
della nuova aria «Senza mamma» aveva reso la parte del soprano protagonista
troppo lunga perché subito dopo era prevista la complessa «Aria dei fiori». In un
primo tempo Puccini tagliò alcune parti orchestrali, tuttavia, alla fine, con grande rammarico, dovette rinunciare al secondo brano che, oltretutto, creava non
pochi problemi alle cantanti43 e in questa versione l’opera è eseguita ancora oggi.
Se le tre opere singolarmente si assestarono in maniera definitiva, lo stesso non
può dirsi della loro struttura complessiva; si verificò, infatti, lo smembramento del
Trittico. È stato messo in evidenza che l’idea di combinare tre opere brevi in un
solo unico spettacolo si deve attribuire esclusivamente a Puccini e non ebbe precedenti. Anche il nome Trittico fu una trovata del compositore e del suo ristretto manipolo di amici, ai quali, nel corso di una riunione del Circolo dei Pittori di
Torre del Lago, chiese di provare a proporre nomi di oggetti che comprendessero
tre unità e, dopo parole come «triangolo», «treppiede», «trinità», «tritono», qual-
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43
Lettera a Tito Ricordi, 11 ottobre 1918 (C. Sartori, Puccini cit., p. 319).
M. Girardi, Giacomo Puccini: l’arte internazionale di un musicista italiano cit., p. 374.
J. Budden, Puccini cit., p. 395
MATERNITÀ NEGATA E MONACAZIONE FORZATA IN «SUOR ANGELICA» DI PUCCINI
271
cuno di loro azzardò «trittico» che, dopo qualche riserva, venne accettato all’unanimità «in barba alla Crusca e alla… farina»44. Questo nome, tuttavia, non compare in nessuna edizione delle partiture prodotte da Ricordi, che stampò le opere
singolarmente, o, come accadde nelle primissime edizioni, in volumi che le contenevano tutte ma recanti i titoli delle singole opere in copertina. Sono state proposte molte teorie sull’aspetto unificante tra le opere del Trittico, sul fil rouge che
unirebbe Il tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi e sono emerse varie spiegazioni, tuttavia tutte concordi sull’ordine. Partendo dal presupposto che la prima
opera sia il Tabarro, è stato ipotizzato che l’elemento unificante fosse la morte e
che Forzano avesse costruito i suoi due libretti su questo tema45. Molti altri autori hanno interpretato la successione dei tre lavori come un passaggio dal buio alla
luce: dalle tinte fosche del Tabarro, all’allegra solarità dello Schicchi e che ognuna delle parti prepari alla successiva. Su questa falsariga del passaggio dal buio alla
luce Mosco Carner46 costruisce la sua teoria interpretativa, accostando i tre atti
unici alle tre cantiche della Commedia di Dante ricordando che lo stesso Puccini,
in passato, aveva ipotizzato di trarre degli episodi rispettivamente dall’Inferno, dal
Purgatorio e dal Paradiso. Il fattore tempo, sottolineato in ciascuno dei tre pannelli e gli equilibri tra le caratterizzazioni musicali d’ambiente costituiscono, secondo Girardi47, l’elemento unificatore del Trittico. Tuttavia non rimane nessuna testimonianza del fatto che il compositore avesse pensato a un filo conduttore dei suoi
lavori: egli, come afferma Budden, aveva solo in mente di riempire una serata con
tre lavori di differenti tinte48. Il dato comunque incontrovertibile è che la drammaticità delle tre opere diminuisce notevolmente con lo smembramento, aspetto di cui Puccini era assolutamente convinto. Fu per questo motivo estremamente addolorato nel momento in cui, a Londra nel 1920, in occasione di una esecuzione al Covent Garden, uno dei pannelli, proprio Suor Angelica, venne omesso
dal cartellone con il pretesto dell’indisposizione di una cantante. L’atto unico preferito di Puccini, dunque, fu il primo a cadere anche perché il pubblico londinese non lo apprezzò, provocando il dolore e l’irritazione del compositore come traspare delle lettere alla cara amica inglese Sybil Seligman. Purtroppo non era semplice proporre le tre opere in una stessa serata, difficoltà di cui si rendeva conto lo
stesso Puccini affermando che le tre opere insieme gli parevano «lunghe come un
cavo transatlantico», perciò, con suo grande rammarico, il Trittico fu smembrato
e i singoli pannelli riproposti singolarmente, come accadde per Gianni Schicchi
all’Opéra Comique nel 1922, o abbinate ad altre opere o anche ad altri spettacoli, come accadde con i Ballets Russes di Djagilev49.
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49
M. Girardi, Giacomo Puccini: l’arte internazionale di un musicista italiano cit., p. 373.
Ivi, p. 395.
M. Carner, Giacomo Puccini. Biografia critica cit., p. 573.
M. Girardi Giacomo Puccini. L’arte internazionale di un musicista italiano cit., p. 381.
J. Budden, Puccini cit., p. 432.
Ivi, p. 394.
272 GIOVANNI ANTONIO MURGIA
Infine si potrebbero proporre alcune considerazioni sull’affinità tra il Trittico
di Puccini e il suo corrispondente nell’arte figurativa avendo come chiave di lettura la centralità, data anche dalla predilezione del compositore, di Suor Angelica:
il pannello centrale è quello più importante che dà il nome a tutto l’insieme,
esso è spesso occupato da raffigurazioni della Vergine Maria e ai suoi lati presenta scene agiografiche o figure di santi in tavole leggermente più piccole. Tutti gli
elementi sono incernierati tra loro, in modo da creare, con opportuna piegatura50 dei pannelli laterali, un elemento che si regge da sé: caratteristica che viene
a mancare con lo smembramento, che impoverisce ciascuno degli elementi singolarmente e rompe gli equilibri dell’insieme.
Si è inteso qui esaminare figure di madri, tratte dai libretti d’opera, che affrontano la perdita di un figlio, ponendole a confronto con la Madonna Addolorata.
Nello specifico, concentrando l’attenzione su Suor Angelica, si è voluto dimostrare che la protagonista dell’atto unico di Puccini rientra pienamente nella categoria tanto da poterla considerare al pari di una Madonna e, come tale, alla
stregua di quelle raffigurate su tavole tripartite, fulcro dell’intero Trittico. Si potrebbe inoltre utilizzare la frase ossimoro di Angelica, «La morte è vita bella»,
come formula per spiegare, lato sensu, il significato delle tre opere: Michele, nel
Tabarro, che non ha più nulla da perdere, privato del figlio (dalla morte) e della moglie (da un altro uomo e dal richiamo di una vita altrove), in un certo senso, si illude di poter migliorare la propria esistenza insopportabile con la morte
del rivale e lo uccide. Angelica è convinta di raggiungere la felicità ritrovando il
figlio nell’aldilà dandosi la morte o, almeno, in questo modo, di porre fine alle
proprie sofferenze. Infine, in Gianni Schicchi, la morte di Buoso Donati rende
la vita bella al protagonista eponimo arricchendolo e, soprattutto, fa felici i due
futuri sposi Lauretta e Rinuccio che godranno della cospicua eredità.
Ecco che, in questo modo, Suor Angelica, la preferita di Puccini, da cui traspare fortemente l’elemento mariano51, sia musicalmente, con le Ave Maria e le
invocazioni alla Vergine che si ripetono incessantemente, sia riflesso in Angelica
/ madre addolorata, sia in apparizione come «Regina del conforto»52, afferma la
propria centralità e preminenza rispetto alle altre opere del Trittico, fornendone anche la chiave di lettura, proprio come la Madonna della tavola centrale di
una pala d’altare tripartita, o trittico.
50
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autori.
Il termine «trittico» viene dal greco τρίπτυχον nome composto da tri «tre» e ptychē «piega».
Non si intende tuttavia attribuire un significato spirituale all’opera e alle intenzioni degli
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Paragonabile alla Madonna della Misericordia raffigurata in tanti trittici e polittici, caratterizzata iconograficamente da un ampio manto aperto a forma di cupola sotto cui si rifugiano i
fedeli inginocchiati e sotto il quale Angelica avrebbe potuto vedere il figlio spinto verso di lei dalla
Vergine che poi li avrebbe accolti insieme, in segno di misericordia, sotto lo stesso. Un manto e
un gesto che, sinistramente, potrebbero evocare quello di Michele con il suo tabarro e la cortina
sotto la quale si cela Gianni Schicchi intento a imitare Buoso e a destinare a sé i lasciti migliori.
ICONOGRAFIA E PROIEZIONI VISIVE
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
Gianni Venturi
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
276 GIANNI VENTURI
Nella composizione di Jacopone il lemma in posizione fondante è «Stabat»;
quindi per il complesso linguaggio dalle valenze figurative usate dal poeta ciò
che l’autore vuole evidenziare è la postura. Tra le oltre quattrocento proposte
di traduzioni, letterarie, figurative, ma soprattutto musicali, mi avvarrò della traduzione-ordinamento di Gianfranco Contini; ma pur condividendo le
sequenze qui esibite che il critico ha individuato non condivido nell a prima
proprio la retrocessione della parola iniziale, Stabat, a favore dell’accamparsi della ‘dolorosa madre’ e la retrocessione a fine verso dello Stabat tradotto
in un debole ‘sostava’:
Stabat mater dolorosa
La dolorosa madre sostava
Dalla scelta della postura come nucleo centrale della composizione si svolge
dunque questo contributo che si avvale soprattutto di elementi figurativi espliciti scelti dalle innumerevoli testimonianze che nel tempo si sono succedute e
che fanno riferimento alla pittura, scultura, architettura, ma anche alla fotografia, ai fotogrammi di un film, tutti supportati dalla parola che nell’equazione
dell’ut pictura poësis ha comunque il ruolo di traino e che, nella sequenze dell’opera, s’appoggia a mio avviso nella posizione privilegiata dello Stabat.
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
277
I primi riscontri sono dedicati all’opera di Elsa Morante, la scrittrice che più
di ogni altro nel Novecento ha avuto presente il rapporto madre-figlio. Nella
Storia il presentimento della morte del figlio Useppe viene così avvertito dalla madre Ida: «D’un tratto ebbe la sensazione cruda che, dall’interno, delle dita
graffianti le si aggrappassero alla laringe per soffocarla, e, in un enorme isolamento, ascoltò un piccolo urlo lontano»1.
Al presagio segue la constatazione della morte di Useppe. Ida lo trova ancora caldo sul pianerottolo di casa vegliato da Bella, la cagna sua seconda madre
che fedelmente gli era stata al fianco: «E dopo averlo trasportato in braccio sul
letto essa si tenne là china su di lui, come le altre volte, in attesa che lui rialzasse le palpebre in quel suo solito sorriso particolare»2.
Stabat mater.
Bella è l’accompagnatrice: «La cagna difatti era lì che stava a guardarla con
una malinconia luttuosa, piena di compassione animalesca e anche di commiserazione sovrumana»3.
E alla conclusione del dramma di Ida, Useppe e Bella, la postura rimane l’unico elemento di una vita che era finita al momento della morte del pischelletto: «Stava (stabat) seduta con in grembo le mani raccolte, che ogni tanto muoveva intrecciandole, come per giocare, e in volto lo stupore luminoso e sperduto di chi si sveglia appena e non riconosce ancora le cose che vede»4.
Se si consultano altre prove il rapporto madre-figlio rimbalza in tutte le opere della Morante fino alle conseguenze estreme. Si considerino i versi danteschi:
Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine
fisso ’d’etterno consiglio, //tu se’ colei che l’umana natura / nobilitasti sì, che ’1
suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura. // Nel ventre tuo si raccese l’amore, /per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore5.
La figura della Mater è citata 7 volte nell’inno, e nella sequenza 4; al fondo dello Stabat esplicitamente è nominata come Virgo virginum che s’accoppia con
Mater secondo il celebre incipit dantesco Vergine Madre. Il tema si ripercuote
nello ‘scandalo’ (secondo la terminologia morantiana) denunciato nell’ultimo e
più importante romanzo della Morante, Aracoeli, dove l’inconcepibile accade.
Aracoeli, la madre andalusa, al momento della pubertà sente oscuramente di
desiderare un figlio, un figlio che la allietasse come le ‘pupazze’, bambole ricavate dai materiali di scarto che costruisce. Un figlio che sia dunque non la salvezza del mondo, ma la condanna, la vera ‘irrealtà’. Nel ripensamento che l’or1
2
3
4
5
Elsa Morante, La storia, in Opere, II, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1990, p. 1015.
Ivi, pp. 1017-1018.
Ivi, p. 1018.
Ivi, p. 1020.
Dante Alighieri, Paradiso XXXIII, vv. 1-9.
278 GIANNI VENTURI
mai adulto figlio Manuele, il quarantenne troppo amato e rifiutato, fa, mentre
alla ricerca delle tracce della madre in Andalusia, si specchia nudo il suo corpo
sgraziato incapace di sciogliersi dal venefico abbraccio materno:
Così, dentro di te [Aracoeli] incomincia l’aspettazione inconsapevole del seme.
Non per la felicità sensuale (questa non fu mai promessa alla tua sorte) ma perché a tua stessa insaputa, da quel seme gettato dentro il tuo nido spunterebbe
viva la tua muñeca: il balocco sempre agognato per le tue canciones de cuna.
Tutte le tue cellule ormai lavoravano alla mia nascita, il tuo ventre ne pullulava
come un alveare. Ma tu, come una macchina idiota, eri la serva ignara della tua
propria manovra6.
Ecco come il figlio racconta la postura assunta da Aracoeli (e qual nome poteva essere più adatto di Aracoeli, altare del cielo, e del suo significato divino?)
nel momento del concepimento del figlio-muñeca:
Nel camminare, le tue gambe tonde e ben piantate si arcuavano un poco, e
caracollavi, nei tuoi fianchi ancora angolosi, in una maniera quasi comica, senza
languore e civetteria. Se ti fermavi a discorrere, per irrequietezza ti altalenavi sui
piedi e a tratti stavi là sbilanciata, sporgendo in fuori il tuo piccolo ventre piatto,
e piegando la testa di traverso sulle tue spalle magroline7.
Le fantasie della giovane Aracoeli s’indirizzavano a una verginità senza sesso
(«esplorando fra le nebbie delle tue chimere bambinesche, forse si scoprirebbe che tu, allora, contavi su una fecondazione “senza peccato” come quella della Virgen»).
In quel testo complesso che è Il mondo salvato dai ragazzini, forse l’incunabolo della più spinta modernità della Morante, Manuele appartiene alla schiera degli IM (gli infelici molti) che popolano la terra. Ma il ragazzino Manuele,
il cui compito sarebbe quello di salvarlo, non salva il mondo, ma è la vittima di
un rovesciamento scandaloso che ha al suo vertice il tradimento della madre.
Aracoeli, che vorrebbe una femmina, sogna Sant’Anna, «la nonna di Dio»,
che le promette che da lei nascerà una femmina:
Quello era un messaggio clandestino di Sant’Anna, riservato a te sola e a nessun
altro. E a farne la spia qui a me stanotte forse è stato il Demonio per insinuarmi,
in proposito, che già quella piccola Anunciación prematura della mia Nadividad fu equivoca. Una Reginella: ossia una figlia femmina. Nel mandarti questo
preannuncio garantito la nonna di Dio barava8.
6
7
8
9
E. Morante, Aracoeli, in Opere II cit., pp. 1166-1167.
Ivi, p. 1167.
Ivi, pp. 1169-1169.
Ivi, p. 1169.
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
279
La muñeca desiderata è però un bimbo a cui si presta ogni tipo di bellezza.
Ma è un gioco come quello che cantano gli uccelletti a Useppe in preda al grande male. La bambola/bambolo di cui s’incapriccia Aracoeli alla fine è abbandonata perché «un balocco, dopo averci giocato a sazietà, un bel giorno si lascia da
canto, ridotto a oggetto di scarto».
Il figlio Manuel, nudo allo specchio, si osserva senza pietà: la sua disgraziata
figura, quella visione di sé che vuole eludere distogliendo gli occhi. Ma alla fine:
Dicono che, immergendosi allo specchio nei propri occhi – con attenzione cruciale e al tempo stesso con abbandono – si arrivi a distinguere finalmente in
fondo alla pupilla l’ultimo Altro, anzi l’unico e vero Se stesso, il centro di ogni
esistenza e della nostra, in somma quel punto che avrebbe nome Dio […]. Mi
condannavi a mimare [Aracoeli] la tua parte di madre, gettandomi alla rincorsa
dei narcisi imberbi, dietro al solito miraggio di quel tuo figlietto tradito, che ero
stato io. Così mi sorprendevo inebetito a bamboleggiare, imitazione di te (non
ero stato la tua bambola?) e, intossicato per sempre dal tuo latte, mi umiliava…
L’«offerta» di sé fa sì che, nell’ultimo, inaudito tradimento, proprio alla madre che piange alla base della croce «ci si consegni alla strage e alla croce e al sadismo e all’algolagnia e al saccheggio e alle macerie».
Un numero di «Nuovi Argomenti» 2012, 57, dedicato interamente ad Elsa
Morante, propone una straordinaria analogia tra la figura di Manuel, quella della madre Aracoeli e il Vangelo secondo Matteo che Pasolini girò nel 1964, coin10
Ivi, p. 1171.
280 GIANNI VENTURI
volgendo la propria madre, Susanna Colussi, in uno Stabat Mater dove si assiste
alla morte di un figlio che ha le stesse valenze di un figlio omosessuale se, come
è stato detto di frequente, Manuel è il ritratto di Pier Paolo Pasolini:
Questi gli ingredienti di Aracoeli, madre e figlio sigillati nell’amoree nel calvario,
che Pasolini filma nel Vangelo come corsa e caduta della madre Susanna Colussi
davanti al sacrificio del figlio. Ma se in Pasolini la madre è un grumo di vita e di
morte, da cui si generano la colpa e la necessità del figlio maschio omosessuale,
«a rispondere del selvaggio dolore di esser uomini» di fronte a Grandi Madri
mediterranee – madri Magnani, madri Callas –, l’Aracoeli di Morante è madre
più complessa, sottratta, per necessità visionaria, all’iconografia classica, greca
o cristiana, cara a Pasolini. Secondo la psicologia analitica, l’archetipo contiene
i suoi opposti: è anche questa dimensione bipolare a dotarlo di potenza numinosa. Entrambi gli elementi sono riconducibili a una dimensione psicologica
bivalente, con un lato positivo e uno negativo. Nel suo personificarsi, tuttavia,
l’archetipo finisce inevitabilmente per scindersi, cristallizzando in un’estremità
la sua tensione individuativa. Per questo, dice Jung, l’amore «può portare alla ribalta potenze insospettate della psiche, dalla quale sarebbe preferibile guardarsi».
Da qui l’interesse junghiano per la coniunctio oppositorum, dove polarità opposte
cercano uno stato di equilibrio nella tensione psichica. I due volti dell’archetipo
materno, madre di vita e madre di morte, spesso appaiono in modi separati e
alternanti (esemplare la Regina della Notte nel Flauto Magico). Questa alternanza
può aiutarci a tollerare la potenza ambivalente del sentimento materno9.
La ‘postura’ diventa sempre più nel Novecento la funzione retorica che avvicina e conferma il rapporto fra le arti sorelle. Tra gli esempi classici quello ungarettiano della celeberrima Soldati:
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie10
Qui l’evidentissima postura del ‘Si sta’ opera una straordinaria comparatio tra la
visione primaria degli alberi e delle foglie con la situazione figurativamente icastica dei soldati che si staccano dall’albero-vita come le foglie d’autunno.
Ma se si torna alla funzione della postura come mezzo di rapporto tra concetti che si retoricizzano in situazione, l’exemplum manzoniano è fondamentale.
Si comincia da La passione che ripropone l’immagine della Madre come tramite
del perdono divino. La postura della Madre ai piedi della croce è l’immobilità:
9
Vittorio Lingiardi, Scene madri: visioni psicoanalitiche da «Aracoeli» a «Volver», in «Nuovi
Argomenti», 2012, 57, pp. 170-171.
10
Giuseppe Ungaretti, Soldati, in L’allegria 1914-1919, Milano, Mondadori, 1957, p. 104.
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
281
E tu Madre, che immota vedesti
Un tal Figlio morir sulla croce,
per noi prega, o regina de’ mesti,
che il possiamo in sua gloria veder;
che i dolori, onde il secolo atroce
fa de’ boni più tristo l’esiglio,
misti al santo patir del tuo figlio,
ci sian pegno d’eterno goder11.
Nella Passione Manzoni riprende le più consuete immagini della innologia
mariana – Maria ausiliatrice, la Madre tramite alla redenzione attraverso il dolore con la conseguente postura che fa aggio sul termine ‘immota’. All’immobilità
si aggiunga il silenzio in posizione di ripresa – quasi uno Stabat – del silenzio
della vergine in Il nome di Maria:
Tacita un giorno a non so qual pendice
salìa d’un fabbro nazaren la sposa;
salìa non vista alla magion felice
d’una pregnante annosa12
Silenzio, immobilità sono le posture di Maria ausiliatrice.
Il silenzio di Dio che si fa linguaggio e che diventa una delle espressioni più
forti delle arti nel secolo breve: dalla trilogia dei film di Ingmar Bergman al recentissimo romanzo di Shusaku Endo, Silenzio, ispiratori del recentissimo film
di Martin Scorsese, Silence, ma già presente nell’urlo muto delle vicende della
Shoah, la voce divina si esprime e parla col silenzio13.
Il concetto dello Stabat si fa potentissimo mezzo di tramando tra un pensiero e la posizione del cadavere di Napoleone nel Cinque Maggio:
Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
Alessandro Manzoni, La Passione, in Liriche e tragedie, a cura di Vladimiro Arangio Ruiz,
Torino, Utet, 1974, p. 69.
12
A. Manzoni, Il nome di Maria, ivi, p. 82.
13
Si veda il fondamentale Sergio Quinzio, Silenzio di Dio. È ancora possibile credere? [1982]
Milano, il Saggiatore, 2015. Utilissima la recensione di Roberto Esposito, Tutti i suoni del Silenzio di Dio, in «la Repubblica», 24 gennaio 2017. Al proposito va ricordato uno dei romanzi più
potenti di Isaac B. Singer, La famiglia Moskat [1950] Milano, Tea, 2016 e la terribile considerazione del protagonista mentre a Varsavia stanno entrando i nazisti. «Hertz Yanovar scoppiò a
piangere. Tirò fuori un fazzoletto giallo e si soffiò il naso. Stava davanti a loro confuso, vergognoso. “Non ce la faccio più. Non ho più forze”, disse in tono di scusa. Esitò un momento, e poi disse
in polacco: “Il Messia arriverà presto”. Asa Heshel lo guardò sbalordito. / “Che cosa vuoi dire?” /
“La morte è il Messia. Questa è la verità”» (ivi, p. 583).
11
282 GIANNI VENTURI
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
orma di piè mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà14.
Il corpo di Napoleone ‘immobile’ dialoga con il giudizio della storia che si ferma e attende. Una situazione inaudita dove la postura immobile del corpo, il silenzio che ne deriva, dialoga con la voce di Dio, anch’essa silenziosa. L’enormità
dell’exemplum si misura sul silenzio di un dio che ‘posa’ sulla ‘deserta coltrice’.
Dal silenzio, dalla postura che obbligatoriamente evoca l’immobilità, si scatena il tumulto delle imprese guerresche, celebri versi che la lettura scolastica
spesso trasforma in una specie di ‘rap’ scandito da quell’indicazione geografica: «Dall’Alpi alle Piramidi, / dal Manzanarre al Reno / di quel securo il fulmine / tenea dietro al baleno». E dal tumulto la postura ritorna all’immobilità: «il Dio che atterra e suscita, / che affanna e che consola, / sulla deserta coltrice / accanto a lui posò».
La situazione classica della postura dello Stabat Mater è rappresentata ovviamente da uno dei più celebri passi dei Promessi Sposi, la madre di Cecilia, che pochi decenni fa fu illustrato da un intenso disegno di Renato Guttuso. Lo Stabat
Mater comincia con un passo lento: «Scendeva dalla soglia», poi la descriptio si
sofferma sulla bellezza ‘offuscata’ della madre; un ricordo e ricorso al più celebre incipit del romanzo. «Addio monti»; infine la postura: «Portava essa in collo
una bambina di forse nov’anni, morta». E infine la conclusione stessa del ritratto: «Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di
cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sul l’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno». Il momento forse più pittorico di tutto il brano. Si vedrà, nell’esibizione successiva delle
pietà michelangiolesche, come la postura dei corpi si faccia senso e concetto della stessa pietà. Nel disegno di Guttuso la postura si colloca nella scia di un neorealismo corretto, quasi che il rifiuto dell’astrazione riproponga il brano manzoniano nella scia di un realismo che a mio parere è profondamente sbagliato.
Qui l’apparente descrizione realistica di madre e figlia evocata da un nome di
fantasia, Cecilia, ripropone in modo evidentissimo una plurisemanticità che va
oltre l’evidente aspetto realistico della postura. Che si conclude con la staticità, con una contemplazione metafisica fatta di silenzio e di astrazione dal mon14
A. Manzoni, Il cinque maggio, in Liriche e tragedie cit., p. 91.
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
283
do: «Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve».
Renato Guttuso, La madre di Cecilia
Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi
traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione,
e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla
nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi
non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie,
la indicasse così particolarmente alla pietà e ravvivasse per lei quel sentimento
ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse
nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con
un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa
promessa da tanto tempo, e data per premio. Nè la teneva a giacere, ma sorretta,
a sedere sur un braccio, col petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva;
284 GIANNI VENTURI
se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una
certa inanimata gravezza, e il capo posava sul l’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti
non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva
ancora un sentimento.
Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie
però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi
indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, – no! – disse: – non me la
toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete –. Così dicendo, aprì
una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le
tese. Poi continuò: – promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar
che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così –.
Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato che per l’inaspettata
ricompensa, s’ affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La
madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: – addio. Cecilia!
riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri –. Poi voltatasi di nuovo al
monatto, – voi», – disse, «passando di qui verso sera, salirete a prendere anche
me, e non me sola –.
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s’affacciò alla finestra, tenendo in collo un’altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto.
Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non
si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar
sul letto l’unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come
il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccio, al
passar della falce che pareggia tutte l’erbe del prato15.
La postura indicata come momento creativo dell’elaborazione letteraria dello Stabat Mater diventa elemento fondante nell’interpretazione visiva del rapporto madre e figlio rivisto non solo entro i confini della passio, ma scandita nei
temi dell’Annunciazione, Flagellazione, Crocifissione, Deposizione, Sepoltura,
fino alla Dormitio Virginis e alla funzione per la quale il concepimento di Cristo
incarnatosi nell’uomo fa della madre l’Ausiliatrice. È dunque possibile ricavare
dalle varie arti visive, comprese quelle filmica e fotografica, un’indicazione che
incentrandosi nel rapporto madre-figlio riesce a spingersi fino alle forme estreme
di questo quasi impossibile recupero dell’humanitas nel momento dell’orrore assoluto, della negazione totale. Se religiosamente si potrebbe ripercorrere la passione delle madri a Auschwitz come l’assenza del divino, il furore di una cancellazione dell’umano per cui la vera blasfemia sarebbe ricordare, secondo la disperata e disperante constatazione di Primo Levi ne I sommersi e i salvati, sono poi
15
A. Manzoni, I Promessi Sposi, Torino, Einaudi, 1960, pp. 557-558.
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
285
quelle fotografie di madri e di figli che diventano testimonianza feroce, o ancor
più quelle di Hans Jonas, il filosofo amico di Hannah Arendt:
Concedendo all’uomo la libertà, Dio ha rinunziato alla sua potenza16
Il fotografo di queste donne che stanno entrando nella camera a gas, coi loro
bambini nelle braccia, è ignoto.
Se dunque l’arte o la testimonianza visiva producono il sentimento emotivo
che sta dietro al concetto dello Stabat Mater, particolarmente convincenti sono
le lettere dei condannati a morte della resistenza italiana, dove il termine madre
è l’ultima parola che si pronuncia prima della morte.
Ebrei ungheresi ad Auschwitz nel 1944.
Hans Jonas, Der Gottesbegriff nach Auschwitz. Eine jüdische Stimme, in Reflexionen finsterer
Zeit. Zwei Vorträge von Fritz Stern und Hans Jonas, Tübingen, 1984 [trad. it. Il concetto di Dio
dopo Auschwitz. Una voce ebraica, a cura di Carlo Angelino, Genova, il Nuovo Melangolo, 1993].
16
286 GIANNI VENTURI
Con il tema della Pietà Michelangelo ha espresso forse la più potente postura del rapporto madre e figlio. Sia in quella di Roma che di Firenze fino alla
vertiginosa inventio della Pietà Rondanini. Nella Pietà Bandini la postura rivela
una disgregazione, una rottura delle giunture un abbandono tragico che toglie
perfezione e aggiunge pathos.
Nella Pietà Rondanini, l’opera somma dell’ottantenne Michelangelo, il corpo disarticolato si appoggia in un tremendo abbraccio con quello della madre,
le cui forme sono appena abbozzate. La madre non sa, né può reggere il corpo
del figlio e la postura accenna a quell’abbraccio sostenuto unicamente dall’informe pietra da cui i corpi escono e sono sorretti, come se una mano potentissima
regga e sorregga la disperazione disumana del rapporto madre-figlio.
Michelangelo, Pietà Vaticana (Città del Vaticano, Basilica di San Pietro).
La forza dell’immagine chiude nel presente la forza dello Stabat. Una postura che solo le ultime vicende storiche rendono vera e potente. Una madre islamica celata dal burka integrale stringe a sé il corpo nudo del figlio in un gesto di
potentissima appropriazione. Il figlio mostra il braccio dove è tatuato il numero
l’infamia dei lager che cancella il nome. Restano solo i corpi. Il resto è silenzio.
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
Michelangelo, Pietà Bandini
(Firenze, Museo dell’Opera del Duomo).
Michelangelo, Pietà Rondanini
(Milano, Castello Sforzesco).
Samuel Aranda, La Pietà islamica – 2011 (photo New York Times).
287
288 GIANNI VENTURI
La passione di una madre. Maria «iuxta crucem lacrimosa»
Le immagini che accompagnano questo tema si avvalgono di dipinti, sculture, affreschi, fotografie, fotogrammi di film ed esemplificano la storia di Maria
e il Cristo dall’Annunciazione alla Dormitio Virginis.
La seconda parte usa immagini legate alla madre ed al figlio in momenti tragici della nostra storia recente.
Annunciazione
Vergine Madre, figlia del tuo figlio, // umile e
alta più che creatura, // termine fisso d’etterno
consiglio, // tu se’ colei che l’umana natura //
nobilitasti sì, che ’l suo fattore non disdegnò di
farsi sua fattura. // Nel ventre tuo si raccese l’amore, //per lo cui caldo ne l’etterna pace // così è
germinato questo fiore.
Dante, Paradiso XXXIII, vv.1-9.
Giurato si saria ch’el dicesse Ave!;
perché iv’ era imaginata quella
ch’ad aprir l’alto amor volse la chiave;
e avea in atto impressa esta favella
Ecce ancilla domini proprïamente
come figura in cera si suggella.
Purgatorio X, vv. 40-45.
Francesco del Cossa, Annunciazione (Dresda, Gemäldegalerie – particolare).
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
289
Maestro del secondo e terzo gruppo, Fuga in Egitto (Ferrara, Monastero di San Antonio in Polesine).
290 GIANNI VENTURI
Flagellazione
27 Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la coorte. 28 Spogliatolo, gli misero addosso un manto
scarlatto 29 e, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo, con una
canna nella destra; poi mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano:
«Salve, re dei Giudei!». 30 E sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna
e lo percuotevano sul capo. 31 Dopo averlo così schernito, lo spogliarono del
mantello, gli fecero indossare i suoi vestiti e lo portarono via per crocifiggerlo.
Matteo, 27-31.
Piero della Francesca, Flagellazione di Cristo
(Urbino, Galleria Nazionale delle Marche).
Guido Reni, Flagellazione di Cristo
(Bologna, Pinacoteca Nazionale).
Mel Gibson, La passione di Cristo.
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
291
Crocifissione
(vedi Matteo 27, 31-38; Me 15, 20-27; Giovanni 19, 17-24)
26 Mentre lo conducevano via, fermarono un certo Simone di Cirene, che tornava dai campi, e gli misero addosso la croce, da portare dietro a Gesù.
2 Lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di donne, che si battevano
il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso di loro, disse:
«Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui
vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali sì dirà: “Beate le sterili, i grembi che
non hanno generato e i seni che non hanno allattato”. Allora cominceranno a
dire ai monti: “Cadete su di noi”, e alle colline: “Copriteci!”. Perché, se si tratta
così il legno verde, che avverrà del legno secco?». Insieme con lui venivano condotti a morte anche altri due, che erano malfattori.
Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori,
uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non
sanno quello che fanno». Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte.
Luca, 25-32.
Stabat mater dolorosa / iuxta crucem
lacrimosa, / dum pendebat filius; /
cuius animam gementem, / consternatam et dolentem / pertransivit gladius.
La dolorosa madre sostava / in lacrime presso la croce / mentre vi era
appeso il figlio; / lei, la cui anima, lamentosa costernata e dolente, / aveva
trapassata una spada.
(trad. Gianfranco Contini).
Michele Pannonio, Crocifissione con
Santa Chiara (collezione privata).
Espressionismo: l’intreccio delle mani
di Santa Chiara e la mano di San Giovanni alla guancia.
292 GIANNI VENTURI
Maestro del primo gruppo, Cristo sale sulla croce Giovanni Bellini.
(Ferrara, Monastero di San Antonio in Polesine).
La postura del Cristo, rarissimo esempio di questa salita volontaria, rappresenta la necessità di redenzione con l’accettazione volontaria del sacrificio.
Deposizione
Giovanni Bellini, Compianto – o Pietà (Milano, Pinacoteca di Brera – particolare).
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
Pontormo, Deposizione
(Firenze, Chiesa di Santa
Felicita).
293
Maestro del primo gruppo, Deposizione (Ferrara, Monastero di San Antonio in Polesine).
«Soccurre, donna, adiutl
ca ’l tuo figlio se sputa
e la gente lo muta;
hòlo dato a Pilato».
«O Pilato, non fare
el figlio mio tormentare,
ch’io te pozzo mustrare
como a torto è accusato»
«Crucifige, crucifige!
Omo che se fa rege,
secondo nostra lege
contradice al senato».
«Prego che me ’ntennate
nel mio dolor pensate:
forsa mo vo mutate
de che avete pensato».
«Traàm for li ladruni,
che sian suoi compagnun
de spine se coroni,
ché rege s’è chiamato!»
«O figlio, figlio, figlio,
figlio, amoroso giglio!
figlio, chi dà consiglio
al cor mio angustiato?
figlio occhi iocundi,
figlio, co’ non respundi?
Niccolò dall’Arca, Compianto sul Cristo
morto (Bologna Chiesa di Santa Maria
della Vita).
294 GIANNI VENTURI
«Figlio, perché t’ascundi
al petto o’ si’ lattato?»
«Madonna, ecco la croce,
che la gente l’aducc,
ove la vera luce
dèi essere levato».
«Donna, la man li è presa,
ennella croce è stesa;
con un bollon l’ho fesa,
tanto lo ci ho ficcato.
L’altra mano se prende,
ennella croce se stende».
«O croce, e che farai?
El figlio mio torrai?
Como tu ponirai
chi non ha en sé peccato?»
«occurri, piena de doglia,
ca ’l tuo figlio se spoglia:
la gente par che voglia
che sia martirizzato!»
«Se i tollete el vestire,
lassatelme vedere,
como el crude! ferire
tutto l’ha ensanguenatol»
Antonio Begarelli, Deposizione (Modena,
Chiesa di San Francesco).
Che moga figlio e mate
d’una morte afferrate:
trovarse abraccecate
mate e figlio impiccato.
Guido Mazzoni, Figura dolente (Ferrara, Museo Schifanoia). Maestro del Terzo Gruppo, Deposizione di Cristo nel sepolcro (Ferrara, San Antonio in Polesine).
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
295
La passione delle madri. Testimonianze
Hebe, madre della Plaza de Mayo, 77 anni
In realtà quello che è successo è che siamo state partorite dai nostri figli, perché
è stato per la loro scomparsa che sono nate le Madri di Plaza de Mavo. Per farci
mettere al mondo, per farci partorire da loro, abbiamo dovuto capire chi fossero, e così la loro lotta ha cominciato a essere la nostra. Non tutte le madri sono
cresciute politicamente nello stesso tempo, ma tutto ciò che ci è accaduto è stato
come un miracolo. È stato un miracolo trovare in altri figli i nostri stessi figli,
ed è stato un miracolo dare loro ancora dieci, venti, e adesso quasi trent’anni di
vita. Perché non solo loro ci hanno partorite, ma noi li teniamo dentro di noi
per sempre, siamo sempre incinta dei nostri figli.
Vergine madre figlia del tuo figlio
Al centro Michelangelo, Pietà per Vittoria Colonna (Boston, Isabella Stewart Gardner
Museum).
296 GIANNI VENTURI
Scuotono l’anima nel profondo, tolgono il sonno
e la tranquillità i racconti di come, fino all’ultimo
istante, i cadaveri viventi di Treblinka non preservassero solamente il sembiante dell’uomo, ma
soprattutto il cuore! Racconti di donne che cercavano di salvare i figli e che per questo tentarono
imprese sublimi e disperate; di giovani madri che
nascondevano, sotterravano i propri neonati sotto
mucchi di coperte e facevano loro scudo con il
proprio corpo. Nessuno conosce né conoscerà mai
il loro nome. Si sa di bambine di dieci anni che
con candida saggezza consolavano i genitori in lacrime, o di un ragazzino che entrò nella camera a
gas gridando: «Non piangere, mamma, i russi ci
vendicheranno!»
(Vasilij Grosman, L’inferno di Treblinka, 1944. Il
primo reportage sui campi di sterminio).
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
297
L’umanità del sacrificio
Carissima Mamma adorata, e carissimi Fede, papà, Alberto, Stefano, zia e zio,
Maria e tutti i miei cari, fra un’ora non sarò più in questo mondo. Mamma mia
sii forte come lo sono io. Pensa mamma che tutta la forza viene da te che sei
una «Santa», tutta la tua vita di dolore e di abnegazione ne è la testimonianza,
mamma è il tuo bambino che ti supplica ma che ti dà un comando di moribondo, devi avere tanta, tanta forza, perdi il tuo bambino ma fra non molto te ne
verrà restituito un altro, il mio caro fratello Stefano per lui devi vivere, a lui devi
dare tutte le premure e le attenzioni che avresti date a me – è dunque un dovere
quello che ti chiede il tuo Domenico nella certezza di questa missione che ti
resta da compiere che io mi sento forte. È da mezzanotte che io prevengo la mia
fine, ora sono le quattro e mezza e me ne viene data notizia, mamma affidati a
Fede essa saprà come darti tanta forza. Fede cara ti chiedo perdono fa di esaudire
tutti i miei desideri affido a te la mamma.
Da quattro ore, cara mamma non ho fatto che rievocare tutta la mia vita da
quando ero bambino ed ora recrimino una cosa sola, tutto il tempo che non ti
sono stato vicino, perdonami mamma: di’ a papà che non beva più e ti sia più
vicino, chiedo perdono anche a lui – mamma non ho una tua fotografia ma la
tua visione non mi abbandona un attimo – l’ultimo mio anelito sarà per te, nel
tuo nome di mamma vi è tutta la mia vita – se non ho saputo vivere, mamma,
so morire, sono sereno perché innocente del motivo che muoio, vai a testa alta
e dì pure che il tuo bambino non ha tremato.
(Domenico Cane, 30 anni, artigiano).
298 GIANNI VENTURI
La santità della madre
Cara mamma,
ti faccio sapere che quest’oggi vado al
processo. Speriamo in bene. La mia coscienza è pulita: ho sempre fatto il mio
dovere e ho aiutato uomini che si trovavano nel bisogno. In caso contrario
prega il Signore per me, e tu sii sempre
allegra e non pensare a me.
Saluta i miei fratelli e le mie sorelle. Bacia i miei nipotini e gli zii e di’
loro che si ricordino di Franco anche
se qualche volta ha fatto loro provare
dei dispiaceri. Salutami anche la mia…
e digli che le voglio bene. Ricevi tanti
baci ed abbracci da tuo figlio Franco.
(Franco Cipolla [Fido], 20 anni, pasticcere. In Lettere di condannati a
morte della Resistenza italiana, Torino,
Einaudi).
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
299
L’accettazione del sacrificio
Mamma adorata,
è il tuo Franco che torna a Te nel momento supremo per porgerti il
suo bacio e per vivere sempre in ispirito nel tuo abbraccio.
È questo il tuo Cumillo a cui hai dato con la vita il tuo sangue, il
tuo cuore, la tua anima. Mi hai allevato nella fede, nell’amore, nella
rettitudine e nell’onestà. Ho imparato dal tuo esempio ad essere un
uomo. Ti ringrazio, Mammina cara, per tutto quello che hai fatto
per me e ti chiedo oggi perdono per quanto ti ho fatto di male, per i
dolori e le ansie che ti ho procurato […] ti chiedo lo sforzo supremo
oggi: non disperarti […].
Il più grande tormento della mia nuova vita sarebbe quello di sapere
che per causa mia tu non potessi aver pace. Nel momento supremo
il tuo nome sarà nel mio cuore e sul mio labbro…
(Franco Balbis [Francis], 32 anni, Ufficiale in servizio permanente
effettivo. In Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana).
Mammina adorata,
ti lascio per sempre con il cuore addolorato pensando all’immenso tuo strazio.
Potrai sopportarlo? Io chiedo a Dio, che col suo giudizio ha voluto la mia fine
prematura, una sola grazia; che ti dia la forza di vincere il tuo dolore, per il bene
della nostra Gioietta e del piccolo Mario.
Mamma ti chiedo perdono per il male che ti arreco; questo è il pentimento
che porto dinanzi a Dio, che altrimenti morrei tranquillo perché sono felice di
avere compiuto fino all’ultimo istante il mio dovere, con tutte le mie forze. E di
questo ne sono fiero.
(Costanzo Ebat, di anni 33, Tenente colonnello di artiglieria, fucilato il 3 giugno 1944).
El Greco, Pietà (Filadelfia, Museum of Art – particolare).
300 GIANNI VENTURI
Vittima e carnefici
Il sangue
di decine di migliaia di vittime
non può riposare in pace.
Ritorna in superficie.
Sì, sono sopravvissuto e sono libero.
Ma a che pro, mi domando spesso.
Per raccontare al mondo lo sterminio
di milioni di vittime incolpevoli,
per essere testimone del sangue innocente
versato da quegli assassini.
Chil Rajchman, Io sono un ebreo.
Mi assopisco e sogno mia madre, la mia
buona, cara mamma che è morta quindici anni fa. Allora avevo quindici anni.
Piangiamo assieme sulla nostra sorte. Lei
è morta giovane, aveva trentotto anni
quando ci ha lasciati. È da augurarsi una
morte del genere? Probabilmente sì. Non
sarebbe meglio per noi non dover subire tutto ciò? Meno male che mia madre
non è vissuta abbastanza per patire tutte le sofferenze, i ghetti, le privazioni, la
fame, e infine Treblinka: essere rasata,
uccisa con il gas e infine gettata in una
fossa comune assieme a decine di migliaia d’altri. Sono felice che tutto ciò le sia
Maestro del Secondo gruppo, Dormitio stato risparmiato.
Virginis (sec. XIV – Ferrara, Monastero (Chil Rajchman, Io sono un ebreo. Treblinka, 1942-1943).
San Antonio in Polesine).
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
301
Madre e figlio
Avviati al forno crematorio:
Considerate se questa è una donna / Senza capelli e senza nome / senza più forza
di ricordare / vuoti gli occhi e freddo il grembo / come una rana d’inverno (Primo
Levi, Se questo è un uomo).
Negare la maternità
Un giorno, nel 1943
– mi trovavo già al crematorio V –,
è arrivato un trasporto da
Bialystok.
E un detenuto del «Sonderkommando» ha riconosciuto, nello spogliatoio,
la moglie di un suo amico.
Senza preamboli le annunciò:
«Vi stermineranno.
Fra tre ore sarete cenere».
E la donna gli ha creduto,
perché lo conosceva.
Si è messa a correre
e ha avvertito le altre donne:
«Ci ammazzeranno!»
«Ci gasseranno!»
Ercole de’ Roberti, Maddalena piangente (Bologna,
Pinacoteca Nazionale).
302 GIANNI VENTURI
Le madri, con i bambini
sulle spalle, non volevano sentire quelle parole.
Decisero che l’altra era pazza. La respinsero.
Allora lei andò verso gli uomini. Ma invano.
Non che non le credessero,
la voce era filtrata a Bialystok, nel ghetto, e Grodno e altrove… e Grodno e
altrove… Ma chi era disposto a sentirlo dire!
E quando lei ha visto che nessuno l’ascoltava,
si è lacerata completamente il viso per la disperazione. Sotto lo shock. E ha
urlato.
(Claude Lanzman, Shoah. Testimonianza di Rudolf Vrba, superstite di Auschwitz, p. 132).
La disperazione delle madri
Noi Madri non diamo per morti i nostri figli,
crediamo che vivano in ogni persona che lotta, che lavora, che si impegna per gli altri, ed
è un sentimento molto intimo, molto personale. Io non penso mai a mio figlio torturato, morto; lo penso sempre nei momenti più
allegri, nei ricordi che mi porto dentro, che
conosco solo io, perché sono cose private,
così come la gravidanza è una cosa privata. I
miei figli li sento dentro di me, e tutti i giorni
gli prometto che non li abbandonerò. A ogni
cosa nuova che facciamo noi Madri, sento
che stanno nascendo di nuovo: con l’università, con la stamperia, con il centro culturale,
con il caffè letterario. Qualsiasi cosa mettiamo al mondo, sento che tornano a nascere,
che tornano alla vita. Ogni volta sento che li
stiamo portando alla vita e che loro tornano
a entrare in noi.
Hebe
Ludovico Marzolino, Pietà (Venezia, Fondazione Giorgio Cini).
LA POSTURA DELLO «STABAT MATER»
303
Dov’è Dio?
Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale
dell’appello: tre corvi neri. Appello. Le
S.S. intorno a noi con le mitragliatrici
puntate: la tradizionale cerimonia. Tre
condannati incatenati, e fra loro il piccolo pipel, l’angelo dagli occhi tristi.
Le S.S. sembravano più preoccupate, più
inquiete del solito. Impiccare un ragazzo
davanti a migliaia di spettatori non era
un affare da poco. Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati
sul bambino. Era livido, quasi calmo, e
si mordeva le labbra. L’ombra della forca
lo copriva. Il Lagerkapo si rifiutò questa
volta di servire da boia.
Tre S.S. lo sostituirono.
I tre condannati salirono insieme sulle loro
seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.
«Viva la libertà!» gridarono i due adulti. Il
piccolo, lui, taceva.
«Dov’è il Buon Dio? Dov’è?» domandò
qualcuno dietro di me.
A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.
Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava.
«Scopritevi!» urlò il capo del campo. La sua
voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo.
«Copritevi!»
Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era
immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora…
Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto
i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando
gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.
Dietro di me udii il solito uomo domandare:
«Dov’è dunque Dio?»
E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:
«Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca… Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere (Elie Wiesel, La notte, Firenze, Giuntina, 1958, p. 67).
Vranck van der Stock (fine XV secolo – olio su tavola – particolare).
«ALMA MATER, STABAT MATER».
SCULTURA E POLITICA DEL NOVECENTO IN FREIBURG
Christopher M. A. Stead
Senza madre, nessun figlio. La figura del figlio (senza distinzione di sesso),
anche fisicamente assente, è evocata nel termine mater. Quella, e della madre
che lo accompagna, che veglia su di lui, è materia mitica, che si declina in tanti modi. Comunemente, alma mater si riferisce alle istituzioni educative, tipicamente università (alma mater studiorum), che educano i figli adulti nelle varie discipline. Stabat Mater diventa pietà nel Quattrocento e poi serve la propaganda contro-riformista romana. Le città, teatro della memoria collettiva, ne
dispongono in punti strategici per ricordo e l’architettura ne rivela i segreti. Nel
XX secolo l’archetipo servirà la retorica bellicosa del terzo Reich, e più recentemente la lotta contro l’HIV nell’Africa del Sud1. È un motivo plastico che si
presta persino alle utilizzazioni più diverse2.
Nelle arti visive storiche, Stabat Mater si riferisce spesso alla madre di Gesù,
in piedi a una certa distanza della scena della crocifissione (Giovanni 19, 25).
Contempla l’agonia del figlio, che si dà volontariamente alla morte fisica, in sottomissione al Padre (da leggersi anche come: ‘la nazione’), per salvare le anime
(da intendersi: ‘il popolo’) dalla distruzione eterna. In quanto metafora potente ed elastica, l’immagine si è riciclata attraverso i secoli come una leva per affermare una certa divisione paternalista dei ruoli e delle responsabilità tra i sessi. L’uomo (figura sacrificale) deve ubbidire fino in fondo alla volontà del padre,
la donna (sopravvivente) deve permettere all’uomo di compiere il suo destino.
Ecco il senso del dovere, e guai a chi non è all’altezza… Vogliamo vedere già in
questo le premesse di una certa misoginia e di un privilegio fallocentrico, erede
della cultura (militare e gerarchica) romana? Ai lettori la risposta.
È incontestabile, però, che questa visione non ha niente a che fare con il progetto divino per gli uomini, che era l’autonomia della coppia (uomo e donna
1
Ernest Pignon Ernest, La révolte de Soweto [arte di strada effimera, Soweto & Durban,
SA], 2002. Da vedere (6 dicembre 2016) su <https://pignon-ernest.com> nella presentazione
Interventions, tasto Soweto.
2
Ernest Pignon Ernest, Pasolini [arte di strada effimera, Roma, Napoli, Ginevra], 2015, che
commemora il suo assassinio quaranta anni dopo.
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
306 CHRISTOPHER M. A. STEAD
Fig. 1 – Arnold Rickert, Alma Mater dolorosa, monumento ai caduti della AlbertLudwigs-Universität (foto di Michael Klant).
che fanno uno) senza interferenza degli antenati (Genesi 2, 24). Fa pure parte del
mistero nuziale la relazione di Cristo con la sua chiesa (Apocalisse 21, 2-4), tema
soggiacente alla nostra analisi allegorica di un’opera scultorea come la Trauernde
Alma Mater (Alma Mater dolorosa) del 1925 (Fig. 1).
«ALMA MATER, STABAT MATER». SCULTURA E POLITICA DEL NOVECENTO IN FREIBURG
307
Nel caso di Freiburg-im-Breisgau e della Germania, si può illuminare il passato novecentesco attraverso l’analisi delle opere d’arte dell’epoca. Crediamo
che l’architettura di una città, compresa la sua componente iconografica, sia in
grado di dimostrare ciò che la storia scritta dagli storici occulta o cerca di negare. Il fatto è che l’architettura, prodotto unico di un tempo e di un contesto, è
in qualche modo non falsificabile, e terribilmente permanente. Il vettore principale di queste pagine è dunque l’architettura stessa della città di Freiburg. Le
fonti testuali sono di secondaria importanza nell’esplorazione di questo archivio che si degrada rapidamente, per mancanza della volontà politica di una conservazione adeguata.
Il tema dello Stabat Mater rivela le virtù che il cristianesimo ha sempre
cercato di trasmettere al popolo privo di strumenti. Comunicate da un’iconografia facile anche per chi non sa leggere, il motivo parla di relazioni umane. Stare in piedi significa determinazione morale e pazienza, tenersi un po’ distante allude a prudenza e rispetto, stare in gruppo significa solidarietà fraterna. Maria, la madre, non stava da sola; era circondata dagli
amici, soprattutto dalle amiche, del figlio crocifisso. Il contesto della prova implica soprattutto umiltà, perché alla madre del Messia non era risparmiata la sorte comune.
C’è poi l’amore incondizionato della madre per il figlio, che permette di sopportare la perdita dello scopo stesso della propria vita (ricordiamoci che Maria è
informata della missione che la attende), l’amore sicuro di cui ha bisogno l’uomo,
per poter assumere il proprio destino sacrificale. Almeno così si traduce nell’iconografia commemorativa militare che ne sfrutta il motivo. Non è un caso che
nel bacino mediterraneo le divinità pagane siano in pari quantità di sesso femminile. Non è un caso che la chiesa cristiana, sia ortodossa che cattolica, abbia
trovato nella persona di Maria, benedetta tra tutte le donne (Luca 1, 42), un messaggio forte da sviluppare.
Se in ebraico Maria vuol dire amara, come la mirra, che ha un’etimologia
analoga, la futura madre dolorosa, archetipo del cristianesimo, era già destinata,
per il suo stesso nome, a portare in sé tutta l’amarezza implicita nella sua sorte.
Stabat Mater è dunque una metafora di una condizione intrinsecamente umana,
mortale; anche se in maniera paradossale la nozione di immortalità accompagna il figlio, sia presente (sul crocefisso cattolico) che assente (nel caso della croce protestante). Lo scultore ebreo meticcio, Richard Engelmann (1868-1966),
convertito a trentasei anni alla fede protestante, sintetizza questi argomenti in
un’opera del 1950, Die Trauernde (La dolorosa), che si trova nel cimitero principale di Freiburg (Fig. 2). Monumento alle vittime dell’aviazione della seconda
guerra mondiale3, mostra una figura femminile in piedi, con la schiena girata a
Cfr. l’iscrizione ambigua sul basamento: den Fliegeropfern des Krieges 1939-1945. Il 10
maggio 1940 l’aviazione militare tedesca ha bombardato per errore la città di Freiburg. Winston
Churchill fu indicato come responsabile.
3
308 CHRISTOPHER M. A. STEAD
Fig. 2 – Richard Engelmann, La dolorosa (disegno di Christopher Stead).
«ALMA MATER, STABAT MATER». SCULTURA E POLITICA DEL NOVECENTO IN FREIBURG
309
Fig. 3 – Franz Anton von Zauner, Tomba imperiale di Leopold II (disegno di Christopher Stead).
una croce gigante. Per il sindaco committente l’atteggiamento esprime la vergogna, pensando ai crimini del terzo Reich4.
Logicamente lo Stabat Mater ci parla di resurrezione. Per cogliere questa implicazione, occorre conoscere i Vangeli. Gesù di Nazareth aveva resuscitato il figlio della vedova di Naïn, e lo aveva fatto5 pronunciando delle parole praticamente uguali a quelle che rivolge alla madre dalla croce: Donna, ecco il tuo figlio6.
Di sicuro, la speranza profonda di Maria, probabilmente vedova (di Giuseppe),
era che lo stesso miracolo capitasse al frutto delle proprie viscere. La speranza e
l’anticipazione investono anche le parole Stabat Mater.
Un esempio particolarmente interessante dello sviluppo del tema si trova
a Vienna in un’opera scultorea del 1795 di Franz Anton von Zauner (17461822): la tomba di Leopold II (1747-1792), nella Augustinerkirche (Fig. 3).
Ricordiamo che dopo la Rivoluzione francese il potere europeo è in piena riconfigurazione, allorché Napoleone Bonaparte sta per invadere il continente
con le sue truppe. La figura militare del giovane imperatore d’Asburgo, vestito
da cavaliere, sonnecchia sul suo letto mortuario in un atteggiamento del corpo
Ute Scherb, Wir bekommen die Denkmäler die wir verdienen, Freiburger Monumente im. 19.
und 20. Jahrhundert, Freiburg-im-Breisgau, Stadtarchiv, 2005, p. 202, Abb. 127.
5
Luca 7, 14.
6
Giovanni 19, 26.
4
310 CHRISTOPHER M. A. STEAD
simile ai Gesù delle Pietà dei seguaci michelangioleschi. Non agonizza. Lo accompagna la figura in piedi di una giovane donna, con il petto materno meravigliosamente messo in valore. Non è la moglie bruttina7, scomparsa anche lei,
del giovane imperatore, ma un emblema del regno ‘eterno’ (sacro, romano, imperiale) degli Asburgo, che continua nonostante la sparizione dei suoi rappresentanti terresti. Ne è prova il simbolo del potere assoluto, che lei (non lui) tiene nella mano, e che corrisponde al dettaglio su un’avorio databile alla fondazione del Sacro Romano Impero (800 d.C.)8, l’autokrateira (che significa imperatrice9) bizantina, conservata nella capitale austriaca10.
A parte l’aspetto teologico che spesso è alla base delle committenze o delle motivazioni delle opere d’arte, abbiamo la dimostrazione che il motivo iconografico si presta a un’interpretazione politica incontestabile attraverso la sua
applicazione ufficiale, rappresentativa dello statu quo cattolico-statale che regnava attraverso l’impero degli Asburgo. Quello che ci interessa rispetto alla
vorderösterreich’sche città di Freiburg-im-Breisgau e della sua architettura è il
modo in cui il motivo icono-spaziale può essere letto come metafora di relazioni che formano un destino: l’Alma Mater spirituale del Freiburg proto-ottocentesco essendo appunto Vienna. In quegli anni, poco prima che Napoleone
sciogliesse il Sacro Romano Impero (primo Reich) nel 1806, il territorio stava
per trovarsi definitivamente separato dall’impero ridotto degli Asburgo, dopo
esser stato oggetto di molteplici scambi strategici per secoli, specie tra le corone di Austria e Francia.
All’interrogativo sul perché la salute mentale sia diventata una preoccupazione preminente dei medici tedeschi nei primi decenni dell’Ottocento la risposta
è evidente. Un vasto impero, con una storia millenaria, il cui imperatore era stato sempre di cultura ‘tedesca’, si era trovato in poco tempo ridotto a una rete di
piccole monarchie provinciali, per la maggiore parte granducati. Gli ufficiali di
questo vasto impero, apparentemente eterno, che godeva del prestigio e dell’autorità morale della chiesa cattolica, si sono trovati a dover mettere in dubbio le
proprie sicurezze e la propria identità. Costretti a inventarsene una nuova, e darsi
uno scopo all’altezza dell’immagine che avevano di sé, si comprende facilmente
come la malattia psichica e la tendenza all’egemonia abbiano potuto svilupparsi velocemente nella Germania ottocentesca. Entro la metà dell’Ottocento l’angoscia collettiva raggiunse una tale tensione che ambizioni violente ci si opposero, di natura ‘rivoluzionaria’ (il 1848 è un anno decisivo) oppure ‘terapeutica’.
La infanta Maria Luisa di Spagna (1745-1792).
Eleanor C. Munro, Pagkosmios Egkyklopaideia tis technis [Enciclopedia Internazionale dell’Arte], trad. (in greco moderno) di Aristidis Aggelis, a cura di Const. P. Calligas, Atene,
Phytrakis, 1964, p. 62. Altri, invece, datano l’opera circa al 500 d.C.
9
Si pensa fosse Aelia Ariadne (ca. 450-515 d.C.), moglie di due successivi imperatori bizantini: Zenon, morto nel 491, e Anastasios I, morto nel 518.
10
Un’opera simile si trova al Museo del Bargello, Firenze.
7
8
«ALMA MATER, STABAT MATER». SCULTURA E POLITICA DEL NOVECENTO IN FREIBURG
311
Sono gli anni in cui la medicina e la politica tedesca, anche a Freiburg, creano
istituzioni11 per trattare persone poco produttive, poco utili all’economia, i malati, i poveri, flagello per una società che si vuole autosufficiente e prospera. Se
il terzo Reich ha potuto realizzare degli orrori, è perché le istituzioni per intervenire in tal senso c’erano già12. Nascono in linea diretta dalla concezione utilitaria e dalla mentalità funzionalista già prevalenti, soprattutto dalla confusione
dell’autorità morale con quella civile, tipica del primo Reich. È difficile disfare
l’auto-convinzione (durata più di un millennio) di vivere e governare nella verità. Non è un caso che la missione che Hitler si era assegnata si esprimesse proprio in termini messianici. Le sue origini austriache e la sua attrazione per l’arte
lo predisponevano alla valorizzazione del potenziale di propaganda insito nelle
manifestazioni artistiche.
Come abbiamo visto il termine stabat indica la posizione in piedi della madre dolorosa. La formulazione in lingua latina indica la natura italica (non greca o orientale) evidenziata poi nella trasformazione, tramite la figura della mater matuta (divinità italica che ha ispirato innumerevoli immagini di madonna con bambino), in pietà buonarrotiana. Nella tradizione astratta bizantina,
dove i dipinti sono privi di spazio, e dunque anche di profondità e di gerarchie
prospettiche, le figure bibliche (Gesù, le madri, i discepoli) potevano apparire
su uno stesso piano senza difficoltà. Per analogia con la lettura testuale (dove la
scansione lineare dell’occhio può fermarsi ad ogni momento e invitare alla contemplazione), un’icona si scrive, non si dipinge. Al contrario, la rappresentazione prospettica già praticata dagli antichi romani (dove l’organizzazione si coglie
in maniera rapida, efficace, ma richiede sforzo per assimilarne i dettagli) corrisponde al loro bisogno di gerarchia. L’osservazione è capitale, perché fa capire
dove l’Occidente è caduto nella trappola dell’auto-rappresentazione come verità, in nome del realismo. La chiesa orientale, non organizzata in maniera centralizzata, perpetua localmente un rito che non cambia, continua a produrre icone a-spaziali dove i santi appaiono beati fino al martirio. La chiesa occidentale,
fedele al modello gerarchico romano, gode invece la resa prospettica e realistica
delle scene biblico-storiche. Celebra all’occasione il pieno orrore della violenza
senza ambiguità, come se fosse necessaria alla giustizia (lo provano oggi i film
dell’ultra-cattolico Mel Gibson).
Ma già all’alba del Cinquecento, questo percorso poneva problemi. La rappresentazione pittorica realista è un filtro in sé, e non corrisponde alla lineari11
Citiamo un solo esempio: la Kreispflegeanstalt (istituzione terapeutica di circonscrizione),
fondata 1853, Engelbergerstraße & Eschholzstraße, Freiburg-Stühlinger, ben prima del secondo
Reich degli Hohenzollern.
12
Accogliendo sempre più persone da quasi 90 anni, l’istituzione di Engelbergerstr. 41. ha
finito per inviarne tante alla morte: deportazione a Berlin Tiergarten, nel 1939 e a Tötungsanstalt
Grafeneck, nel 1940. Ne ha testimoniato l’esposizione über Mutter wird nicht gesprochen... Euthanasiemorde an Freiburger Menschen (di mamma non si parla... l’eutanasia-omicidio di gente di Freiburg) del 2015 (23 aprile-15 maggio) nella Meckelhalle, Sparkasse Freiburg-Nördlicher Breisgau.
312 CHRISTOPHER M. A. STEAD
tà della storia. Ad un certo momento il rigor mortis di un Gesù defunto posto
ai piedi della croce (come è caratteristico delle prime pietà proto-rinascimentali13), che la purezza rituale degli ebrei proibisce alla madre di toccare, non serve
più al messaggio fondamentale del Vangelo, che è la resurrezione. La chiesa romana e il Sacro Romano Impero inventano il barocco, che ammette – anzi esalta – la finzione, la messa in scena, il teatro religioso.
Che interesse c’era, per la chiesa romana sempre più abbandonata dai fedeli
attirati dalla teologia riformista, a rappresentare un salvatore morto, e una donna disperata che non può toccarne il corpo senza vita? Si trattava di trasgredire
questo canone, ed elaborare un’iconografia nuova, adatta ai bisogni promozionali della controriforma. La trasgressività incontestabile di quell’altra Maria, la
Maddalena (rappresentativa di noi stessi) permetteva di ragionare diversamente. Poteva essere più giovane di Gesù… e non si sarebbe fermata, avrebbe osato toccare il cadavere. Maddalena ci fa sognare tutti. Era come la donna che le
religioni italiche hanno sempre rappresentata, fertile e portatrice di speranza.
Così il motivo iconografico privilegiato non sarà più lo Stabat Mater, ma la pietà. Censurato il rigor mortis visibile nelle prime Pietà proto- e rinascimentali,
anche la figura maschile doveva assumere un altro aspetto. Sotto lo scalpello di
Michelangelo (Pietà, 1497-1499)14 il corpo sembra dormire.
Si dimentica spesso che oltre a quelle nominate c’erano tante donne presenti alla crocifissione, scena che gli evangelisti raccontano in maniera diversa.
C’erano almeno tre madri e tre Marie. Ma la presenza della Maddalena è riportata da tre Vangeli15, e ciò ne accresce l’importanza sul piano teologico. In effetti lo Stabat Mater deriva da un’unica citazione (Giovanni 19, 25). Per fedeltà ai testi, occorreva correggere il mater-centrismo iconografico fino ad allora
dominante. Rilevare l’equivoco è importante per capire la trasformazione del
motivo pittorico dello Stabat Mater proto-rinascimentale, dal messaggio austero e disperante, nella pietà manierista o barocca sensuale e riconfortante. La decadenza della chiesa romana si manifestava attraverso una nuova iconografia?
L’interrogazione è particolarmente importante nel contesto di Freiburg. La città imperiale (sacra, romana… non dimentichiamo il breve onore conferito da
Maximilian nel 1497!) era storicamente legata alla vicina Basilea (da dove scappò Erasmo da Rotterdam nel 1529), focolaio di iconoclastia protestante, diffusa tra l’altro sul territorio del Reich. Proprio in questo mondo alemanno, una
disputa feroce (intellettuale ma anche fisica) opponeva partigiani della predestinazione (spesso i contadini riformisti) ai partigiani della libertà (spesso i signori locali cattolici).
13
Si pensi alla Pietà di un ‘Maestro delle Ore di Rohan’, ca. 1418-1425 (Bibliothèque nationale, Parigi). Ms.lat.9471.Heures. Vue 279, folio 135r, su Gallica (6 dicembre 2016), <http://
archivesetmanuscrits.bnf.fr/ark:/12148/cc77494b>.
14
Si veda il tondo a sinistra nella Fig. 5.
15
Matteo 27, 56, Marco 15, 40, Giovanni 19, 25.
«ALMA MATER, STABAT MATER». SCULTURA E POLITICA DEL NOVECENTO IN FREIBURG
313
Fig. 4 – Emil Stadelhofer, La teologia in lutto (disegno di Christopher Stead e foto di
Michael Klant).
Precedentemente intesa come madre, ma ora rappresentativa di tutte le femmine pietose16 della Galilea che si erano occupate di Gesù17, la verosimiglianza dubbiosa della composizione della pietà – un vecchio che si riposa come addormentato nelle braccia di una giovane donna18 – sparisce davanti all’impatto metaforico: il salvatore assume i peccati del mondo (e questo giustifica il suo
aspetto di anziano) mentre la speranza di vita eterna viene simbolizzata dalla
giovinezza femminile. L’opera del Buonarroti sembra indicare l’adozione di un
tale ragionamento, almeno a livello di iconografia ammessa. Detto questo capiamo come gli ecclesiastici romani dell’epoca fossero ben più tolleranti dinanzi alla rappresentazione del corpo femminile di quelli di Freiburg-im-Breisgau
oltre quattrocento anni dopo.
Nel 1920 l’arcivescovado di Freiburg ha chiesto allo scultore Emil Stadelhofer
(1872-1961) un monumento commemorativo in onore dei suoi seminaristi caduti nella grande guerra. La risposta di Stadelhofer fu Die trauernde Theologie
(La teologia in lutto), una derivazione dello Stabat Mater, dove una figura femminile (Fig. 4), coperta da un velo e da altri ornamenti religiosi (come nei primi
Allorché pietà significa in primis compassione, cura e dolcezza, emerge qui anche l’aspetto
di familiarità.
17
Matteo 27, 55 e Marco 15, 41.
18
Il fotografo David La Chapelle (copertina, From Heaven to Hell, Taschen, 2006) ricicla il
motivo mettendo in scena disperazione femminile ed estenuazione maschile con allusioni sessuali
evidenti.
16
314 CHRISTOPHER M. A. STEAD
Fig. 5 – Pietà michelangiolesca a sinistra, Dovere da militare e da cacciatore, a destra (disegni di Christopher Stead).
dipinti sul tema), esprime l’amarezza del suo lutto, ma anche la determinazione della donna giovane (tradita!) a farsi rispettare. Non spera nella resurrezione
dei defunti, ma nella vendetta, nella rivincita sul nemico. L’atteggiamento della
figura, dai seni fieramente rigidi per la rabbia, diede qualche problema all’arcivescovado, che espresse la preferenza per una matrona, una vera mater in lutto,
insomma. Ma Stadelhofer non si arrese.
L’esempio michelangiolesco, seguito da Bernini e da numerosi altri, è un atto
di propaganda controriformista che ha fornito nel tempo un modello canonico per tanti monumenti mortuari e commemorativi (Fig. 5). Il barocco, con l’iconografia teatrale (spesso dipinta) che ne accompagna l’espressione, perdura a
Freiburg fino agli anni Trenta19.
È il caso di ricordare due monumenti ai caduti concepiti su questo modello,
abbastanza simili (e kitsch), che illustrano come, a distanza di soli dodici anni,
un motivo archetipico del mondo cattolico-romano20 potesse essere facilmente manipolato21 dalla politica nazional-socialista. Pur con il rischio di offendere
qualcuno, dobbiamo addentrarci nel lato in ombra del soggetto.
Il passato novecentesco di Freiburg è poco glorioso, e non è il caso di esporre qui i motivi di questa affermazione; ma c’erano degli artisti, e qualche sponsor intelligente, che hanno capito i cambiamenti profondi della società tedesca
Si pensi a Maria-Hilf-Kirche, 1927-1936 (Schützenallee 15, Freiburg-Wiehre), dell’architetto Bernhard Müller-Ruby (1886-1952).
20
Anonimo, Gefallenendenkmal (Monumento ai caduti) dell’associazione studentesca Brisgovia, 1925, nella cappella (Holbeinstraße, Freiburg-Wiehre).
21
Anonimo, Soldatentum u. Jägerschaft (Dovere da militare e da cacciatore), 1937, Kolleg
(vecchia università, Bertholdstraße, Freiburg-Mitte).
19
«ALMA MATER, STABAT MATER». SCULTURA E POLITICA DEL NOVECENTO IN FREIBURG
315
in piena mutazione industriale, economica, sociale e politica. Si pensi allo scultore Ludwig Kubanek (1877-1928), che nel 1912 ha ornato il ponte chiamato Ochsenbrücke22 di gruppi di figure che attestano quella frattura tra i sessi che
abbiamo appena evocato. Sulle testate rivolte alla campagna (verso Haslach) ha
collocato un paio di buoi, simbolo della forza lavoro, l’uno accompagnato da
una figura maschile, l’altro da una figura femminile. Per esprimere armonia, simmetria ed equivalenza degli attori nella relazione uomo-donna nel mondo contadino di una volta. Su quelle rivolte verso la periferia industriale (Stühlinger),
Kubanek ha apposto altre figure, che lottano con delle macchine. Non ci sono
più femmine, ma solo maschi, che visibilmente non vincono, non si realizzano
nella lotta. Siamo molto lontani dell’epoca, e dal sentimento umano, che permetteva a Michelangelo di fare sorreggere un uomo estenuato da una giovane
donna in piena età fertile. Morale a parte, il vero scandalo è che la società tedesca e occidentale sia arrivata a questo divorzio tra Adamo ed Eva23.
Tra le righe della raffigurazione di Kubanek (ora servono solo uomini…) si
legge la domanda: a che servono le donne? Non era una domanda retorica, e
neppure uno scherzo di cattivo gusto, ma il segno di una preoccupazione pressante. Siccome la logica della corsa economica competitiva per la supremazia industriale e politica sboccava regolarmente nella repressione militare e nella guerra (1848, 1870, 1914…), verrà inventato per le donne un nuovo ruolo, messo
in opera con grandi mezzi dai nazionalsocialisti. Farle mater per produrre carne
da cannone, in modo industriale.
L’iconografia scultorea a Freiburg è testimone dell’impatto del programma
nazional-socialista Hilfswerk Mutter und Kind (Opera di sostegno alla madre e al
fanciullo) fondato il 7 aprile 193424, che quasi sicuramente serviva da copertura al programma di procreazione selettiva a favore della razza ariana. Non a caso
nella data che coincide con la legge di un anno prima che ha cacciato gli ebrei,
siamo di fronte a una specie di firma tipica delle abitudini ossessive del Führer25.
Ma già dal 1926 si erano consacrati mezzi medici e infrastrutture importanti a
22
Carl Anton Meckel (architetto), Ludwig Kubanek (scultore), Brenzinger & Cie (ingegneria & costruzione), Spannbetonbalkenbrücke (Ochsenbrücke), 1912, distrutto nel 1972, all’estremità sud della Eschholzstraße, Freiburg-Stühlinger. Le sculture sono state ricollocate sul nuovo
ponte (più ampio, che ne attenua l’impatto monumentale) negli anni Settanta.
23
Il medico e politologo Wilhelm Reich, nel suo testo del 1933 Psicologia di massa del
fascismo (Milano, Mondadori, 1974), tradotto in inglese nel 1942 e ripreso dall’autore stesso
nel 1946, svela ciò che lo scultore Kubanek aveva individuato 21 anni prima (nel 1912), la trasformazione psicologica dell’uomo in macchina, trovandoci le radici di molte malattie psichiche
presso i suoi contemporanei. La scoperta recente di questo testo – ben dopo aver elaborato il
presente articolo – conferma la mia analisi delle opere plastiche, svolta in situ.
24
Esattamente un anno dopo la Berufsbeamtengesetz, prima legge antisemita.
25
La rivincita di Hitler (22 giugno 1940) sull’umiliazione tedesca a Compiègne è famosa.
Meno noto invece è che, ben prima di lui, Bismarck era già ricorso a tali pratiche, dichiarando
il 18 gennaio 1871 la rifondazione dell’impero tedesco a Versailles, sede del invasore storico di
Elsaß (Alsazia) e Lothringen (Lorena), Louis XIV.
316 CHRISTOPHER M. A. STEAD
Fig. 6 – Helmuth Hopp, Fontana alla madre tedesca (disegno di Christopher Stead da
fonti contemporanee d’epoca).
Freiburg con la creazione della Frauenklinik26, la ‘clinica della maternità’, la prima (perché prioritaria) delle tre che progressivamente hanno costituito il campus dell’ospedale universitario (Poliklinikum) detto Lorenzring.
La figura della donna, soprattutto della donna giovane, fertile, ‘materna’,
sarà un’ossessione iconografica nella Germania del periodo tra le due guerre. Lo
scultore NS-simpatizzante Helmuth Hopp (1910-1942) ne ha rappresentata,
sempre nel 1934 una27, leggermente più grande rispetto alle proporzioni naturali, con i seni strapieni di latte materno (Fig. 6). Contemporaneamente Ulrich
Kottenrodt (1906-1984), scultore apprezzato dai nazional-socialisti proprio per
26
Dal momento che Jungfrau o Fräulein significano vergine o signorina, viene necessariamente intesa in quell’epoca l’aspettativa della ‘maternità’ nell’espressione Frauenklinik, clinica
per donne (signore).
27
Helmuth Hopp (scultore) & Carl Anton Meckel (architetto), Zierbrunnen ‘der deutschen
Mutter’ (Fontana ornamentale ‘alla madre tedesca’), 1934. Distrutto ormai il bacino di Meckel,
l’opera, modificata, di Hopp è ricollocata oggi (nel mezzo di un altro bacino) nella piazzetta
Wilhelm-Eschle-Platz, Freiburg-Wiehre.
«ALMA MATER, STABAT MATER». SCULTURA E POLITICA DEL NOVECENTO IN FREIBURG
317
Fig. 7 – Ulrich Kottenrodt, La materna, in mezzo ai due ingressi del Händelwohnheim
(disegno di Christopher Stead da fonti contemporanee d’epoca).
l’ideale razziale che raffigurava, forniva Die Mütterliche (La materna), gruppo
plastico per l’ingresso imponente dell’orfanotrofio delle ferrovie tedesche (Fig.
7), conosciuto come Händelwohnheim28. Tutte e due sono opere di propaganda
per Hilfswerk MuK, senza alcun dubbio. La loro permanenza in città, in quanto
scultura isolata o Bauplastik integrata alla costruzione, tradisce invece qualche
intervento ulteriore, come la rimozione della testa semitica che Hopp fa schiacciare dal bambino a sinistra. Da foto contemporanee, di un bambino già in uniforme militare come il padre, e dall’aggressività infantile che Hopp mette in scena, è ispirata la nostra illustrazione.
Si tratta, in effetti, di sottolineare gli atteggiamenti delle figure e le analogie
formali tra i motivi utilizzati. Realizzato nel 1932-1934, diversi elementi esterni dell’iconografia e dell’architettura del Händelwohnheim suggeriscono, già da
sé, come questo complesso abbia potuto servire al programma di riproduzione
ariana selettiva lanciato proprio in quegli anni. L’integrazione discreta di giovani ‘procreati’ inseriti nella vita cittadina normale come orfani29 succedeva da
qualche parte. La parentela iconografica del fregio che circonda gli ingressi, con
Händelstraße 20.
L’autore ha conosciuto personalmente un individuo nato da questo programma: non ha
mai conosciuto i suoi genitori biologici, era un vero orfano (programmato, non accidentale),
anche se i genitori vivevano ancora.
28
29
318 CHRISTOPHER M. A. STEAD
Fig. 8 – Torbogen (volta di passaggio) del Lorenzring, eretta nel 1937-1938, con sei
sculture di Hopp, Kottenrodt e Stadelhofer (foto di Michael Klant).
motivi a meandro che anche altrove architetti al servizio del regime NS privilegiavano, è già stato osservato. Invece è anche da notare che la tipologia stessa dell’ingresso indica l’affluenza delle persone, come davanti a qualche ‘Grand
Hotel’, e suggerisce una clientela. Quando si sa che il dovere di un ufficiale SS
era di avere quattro figli, anche fuori dal matrimonio, si capisce facilmente che
la figura di Kottenrodt era piuttosto ‘sex-worker’ che madre pietosa. Magari ‘materna’, ma appena madre, lei spinge in avanti i figli come per dire alla clientela:
‘sono vostri, prendeteli e tornate pure a farne altri’.
Pochi anni più tardi, sotto il portale che dà accesso al Lorenzring (architettura contemporanea simile a ciò che il Duce faceva erigere all’EUR, e che Hitler
gli invidiava30), gli stessi Hopp, Kottenrodt e Stadelhofer hanno fornito sei figure antropomorfiche, dal bambino al vecchio (Fig. 8). È interessante notare che
c’è una figura paterna anziana (Kottenrodt, Greis, 1937), ma che le figure femminili sono tutte in età riproduttiva. Non serve una donna anziana nel mondo ideale nazional-socialista. Nessuno spazio sarà concesso alla madre dolorosa,
alla maniera delle prime pietà. Anzi, predomina il messaggio inverso: la femmina si sacrifica, il maschio sopravvive e si gode la vita.
Il nostro tema ci serve dunque come cartina tornasole per capire lo Zeitgeist di
un’epoca. In questa prospettiva una figura ci interessa particolarmente, Trauernde
Alma Mater (Alma Mater dolorosa), una scultura femminile (1925) di Arnold
Rickert (1889-1974), installata su un podio nel 1928 come Gefallenendenkmal
30
Il riferimento romano è esplicito nelle iscrizioni sotto le finestre: MCMXXXVII e
MCMXXXVIII, che sono le date di costruzione (1937-1938).
«ALMA MATER, STABAT MATER». SCULTURA E POLITICA DEL NOVECENTO IN FREIBURG
319
(monumento ai caduti) per l’Università di Freiburg, in una collocazione urbana particolarmente carica di storia (Fig. 9). La Repubblica di Weimar aveva dieci anni e la donna rappresentata è quasi nuda (Fig. 1). Metterla lì è un atto politico e una dimostrazione di coraggio culturale-artistico da parte dell’Università. In primis perché il sito era stato previsto per porvi un busto monumentale
del fondatore della nuova Università, il granduca di Baden Friedrich I (18261907). Secondo, perché era una maniera chiara per sottolineare il cambiamento di regime politico, valorizzando la gente qualunque, senza rango o pretesa al
potere (il corpo nudo esclude l’ostentazione di rango) né appartenenza religiosa31. Terzo, perché dimostra una coscienza acuta dello sviluppo e cambiamento
nel vivere una nuova libertà, a cominciare dal rispetto per l’umanità comune e
le identità individuali e dal riappropriarsi del corpo (non più carne da cannone
qualsiasi, ma oggetto di bellezza plastica). Ricordiamo che oltre l’influenza artistica francese (Despiau, Maillol, Rodin…) assorbita da artisti tedeschi, il nudismo praticato al Monte Verità nella Svizzera Italiana, all’alba del XX secolo,
aveva già interessato parecchi intellettuali di lingua tedesca. Poi praticato anche
in Germania, il nudismo collettivo, Freikörperkultur, si sarebbe sviluppato sotto Weimar, e, ormai ben radicato nelle abitudini tedesche, continuò sotto il terzo Reich, dove poteva anche servire interessi strategici igienisti ed eugenisti (anche se Göring avrebbe cercato senza successo di proibirlo).
Se la nudità della figura di Rickert provocò qualche protesta nei quartieri reazionari e religiosi, è importante capire il significato profondo della scelta, vista
la natura della committenza. L’alma mater studiorum di Freiburg è importante,
per la sua città, quanto lo sono le università di Oxford e Cambridge per le città
provinciali in cui sono situate. La scelta era studiatissima e carica di sfumature.
Poco prima, il giovane pittore Paul Meyerspeer (1897-1983) aveva dipinto da
poco un soffitto monumentale, Das himmlische Jerusalem (La Gerusalemme celeste, 1921-1924) nella chiesa St. Blasius di Freiburg-Zähringen. Un’opera d’arte che tutti potevano ammirare32. L’ispirazione icono-plastica sembra ‘metafisica’ al modo di De Chirico, ma è il testo di riferimento che ci interessa33. Esso
parla della relazione di Cristo con la chiesa, mistica sposa dell’agnello di Dio.
La metafora della città è utilizzata per indicare l’assemblea dei credenti di tutti i
tempi (Apocalisse 21, 4: E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e non ci sarà
più la morte né cordoglio né grido né fatica, perché le cose di prima sono passate).
Ci si può chiedere come, nell’immaginario popolare della Schwarzwald
(Foresta Nera), venisse preparata una sposa (mistica del Cristo) in attesa del co-
La festa di inaugurazione (26/10/1911) della nuova Università nel nuovo Teatro municipale era stata accompagnata all’indomani da celebrazioni religiose nella sinagoga (proprio
accanto), nella Münster (duomo cattolico) e nella Ludwigskirche (tempio protestante). Cfr. Peter
Kalchthaler, Freiburg und seine Bauten, Freiburg, Promo, 2006, pp. 53-54.
32
Visibile sul sito: <orgelbau-winterhalter.de> (30 novembre 2016).
33
Apocalisse 21, 2-4 & 12-14.
31
320 CHRISTOPHER M. A. STEAD
niuge (celeste) per la prima notte nuziale. Già nuda, naturalmente. Questo è il
vero senso dell’aspetto schön geheiligt (bel consacrato34) del corpo scoperto della Trauernde Alma Mater (Alma Mater dolorosa) di Rickert. Che sia già una madre (come indica il titolo dell’opera) e non una vergine (come ha notato un osservatore perspicace) non pone un problema teologico. Cristo ha affrancato dei
peccatori, ha lavato la chiesa nel suo sangue. Le lacrime sono di rincrescimento
per il passato, ma anche di gioia per la liberazione.
Le cose di prima sono passate. Il vecchio regime paternalista è caduto, e il monumento ai caduti dell’Università rispecchia questa duplice verità. Onora la
memoria dei caduti per la patria, ma celebra anche, in quanto sposa mistica di
Cristo, o città celeste (eco di quella sacra, romana, imperiale… cioè la capitale
di Maximilian), la città affrancata (Frei/burg) dalle cose di prima. La scelta della
nudità femminile35, nel rendere la quale Rickert era già stato apprezzato, era un
modo per l’alma mater studiorum di rifiutare i regimi imperiali, gli Hohenzollern
come gli Asburgo, ormai spodestati da una guerra ‘inutile’ (per non dire ‘persa’),
e la censura che aveva caratterizzato la loro ingerenza nella sfera privata. Ogni famiglia con soldati al fronte aveva sofferto della censura della verità operata dalle
autorità militari dei due imperi germanofoni. Nella scelta di una figura nuda c’è
il ricordo della nuda veritas. Lo schiaffo artistico dato in questo modo ai vecchi
maestri del secondo Reich era particolarmente opportuno perché gli eredi della
monarchia granducale Baden (elevata pure ad ‘altezza reale’), Friedrich I (18261907) e il figlio Friedrich II (1857-1928), si erano auto-stimati oltre misura.
Questo dettaglio si coglie nelle loro effigie36 e caricature37, dentro o nei dintorni del Kollegien Gebäude I (edificio collegiale I) firmato dall’architetto Hermann
Billing (1867-1946), sede della nuova Università da loro eretta a Freiburg (Fig.
10). Billing aveva fatto iscrivere nella facciata ovest del complesso di pietra rossa, compiuto nel 1911, «die wahrheit wird evch frei machen», ‘la verità vi
34
«Von der Bibliothek [heute KG IV] aus taucht sie im Profil auf, im Halbprofil, wenn
man vom Theater kommt und wie hell und licht wird vom Alleegarten aus der Eindruck sein!…
Mit klarer, edler Liniensprache sind die Profile geführt; und wie geschmeidig, geradezu schön
geheiligt ist dieser weibliche Körper» / «Dalla biblioteca [ora KG IV] scambia il suo profilo in
mezzo-profilo, mentre se uno viene dal Teatro come sarà luminoso e leggero l’impressione visto
dal viale del parco!… Con chiare, nobili linie sono tratti quei profili; e così flessibile, già bel consacrato è questo corpo femminile» (F. S., Bei Freiburger Künstlern. 1. Arnold Rickert. in Freiburger
Zeitung, 20 marzo 1927, citato in Michael Klant, Skulptur in Freiburg, Kunst des 20. Jahrhunderts
im öffentlichem Raum, herausgegeben von M. Klant, Freiburg-im-Breisgau, Modo, 1998, p. 39).
35
Risonante con le allegorie di Wilhelm Gerstel, sculture ‘edilizie’ ancora in opera all’epoca.
36
Hermann Volz, Erme di Friedrich I & II, ante 1911. Si veda Ute Scherb, Wir bekommen
die Denkmäler die wir verdienen, Freiburger Monumente im. 19. und 20. Jahrhundert, Freiburg-i.Br., Stadtarchiv, 2005, p. 26.
37
Una caricatura scimmiesca davanti alla scalinata di Kollegien Gebäude I potrebbe essere
dell’eccessivamente barbuto Friedrich I (che probabilmente imita il Kaiser Wilhelm I), mentre
nel vano scale un disegno in ottone rivela la probabile caricatura di Friedrich II dagli ostentati
mustacchi (su imitazione forse del cugino Kaiser Wilhelm II).
«ALMA MATER, STABAT MATER». SCULTURA E POLITICA DEL NOVECENTO IN FREIBURG
321
Fig. 9 – Foto di Michael Klant con: Hermann Billing, Kollegien Gebäude (1911, ampliato 1935 e 1955) e Arnold Rickert, Alma Mater dolorosa nel giardino. In alto (dettaglio) la citazione (di Gesù) da Giovanni in relazione alla mater-figura a destra (dettaglio)
e le tracce, sopra il gruppo araldico, della croce uncinata cancellata del 1935. A sinistra:
sito della vecchia sinagoga, ormai piazza, davanti a KG II (Schweizer, 1961).
renderà liberi’38, in lettere maiuscole romane39 estese tra due allegorie di Wilhelm
Gerstel, Wahrheit (Verità) e Freiheit (Libertà), ormai distrutte.
Non tutti quelli che ci passano davanti sanno che le parole sono di Gesù, riferite a se stesso. Questo ‘auto-ritratto’ citato testualmente, assieme alla figura
femminile di Rickert, ci pone davanti a una restituzione concettuale sorprendente. I protagonisti (le immagini del Salvatore e della madre dolorosa) sono riuniti in una relazione prospettica gerarchica, ma allo stesso tempo sono separati
da uno spazio comune, secondo caratteristiche iconografiche che risalgono alla
tradizione dei primi stabat mater. La sorpresa è ‘meravigliosa’ (usiamo l’aggettivo in chiave surrealista) perché c’è qualcosa dell’inconscio collettivo che traspare,
al di là della volontà degli stessi autori. Gerstel, Billing, Rickert… non avevano
probabilmente nessuna intenzione né nessuna coscienza della possibile lettura
che avanziamo qui. Ma è un fatto che alla luce della storia (critica) dell’arte ulteriore, tali letture sono non solo possibili, ma costituiscono una forma autentica
38
Wahrheit (Verità) e Freiheit (Libertà), 1906-1911, allegorie femminili in pietra rossa di
Wilhelm Gerstel (ormai distrutte), incoronavano la facciata. Werkverzeichnis Wilhelm Gerstel
Stand Februar 2013, p. 4, da vedere su <www.wlhelm-gerstel.de> (30 novembre 2016).
39
Iscrizioni ulteriori (1935, sotto Hitler) impiegheranno la altdeutsche Buchstabe gotica.
322 CHRISTOPHER M. A. STEAD
di comprensione della città come opera d’arte complessiva (Gesamtkunstwerk).
Proseguiamo dunque con la possibilità che il tema ci offre di indagare ben al di
là del semplice campo della storia dell’arte, un momento iconografico preciso e
la teologia che lo ispira.
Si tratta di capire il contesto nel quale la Trauernde Alma Mater (Alma Mater
dolorosa) è nata, e il significato della sua collocazione lì, in quello spazio pubblico. Dobbiamo aver coscienza – poco evidente per il turista – che la comunità
ebraica aveva trovato modo di costruirsi una sinagoga (Georg Jakob Schneider,
1869) praticamente intra muros, accanto al futuro sito della nuova Università
(n° 4 nella Fig. 10). Considerati la violenza e l’anti-semitismo40 già presenti nel
secondo Reich tedesco, istauratisi appena dopo la sua costruzione (quale risultato di una guerra breve, ma decisivamente vittoriosa contro la Francia), difficilmente avrebbero potuta farsela autorizzare dopo41. Appena mezzo secolo più
tardi, la proclamazione di «die wahrheit wird evch frei machen» in maniera così ostentata, dinanzi agli occhi di tutti passanti, quale che fosse la loro fede,
era certamente un modo, da parte dei luogotenenti dell’imperialismo protestante degli Hohenzollern in un paese tradizionalmente cattolico e filo-austriaco, di
intimorire i vicini che non partecipavano alla comunione del sangue e del corpo di Cristo, cioè in particolare la comunità israelita.
Hermann Billing, autore o complice delle immagini architettoniche caricaturali dei Baden inserite nella decorazione di Kollegien Gebäude I, era già anziano quando è stato richiamato, più di trent’anni dopo, a intervenire di nuovo
per riparare l’incendio (del 10 luglio 1934, probabilmente doloso) e per sopraelevare di un piano il suo edificio (n. 3 nella Fig. 10). Dicono che Hitler dovesse fare un’apparizione e che bisognasse allestire una sala per questo. Vero o no,
si vede che i lavori si dovettero fare in fretta. La passione con la quale l’architetto aveva curato i dettagli, da Don Giovanni esperto del Jugendstil, si era spenta.
L’architettura è veramente figlia della sua epoca, e nasce da relazioni precise. Il potere nazional-socialista, che il 7 aprile 1933 aveva fatto passare la prima
legge anti-semita42 inducendo alla fuga molti scienziati di alto livello, colse l’occasione per scolpire nella pietra della soprelevazione, a destra dell’iscrizione «die
Notiamo che il Consigliere spirituale (Geistrat) Alban Stolz (1808-1883), chiamato alle
Università di Freiburg e Vienna, era popolarissimo autore della teologia anti-semitica della chiesa
cattolica di lingua tedesca dell’epoca. Onorato ancora oggi in Freiburg sul terreno dell’arcivescovado da un busto (del 1913) dello scultore Emil Stadelhofer, il personaggio di Alban Stolz pone
problemi alla coscienza dell’amministrazione civica della città. È impossibile, in effetti, pensare
che il militante austriaco pangermanista Georg von Schoenerer, concittadino (di Linz) che Hitler
cita come ispiratore nel suo Mein Kampf, non abbia assimilato anche indirettamente le idee di
Alban Stolz.
41
Preparando un alibi perfetto per la futura espulsione degli ebrei, Friedrich I von Baden
aiuterà Theodor Herzl dal 1896 a ottenere da Wilhelm II udienza per fondare lo stato ebraico.
42
Gesetz zur Wiederherstellung des Berufsbeamtentums, detto Berufsbeamtengesetz (legge professionale per servizio civile) è la prima legge NS antisemita con ‘paragrafo ariano’.
40
«ALMA MATER, STABAT MATER». SCULTURA E POLITICA DEL NOVECENTO IN FREIBURG
323
Fig. 10 – Veduta aerea prima del 1934. Legenda: 1) Rickert, Alma Mater dolorosa,
del 1928. 2) Billing, Kollegien Gebäude (KG I), fronte ovest con iscrizione, e Gerstel,
figure di Wahrheit (Verità) e Freiheit (Libertà), del 1911. 3) La parte di KG I che sarà
sopraelevata, nel 1935, dopo l’incendio. 4) Schneider, Sinagoga, del 1869. 5) Seeling,
Teatro comunale, del 1910. 6) Rotteck-Gymnasium, del 1873, sito delle nuove biblioteche universitarie (1978 e 2015). 7) La prima Universitätsbibliothek (KG IV detto CarlSchäfer-Bau), del 1903. 8) Berthold-Gymnasium, del 1866. 9) Bermann Cipri, Aristotele
e Omero, del 1915. Si noti anche la caricatura scimmiesca sul marciapiede antistante
(disegno di Christopher Stead da foto d’epoca).
324 CHRISTOPHER M. A. STEAD
wahrheit wird evch frei machen», una croce uncinata (Hakenkreuz, ben più
che un logo di partito, anche antico simbolo religioso) tridimensionale43, esattamente sopra e sull’asse verticale degli stemmi (monarchici) dei Baden-ZähringenAustria e del monumento ai caduti (repubblicano) di Rickert che gli sta davanti
(Fig. 8 e 9). Pura manovra di ricupero di un’opera d’arte, si può concludere, e lo
era. La sua nudità non dava fastidio alle autorità NS. Già si affidavano ad altri artisti44 che esaltavano il corpo nudo, sia per richiamarsi all’antichità che per esprimere una politica igienista. Ma ben più preoccupante è il vero motivo del recupero. Nel suo compendio The Rise and Fall of the Third Reich, William L. Shirer
ha osservato in diverse occasioni che Hitler aveva un grande senso dell’importanza del calendario, e la pazienza per preparare quanto voleva mettere in opera.
Mentre i suoi colleghi erano pronti a riaprire le ostilità al più presto, Hitler aveva previsto di darsi il tempo perché una nuova generazione nascesse, fosse cresciuta, e resa capace di combattere. Era lo scopo della Hitlerjugend e di altre formazioni. Ma tutto il popolo tedesco doveva essere pronto a sacrificarsi, a sacrificare i figli; a questo scopo i nazional-socialisti avevano previsto di moltiplicare,
per tutto il territorio, manifestazioni in onore dei caduti della grande guerra. Il
Soldatentum & Jägerschaft (Dovere da militare e da cacciatore, anonimo, 1937),
versione kitsch della pietà michelangiolesca citata supra (Fig. 5), è la prova che
il motivo Stabat Mater non aveva finito di sorprendere.
Ma per gli ebrei il calendario di Hitler aveva previsto di peggio. Come molti altri beni israeliti in Germania, la sinagoga di Freiburg fu incendiata nella
Kristallnacht del 9 novembre 1938. Pogrom coordinato nello stesso momento su tutto il territorio, la data scelta era altamente simbolica: veniva vent’anni dopo la capitolazione tedesca (vissuta come un tradimento) e la dichiarazione (unilaterale, mai votata) della instaurazione della Repubblica45 da parte di
Scheidemann. Come abbiamo già visto, la data anniversario è una sorta di firma del Führer. Un modo per fare portare al capro espiatorio individuato (già
da tanti altri prima) la responsabilità del tradimento economico-militare (la cosiddetta stab-in-the-back theory [teoria del colpo fatale in schiena], riassunto diplomatico britannico fatto proprio ipocritamente dal maresciallo Hindenburg)
e portare a compimento il calcolo paziente di Hitler per raggiungere lo scopo
voluto dai suoi congiurati NS nel 1920: recuperare delle risorse (preferibilmente liquide, ma non solo) per finanziare l’ambizione ‘socialista’ e lo sviluppo delle infrastrutture ‘nazionali’, inerenti al loro programma.
La strategia piromane, che ha funzionato più di una volta, persino al
Reichstag46, era di un’incredibile e cinica astuzia, perché ha spazzato via i vanSfasciata poi, ma se ne individuano ancora le tracce (Fig. 9, in alto a destra).
Si pensi ad Arno Breker (1900-1991), a Leni Riefenstahl (1902-2003), a Richard Scheibe
(1879-1964).
45
Destino ironico per un paese di tradizione autocratica.
46
Parlamento, incendiato da Marinus van der Lubbe (secondo Göring, su suo ordine) nella
43
44
«ALMA MATER, STABAT MATER». SCULTURA E POLITICA DEL NOVECENTO IN FREIBURG
325
taggi dei proprietari ebrei, reso impossibile la loro rivincita anche morale, permesso di trasformare dei beni immobili in fonte di liquidità. Göring, abusando
della sua posizione, ha costretto le compagnie di assicurazione a pagare in denaro delle indennità, facili da ricuperare e ridistribuire. La sorte riservata alla famiglia di commercianti ebrei Knopf mostra bene come la ridistribuzione economica e fondiaria avvantaggiò moltissime istituzioni47. Pure l’Università, visto
che il Kollegien Gebäude II (Otto Ernst Schweizer, 1961) trasformava il sito della sinagoga in piazza (Fig. 9).
Per concludere: concepito nel 1920, e oggetto di una precisazione ulteriore pubblicata il 13 aprile 1928 per calmare gli speculatori tedeschi (ovviamente non ebrei), l’articolo 1748 (su 25) del programma del partito nazional-socialista, elaborato dai ‘congiurati’49 di Hitler, ha in effetti durevolmente cambiato
il paesaggio fisico, morale e spirituale del paese, in absentia autoris, nonostante la sconfitta del nazismo. Su questo dobbiamo essere molto lucidi, perché si
tratta di un’ingiustizia, di un’insidia per la Germania contemporanea. In effetti
non si capisce perché i beni sottratti e ridistribuiti non siano stati integralmente resi finora. Il fatto è che ognuno ne approfitta, attraverso le istituzioni di utilità pubblica, e le strutture finanziarie del paese50. La permanenza delle vestigia della città e delle sue architetture, provoca altri interrogativi che l’indagatore onesto deve porsi.
Nel giro dei dieci anni successivi alla sua istallazione nel 1928 per commemorare il sacrificio dei figli dell’Università (fossero studenti, accademici, o altri),
la Trauernde Alma Mater (Alma Mater dolorosa) di Arnold Rickert è stata testimone silenziosa degli eventi e dei comportamenti anti-semiti. Molti sarebbero
stati preparati e amplificati nel teatro comunale (Heinrich Seeling, Stadttheater,
1905-1910) che stava di fronte alla sinagoga (n° 5 nella Fig. 10), i teatri essendo
notte del 27 febbraio 1933, 62 anni e un giorno dopo la fondazione del secondo Reich (Trattato
di Versailles, 1871).
47
Oggi la villa Knopf, del 1927 (Beethovenstraße 8, angolo Silberbachstraße, FreiburgWiehre), ospita un asilo Montessori.
48
Paolo Solari, in Hitler e il Terzo Reich (Milano, Agnelli, 1932, p. 24) lo riassume così: «Una
riforma fondiaria adatta ai bisogni nazionali; creazione di una legge per la gratuita espropriazione
di terreni di pubblica utilità; abolizione dell’interesse fondiario e proibizione di ogni speculazione
sui terreni».
49
Manifesto in 25 punti “elaborato minuziosamente […] da Hitler […] Göring, Frick,
Stöhr, Goebbels, Feder, Reventlow, Jung, Gregor Strasser, Stürmer (sic*), Frank, Rosenberg ed
altri” (cfr. Solari, p. 28). Quelli che l’hanno firmato giurarono di morire piuttosto di smettere la
lotta per ottenere la realizzazione degli scopi del programma. (Strasser sarà pure assassinato da
alcuni suoi congiurati ne primi di luglio 1933). *Supponiamo che Solari si sia sbagliato, riferendosi forse a Julius Streicher, fondatore nel 1923 dell’organo antisemitico di partito, Der Stürmer.
50
Una banca locale, la Sparkasse Freiburg-Nördlicher Breisgau, ha raccolto, in eredità di commerci falliti, la proprietà fondiaria del Warenhaus S. Knopf, confiscata ai proprietari ebrei nel
1937, diventata Kaufhaus Richter (bombardata nel 1944), oggetto di restituzione parziale (50%)
agli eredi sopravvissuti nel 1949; ricostruita nel 1954 dall’architetto Alfred Geise per Kaufhaus
für Alle, in fine distrutta nel 2011, in occasione di lavori sulla sede bancaria.
326 CHRISTOPHER M. A. STEAD
gli auditori preferiti per la propagazione delle idee nazional-socialiste. L’auditorio
dello Stadttheater sarà persino trasformato, pochi mesi dopo la Kristallnacht51,
dall’architetto Joseph Schlippe (1885-1975) e dall’ingegner Thiersch per creare
uno spazio privo di colonne, utile per motivi di sorveglianza e controllo. Questo
interno rimane ancora, e va bene così. Ma la motivazione della sua forma ‘moderna’ si dovrebbe, però, ricordare in permanenza.
Costruito originariamente alla periferia della vecchia città, il sito della sinagoga aveva acquistato un valore fondiario considerevole, vicino a scuole prestigiose, al teatro comunale, e ultimamente alla nuova Università. Un’assonometria52
presenta il progetto di Billing53, accanto alla sinagoga di Schneider, circondato di viali alberati (Fig. 11): un disegno di ambiente urbano piuttosto gradevole. Questo spazio pubblico aveva assunto un accresciuto ruolo civile e un’importanza simbolica per la città di Freiburg, superiore a quella di un tempo, legata a istituzioni a vocazione nobile, non solo educativa, ma anche caritativa
(la federazione internazionale della Caritas si era trasferita in un ex hotel nelle vicinanze, ugualmente firmato da Billing54). La Trauernde Alma Mater (Alma
Mater dolorosa), posta al centro di questa composizione architettonica di grande fattura urbana, sarà danneggiata (perderà la testa) nei bombardamenti britannici Tigerfish del 24 novembre 1944. Realizzata in coquina (Muschelkalk) era
già sfuggita miracolosamente alla sorte di suoi vicini illustri: l’Homer (Omero)
e l’Aristotel (Aristotele), opere in bronzo del 191555 di Adolfo Bermann Cipri
(1862-1942), fuse per farne armamenti. Il restauro delle opere (copie da gessi
conservati per i Bermann Cipri), così come la costruzione, per ben due volte,
di nuove biblioteche universitarie (su progetti dello studio tecnico dell’Università, 1978; poi di Heinrich Degelo, 2006-2015) al posto della scuola distrutta,
significa che la permanenza di manufatti culturali supera la distruzione bellica,
e si pone come un ponte che permette alla civiltà di continuare il proprio sviluppo, malgrado gli orrori.
Emerge insomma che il tema dello Stabat Mater può rivelarsi una chiave di
lettura di fenomeni apparentemente sparsi, ma legati dal significato che possiamo trarre da un’analisi di elementi tangenti, di ordine teologico, iconografico,
architettonico, spaziale, gerarchico, storico, politico, economico e anche mediLa trasformazione era compiuta nell’estate 1939, e Hitler dichiarerà la guerra il 1° settembre successivo.
52
Ferdinand Keller, 1911, per lo studio Hermann Billing da vedere su <www.mediatum.
ub.tum.de/1199776> (27 novembre 2016).
53
Il disegno di Keller è anche riprodotto in AAI, Notizien aus dem südwestdeutschen Archiv
für Architektur und Ingenieurbau an der Universität Karlsruhe, N°3, Hermann Billing, Architekt
zwischen Historismus, Jugendstil und neuem Bauen, Januar 1998, p. 10. Qui ringraziamo il Dr.
Gerhard Kabierske (KIT) per le ulteriori precisazioni.
54
Park Hotel Hecht, ampliato da Hermann Billing nel 1905 (angolo Werthmannstraße e
Belfortstraße).
55
Installate invece nel 1921, dopo la Grande Guerra.
51
«ALMA MATER, STABAT MATER». SCULTURA E POLITICA DEL NOVECENTO IN FREIBURG
327
co. La città stessa è testimone della ricchezza straordinaria di questi strati di significato, specie quando si incontrano tutti in una singola opera d’arte, come
quella che abbiamo scelto di esaminare. Già lo sapevano i romani: la collocazione di un’opera scultorea rappresentativa importa quanto il suo merito artistico... perché si tratta di trasmettere il segno di una volontà politica. Stranamente
sono entrati nel nostro percorso – è la scoperta della città-archivio che vi ci conduce – anche l’apocalisse, la guerra, la propaganda militare, la megalomania, la
malattia mentale, che non sembrerebbero a prima vista cose pertinenti. E anche l’anti-semitismo e la misoginia, e le loro radici economiche nello specifico
contesto industriale del secondo impero tedesco (Kubanek ha visto chiaro all’epoca) e della sua egemonia, che è costata tanto all’Europa.
La Trauernde Alma Mater (Alma Mater dolorosa) di Rickert ci ricorda che una
terza via – non quella barocca dei suoi contemporanei56, nostalgici della grandezza imperiale, nemmeno il modernismo astratto dei ‘progressisti’ razionalisti contemporanei (Neues Bauen, Bauhaus ecc.) – si praticava a Freiburg-imBreisgau, ponendosi come degna rappresentante di una visione sociale, intellettuale e artistica possibile nella Repubblica di Weimar: quella della città degli affrancati dalle cose di prima.
56
Rickert ha anche eseguito opere scultoree inserite in opere architettoniche dei due architetti (Meckel e Lorenz), principali esponenti del ‘terzo barocco’ a Freiburg, già dal 1924.
*
Ringrazio particolarmente Michael Klant per la sua disponibilità e la gentile concessione
della riproduzione del suo materiale fotografico. Peter Falk e Katharina Seibel per le informazioni
e le osservazioni preziose. Senza il libro di Ute Scherb, che Ueli Ecker dell’Archivio Comunale
di Freiburg mi ha dato, non avrei potuto intraprendere questo lavoro. Infine ringrazio Susanna
Boschi e Anna Dolfi per aver riletto il mio testo e mia moglie Evanghelia Stead per aver insistito
perché lo scrivessi.
Fig. 11 - assonometria di Ferdinand Keller, 1911, per lo studio Hermann Billing (bill-171-13, Architekturmuseum der TU München, Monaco
di Baviera). Indicate in facciata le sculture di Gerstel, gli stemmi del regime monarchico committente, e le figure (non ancora realizzate) di
Bermann Cipri. L’ulteriore Gefallenendenkmal (monumento ai caduti) di Rickert nello spazio di prato rimasto vuoto all’angolo, davanti alla
facciata ovest.
ICONOGRAFIA DEL LUTTO E «MATER DOLOROSA» NELL’ESTETICA
COMUNISTA ALBANESE. INTERVISTA A GEZIM QENDRO
Marco Mazzi
Nell’arte e nella società comunista albanese esisteva ancora il tema della Mater
Dolorosa?
Se dobbiamo tracciare la presenza del tema della Mater Dolorosa e della Pietà
nella tradizione dell’arte cristiana albanese (sia ortodossa che cattolica) bisogna
prendere in considerazione innanzitutto la travagliata storia del cristianesimo albanese, durante la quale si registra la distruzione di molte chiese, la loro trasformazione in moschee (dopo l’invasione ottomana del XV secolo) e soprattutto
il vandalismo subito da molti oggetti di culto dopo 1967, l’anno dell’abolizione della religione da parte del regime totalitario d’ispirazione marxista-leninista, che portò alla distruzione di molti affreschi, icone e opere dell’arte cristiana.
Ci sono non poche ragioni che ci portano a credere che il tema della Mater
Dolorosa fosse il soggetto di molte opere, data l’importanza rivestita in Albania
dal culto mariano, soprattutto al nord e al sud del paese. Nella sua monografia La geografia ecclesiastica dell’Albania1, lo studioso gesuita Fulvio Cordignano
(1887-1951) pubblica l’elenco di 275 chiese, tra la fine del XVI e la metà del
XVII secolo, più della metà delle quali erano dedicate a quattro santi: al primo
posto vi è Maria Santissima, con 42 chiese. Il giorno della sua nascita si celebrava in tutta l’Albania nel mese di agosto invece che l’8 settembre, a causa della
differenza tra il calendario ortodosso e quello cattolico.
La presenza del culto della Vergine nella cultura albanese si manifesta anche nelle leggende legate al suo nome. La più conosciuta è quella del volo miracoloso della sua immagine che, dalla chiesa del castello di Scutari, al momento dell’entrata degli ottomani (1478), si portò a Genazzano, nella chiesa della
Madonna del Buon Consiglio, dove si trova ancora. Data dunque l’importanza del suo culto tra gli albanesi, è naturale ritenere che in tutte le chiese consacratele ci siano stati sicuramente molti quadri, icone o affreschi, dedicati anche
1
Fulvio Cordignano, Geografia ecclesiastica dell’Albania. Dagli ultimi decenni del secolo XVI
alla metà del secolo XVII, Roma, Pont. institutum orientalium studiorum, 1934.
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
330 MARCO MAZZI
al tema della Mater Dolorosa e della Pietà. Ma di tutte quelle opere è oggi rimasto pochissimo.
Il calvario più duro la devozione a Maria lo subì sotto il regime totalitario.
Per ragioni ben comprensibili, il suo culto e i temi attinenti erano banditi dalle opere ammesse nelle esposizioni organizzate secondo il calendario delle festività del regime albanese, compreso anche il periodo antecedente il 1967, quando la religione e le sue istituzioni erano tollerate come un pericoloso residuo
del passato, oscurantista e medievale, che poteva danneggiare il sano sviluppo
dell’homo socialisticus, la creatura concepita nei laboratori della propaganda del
regime. Ma il destino di quelle opere era ormai segnato. Era soltanto questione di tempo, come infatti avvenne. Ecco perché le opere di soggetto religioso
si trovavano esposte solo negli spazi pubblici e privati delle istituzioni religiose,
escluse dall’attenzione dei critici e degli studiosi dell’arte albanese.
Della guerra intentata dal regime alle istituzioni religiose faceva parte anche
la proibizione di pubblicare cataloghi o libri di soggetto religioso. Anzi, vista la
severa sorveglianza esercitata dai meccanismi di controllo sulla produzione artistica, come le commissioni della Lega degli Artisti o altre istituzioni, era inimmaginabile per un pittore presentare agli organizzatori di eventi artistici e alla
commissione della Lega degli Artisti, invece di un’opera che trattava un soggetto che figurava nella lista dei temi proposti per l’esposizione, un’opera di tema
religioso come la Mater Dolorosa o la Pietà. Sarebbe stato un suicidio artistico.
Dopo il 1967, poi, questo tema divenne tabù, perché la nuova Costituzione considerava la propaganda religiosa un grave delitto, punito con pene severe, inclusa la condanna a morte.
Per tornare alla domanda iniziale, possiamo concludere che nella tradizione
dell’arte cristiana albanese il tema della Mater Dolorosa e della Pietà è stato sicuramente presente. Dopo il 1944 e fino al 1967 è stato confinato negli ambienti
ecclesiastici, proibendo ogni riferimento esplicito all’argomento, mentre dopo
il 1967 è stato proibito anche di esporre al pubblico opere di questo genere.
Che significato può avere il dolore per la perdita di un figlio in circostanze naturali
(una disgrazia o una malattia) o per la perdita ‘politica’ di un figlio che, per esempio,
ha partecipato alla Resistenza e alla lotta partigiana? Ci sono queste distinzioni
nell’arte e nel sentire collettivo del periodo comunista albanese?
Bisogna precisare fin dall’inizio che il sentire collettivo degli albanesi di quel
periodo nei confronti delle esequie non coincideva per nulla con i modelli di
comportamento, i rituali e le cerimonie imposti dalla propaganda del regime. La
lamentazione di un figlio morto per cause naturali non faceva eccezione. Come
per tutte le mamme del mondo, la perdita di un figlio era un evento tragico che
segnava per sempre la vita. La disgrazia diventava ancor più dolorosa se teniamo
conto dell’importanza che aveva un tempo il figlio maschio nella cultura tradi-
ICONOGRAFIA DEL LUTTO NELL’ESTETICA COMUNISTA ALBANESE
331
zionale albanese, soprattutto nella parte rurale del paese. La sua perdita portava conseguenze talvolta disastrose, perché poteva lasciare la famiglia senza protezione, specie quando sorgevano questioni di proprietà, di cui il figlio era l’unico erede. Malgrado oggi siano avvenuti molti cambiamenti, talvolta radicali,
nella mentalità vigente nella comunità albanese, e la differenza tra figli maschi e
figlie femmine si sia molto ridotta, soprattutto nella società urbana, la si riscontra però ancora nella mentalità e nelle usanze della popolazione rurale.
Per quanto riguarda i riti funebri, la differenza col periodo precedente la
Seconda guerra mondiale sta nel fatto che il regime marxista-leninista nel dopoguerra non incoraggiava la presenza di preti ortodossi, sacerdoti cattolici o
imam mussulmani in queste cerimonie, mentre dopo il 1967, l’anno dell’abolizione della religione, la lamentazione di un figlio defunto diventò una cerimonia puramente laica e familiare. Ma di tutto questo non troviamo nessuna traccia nell’arte del realismo socialista. Quali possono essere le ragioni di questa assenza? Se avessimo fatto questa domanda a un addetto culturale di quel periodo, la sua risposta probabilmente sarebbe stata che il dolore e il lamento di una
madre per la perdita naturale o accidentale di un figlio non si consideravano un
soggetto degno di essere rappresentato in un’opera d’arte del realismo socialista.
Ma per quali ragioni? Dato che il regime non ha mai chiarito i motivi di questa
assenza, tocca a noi adesso, dopo venticinque anni, indovinare queste ragioni, e
soprattutto quella della trasformazione del lamento di un figlio ucciso in guerra in una Pietà senza Maria.
La ragione principale, secondo me, va cercata nella dialettica tra amore sacro
e amore profano. La lamentazione del figlio morto per cause naturali era legata dalla propaganda all’amore profano, il quale, secondo gli ideologi del regime,
era di rango inferiore rispetto all’amore ‘sacro’, concetto che includeva un elenco di amori esaltati dal regime, come l’amore per la patria socialista, per il partito comunista, per l’ideale del comunismo eccetera. Un caso interessante nella
storia della guerra di liberazione nazionale, in cui troviamo la relazione tra questi due amori, il loro conflitto e la loro dialettica, è quello del martire comunista
Gjikë Kuqali, arrestato dai nazisti nel 1944 e fucilato poco dopo nel campo di
concentramento di Pristina. Il più celebre scultore del regime, Kristaq Rama, ha
creato nel 1974 un’opera nella quale compaiono, scolpite alla sinistra del ritratto dell’eroe, le parole da lui scritte in una lettera alla fidanzata alcuni mesi prima della morte: «Io amo il mio Partito, ti amerò solo se ami il Partito». L’amore
profano per la fidanzata era subordinato all’amore sacro che lei doveva avere
per l’ideale comunista e per il partito, l’avanguardia composta da militanti scelti dalla storia per salvare gli oppressi del mondo dalla miseria, dallo sfruttamento, dall’ingiustizia sociale. Le sue parole diventano più significative se leggiamo
la loro corrispondenza, conservata nell’Archivio di Stato, dove lei si esprime talvolta criticamente nei confronti delle azioni e degli abusi dei dirigenti del partito comunista. Gjikë Kuqali è diventato un eroe non perché abbia fatto particolari atti di coraggio. Era un militante attivo, ma ci sono stati altri compagni
332 MARCO MAZZI
che hanno contribuito molto più di lui, senza diventare il soggetto di un’opera d’arte. È stata solo quella frase che ha sancito il suo status di eroe. Tra l’amore profano per la fidanzata e l’amore sacro per l’Ideale comunista, non ha avuto nessun dubbio. Questo era il modello proposto dal regime: sull’altare dell’amore sacro per l’Ideale comunista, ogni altro amore profano doveva sacrificarsi.
Non per caso, uno dei segni quasi impercettibili che il regime stava per crollare si manifestò in un dipinto a cui, al tempo, molti non fecero caso. Nel dicembre del 1990, alcuni mesi prima della caduta del regime, il noto pittore albanese Besim Tula raffigura in un quadro la cerimonia della morte di sua madre. Nello spazio di una semplice camera si distinguono le silhouettes di donne
velate che stanno sedute silenziose attorno alla salma della defunta. All’inizio la
commissione ufficiale avrebbe voluto escluderla dall’esposizione, ma poi, forse
perché sentivano che la fine del regime era vicina, hanno dato il permesso. La
morte (fisica) e la lamentazione di un membro della famiglia riapparivano per la
prima volta dopo decenni di assenza. Nel quadro, con ogni evidenza, non si trova
nessuna traccia della retorica visuale del realismo socialista, dell’eroismo, oppure del discorso tanatologico della speranza di cui parleremo dopo. Quest’opera
era sintomatica che qualcosa era cambiato nell’attitudine del potere nei riguardi della morte di una persona comune. Solo alcuni anni prima la richiesta di
esporre un simile quadro sarebbe stata considerata un grave errore che avrebbe
fatto cadere in disgrazia l’autore.
Del tutto diverso era il trattamento della lamentazione di un eroe di guerra. Nel mio libro Le surréalisme socialiste ho accennato all’isomorfia tra il paradiso terrestre del realismo socialista e il paradiso celeste delle religioni abramiche. Nel giardino dell’Eden albanese mancavano alcuni degli elementi che non
si trovano nemmeno nel paradiso biblico: la morte (del corpo organico), le nuvole e la pioggia, la sensualità, il denaro, la quotidianità, il lusso, la disobbedienza all’autorità, l’edonismo, l’amore profano. In quasi cinquant’anni di tradizione dell’arte del realismo socialista, la Morte non ha potuto lasciare nell’arcadico paradiso socialista il suo biglietto da visita con le parole Et in A(lban)ia
ego, parafrasando le celebri parole che i pastori dell’Arcadia bucolica rappresentati nella famosa tela di Poussin stanno leggendo sorpresi scolpite su una roccia.
Nel caso di un giovane caduto in guerra, oppure per difendere la proprietà socialista (come è successo in alcuni casi), si tratta di una Pietà senza Maria. Il posto
della madre, con la benedizione del potere politico, era occupato dai compagni
del defunto, militanti dello stesso ideale. Solo a loro spettava il diritto di stargli
accanto, di partecipare al rito del passaggio, non lamentandone la perdita, ma
pronunciando parole di fiducia e di fierezza per l’atto eroico del loro compagno.
Un’altra caratteristica attinente alla gerarchia tra amore sacro e amore profano era l’esclusione della quotidianità dall’arte del realismo socialista. Una persona defunta poteva diventare soggetto di un’opera d’arte solo se aveva compiuto
qualche atto di eroismo, di coraggio estremo nella difesa della patria, del Partito
comunista, della proprietà collettiva eccetera. Ecco perché la morte come par-
ICONOGRAFIA DEL LUTTO NELL’ESTETICA COMUNISTA ALBANESE
333
te della quotidianità, come lutto e lamentazione del defunto da parte della famiglia, compresa la madre, non era vista come degna dell’attenzione degli artisti del realismo socialista.
Malgrado nella nostra cultura la morte e la speranza si escludano a vicenda
(la speranza è l’ultima a morire!), il cimitero dei Martiri non era percepito dalla
propaganda ufficiale del regime come un topos dove si annientava ogni discorso sulla speranza. Questo riguardava solo il caso della morte naturale. Se diamo
credito a Foucault, il cimitero come spazio eterotopico «presenta, reinterpreta
e rimodella la relazione dell’uomo con la natura»2. Lo stesso si può dire anche
del rapporto del potere politico totalitario con la morte. Sulla base della capacità dello spazio eterotopico del cimitero di «mettere in dubbio, oppure rovesciare le relazioni sociali»3, cercheremo di allargare il concetto di spazio eterotopico includendovi una ulteriore tipologia: il cimitero dei Martiri della Guerra
di Liberazione Nazionale, eretto ovunque in Albania sotto il regime totalitario.
Proprio nel processo della ricreazione fenomenologica dello spazio eterotopico
nel Cimitero dei Martiri la propaganda cercava di scoprire un potenziale di speranza, d’ottimismo e di fiducia nel futuro radioso dell’umanesimo.
Questa tipologia di cimitero e il suo potenziale educativo avevano un’origine antica, dalle tombe dei martiri greci alle catacombe dei primi cristiani di
Roma, mentre nel periodo moderno il primo soggetto politico a capire perfettamente il potenziale propagandistico di questi spazi eterotopici furono i giacobini francesi. Fu proprio Jacques-Louis David, il grande pittore neoclassico,
che consigliò alla Convenzione di trasformare i Cimiteri dei Martiri, per mezzo di opere d’arte, in luoghi che potevano contribuire all’educazione delle nuove generazioni. Non a caso, nei programmi delle scuole elementari e superiori
in Albania erano previste visite nei Cimiteri dei Martiri dove partigiani ex combattenti raccontavano ai bambini storie di sacrificio e di abnegazione dalla vita
dei caduti, alcuni dei quali erano stati loro compagni. Queste visite miravano a
fissare nelle menti dei bambini il senso tipicamente religioso della riconoscenza
che i piccoli dovevano sentire nei confronti del sacrificio dei martiri. La forza e
il peso psicologico di questo dovere di riconoscenza stava nel suo carattere puramente astratto e retorico che rendeva inappropriati ogni domanda o dubbio.
È chiaro che questi cimiteri non erano progettati solo come memento mori, ma
soprattutto come spazi che generavano legittimità politica.
Diventa cosi ben chiaro che la lamentazione della madre per il figlio morto per cause naturali non poteva coincidere col concetto della tanatologia della
speranza. La disperazione, la commozione, le lacrime, le parole strazianti della
mamma si percepivano come debolezza, agli antipodi dell’atteggiamento eroico
2
Michel Foucault, Le corps utopique, les hétérotopies, avec une présentation de Daniel Defert,
Paris, Lignes, 2009, p. 34 (traduzione nostra).
3
Ibidem.
334 MARCO MAZZI
espresso nelle parole di una famosa canzone delle brigate partigiane: «e la mamma disse / beata me, mio figlio è stato ucciso per la libertà».
Com’è rappresentata (se è rappresentata), nell’arte del periodo comunista, la madre
che piange il figlio morto? Ci sono monumenti che raffigurano questo tema e che
rapporto hanno con l’arte sacra occidentale?
L’intento di sfruttare il potenziale politico della speranza nel futuro legata alla
morte eroica ha creato, come abbiamo detto, il concetto della Tanatologia della
Speranza, che di primo acchito dà l’impressione di un ossimoro. Una delle opere in cui si esprime in modo evidente il tema della Pietà senza Maria e della tanatologia della speranza è il gruppo scultoreo Gli amici, opera di Odhise Paskali,
uno degli scultori più conosciuti in Albania. Nel monumento, situato a Përmet
all’interno del cimitero dei partigiani caduti per la liberazione del paese, si rappresenta l’atteggiamento afflitto, ma contenuto e pieno di dignità, dei compagni
del partigiano caduto dinanzi alla sua morte. Il discorso tanatologico è rafforzato non soltanto dalla somiglianza sorprendente dello schema compositivo del
monumento con quello del soggetto della Pietà, ben noto all’arte cristiana, ma
anche dal ritratto del partigiano che, con la bocca semiaperta e gli occhi volti al
cielo, ci ricorda l’Ecce homo di Guido Reni. Il piedistallo del monumento assomiglia nella forma e nella funzione ai cumuli di pietre eretti per fungere da altare di un sacrificio. Il partigiano, sembra dichiarare l’autore dell’opera, ha sacrificato la propria gioventù sull’altare della libertà, ma la sua morte porta speranza
e salvezza per gli oppressi. Così non possiamo non dare credito a Foucault quando afferma: «il corpo umano è l’attore principale di tutte le utopie»4.
L’interconnessione spaziale eterotopica creata dal contesto (il cimitero dei
martiri) e dal testo (il monumento) poggia soprattutto sulla dialettica del visibile e dell’invisibile del corpo umano. Proprio qui si trova un’altra ragione per
cui la lamentazione di una madre per il figlio morto per cause naturali non era
prediletta dalla propaganda.
Nella tradizione dell’Addolorata e della Pietà Maria lamenta la morte del corpo organico del Figlio, benché per i fedeli cristiani non vi sia nessuna ragione di
addolorarsi, perché sanno che grazie alla sua natura divina esso risuscita dopo tre
giorni. Perché l’autore del monumento non poteva inserirvi la madre del partigiano che compiangeva suo figlio? Eppure ne ha avuto sicuramente una. La ragione è la stessa. Sua madre poteva lamentare la morte del suo corpo organico,
ma il suo corpo politico, legato all’immortalità dell’Ideale comunista, quello non
si doveva compiangere. Perché, secondo la propaganda totalitaria, il corpo po-
4
Michel Foucault, Different Spaces [1967], in James D. Faubion (ed.), Aesthetics, Method,
and Epistemology: Essential Works of Foucault, London, Penguin, 1998, II, p. 175.
ICONOGRAFIA DEL LUTTO NELL’ESTETICA COMUNISTA ALBANESE
335
litico non muore mai. È lo stesso ragionamento di Ernst Kantorowicz nel suo
famoso libro I due corpi del re. Il partigiano, come Cristo, ha due nature, una
organica, inserita nella relazione spazio relativo-tempo lineare, che si muove in
una realtà fisica percepita dai sensi, e una natura politica. Il partigiano del monumento trascende lo spazio convenzionale perché possiede anche «un corpo
dal quale fuoriescono e irradiano tutti i possibili luoghi utopici»5. L’essenza del
suo corpo politico è il suo sacrificio, in chiaro parallelo col martirio di Cristo.
La somiglianza del suo corpo politico con la natura divina di Cristo va oltre. Il
partigiano ha dato la vita per la felicità e la sicurezza altrui, la sua anima è pura,
non è colpevole di nessun reato contro la società e – la cosa più importante – la
sua morte porta salvezza e speranza nella vita degli altri. Non a caso nel testo di
una canzone popolare dedicata ai martiri della guerra si trovano queste parole
di chiara connotazione religiosa: «Il vostro sangue è diventato luce!».
Importante è in questo caso la radice etimologica della parola «martire», che
come è noto deriva dal greco martyr, testimone. Il partigiano non può essere un
testimone oculare, perché evidentemente ha perduto la possibilità di vedere la
società comunista. Ma è solo il suo sacrificio, solo il suo martirio a rappresentare la persuasiva testimonianza di qualcosa di sublime che gli altri non riescono a vedere, ma il cui valore è molto più prezioso della vita stessa. Diventa così
chiaro il motivo per cui la presenza della madre che piange la morte del corpo
organico del figlio sarebbe stata del tutto indesiderabile per il potere totalitario.
L’immagine del corpo morto, la fisicità del cadavere e tutti i dettagli macabri a
esso legati avrebbero sicuramente vanificato tutto il potenziale della propaganda. Solo il corpo politico interessava al potere stalinista albanese: e quello, secondo la sua dottrina, non si compiange, perché immortale.
Tirana, ottobre 2016
5
M. Foucault, Utopia body, Sensorium (Embodied Experience, Technology and Contemporary
Art), edited by Caroline A. Jones, MIT Press edition, f. 233, 2006, f. 233 (traduzione nostra).
336 MARCO MAZZI
Odise Pascali (1903-1985), Gli amici (1972, cimitero dei Martiri della resistenza di
Pérmet).
GUERRA DI MAFIA E MADRI IN LUTTO
Giulio Bogani
Con questo intervento si propone una lettura della figura della «Stabat Mater» in
chiave contemporanea, in relazione all’immaginario antimafia. Per far ciò ci si avvale della documentazione fotografica prodotta negli anni Ottanta da Letizia Battaglia
a Palermo. L’uso di questo genere di fonte non solo ci restituisce con immediatezza
i caratteri della violenza mafiosa durante la seconda guerra di mafia, ma permette
anche di ricostruire lo sviluppo della resistenza civile alla mafia di cui la Battaglia
e le sue foto sono espressione. Dopo averne ripercorso le tappe, ci si concentrerà quindi sulla figura di Felicia Bartolotta-Impastato, madre di Giuseppe Impastato, ucciso
da Cosa Nostra nel 1978. Il lutto di questa donna, nato da un delitto mafioso, non
è più quello privato di una madre che piange il figlio morto, ma coinvolge la società
civile e diviene viva testimonianza antimafia. Il lavoro fotografico della Battaglia
fissa questa metamorfosi e permette di evidenziare come venga a rompersi la figura
arcaica della mater dolorosa.
Questo scritto nasce all’intero di un progetto di ricerca più ampio che riguarda l’evoluzione del discorso pubblico antimafia e la sua strutturazione su caratteristiche dicotomiche bene/male, tendenti a rappresentare la mafia come male
assoluto1. In questo ambito, complice anche una certa passione per la fotografia,
mi sono più volte confrontato con gli scatti di Letizia Battaglia e, pur non osando avventurarmi in un approccio semiotico di lettura dell’immagine, ho sperato in diverse occasioni di usare quelle immagini come fonti per la ricostruzione
della storia culturale dell’antimafia. Questa vuole essere quindi un’opportunità per iniziare a inoltrarsi in questa direzione, consci tuttavia che lo studio della rappresentazione fotografica è subordinato a una duplice lettura. Come nota
anche Giovanni De Luna: «trasportata all’interno degli ambiti disciplinari della storia, l’immagine acquista una nuova vita, diventa più complessa, organizza le sue informazioni in molteplici livelli: il primo è l’oggetto rappresentato, il
1
Cfr. Jeffrey Alexander, La costruzione del male. Dall’Olocausto all’11 settembre, Bologna, il
Mulino, 2006.
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
338 GIULIO BOGANI
secondo è quello legato alla cultura, e alla mentalità di chi la produce e all’ambiente in cui è inserito e così via»2.
Soffermarsi sulle immagini della Battaglia è particolarmente rilevante perché
esse sono frutto di una precisa volontà di resistenza culturale che rompe con una
tradizione di cronaca asettica. Per la prima volta, in Sicilia, ci troviamo di fronte
a un fotogiornalismo di dichiarata militanza antimafia (e non a caso la reporter
sarà oggetto di ripetute minacce). Questo scarto è sottolineato anche nei titoli dei due libri su cui mi sono basato: essi raccolgono alcune delle più note immagini immortalate dalla Battaglia durante e dopo la guerra di mafia degli anni
Ottanta: Dovere di cronaca3 e Passion, Justice, Freedom, Photography of Sicily4.
Come noto, infatti, tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni
Ottanta, a Palermo si sviluppò un dilaniante conflitto tra cosche mafiose5 in
lotta per il controllo del territorio e del traffico di droga. Sono gli anni in cui
l’Italia Centro-Settentrionale inizia a uscire dall’incubo del terrorismo mentre
al Sud si diffonde un nuovo tipo di violenza mafiosa che non esita a colpire anche alte cariche istituzionali e politiche6. Tra i documenti di quel periodo, pochi rendono la cruda e quotidiana violenza come le fotografie scattate da Letizia
Battaglia: la giornalista arriva al quotidiano palermitano «l’Ora» nel ’74 e inizia a fotografare per corredare di immagini i suoi articoli. Presto finisce per occuparsi solamente della documentazione fotografica del giornale, lavorando assieme a Franco Zecchin, al tempo suo compagno di vita. Un’occupazione estenuante, di reperibilità continua: i due girano per le strette vie di Palermo a cavallo di una Vespa, esposti, prima ancora che alle intemperie, alle minacce, alla
paura e alla repulsione fisica per quel sangue e quel dolore immortalato in bianco e nero. Ne parla così la fotografa:
Giravo per Palermo con Franco Zecchin […]; sulla sua vespa ed ero sempre
pervasa da un forte senso di nausea. Sapevo che c’erano sangue e dolore in quelle
strade, ed era una cosa troppo orribile per poterla accettare professionalmente.
Ciò nonostante in me prevaleva il senso del dovere: per portare le foto al giornale, per condividere quegli eventi con la gente di Palermo, dovevo superare la mia
emozione. Ogni volta che fotografavo mi tremavano le mani per l’emozione;
Giovanni De Luna, La passione e la ragione. Il mestiere dello storico contemporaneo, Milano,
Bruno Mondadori, 2004, p. 136. Un secondo riferimento fondamentale per l’uso delle immagini in ambito storiografico è il libro di Peter Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle
immagini, Roma, Carocci, 2002.
3
Letizia Battaglia-Franco Zecchin, Dovere di cronaca, Roma, PelitiAssociati, 2006.
4
L. Battaglia, Passion, Justice, Freedom. Photography of Sicily, New York (NY), Aperture,
1999.
5
Per una più esauriente trattazione della storia della mafia siciliana rimando al libro di
Salvatore Lupo, Storia della mafia. Dalle origini ai nostri giorni [1993], Roma, Donzelli, 2006.
6
Cfr. Salvatore Lupo-Rosario Mangiameli, Mafia di ieri, mafia di oggi, in «Meridiana»,
1989-1990, 7-8, pp. 42-44.
2
GUERRA DI MAFIA E MADRI IN LUTTO
339
scattavo molte foto, a volte mosse o sfuocate, ma alla fine usciva sempre quella
buona7.
Siamo di fronte a un modo nuovo di fare fotografia, in cui le immagini assumono un rilievo sempre più importante anche per l’opinione pubblica. Lo si era già visto nel 1977, quando fu pubblicata la storica foto di Paolo
Pedrizzetti8 che, a Milano, aveva immortalato a margine di una manifestazione un giovane col volto coperto da un passamontagna che spara ad altezza uomo, tenendo le braccia distese e le ginocchia leggermente flesse. Lo
scatto, ancora oggi indicato come una vera e propria icona di quel periodo
storico, ebbe subito una notevole diffusione e fu chiaro il grande valore semantico dell’immagine, rilevato dallo stesso Umberto Eco su le pagine de
«L’Espresso»9. Le fotografie di Letizia Battaglia, invece, raggiunsero la celebrità più tardi e con il tempo: non è possibile individuare un singolo scatto
che riassuma da solo la sanguinosa guerra che si consumava in Sicilia. In comune con Pedrizzetti, la fotografa però aveva l’intento di fornire una testimonianza tangibile di quanto accadeva. Come afferma Giovanni De Luna:
«il fotografo è diventato un militante che insieme denuncia, insegna e aiuta a ricordare»10. Gli scatti della Battaglia raccontano visivamente gli avvenimenti siciliani così da sensibilizzare l’opinione pubblica, dando concretezza
a una mafia fino ad allora dipinta da alcuni come qualcosa di tanto impalpabile da poter perfino dubitare della sua esistenza. Questa volontà di manifestare la propria opposizione al fenomeno mafioso attraverso la fotografia è
stata più volte esplicitata dalla stessa reporter:
[«L’Ora»] Negli anni Cinquanta era stato il primo quotidiano italiano a pubblicare inchieste di denuncia sulla presenza della mafia in Sicilia e, a distanza di
vent’anni, la percezione del fenomeno mafioso rimaneva blanda. L’operazione
di rimozione e di sottovalutazione era agevolata dal fatto che, dapprima, gli stessi criminali sembravano coinvolti in una lotta intestina che poco o nulla aveva a
che fare con il resto della società. Presto, però, gli orizzonti mutarono e la brama
7
Marco Pinna, Letizia Battaglia: dopo la mafia la scoperta del paesaggio, National Geographic
Italia (online), 15/05/2010 (<http://www.nationalgeographic.it/italia/2010/05/15/news/
letizia_battaglia_dalla_mafia_al_paesaggio-22672/>).
8
La foto fu pubblicata in prima pagina dal «Corriere d’Informazione» il 16 maggio del
1977. Il fotografo in questo caso agisce quasi come uno spettatore, un testimone che riesce a
riportare una scena registrandola in tutta la violenza. Come sottolinea De Luna, siamo molto
lontani dalle fotografie partecipi di Tano D’Amico del 1968 (G. De Luna, Controscatto, in «Alfalibri.02», giugno 2011, 10, pp. 2-3).
9
Umberto Eco, Una foto, in «L’Espresso», 29 maggio 1977, raccolto in Sette anni di desiderio, Milano, Bompiani, 1983, pp. 96-100. A tal proposito hanno scritto anche Sergio Bianchi (a
cura di), Storia di una foto, Roma, Derive Approdi, 2011 e Paolo Fabbri-Tiziana Migliore, Col
senno di poi. Intorno a 14 maggio 1977. La sovversione nel mirino, Semiotica on-line, 2011.
10
G. De Luna, Controscatto cit., pp. 2-3.
340 GIULIO BOGANI
di potere della criminalità organizzata si tradusse nel suo volersi insediare nelle
istituzioni e nei luoghi di comando11.
La Battaglia ha quindi piena coscienza di ciò che è diventato il ruolo del fotografo e dell’importanza del lavoro di documentazione messo in atto. Le sue
foto e quelle di Zecchin fanno parte di un progetto culturale che, pur mostrando
la mafia nella sua concreta ferocia, si prefigge di sfuggire sia al rischio di creare
uno stereotipo mafioso che alla tentazione quasi filatelica di mostrare sui quotidiani volti e corpi dei morti. Si cerca di elevare il lavoro fotografico e le immagini non restituiscono solo i corpi stesi per le strade e la disperazione dei vivi attorno, ma ci riportano nella Palermo del tempo descrivendo un ambiente feroce persino quando è vestito a festa. Quello che interessa ai fotografi è il contesto in cui la violenza si sviluppa: la potenza delle immagini della Battaglia trova
vigore sull’indagine degli ambienti sociali in cui la mafia si insinua e accresce il
proprio potere. Ecco quindi che le foto degli ambienti aristocratici siciliani, ritratti nella loro barocca opulenza (Figg. 1 e 2), contrastano fortemente con una
città povera e lasciata in miseria, dove la modernità non sembra aver attecchito completamente (Figg. 3, 4 e 5). La Palermo fotografata dalla Battaglia è una
città dove risiede ancora un senso profondo di arcaicità. Questi tratti si contrappongono a quelli tipici del Centro-Nord industriale: le differenze sociali sono
quasi premoderne ed emergono nelle foto di vita quotidiana. Le difficoltà del
popolo palermitano si scorgono tra gli oggetti d’uso comune, nelle tinozze adoperate per lavare i piatti, nella dimensione rurale, sottolineata dalla presenza di
animali da cortile e, ancor di più, nelle espressioni religiose fatte di misteri, feste patronali e processioni12.
A questo proposito, vale la pena soffermarci sulla fotografia un gruppo di donne in nero, il capo coperto a lutto, raccolte intorno a una statua di Gesù deposto dalla croce. L’immagine del Cristo circondato dalle fedeli richiama però altre
fotografie: quelle delle donne che vegliano i corpi stesi per le strade di Palermo.
Sono morti di mafia, spesso rimasti anonimi, come l’uomo ritratto di spalle, riverso sul suo sangue e la maglia alzata che rivela il volto di Cristo tatuato sulla
schiena con la corona di spine a cingerne il capo (Fig. 6). In un gioco di rimandi
il corpo riverso dell’ammazzato si fa, per lo spettatore, quello del Cristo: il morto
diviene quindi vittima assoluta, sacralizzata di fronte alle barbarie della guerra e
della mafia. Si mette così lo spettatore di fronte a una questione etica: il corpo è
quello di un criminale ma allo stesso tempo viene accostato al corpo di Cristo.
A questo proposito vale la pena sottolineare che i morti di mafia nella rap-
11
Davide Barbera-Giulia Morelli, Letizia Battaglia, questo silenzio così duro da raccontare, in «Il Becco», 3 marzo 2014 (<http://www.antimafiaduemila.com/home/di-la-tua/239parla/48213-letizia-battaglia-questo-silenzio-cosi-duro-da-raccontare.html>).
12
Per una trattazione puntuale del rapporto tra mafia siciliana e religione rimando a Alessandra Dino, La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa Nostra, Roma-Bari, Laterza, 2010.
GUERRA DI MAFIA E MADRI IN LUTTO
341
presentazione pubblica non sono tutti uguali: da una parte ci sono le vittime innocenti, dall’altra le vittime che hanno avuto un passato criminale. La responsabilità in vita della vittima, la sua appartenenza alla mafia, è tutt’altro che irrilevante: ad oggi solo le vittime innocenti delle mafie vengono celebrate durante la giornata della memoria indetta ogni 21 marzo dall’associazione Libera e,
come osserva Umberto Santino13, già in occasione del maxiprocesso del 1986
fu fatta una netta distinzione tra i familiari dei caduti che erano stati «servitori
dello Stato» e i parenti dei morti sospettati di aver avuto un passato criminoso.
Prima dell’istituzione del maxiprocesso, infatti, era stata indetta una sottoscrizione nazionale per sostenere i familiari delle vittime affinché, una volta costituitesi parti civili, non dovessero pagare le spese processuali. Ma tale sottoscrizione era stata in seguito riservata solo ai familiari dei «servitori dello Stato» escludendo in tal modo due donne siciliane che, pur essendo parenti di uomini che
potevano aver svolto attività criminose, erano «senz’altro le più povere tra tutti i familiari»14. Le due, Vita Rugnetta15 e Michela Buscemi16, avevano rotto il
muro di omertà ma, costituendosi parte civile nel processo, avevano anche subito un isolamento omertoso tale da mettere a repentaglio le loro stesse capacità di sussistenza che si basavano sulla gestione di piccole attività commerciali.
Come osserva Santino17, questo episodio è figlio di una concezione fortemente connotata in termini normativi. Essa ci restituisce una struttura dicotomica
in cui si contrappone l’innocenza alla colpevolezza, la mafia mostruosa (piovra)
alla resistenza esemplare di pochi singoli individui (eroi/martiri civili), il bene
(sacro) al male (assoluto)18.
Le fotografie della Battaglia esulano da questo schema e non sono vincolate ad alcun giudizio specifico sulle vittime. Allo stesso tempo colgono e fissano,
intatta, la violenza dell’azione mafiosa trasferendo a chi osserva la foto la cruda
13
Umberto Santino, Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno civile,
Roma, Editori Riuniti, 2010, p. 380.
14
Ibidem.
15
Di Vita Rugnetta parla anche la sociologa Renate Siebert, ricordandola il primo giorno
del maxiprocesso quando rimase in piedi davanti ai mafiosi, tenendo in mano la foto del figlio e
guardandoli sfilare davanti a lei disse: «Che tipo di uomini sono questi? Hanno avuto abbastanza
coraggio per torturare mio figlio indifeso, ma non ne hanno per guardarmi in faccia» (la traduzione dall’inglese è mia, il testo è riportato da R. Siebert, Women and the mafia, in L. Battaglia,
Passion, Justice, Freedom cit., p. 120).
16
La prima era madre di Antonino Rugnetta, ucciso durante la guerra di mafia nei primi
anni 80 e amico del collaboratore di giustizia Salvatore Contorno. Alla seconda avevano invece
ammazzato due fratelli: Salvatore, un piccolo contrabbandiere di tabacchi, e Rodolfo, probabilmente ucciso proprio cercando i responsabili della morte di Salvatore.
17
U. Santino, Storia del movimento antimafia cit., p. 381.
18
Un esempio chiaro di questo genere di narrazione ai nostri giorni è presente nel libro di
Roberto Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra
(Milano, Mondadori, 2006). Cfr. Giulio Bogani, Gomorra dieci anni dopo, in Carolina Castellano et al. (a cura di), Le mafie rappresentate: a dieci anni da Gomorra, in «Passato & Presente»,
maggio-agosto 2016, 98, pp. 22-33.
342 GIULIO BOGANI
realtà dei delitti perpetrati e le tragiche conseguenze dei lutti provocati. In questo senso, la produzione fotografica della Battaglia è ricca di immagini assai significative; tra di esse spiccano per la loro efficacia quelle delle donne che accorrono al capezzale dei morti per strada. Accomunate dal profondo senso di
disperazione (ora muta e rassegnata, ora sconvolta e smarrita), queste immagini
richiamano alla memoria le figurazioni classiche della Stabat Mater piangente
sul feretro del figlio (Fig. 7). Nell’opera della Battaglia questa simbologia classica affianca alla sua iconicità la forza e la durezza della cronaca: si vuole rappresentare la mafia nel dolore che crea, mostrarla nel suo orrore nudo. Attraverso il
realismo della fotografia l’immagine mantiene una sua dimensione sacrale rendendola tangibile: il sangue scuro e denso riverso sulla strada, l’espressione di
dolore delle donne, non sono solamente una rappresentazione simbolica, ma la
realtà (mafiosa) con cui lo spettatore è costretto a confrontarsi.
Diversa è invece la rappresentazione che Letizia Battaglia dà di una delle donne (e madri) più note della storia dell’antimafia contemporanea: Felicia
Bartolotta-Impastato, a cui nel 1978 fu ucciso il figlio Giuseppe, meglio conosciuto come Peppino Impastato. La vicenda è nota per essere stata rappresentata narrativamente da Marco Tullio Giordana nel film I cento passi (2000). Al di
là della finzione emotiva data dalla macchina da presa, una visione più realistica ci è consegnata dalle immagini della reporter. Attraverso l’obiettivo fotografico si mostra la madre, ancora una volta in nero, a lutto, vicina alla foto del figlio il cui corpo è stato fatto esplodere sui binari in modo da far apparire quella
morte come il risultato di un attentato terroristico finito male. La ricorda così
Umberto Santino: «Tu eri dietro la bara, con il tuo vestito nero, silenziosa, chiusa nel tuo lutto. Una donna siciliana, si sarebbe detto: la solita donna siciliana,
la mater dolorosa, una figura arcaica, uno stereotipo […]». Ma qualcosa invece va oltre questo stereotipo e, soprattutto, oltre l’omertà e la cultura mafiosa,
quando il 16 maggio 1978:
la madre e il fratello, presentavano un esposto alla procura, scrivendo: «Giuseppe è stato l’ispiratore e il conduttore delle campagne di denuncia contro i
Badalamenti e contro tanti altri presunti mafiosi», che si trattava di un omicidio
e chiedendo giustizia. Era una rivoluzione, domestica e sociale. I familiari di
Impastato, invece di scegliere la strada della vendetta privata, fedeli a un codice
mafioso e barbarico, venivano allo scoperto e sceglievano un’altra strada. La
madre di Peppino, con addosso gli abiti neri della donna siciliana indossati per
una sequela di lutti, si recava al palazzo di giustizia, presentava l’esposto, parlava
con i giornalisti, con Mario Francese, e dichiarava: «Sì, sono la moglie di Luigi
Impastato e la cognata di Cesare Manzella, mio figlio è stato ucciso, non voglio
vendette, chiedo giustizia»19.
19
Il discorso è stato pronunciato il 9 dicembre 2004 da Umberto Santino in occasione del
funerale laico di Felicia Impastato a Cinisi ed è presente col titolo di Cara Felicia sul sito del
GUERRA DI MAFIA E MADRI IN LUTTO
343
Per riabilitare la figura di Peppino e ottenere giustizia l’iter è stato lungo ma
la verità è stata ripristinata anche in tribunale dove è stata riconosciuta la responsabilità del capomafia Gaetano Badalamenti. Felicia Bartolotta-Impastato,
con il suo desiderio di verità e giustizia (e non di vendetta), aveva rotto definitivamente il ruolo atavico a lei destinato che la voleva relegare a madre piangente e aveva spezzato quella dimensione di arcaica vendetta secondo cui il sangue
chiama sangue. Affidandosi ai magistrati e affiancati dalla società civile antimafia, i familiari delle vittime (Felicia Bartolotta Impastato in primis), hanno avuto
il merito di trasformare il loro lutto personale in lutto pubblico20. La Battaglia
è stata capace di rappresentare tutto questo: la figura di Felicia (Fig. 8), accanto alla foto del figlio di cui non ha potuto riavere il corpo dilaniato dall’esplosivo, esprime fermezza e dignità, rammentando l’impegno delle madri argentine
di Plaza de Mayo che reclamano giustizia per i figli desaparecidos. Come notato da Santino, nel tempo, Felicia Impastato è divenuta un punto di riferimento per chi lottava contro la mafia:
La tua casa era già diventata un altare civile, un santuario laico, con tutte le
carte delle attività di tanti anni appese alle pareti come gli ex voto. Anche grazie
a un film che è arrivato dove noi, con i nostri poveri mezzi […], non potevamo
arrivare, qui, tra queste pareti, sono venuti in tantissimi, vecchi partigiani e
giovanissimi dei noglobal. Sono venuti studenti da tutta l’Italia, sono venuti gli
scout, commossi e felici di incontrarti21.
Assieme alla società civile antimafia, i parenti delle vittime innocenti di mafia (tra cui numerose donne e madri) sono divenuti gruppi portatori di nuovi significati collettivi, impegnandosi nella lotta per la legalità. Un processo
coadiuvato anche dall’impegno dell’associazione Libera che si è attivata per promuovere la cultura antimafia nelle scuole e perché i lutti dei parenti delle vittime innocenti delle mafie fossero pubblicamente ricordati, divenendo memoria condivisa22. Negli anni Duemila si apre infatti la strada a una nuova narrazione della mafia, basata sul ricordo delle vittime: non solo Giovanni Falcone e
Paolo Borsellino, divenuti dei veri e propri martiri laici, ma anche figure dapprima meno note come lo stesso Peppino Impastato e sua madre Felicia, sono
diventate conosciute al grande pubblico grazie a una narrazione culturale me-
Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato: <http://www.centroimpastato.com/
cara-felicia-2/>.
20
Sydney Tarrow, Power in Movement. Social Movements and Contentious Politics, New York
(NY), Cambridge University Press, 2011, p. 45.
21
Il brano è tratto dal ricordo di Umberto Santino già citato, cfr. Cara Felicia sul sito del
Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato: <http://www.centroimpastato.com/
cara-felicia-2/>.
22
Per una comprensione migliore di questo processo rimando al libro di Nando Dalla Chiesa, La scelta Libera. Giovani nel movimento antimafia, Torino, Edizioni Gruppo Abele, 2014.
344 GIULIO BOGANI
diata attraverso la sfera estetica (soprattutto dal cinema, ma anche dalla fotografia e perfino dal fumetto23).
Questo lungo percorso per costruire una rappresentazione della mafia come
«male sociale»24 trova le sue radici nelle fotografie di Letizia Battaglia che raccontano il violento mutamento della mafia degli anni Ottanta, ma sono anche
espressione tangibile di una nuova narrazione della resistenza alla mafia.
23
A proposito del fumetto rimando a Olimpia Affuso, La memoria culturale della mafia. Il
trauma mafioso e la graphic novel italiana, in «Studi culturali», agosto 2014, pp. 275-304.
24
Cfr. J. Alexander, La costruzione del male cit.
GUERRA DI MAFIA E MADRI IN LUTTO
Fig. 1. © Letizia Battaglia.
Fig. 2. © Letizia Battaglia.
345
346 GIULIO BOGANI
Fig. 3. © Letizia Battaglia.
Fig. 4. © Letizia Battaglia.
GUERRA DI MAFIA E MADRI IN LUTTO
Fig. 5. © Letizia Battaglia.
Fig. 6. © Letizia Battaglia.
347
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Fig. 7. © Letizia Battaglia.
Fig. 8. © Letizia Battaglia.
SCENE MADRI. STABAT MATER NEL CINEMA CONTEMPORANEO
Antonio Tentori
Esiste un filo rosso che lega tra loro film del tutto diversi per generi e stili.
Questo filo è la musica e la musica sacra costituisce da sempre per il cinema un’inesauribile e suggestiva fonte di ispirazione. La preghiera latina Stabat Mater, del
XIII secolo, attribuita a Jacopone da Todi, è stata interpretata da generazioni intere di musicisti quali, tra gli altri, Vivaldi, Scarlatti, Pergolesi, Haydn, Rossini,
Schubert, Liszt, Verdi, Penderecki, Poulenc, Bacalov, Lentini. Lo Stabat Mater,
nelle versioni di Pergolesi o Rossini, Vivaldi o Lentini, adoperato in film d’autore, gialli, drammatici, fantascientifici, biografici e fantasy, rappresenta qualcosa di più di un semplice accompagnamento musicale: diviene parte emblematica e integrante della storia che viene visualizzata.
Il testo che segue, in una sorta di itinerario trasversale, è una personale scelta di film a partire dagli anni Settanta fino ad oggi la cui colonna sonora si è avvalsa dello Stabat Mater per rendere particolarmente incisive e simboliche determinate scene e per sottolineare momenti particolarmente intensi.
L’uomo che fuggì dal futuro – THX 1138 (USA, 1970) di George Lucas
Soggetto George Lucas; sceneggiatura George Lucas, Walter Murch; fotografia
Albert Kihn, David Myers, musiche Lalo Schifrin; con Robert Duvall, Donald
Pleasence, Maggie McOmie, Don Pedro Colley.
Un mondo alla Orwell, cibernetico e tecnologico, dove impera l’alienazione mentale e la disumanità è la regola quotidiana. Una giovane coppia, THX
(Robert Duvall) e LUH (Maggie McOmie), vorrebbero evadere da quella nonesistenza. L’uomo comincia ad avere una serie di dubbi e interrogativi e la sua efficienza lavorativa ne viene compromessa. Dopo essere stato separato dalla propria donna, THX è arrestato per aver violato l’obbligo di assumere droghe e per
aver fatto l’amore senza autorizzazione. Lo attende un breve processo-farsa e subito dopo un asettico carcere-manicomio. Ma THX riesce ugualmente a fuggire. Lo Stabat Mater, nella versione di Pergolesi, conclude incisivamente l’angosciante tematica futuribile del film.
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
350 ANTONIO TENTORI
Lo specchio (URSS, 1975) di Andrej Tarkovskij
Sceneggiatura Andrej Tarkovskij, Aleksandr Misarin; fotografia Georgi Rerberg;
musiche Eduard Artemyev, Johann Sebastian Bach, Giovanni Battista Pergolesi,
Henry Purcell; con Margarita Terekhova, Filipp Jankovskij, Oleg Jankovskij,
Ignat Danilcev.
Tra il reale e l’immaginazione, esistenzialismo e filosofia, il film si snoda sul filo
dei ricordi e dei sogni. Una voce fuori campo presenta la famiglia del protagonista, in una sorta di ritratto autobiografico ricco di riferimenti letterari (Čechov,
Dostoevskij, Puškin, Dante e i versi del padre del regista, Arsenj Tarkovskij, letti
nella versione italiana da Romolo Valli) al cui centro c’è la poesia dell’adolescenza
e l’emblematica figura della madre. Rievoca così la propria infanzia insieme alla
madre e alla sorellina e, parallelamente, se stesso adulto, separato dalla moglie e
dal figlio. Non a caso è la medesima attrice (Margarita Terekhova) a interpretare sia la madre che la moglie. Il regista visualizza in maniera incisiva e profonda
luoghi e case, con un vivido senso di nostalgia per le persone che vi hanno abitato. Ed è maestro nel descrivere quello stato di felicità di quando si è bambini
e ancora tutto è possibile. Lo Stabat Mater, nella versione di Pergolesi, accompagna una scena particolarmente significativa: un libro d’arte viene sfogliato e
la macchina da presa rivela opere di grandi autori, quali Dürer o Leonardo. In
questa immagine, in fondo, è racchiuso l’intero senso del film.
Amadeus (USA, 1984) di Miloš Forman
Soggetto e sceneggiatura Peter Shaffer; fotografia Miroslav Ondricek; musiche
Wolfgang Amadeus Mozart; con F. Murray Abraham, Tom Hulce, Elizabeth
Berridge, Simon Callow.
Una voce fuori campo accompagna la narrazione. Il film si apre con il tentato suicidio di Antonio Salieri (F. Murray Abraham), che in seguito racconta a
un sacerdote la propria vicenda, strettamente intrecciata a quella di Mozart, della
cui morte si accusa. Wolfgang Amadeus Mozart (Tom Hulce), prima bambino
prodigio e poi genio della musica, viene seguito nel suo straordinario percorso
artistico da Salieri, compositore alla corte di Vienna. È qui che Mozart viene invitato per scrivere un’opera, destinata a ottenere subito un grande successo. Tra
il compassato Salieri e il gaudente Mozart il confronto è stridente e la distanza che li separa smisurata. La rivalità di Salieri è quindi inevitabile e quello con
Mozart diventa nel tempo un rapporto di amore-odio. Una rivalità che si trasforma in autentica ossessione, quando il compositore di corte ha modo di vedere alcune nuove composizioni del giovane musicista, rimanendo letteralmente sconvolto dalla loro bellezza e perfezione (tra le opere di Mozart visualizzate
all’interno del film ci sono Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Il flauto magico).
Dietro mentite spoglie, Salieri commissiona una messa funebre a Mozart
che accetta, ma poco dopo si ammala in circostanze oscure. È lo stesso Salieri
SCENE MADRI. STABAT MATER NEL CINEMA CONTEMPORANEO
351
ad aiutarlo, quando è ormai febbricitante, a terminare l’opera. Ma l’ossessione
di Salieri per Mozart è destinata a perseguitarlo per tutta la vita, anche nel manicomio dove finirà i suoi giorni, con l’amara consapevolezza di essere stato soltanto un mediocre musicista davanti a un genio assoluto. Lo Stabat Mater, nella versione di Pergolesi, ha inizio con la morte di Mozart davanti alla moglie e a
Salieri e prosegue con le meste esequie. La bara viene collocata sopra un carro,
sotto la pioggia, davanti a poche persone, tra cui la moglie di Mozart e Salieri.
Raggiunto il cimitero, dopo la benedizione la salma del grande musicista viene
calata in una fossa comune.
Hardware (GB-USA, 1990) di Richard Stanley
Soggetto Steve MacManus, Kevin O’Neill; sceneggiatura Richard Stanley; fotografia Steven Chivers; musiche Ministry, Simon Boswell, Gioachino Rossini;
con Dylan McDermott, Stacey Travis, John Lynch, Lincoln Wineberg jr.
Futuro desertico e apocalittico: in una città fatiscente e degradata il soldato
Moses (Dylan McDermott) acquista da un misterioso individuo la testa di un
cyborg e la regala per Natale alla sua ragazza Jill (Stacey Travis), autrice di sculture e installazioni in metallo. L’androide, indistruttibile combattente chiamato MARK 13, in realtà è ancora vivo e riattiva il proprio organismo cibernetico.
Come prima cosa aggredisce Jill, da sola in casa, dimostrando la sua programmata indole violenta e uccide un invadente vicino di casa della giovane donna.
Ha quindi inizio una serrata lotta tra Jill e la creatura artificiale nell’appartamento da cui è impossibile uscire. Una sorta di riproposta del mito della Bella e della Bestia, in un contesto futuribile. Moses e altri intervengono all’ultimo istante, distruggendo apparentemente il cyborg, ma Jill viene nuovamente afferrata
dall’essere e precipita dalla finestra, riuscendo a salvarsi lanciandosi in un appartamento vicino. Jill, infine, annienta definitivamente il mostro d’acciaio. Ma altri nuovi androidi MARK 13 stanno per essere prodotti su scala industriale. Lo
Stabat Mater, nella versione di Rossini rielaborata da Simon Boswell, viene scelto per una delle scene chiavi del film: il cruento scontro tra Moses e il cyborg
alternato alla scena in cui Jill riprende i sensi e corre ad aiutare l’uomo, per culminare poi con la morte di Moses.
Rapsodia in agosto (Giappone, 1991) di Akira Kurosawa
Soggetto dal romanzo di Kiyoko Murata; sceneggiatura Akira Kurosawa, Ishiro
Honda; fotografia Takao Saito, Masaharu Ueda; musiche Shinichiro Ikebe,
Antonio Vivaldi; con Sachiko Murase, Hisashi Igawa, Nerumi Kayashima,
Richard Gere.
Maestro del cinema giapponese, il regista sceglie come tematica la tragedia
dell’atomica fatta esplodere dagli americani alla fine della seconda guerra mondiale. E lo fa secondo il suo stile unico e inconfondibile, riuscendo mirabilmen-
352 ANTONIO TENTORI
te a trattare un simile argomento con raro senso di delicata poesia. Estate: nella
propria casa vicino a Nagasaki un’anziana signora (Sachiko Murase), che si trova insieme ai suoi quattro nipotini, riceve una lettera dal fratello maggiore che
vive alla Hawai e vorrebbe vederla prima di morire. La donna è una superstite del bombardamento del 1945 e non ha mai dimenticato quel terribile giorno. Deciderà troppo tardi la sua partenza, perché nel frattempo il fratello è spirato, ma comunica una grande lezione di vita ai suoi nipoti sull’orrore e la follia della guerra e riesce a stabilire un autentico contatto profondamente umano
con un cugino americano (Richard Gere), giunto in visita dai parenti giapponesi. Elementi poetici, essenziali nel cinema di Kurosawa, compaiono già a partire
dai titoli di testa del film, con immagini di nuvole nel cielo immenso. Per proseguire con scene più dichiarate (il giovane americano che visita una scuola, luogo
dove rimase ucciso lo zio durante l’esplosione atomica; l’incontro con i parenti;
il monumento della scuola, circondato da fiori, che ricorda quella drammatica
data; l’immagine dell’americano sulla veranda della casa con la vecchia signora)
e altre subliminali (la fila di formiche che avanza verso una rosa rossa; l’inseguimento da parte dei parenti della nonna, corsa via sotto un improvviso temporale). Lo Stabat Mater, nella versione di Vivaldi, è parte integrante di una delle
scene più toccanti del film, in memoria del 9 agosto 1945: tre nipoti si recano
a Nagasaki alle rovine della chiesa, poi ricostruita a fianco, dove monumenti da
tutti i paesi del mondo ricordano quel tragico evento. I commenti dei bambini sono innocenti e veri e uno di loro, accennando alle statue degli angeli, dice
«sembra che piangano».
Il senso di Smilla per la neve (Germania-Danimarca-Svezia, 1997) di Bille August
soggetto dal romanzo di Peter Hoeg; sceneggiatura Ann Biderman; fotografia Jorgen Persson; musiche Harry Gregson-Williams, Hans Zimmer; con Julia
Ormond, Gabriel Byrne, Richard Harris, Tom Wilkinson.
Dal romanzo di Peter Hoeg, un thriller allo stesso tempo esistenziale e fantascientifico. Copenhagen: la glaciologa Smilla Jaspersen (Julia Ormond), una giovane donna di origine groenlandese, tornando a casa vede il piccolo Isaiah, un
bambino Inuit suo vicino, che giace morto sulla neve. La polizia dichiara che è
caduto precipitando dal tetto dell’edificio, mentre giocava. Ma Smilla, fortemente legata al bambino da una tenera amicizia, è convinta che non si sia trattato di
un incidente, ma di omicidio. Inizia a indagare e viene così a scoprire che anche
il padre di Isaiah è morto in circostanze oscure. Le ricerche di Smilla la conducono al dottor Loyen, consulente medico della Greenland Mining, una compagnia che svolge segrete spedizioni scientifiche nella Groenlandia orientale. Smilla
trova quindi un’audiocassetta rovinata appartenuta al bambino, ma il tecnico
che l’avrebbe dovuta decifrare viene ucciso e lei stessa sfugge miracolosamente
a un attentato. Grazie all’aiuto di un enigmatico vicino di casa (Gabriel Byrne),
con cui ha intrecciato una relazione, Smilla sale a bordo di una nave diretta in
SCENE MADRI. STABAT MATER NEL CINEMA CONTEMPORANEO
353
Groenlandia. Qui viaggiano anche il dottor Loyen e Tork (Richard Harris), il
capo della Greenland Mining. Il vicino è in realtà un agente governativo che sorvegliava la società di Tork, il cui obiettivo è di impadronirsi dell’energia geofisica di un meteorite caduto in un ghiacciaio, da cui potrebbe derivare un potere
assoluto. L’imprevisto è però rappresentato da una sorta di micidiale verme primordiale, che si introduce nell’organismo umano con effetti devastanti. Smilla
abbandona la nave e raggiunge la base degli esperimenti, una grande caverna
all’interno del ghiacciaio, dove si trova di fronte al gigantesco meteorite. Il verme aveva contaminato Isaiah, che era stato sottoposto a continui esami da parte di Loyen. Nella resa dei conti interviene l’agente: la base esplode, Tork confessa a Smilla di aver ucciso il bambino e annega tra i ghiacci.
Con la musica dello Stabat Mater, di Pergolesi, quelle immagini di infinite,
imponenti distese di ghiaccio racchiudono mirabilmente l’essenza stessa del dolore per la morte di un bambino innocente.
Il talento di Mr. Ripley (USA, 1999) di Anthony Minghella
Soggetto dal romanzo di Patricia Highsmith; sceneggiatura Anthony Minghella;
fotografia John Seale; musiche Gabriel Yared; con Matt Damon, Gwyneth
Paltrow, Jude Law, Cate Blanchett.
Dall’omonimo romanzo di Patricia Highsmith, un noir esistenziale sul tema
dell’identità, ambientato alla fine degli anni Cinquanta in Italia, tra Napoli,
Roma, Sanremo e Venezia.
Tom Ripley (Matt Damon) viene incaricato da un facoltoso uomo d’affari di andare in Italia, rintracciare il figlio e convincerlo a ritornare con lui negli
Stati Uniti. Conosciuto in un’isola vicino Napoli il ricco ed eccentrico Dickie
Greenleaf (Jude Law) e la sua fidanzata Margie (Gwyneth Paltrow), Ripley rimane affascinato dal suo ospite e dalla ‘dolce vita’ che questi conduce. Quella
di Ripley è un’amicizia morbosa, sconfinante nell’omosessualità: umiliato da
Dickie, lo uccide in preda a un raptus e si sostituisce a lui, iniziando una nuova vita. Ma Ripley si trova ben presto intrappolato in un perverso meccanismo
di sotterfugi e menzogne derivato proprio dalla sua doppia identità. Finisce per
uccidere un amico della sua vittima, che sospettava di lui, ma riesce comunque
a convincere la polizia e il padre di Dickie (che infine addirittura gli intesta le
azioni appartenute al figlio) che il colpevole è lo stesso Dickie. L’unica ad accusarlo è invece Margie, che non viene creduta. A bordo di una nave Ripley incontra Meredith, innamorata di lui come Dickie, ed è costretto a uccidere anche Peter, con cui viaggia, per coprire ancora una volta la sua identità. E la finzione continua.
Lo Stabat Mater, nella versione di Vivaldi, avviene in una chiesa a Venezia,
dove Ripley assiste commosso e ammirato all’esibizione dell’amico Peter al pianoforte: una sorta di tregua, di momentaneo incanto di fronte alla purezza della musica, per la psiche tormentata di Tom Ripley.
354 ANTONIO TENTORI
Sucker Punch (USA, 2011) di Zack Snyder
Soggetto Zack Snyder; sceneggiatura Zack Snyder, Steve Shibuya; fotografia
Larry Fong; musiche Tyler Bates, Marius De Vries; con Emily Browning, Carla
Gugino, Oscar Isaac, Abbie Cornish.
La giovane Babydoll (Emily Browning) dopo la morte della madre uccide incidentalmente la sorellina per difenderla dal patrigno. Per questo viene rinchiusa in una casa di cura femminile per malattie mentali, dove le verrà praticata la
lobotomia. Le pazienti vengono riunite nel ‘Teatro’, dove danno vita a performances per superare i propri traumi. Ma il teatro è anche un lussuoso club gestito da madame Gorski (Carla Gugino) e dal suo amante Blue (Oscar Isaac),
dove le ragazze sono costrette a prostituirsi, esibendosi ognuna in una personale e sensuale danza. Babydoll stringe amicizia con Sweety, Rocket, Amber e
Blondie, coinvolgendole in un piano di fuga attraverso fantastiche dimensioni
parallele dove vivono una serie di pericolose avventure. Devono superare ardue
prove nei varchi dimensionali allo scopo di procurarsi, nella realtà, il necessario per evadere. A causa del tradimento di Blondie vengono scoperte da Blue e
soltanto Sweety riesce a fuggire, grazie a Babydoll, che si sacrifica per lei. Tutto
è però avvenuto soltanto nella mente di Babydoll, nel tempo precedente la lobotomia. La polizia e la dottoressa Gorski irrompono in una cella per strapparla dal laido inserviente Blue.
Lo Stabat Mater, nella versione di Pergolesi, viene scelto per una scena ambientata nella squallida cucina della casa di cura, dove la protagonista e altre ragazze lavorano come sguattere, pelando patate.
The Grandmaster (Cina-Hong Kong, 2013) di Wong Kar-wai
Soggetto Wong Kar-wai; sceneggiatura Wong Kar-wai, Zon Jingzhi, Xu Haofeng;
fotografia Philippe Le Sourd; musiche Nathaniel Méchaly, Shigeru Umebayashi,
Stefano Lentini; con Tony Leung, Zhang Ziyi, Cung Le, Song Hye-kyo.
Il film si svolge nella Cina meridionale in un arco di tempo tra il 1936 e il
1950 ed è basato sulla vita di Yip Man, maestro di arti marziali e mentore di
Bruce Lee. Le arti marziali non solo vengono visualizzate con grandiose scene
di combattimenti acrobatici, ma anche presentate come filosofia di vita, costruzione della personalità dell’individuo che le pratica e codice d’onore. Sono immagini evocative, intense e raffinate, che sanno essere al tempo stesso spettacolari e poetiche.
Mentre è in atto la secessione tra Nord e Sud della Cina, Yip (Tony Leung)
si confronta con l’anziano maestro Gong Yutian, che ha unito nel tempo stili e
scuole diverse di arti marziali e ha ormai deciso di ritirarsi. Yip ne esce vincitore, senza dover realmente combattere con lui. Ma Gong Er (Zhang Ziyi), erede della tecnica chiamata delle «64 mani» e figlia dello sconfitto, sfida Yip e lo
batte al termine di una lotta mozzafiato. Il loro è un amore sublimato, che pas-
SCENE MADRI. STABAT MATER NEL CINEMA CONTEMPORANEO
355
sa attraverso le rispettive vicissitudini e le crude realtà che sono costretti a vivere: l’invasione giapponese, il declino e le tragedie familiari di Yip, la professione
di medico di Gon, la rivalità con il traditore Ma San, che collabora con i giapponesi e uccide il padre di Gon.
Nel 1950, dopo la guerra civile, Yip insegna arti marziali a Hong Kong e incontra nuovamente Gon, che dieci anni prima ha sconfitto Ma San. Ma la giovane donna è ormai cambiata e cerca l’oblio nell’oppio. Il film si chiude con la
frase dell’allievo più famoso di Yip, Bruce Lee: «Un vero artista marziale non
vive per. Semplicemente vive».
Lo Stabat Mater, nella versione di Stefano Lentini, è presente in una delle scene più avvincenti della vicenda, ovvero la sfida che Gon ha lanciato a Yip.
Mentre la musica ha inizio, i due sfidanti appaiono separatamente nel bordelloclub dove si svolgono i combattimenti di arti marziali: lei con le ragazze del locale e lui mentre vi entra; poi si trovano faccia a faccia, inizialmente quasi senza parole, e infine si misurano in un vibrante duello da cui emerge la loro grande attrazione, destinata a non esprimersi mai.
La religiosa (Francia, 2013) di Guillaume Nicloux
Soggetto dal romanzo di Denis Diderot; sceneggiatura Guillaume Nicloux,
Jérôme Beaujour; fotografia Yves Cape; musiche Max Richter; con Pauline
Etienne, Isabelle Huppert, Martina Gedeck, Louise Bourgoin.
Il film è tratto dall’omonimo romanzo di Diderot, le cui opere hanno più
volte ispirato il cinema. La storia ha inizio nel 1765, nel castello dell’anziano e
malato Barone di Lasson quando suo figlio, venuto a trovarlo, rinviene il diario
di Suzanne Simonin risalente a due anni prima. Giovanissima, Suzanne (Pauline
Etienne) in un primo momento entra in convento per sua scelta ma, nonostante si renda conto di non avere un’autentica vocazione, viene costretta in tutti i
modi dalla famiglia a prendere i voti. Per motivi di interesse, tentano di convincerla a farsi monaca e alla fine Suzanne cede alle pressioni dei suoi genitori e
delle sue sorelle. Al momento decisivo, però, si rifiuta. Ritorna quindi a casa dei
genitori e viene a sapere dalla madre di essere figlia di un altro. Così, anche per
espiare il peccato della madre, decide di ritornare definitivamente in convento.
Comincia per lei una nuova vita. È colta da malore dopo aver preso i voti e in
seguito scopre che una nuova giovane Madre Superiora ha sostituito la precedente, anziana, a cui Suzanne era affezionata. La ragazza si ribella bruciando il cilicio che la nuova madre ha ripristinato e per questo viene punita con l’isolamento. Comincia a scrivere il suo diario, rubando l’occorrente e scontrandosi ancora
con la Madre Superiora, che la fa rinchiudere in cella. Per annullare i suoi voti
fa avere il proprio memoriale a un avvocato, ma la Superiora la umilia davanti
a tutte le altre monache. Quindi le comunica freddamente che la madre è morta. Un sacerdote, che l’avrebbe dovuta esorcizzare in quanto posseduta, la aiuta
invece a riottenere una condizione più umana. Suzanne riesce infine a lasciare
356 ANTONIO TENTORI
il convento per un altro, retto da una Madre Superiora (Isabelle Huppert) del
tutto diversa, premurosa e affettuosa, la quale però si innamora di lei, mettendola più volte in imbarazzo. Contemporaneamente l’avvocato rintraccia il vero
padre di Suzanne, il barone, e gli porta il diario della ragazza. Suzanne si confessa e il sacerdote le vieta di incontrare ancora da sola la madre superiora, che finisce per ammalarsi. L’avvocato organizza la fuga di Suzanne dal convento, per
condurla nel castello del barone. Il fratellastro conclude la lettura del diario e la
mattina seguente, dopo la morte del barone, incontra Suzanne.
Il film restituisce quel periodo storico, dalle scenografie ai costumi, in modo
convincente e scrupoloso, visualizzando suggestivamente la vita all’interno dei
conventi. Una vita fatta di elevata spiritualità, ma anche di bassezze e sopraffazioni, a cui la giovane protagonista sfugge dopo svariate sofferenze. La musica
dello Stabat Mater, nella versione di Vivaldi, si presta alla perfezione per descrivere il mondo della «religiosa» e delle altre monache.
Il cinema si è spesso avvalso dello Stabat Mater, anche in maniera del tutto inconsueta. Basti soltanto pensare al divertente cortometraggio d’animazione di ambientazione western Bugs Bunny Rides Again (1948), diretto da Freleng,
che ha come protagonista il buffo coniglio. Il cattivo Yosemite Sam, con i suoi
spioventi baffoni, irrompe sparando in un saloon. Tutti scappano e rimane solo
Bugs Bunny. Lo Stabat Mater viene adoperato per la scena in cui Bugs Bunny e
Sam avanzano l’uno verso l’altro per l’assurda resa dei conti.
Murder Obsession (Italia, 1981) di Riccardo Freda
Soggetto Antonio Cesare Corti, Fabio Piccioni; sceneggiatura Antonio Cesare
Corti, Fabio Piccioni, Riccardo Freda; fotografia Cristiano Pogany; musiche
Franco Mannino; con Stefano Patrizi, Silvia Dionisio, John Richardson, Anita
Strindberg.
Per concludere questo itinerario dello Stabat Mater nel cinema, abbandoniamo il tema musicale per soffermarci invece sulla dolente, evocativa immagine assimilabile al medesimo concetto. In questo senso assume un’importanza rilevante il thriller orrorifico diretto da Freda, il creatore del cinema fantastico italiano. Sul set di un film, l’attore Michael (Stefano Patrizi) viene colto da
un raptus in una scena di strangolamento. Assalito da ricordi d’infanzia, torna
alla casa di famiglia, fuori città, dove vive la madre Glenda (Anita Strindberg) e
il maggiordomo, Olivier. Madre e figlio si riabbracciano dopo molti anni e l’attore, già in compagnia della fidanzata Debora (Silvia Dionisio), viene raggiunto dal regista Schwartz, dal suo aiuto Shirley e da un’attrice, Beverly. Mentre
si scelgono gli esterni per un film, Glenda rivela che Michael uccise da bambino il padre, che la stava malmenando. Poi qualcuno tenta di affogare Beverly,
Michael si comporta sempre più stranamente e Debora è preda di orrendi incubi. Dopo aver fatto l’amore con Michael, Beverly viene assassinata, quindi è la
SCENE MADRI. STABAT MATER NEL CINEMA CONTEMPORANEO
357
volta di Schwartz e infine di Shirley. Sembra che il colpevole sia Olivier, amante della madre e responsabile dell’uccisione del padre di Michael, ma questi lo
rinviene avvelenato. Michael ascolta la verità su un nastro registrato: il vero assassino è Glenda, che odiava il marito e lo aveva ucciso facendosi sorprendere
con Olivier, in modo che poi la colpa ricadesse sul piccolo Michael. La sua follia omicida, motivata dalla gelosia, era esplosa quando il figlio si era presentato con la fidanzata e i suoi amici alla villa. Fuori di sé, Glenda colpisce a morte
anche Michael, ma è condannata a rimanere rinchiusa nei sotterranei insieme
al suo cadavere e a Debora, ultima terrorizzata vittima.
Il regista confluisce in Murder Obsession le componenti macabre e angoscianti
che rappresentano, dal suo primo film horror I vampiri, l’essenza stessa del proprio cinema gotico. Ritornano le inquietanti tematiche della colpa e del peccato,
qui riproposte nel loro aspetto più ineluttabile. Come nei precedenti film gotici
dell’autore (L’orribile segreto del dottor Hichcock e Lo spettro) il lato mostruoso e
l’orrore risiedono soltanto nella mente dell’uomo, in grado di creare gli incubi
più atroci. Affascinato da sempre dalla dimensione claustrofobica, Freda conduce i suoi personaggi in un meccanismo inesorabile dove sono obbligati a iterare antichi delitti, all’interno di una classica «casa maledetta» da cui è impossibile salvarsi. Nonostante il film sia ambientato in epoca moderna, la scenografia
e la stessa vicenda risentono in maniera evidente delle caratteristiche atmosfere gotiche. La medesima villa, dove si svolge gran parte della storia, è una vera e
propria dimora gotica, con cupi sotterranei e cripte segrete dove gli incubi possono diventare reali. In L’orribile segreto del dottor Hichcock l’amore malato che
unisce il dottore e sua moglie è l’origine dei terrificanti eventi che si susseguono, mentre in Lo spettro il triangolo formato da marito, moglie e il di lei amante
dà vita a uno spaventoso vortice di odio e follia. Murder Obsession appare invece come un’ispirata sintesi del cinema gotico di Freda, che presenta ancora quella «mostruosità umana» che gli è congeniale. L’amore morboso in ambito familiare, già esplorato in altre occasioni dall’autore, viene qui sublimato nella sua
forma più intensa: l’amore assoluto che una madre ha per il proprio figlio, tale
da spingerla a uccidere spietatamente chiunque possa incrinare il loro esclusivo
rapporto. Se nel film non mancano scene spettrali e oniriche, il contesto in cui
si snoda la vicenda è drammaticamente reale. La villa pare davvero abitata dalle
forze del male, ma sono solo quelle evocate dalla madre e dalla sua follia omicida che, non a caso, è il titolo del film. Quello che interessa al regista, al di là
delle scene horror e della dinamica thriller che porta infine all’identità dell’assassino, è la natura umana dei terribili eventi. Come nei gotici diretti negli anni
Sessanta, l’orrore viene adoperato come elemento della narrazione, ma il volto
della malvagità è soltanto umana. Per tutti i personaggi non c’è salvezza o espiazione. La villa e i suoi sotterranei si trasformano così in un limbo, dove si compiono i destini di ciascuno di loro. La paura del buio e dell’ignoto, che Freda visualizza tramite squarci improvvisi sul nero profondo e violenti temporali, simbolizza la più grande paura dell’uomo, ovvero quella della morte.
358 ANTONIO TENTORI
Nel finale, all’interno del sotterraneo, Michael viene sorpreso dalla madre
mentre osserva le fotografie che provano la colpevolezza della donna. La madre lo ferisce con un coltello. Debora, quindi, lo cerca prima nella casa e poi
nel sotterraneo.
L’ultima scena di Murder Obsession, vista dallo sguardo atterrito dell’unica
superstite, rappresenta suggestivamente uno straziante Stabat Mater: la madre
assassina, avvolta in una veste bianca, che tiene tra le braccia il figlio seminudo
e agonizzante, unita per sempre a lui in una incisiva visione che si rifà alla Pietà
di Michelangelo. Dice a un certo punto la madre a Michael: «I rapporti tra una
madre e un figlio sono qualcosa di misterioso. Nonostante la distanza, nonostante il tempo, io ho l’impressione che non ci siamo veramente mai lasciati».
Ed è quanto accade, fino alle estreme, tragiche conseguenze.
Lo Stabat Mater nel cinema non si esaurisce certo qui. Tra gli altri film che
l’hanno scelto per far risaltare determinate scene, si segnalano la commedia generazionale Taking off e il biografico Larry Flint oltre lo scandalo (1996) entrambi
diretti da Milos Forman, il drammatico erotico Il potere dei sensi (2002) di JeanClaude Brisseau e l’horror filippino Pa-Siyam (2004) di Erik Matti. È un segno,
questo, di quanto la musica dello Stabat Mater abbia inciso (e continui ancora
a farlo) sulla sensibilità dei più diversi autori, che l’hanno inserita nei loro film
secondo il proprio stile e la propria creatività.
CRISI DEL RUOLO, ROVESCIAMENTO DEL MITO
PER UNA PALINGENESI DA MARIA A MEDEA
Elisa Lo Monaco
A Nazareth tutto sembrava accadere normalmente, secondo le consuetudini di una
pia e operosa famiglia israelita: si lavorava,
la mamma cucinava, faceva tutte le cose
della casa, stirava le camicie… Tutte le cose
da mamma. Il papà, falegname, lavorava,
insegnava al figlio a lavorare.
Papa Francesco, 17 dicembre 2014 – Piazza
San Pietro.
Voluptas magna me invitam subit, et ecce crescit.
Lucio Anneo Seneca, Medea, vv. 991-992.
I mass media statunitensi – spiega Susan Faludi nel suo saggio The Terror
Dream – si sono focalizzati sugli eventi dell’11 settembre attribuendo ampia rilevanza a due linee narrative: una rispondeva all’esigenza di rappresentare il dolore, l’altra alla necessità di esaltare il coraggio. Nel primo caso si è fatto ricorso all’effigie del femminile, nel secondo all’icona del pompiere1. Le madri si disperavano mentre, «misteriosamente, […] i padri sopravvissuti erano spariti dalla vista»2. La divulgazione di immagini stereotipiche dei generi cristallizza «costrutti»3 binari di azioni e reazioni legate al dolore4: per dirla con le paroMichela Murgia, Ave Mary. E la chiesa inventò la donna, Torino, Einaudi, 2011, p. 15.
Susan Faludi, Il sesso del terrore. Il nuovo maschilismo americano, Milano, Isbn Edizioni,
2007, p. 129.
3
Judith Butler, Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, Roma-Bari,
Laterza, 1999, p. 126.
4
Il personaggio mitologico di Circe, nel romanzo Medea. Voci di Christa Wolf, nel parlare di
Giasone a Medea esplica le gerarchie dei ruoli di genere con queste parole: «Nessuno di loro sopporta la disperazione, hanno addestrato noi a disperarci, qualcuno, o qualcuna, deve pur portare
il lutto» (Christa Wolf, Medea. Voci, Roma, Edizioni e/o, 1996, p. 88).
1
2
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
362 ELISA LO MONACO
le di Teresa De Lauretis – che a sua volta si riallaccia esplicitamente alla Volontà
di sapere di Michel Foucault –, il genere diviene «il prodotto di varie tecnologie sociali»5, tra le quali i mass media e la cultura religiosa. Anche la rappresentazione di una Maria Mater Dolorosa, Madonna Addolorata, Beata Vergine del
Pianto, Maria della Pietà, Madonna dei sette dolori, Maria delle Lacrime o del
Pianto e Beata Maria Virgo Perdolens il cui cuore è trafitto da una o più spade6 rafforza quella che Rosi Braidotti definisce «l’abitudine mentale di tradurre
la donna in metafora»7: ne emerge un quadro in cui l’eterno femminino è passivo8 nella sofferenza, e il dolore9 per la perdita della progenie è suggellato dalla
piena realizzazione della donna in quanto madre10.
Se sotto la punta dell’iceberg della metafora di Braidotti restano sommerse diverse declinazioni dissonanti, il nostro lavoro si propone di palesare alcu-
5
133.
Teresa De Lauretis, Sui generi. Scritti di teoria femminista, Milano, Feltrinelli, 1996, p.
6
Nell’esegesi teologica della profezia di Simeone (cfr. Lc. 2,35) di Raymond Brown e Barbara Reid, la spada che avrebbe dovuto trafiggere l’anima di Maria simboleggia la difficoltà di
comprendere la parola di Dio, non la ferita per la scomparsa del Messia (per un approfondimento
sul tema cfr. Raymond Brown, The birth of the Messiah. A commentary on the infancy narratives
in the Gospels of Matthew and Luke, New York, Doubleday, 1977, p. 462-466; Barbara Reid,
Choosing the better part? Women in the gospel of Luke, Collegeville, Liturgical Press, 1996, p. 88;
Elizabeth Johnson, Vera nostra sorella. Una teologia di Maria nella comunione dei santi, Brescia,
Editrice Queriniana, 2005, pp. 525-526). Come osserva Norris, «Maria, lungi dall’incarnare una
femminilità passiva e sottomessa, lottava […], meditando la parola della promessa divina anche
quando le trafiggeva l’anima come una spada» (Kathleen Norris, Meditations on Mary, New York,
Penguin Putnam, 1999, p. 16). La metafora del petto trafitto torna anche nelle narrazioni delle
Madres de Plaza de Mayo. Juanita Pargament spiega infatti: «la scomparsa di un figlio […] ci ha
dato una coltellata nel cuore» (Daniela Padoan, Le pazze. Un incontro con le Madri di Plaza de
Mayo, Milano, Bompiani, 2005, p. 22).
7
Rosi Braidotti, Modelli di dissonanza: donne e/in filosofia, in Patrizia Magli, Le donne e i
segni, Urbino, Il lavoro editoriale, 1985, pp. 35-36. Il rischio dell’allegoria, asserisce Elizabeth
Johnson, è che il simbolo ufficiale mariano perduri come frutto «dell’interpretazione maschile
della donna ideale […], per mantenere le donne al posto subordinato loro assegnato dalla società
patriarcale» (E. Johnson, Vera nostra sorella cit., p. 30).
8
Sulla rappresentazione delle reazioni passive al lutto da parte delle madri si sofferma anche
Antonietta Bonauro: in Babel (2006) – nota la studiosa – prevale «l’adozione di uno schema
formale e narrativo del tipo “attivo/maschile e passivo/femminile” tipico del racconto classico
così come lo aveva descritto Laura Mulvey in uno dei testi fondativi della Feminist Film Theory
[Visual Pleasure and Narrative Cinema]» (Antonietta Bonauro, Cinema americano post-11 settembre, trauma vicario e senso di colpa occidentale. Il caso di Babel, in «Imago», 2013, 6, pp. 54-55).
9
Si aggiunga che se nella religione cattolica il dolore di Cristo redime l’umanità, la sofferenza della Θεοτόκος è fine a se stessa (cfr. ad esempio M. Murgia, Ave Mary cit., p. 45).
10
Si ricordi che all’uomo non è richiesta alcuna inclinazione o vocazione alla paternità. Per
altri rinvii sul tema, cfr. Christa Mulack, Maria vergine e ribelle: la dea nascosta del cristianesimo,
Como, Red Edizioni, 1996, p. 149. Offre diversi spunti di riflessione anche il celebre passo della
La Medea di porta Medina (1882) in cui Francesco Mastriani scrive: «noi comprendiamo il padre
che uccide il figlio […] ma non comprendiamo la madre che uccide il frutto innocente delle
viscere sue» (Simonetta Chiappini, Folli, sonnambule, sartine. La voce femminile nell’Ottocento
italiano, Firenze, Le Lettere, 2006, p. 15).
PER UNA PALINGENESI DA MARIA A MEDEA
363
ne rappresentazioni che si discostino dal topos del dolore della Pietà (si ricordi che l’ἔκϕρασις di Maria che tiene tra le braccia il figlio esanime non è descritta dal Vangelo, né nei vangeli sinottici si fa alcuna menzione sulla presenza della Θεοτόκος al calvario)11 e dall’archeologia dell’assenza della sofferenza
paterna, focheggiando il mito di Medea e il suo archetipo. Non è un caso che
in Alla Cieca di Claudio Magris la figura poliedrica di Medea sia evocata anche
come Maria, Marie, Mariza, Marja – i cui nomi, evidenzia Irena Prosenc Segula,
«tracciano un chiaro parallelo con la madonna»12. Nella Medea di Christa Wolf
– che attinge a fonti pre-euripidee – Corinto, devastata dalla peste, identifica nella barbara della Colchide13 il capro espiatorio; la folla14, aizzata dalla corte, le lapida la prole. Il parallelismo con Maria che, secondo Elizabeth Johnson,
perde il figlio «in quanto giudeo»15, sembra assiomatico: la crocifissione, infatti, era un’esecuzione capitale riservata dai romani ai non cittadini. Se Maria per
Els Maeckelberghe diviene un nome collettivo16 – «Maria era il mare in cui sfociano tutti i fiumi»17, scrive Claudio Magris –, anche il suo dolore è condiviso:
Nell’America Latina le madri protestano pubblicamente contro la deportazione e l’assassinio dei loro figli […]. Anche le donne libanesi non sono più disposte a tacere e soffrire in silenzio la perdita di migliaia di bambini rapiti e,
nella maggior parte dei casi, ammazzati dai militari. Loro, le madri addolorate,
scendono ormai in piazza18.
Le Madres de Plaza de Mayo, sottolinea Christa Mulack in Maria vergine e ribelle, trovano nella loro afflizione per il calvario condiviso la forza per reagire19.
Juanita Pargament in Le pazze spiega: «fu subito chiaro che piangendo non saremmo arrivate a niente; dovevamo convertire il dolore in qualcosa di diverso»20;
Cfr. C. Mulack, Maria vergine e ribelle cit., p. 149.
Irena Prosenc Segula, La navigazione mitologica in «Alla cieca» di Magris, in «Gaia», 2012,
15, p. 243.
13
«Sono […] selvaggia, lo dicono i corinzi. Per loro una donna è selvaggia se fa di testa sua»,
spiega Medea nel romanzo di Christa Wolf (C. Wolf, Medea. Voci cit., p. 131). La situazione
viene esacerbata dalla peste: «il momento della peste», spiega Foucault negli Anormali, «è quello
della suddivisione esaustiva di una popolazione da parte di un potere politico» (Michel Foucault,
Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Milano, Feltrinelli, 2010, p. 50).
14
Nella riscrittura Lunga notte di Medea di Corrado Alvaro, invece, la straniera uccide i figli
per salvarli dall’ira feroce della folla.
15
E. Johnson, Vera nostra sorella cit., pp. 552-553.
16
Els Maeckelberghe, Desperately Seeking Mary. A Feminist Appropriation of a Traditional
Religious Symbol, Kampen, Kok Pharos, 1991, p. 42.
17
Claudio Magris, Alla cieca, Milano, Garzanti, 2005, p. 113.
18
C. Mulack, Maria vergine e ribelle cit., p. 123.
19
Con la stessa energia (pur per ragioni dissimili) le Marchiate di Audre Lorde imparano a
tradurre la sofferenza in virtù (Audre Lorde, Zami. Così riscrivo il mio nome, Pisa, Edizioni ETS,
2014, p. 115). Si ricordi che Leuco, nel romanzo di Christa Wolf, afferma: «Medea dice che sono
un uomo che teme il dolore. Vorrei che il dolore fosse lei a temerlo di più» (C. Wolf, Medea cit.,
p. 131).
20
D. Padoan, Le pazze cit., p. 219.
11
12
364 ELISA LO MONACO
la lotta e l’attivismo21 sono le risposte di questo «gruppo-comunità»22 al terrorismo di Stato. L’«istituto della maternità» (per dirlo con un’espressione cara ad
Adrienne Rich23) riesce a «sganciarsi da un modello di soggettività esclusivamente oblativa e sacrificale»24: le Madres, crisalidi che il dolore trasmuta non in
vittime ma in «attori politici»25, alzano la voce contro le nefandezze della guerra sucia, riuscendo a sopraffare persino quello che Anna Dolfi – riferendosi al
personaggio di Mariangela nel Disertore – ha definito un «silenzio per intraducibilità semantica»26.
Dalle poesie composte nel laboratorio di scrittura27 delle «Pazze»28, traspare
una filigrana d’«allegria»29 che sembra avvicinarsi più al sentire della Madonna che
ride di Gino De Dominicis (esposta nel 1973 a Napoli, nella Modern Art Agency
di Lucio Amelio) che all’icona di una Maria delle Lacrime. Si legge ad esempio:
Rodeada de mis compañeras
[…] puedo realizar lo que tantas
Veces he sentido: las ganas de estar
Alegre, demonstrarlo
Y disfrutarlo […]
Demostrar mi amor por la vida, mi ganas
De vivir y seguir luchando30.
Se nel caso delle Madres un linguaggio comune nella condivisione delle sofferenze e nell’agire collettivo soverchia le differenze di classe31, nella tragedia eu-
21
Olivia Guaraldo, Introduzione, in Ludmila Bazzoni, La vida venciendo a la muerte. Madres
de Plaza de Mayo, Verona, L’iguana, 2013, p. 10.
22
Raúl Zibechi, Genealogia della rivolta: Argentina. La società in movimento, Roma, Luca
Sossella, 2003, p. 43.
23
Adrienne Rich, Nato di donna, Milano, Garzanti, 1996, p. 395.
24
O. Guaraldo, Introduzione cit., pp. 10-11.
25
Cfr. Maria Rosaria Stabili, Il movimento delle Madri in America Latina, in A volto scoperto.
Donne e diritti umani, a cura di Stefania Bartoloni, Roma, ilmanifestolibri srl, 2002, p. 140.
26
Anna Dolfi, Introduzione, in Giuseppe Dessí, Il disertore, Milano, Mondadori, «Oscar»,
1976, p. 10. Per un interessante spunto di riflessione sulle mitopoiesi del silenzio per la morte di
una persona amata cfr. Luigi Lombardi Satriani, La parola e il silenzio, in La morte oggi, a cura di
Mario Spinella, Giorgio Cassanmagnago, Massimo Cecconi, Milano, Feltrinelli, 1985.
27
Il laboratorio di scrittura nasce nel 1990 a Buenos Aires ed è coordinato dallo scrittore
argentino Leopoldo Brizuela.
28
Non è un caso che Julio Cortázar abbia intitolato Nuoevo elogio de la locura la lettera rivolta alle Madres pubblicata sulla «República» il 19 febbraio 1982 (L. Bazzoni, La vida venciendo
a la muerte cit., p. 111).
29
Il cuore nella scrittura. Poesie e racconti del Laboratorio di Scrittura delle Madres di Plaza de
Mayo, a cura di Daniela Padoan, Milano, Edicion Asociacion Madres de Plaza de Mayo, 2003,
p. 22.
30
Ivi, p. 21.
31
Cfr. M. R. Stabili, Il movimento delle Madri in America Latina cit., p. 140.
PER UNA PALINGENESI DA MARIA A MEDEA
365
ripidea la κοινὴ del dolore travalica il genere: il re Creonte, una volta visto il
corpo della figlia Glauce:
Si precipita sul cadavere: e piangendo e stringendola tra le braccia, la baciava gridando: «[…] Ahimè, che io muoia insieme con te, figlia!». […] Mentre cercava
di rialzare le vecchie membra, restò avvinto al vecchio peplo, come edera ai rami
del lauro. E fu una lotta terribile: se cercava di sollevare un ginocchio, esso lo avvinghiava ancor più; e se tentava di tirarsi via con la forza, dilaniava dalle ossa le
vecchie membra. Alla fine rinunziò, il disgraziato, e abbandonò la vita, incapace
di vincere lo strazio. Ora giacciono morti insieme, il vecchio padre e la figlia32.
Se Medea sibila «raccapriccianti lamenti»33 per il gesto efferato34 da lei commesso, Giasone è invaso da uno strazio lancinante. Un affresco sulle pulsioni
dell’argonauta si può ricavare anche dal seguente passo di Lunga notte di Medea,
di Corrado Alvaro:
giasone: (credendo di superare il suo dolore esaltandolo) Pianga Corinto! Pianga tutto il regno! […] Che i miei sudditi leali dimostrino il loro dolore. […]
Che tutti piangano i miei figli! […] (Ha pronunziato queste parole con tutta la
sua foga e maestà. Ma d’improvviso si affloscia. Cade, scoppia in un pianto quasi
puerile)35.
Nelle pagine senechiane Giasone ha «gli occhi gonfi»36 per il supplizio, mentre
la barbara della Colchide fluttua «in balia di una doppia corrente: come quando
i venti rapaci si scontrano in guerre selvagge e il mare ribelle è sconvolto dalla
discordia dei flutti, così ondeggia il […] cuore»37. Fluttuano anche le lacrime di
Medea nella pellicola di Lars Von Trier, in un moto oscillante che si ripete nei
capelli, nelle onde del mare e nell’erba alta. Il dolore di Giasone, nel film del
1988, è una forte raffica di vento che prostra in posizione di morte simbolica il
corpo esausto dell’argonauta. L’impiccagione dei due bambini è un’innovazione del regista danese, ripresa in variatio da Michel Azama nel suo Medea-Black:
se nel film di Trier Medea lega le funi al ramo di un albero, in Medea-Black è
Azraele (l’angelo della morte) a compiere l’opera. Giasone, ambizioso commis32
Il mito greco. Volume secondo: gli eroi, a cura di Guido Guidorizzi, Milano, Mondadori, «I
Meridiani», 2012, pp. 760-761.
33
Tragici greci. Eschilo, Sofocle, Euripide, a cura di Filippo Maria Pontani, Torino, Einaudi,
2007, p. 437.
34
Per un interessante approfondimento su figlicidi e infantici cfr. Patrizia Guarnieri, Men
Committing Female Crime: Infanticide, family and honor in Italy, 1890-1981, in «Crime, History
and Societies», XIII, 2009, 2, pp. 41-53.
35
Corrado Alvaro, Lunga notte di Medea, in Euripide, Seneca, Grillparzer, Alvaro, Medea.
Variazioni sul mito, a cura di Maria Grazia Ciani, Venezia, Marsilio, 2003, p. 250.
36
Lucio Anneo Seneca. Medea. Fedra, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 2004, p. 165.
37
Ivi, p. 159.
366 ELISA LO MONACO
sario di polizia, alla vista dei figli «caccia un grido d’animale»38 e giace a terra
esanime. Diversa è invece la reazione di Sethe – la protagonista di Amatissima di
Toni Morrison – per l’impiccagione di alcuni schiavi suoi compagni. La schiavitù, che rende le persone scevre di possesso e le obbliga ad essere oculate negli
affetti, la porta a ricordarsi «degli splendidi alberi che gemevano al vento e non
dei ragazzi. Per quanto si sforzasse, i platani avevano sempre la meglio, ed era
una cosa che non riusciva a perdonare alla propria memoria»39. Sethe incarna
l’archetipo di Medea non meno della leggenda messicana della Llorona40 e, sebbene la sua memoria riesca ad ovattare alcune vicende del passato, il processo di
disremember41 nei confronti di sua figlia Beloved diviene ineludibile. Quella di
Sethe è la storia di una schiava fuggitiva del Kentuncky che uccide la figlia per
sottrarla agli orrori della schiavitù42.
«Chi non muore si rivede. Anche chi muore»43, scrive Claudio Magris. Ed è
così che il revenant di Beloved torna; la casa di Cincinnati si fa prosopopea di un
dolore condiviso che sfugge alla reificazione, vessillifera delle tribolazioni di «una
persona che piangeva, sospirava, tremava e cadeva in preda alle convulsioni»44.
Sethe tenta di spiegare al fantasma della figlia le ragioni del suo gesto efferato,
asserendo che:
Il peggio […] era […] che un bianco qualunque potesse prendere l’io di una
persona per il primo motivo che gli saltava in mente. Non solo poteva sfruttare,
uccidere o mutilare una persona, ma anche sporcarla. Sporcarla al punto che lei
non riusciva più a piacere a se stessa. […] Non avrebbe mai potuto permettere
che accadesse ai suoi figli45.
In questa contingenza l’uccisione della figlia e il dolore che ne consegue sono
influenzati dalla Kyriarchia46 quanto i movimenti dei burattini lo sono dai loro
Michel Azama, Medea-Black, in La guerra delle donne, Pisa, ETS, 2004, p. 258.
Toni Morrison, Amatissima, Segrate, Pickwick, 2013, p. 8.
40
«La Virgen te creí» (mi sei sembrata la Madonna), canta Chavela Vargas nella canzone la
Llorona; la «donna piangente», evidenzia Christa Mulack, non può non rimandare alla dea Iside,
il cui nome, Isch-isch, significa «colei che piange» (C. Mulack, Maria vergine e ribelle: la dea
nascosta del cristianesimo cit., pp. 115-116).
41
Il Disremember è un neologismo coniato da Toni Morrison, crasi di dismember e remember,
e consiste nell’«atto di ricordare», che «è così distruttivo che provoca un vero e proprio smembramento, una frammentazione in mille pezzi, la disgregazione di chi ha perduto la propria identità»
(Franca Cavagnoli, Posfazione, in T. Morrison, Amatissima cit., p. 390).
42
Si ricordi che l’ipotesto del romanzo di Toni Morrison si basa su un fatto di cronaca del
1855.
43
C. Magris, Alla cieca cit., p. 314.
44
T. Morrison, Amatissima cit., pp. 42-43.
45
Ivi, p. 351.
46
Il neologismo kyriarchia, coniato da Elisabeth Schüssler Fiorenza, «comprende una vasta
gamma dello sfruttamento […], fa riferimento ai livelli intrecciati e intertestuali dell’oppressione
38
39
PER UNA PALINGENESI DA MARIA A MEDEA
367
fili; non è la barbara della Colchide ad uccidere la figlia, né «il bianco» in sé, stigmatizzato – basti pensare al ruolo positivo di Amy Denver nell’intreccio della
storia –, ma quella cultura dominante che dà al bianco il potere dell’oppressore47. La detonazione dell’effetto pigmalione è ben esplicata dalla Medea di Franz
Grillparzer quando afferma: «mi hanno detto malvagia e non lo ero, ma ora sento che si può diventarlo»48.
Sethe amava la figlia, renitente al sistema dei «padri bianchi»49 che esigeva di «generare figli mentre “averli”, essere responsabili – essere, in altre parole,
un genitore – era fuori questione come lo era la libertà. Era da criminali rivendicare il ruolo di genitore nelle condizioni imposte dalla logica della schiavitù
istituzionale»50. La fuggitiva spiegava infatti: «Nel Kentucky non potevo volergli bene [ai figli] come si doveva perché non erano miei. Ma quando sono arrivata qui, […] potevo amare […] be’, ecco, quella sì che era libertà»51. Di qui il
ribaltamento dell’imago dello Stabat Mater: non una donna che soffre in quanto madre, ma una madre il cui dolore è legato al coraggio di un amore resiliente.
La sofferenza per la morte di Beloved è condivisa anche dalla nonna, Baby
Suggs, ex schiava famosa per la celebrazione di un rituale in cui:
I bambini ridevano, gli uomini ballavano, le donne piangevano. Poi, però, si
mescolava tutto. Le donne smettevano di piangere e ballavano, gli uomini si
mettevano seduti e piangevano, i bambini ballavano, le donne ridevano, i bambini piangevano […]. Diceva loro che l’unica grazia che potevano avere era la
grazia che potevano immaginare, che se non potevano vederla non l’avrebbero
ricevuta52.
Nella Arbor church «si mescolava tutto», i ruoli di genere divengono fluidi, gli
uomini si concedono al pianto. Sembra la Colchide descritta da Lissa in Medea.
basata sul genere, la razza, la classe, l’etnia, la condizione coloniale, l’orientamento sessuale, l’età,
l’invalidità e le altre caratteristiche usate per svilire la dignità umana delle persone» (E. Johnson,
Vera nostra sorella cit., p. 56).
47
Si ricordi che, come sottolinea Alessandro Portelli, «sebbene Beloved rimanga indiscutibilmente un testo femminile e nero, centrato sulla maternità e la schiavitù, esso non può essere letto
in termini di nitide e gerarchiche opposizioni binarie: femminile e maschile, madre e padre, […]
nero e bianco» (Alessandro Portelli, Figlie e padri, scrittura e assenza in «Beloved» di Toni Morrison,
in Canoni americani. Oralità, letteratura, cinema e musica, Roma, Donzelli, 2004, p. 322).
48
Franz Grillparzer, Medea, traduzione di Claudio Magris, Venezia, Marsilio, 1994, p. 157.
Sethe esplica lo stesso segmento cartesiano di causa-effetto con l’enunciato: «I bianchi credevano che […] sotto ogni pelle scura si nascondesse una giungla: acque vorticose non navigabili,
babbuini che si dondolavano gridando, serpenti addormentati […]. Era la giungla che i bianchi
avevano piantato in loro» (T. Morrison, Amatissima cit., p. 278).
49
Audre Lorde, Sorella outsider, Milano, Il Dito e La Luna, 2014, p. 116.
50
T. Morrison, Amatissima cit., p. XII.
51
Ivi, p. 227.
52
T. Morrison, Amatissima cit., pp. 123-124.
368 ELISA LO MONACO
Voci, un luogo in cui «gli uomini davano libero corso ai propri sentimenti», ossimoro di una Corinto in cui «durante un funerale non si vedeva piangere nessun uomo»53. Ma a Baby Suggs, insieme alla nipote, è sottratta anche la fede nel
rito della Radura54, sostituita dall’indifferenza e dallo sconforto per un letargico
senso di impotenza. Come evidenzia Portelli in Canoni americani:
Baby Suggs […] finisce per spezzarsi quando conosce l’esperienza del dolore
estremo, il dolore che nega la fiducia essenziale dell’esserci nel mondo. È nella
figura di Baby Suggs che Amatissima raggiunge il culmine come romanzo sulla
schiavitù, esperienza di dolore insopportabile e indicibile, che bisognerebbe dimenticare ma che è nostra responsabilità invece continuare a ricordare55.
Baby Suggs decide dunque di impiegare le poche energie che le restano per
meditare sull’unico ϕαινόμενον innocuo al mondo: i colori. «Il blu», afferma,
«quello non fa male a nessuno»56. Il rapporto di Sethe con les nuances, invece, è
speculare: la fuggitiva riscopre i colori solo quando riesce a stornare la sofferenza per la perdita di Beloved57. Sdoganate le tinte caleidoscopiche, posa «a uno a
uno tutti i coltelli usati per difendersi dalla sofferenza, dal dispiacere, dalle amarezze», ripone «la spada e lo scudo»58; inizia a rifulgere quando impara a convivere con il suo dolore, e capisce che – come le suggerisce Paul D – il suo futuro
non è in sua figlia ma in se stessa.
Si dimenticarono di lei, come si fa con un brutto sogno […]. Ricordare sembrava
poco saggio […]. La dimenticarono. Come si fa con un sogno spiacevole durante
un sonno penoso […]. A volte la fotografia di un amico intimo o di un parente
– osservata troppo a lungo – cambia e si vede muovere qualcosa di più familiare
nel volto caro che c’è lì. Possono toccarlo, se vogliono, però non lo fanno, perché
sanno che se lo facessero le cose non sarebbero più le stesse […]. Dietro al 124,
vicino al fiume, le sue impronte vanno e vengono, vanno e vengono. Sono così
familiari […]. Ora ogni traccia è scomparsa e ciò che è stato dimenticato non
sono solo le impronte, ma anche l’acqua e quello che c’è là sotto59.
C. Wolf, Medea. Voci cit., p. 30.
Baby Suggs, infatti, «credeva di aver mentito. Non c’era nessuna grazia […], nessun ballo
illuminato dal sole della Radura, che potesse cambiare le cose. La sua fede, il suo amore, il suo
vecchio, grande cuore, cominciarono a venir meno» (T. Morrison, Amatissima cit., p. 126).
55
A. Portelli, Figlie e padri, scrittura e assenza in «Beloved» di Toni Morrison cit., p. 396.
56
Ivi, p. 250.
57
«Sethe pensò a quanto poco colore ci fosse in quella casa e a com’era strano che lei non ne
avesse mai sentito la mancanza, […] perché l’ultimo colore che ricordava erano le schegge rosa della
lapide della sua bambina […]. Tutte le mattine all’alba guardava l’alba, però non ci aveva mai fatto attenzione, né aveva mai fatto caso al suo colore […]. Era come se un giorno avesse visto il sangue rosso
della sua bambina, un altro giorno le schegge rosa della lapide, e poi basta, finito lì» (ivi, pp. 53-54).
58
Ivi, pp. 121-122.
59
Ivi, pp. 383-385.
53
54
PER UNA PALINGENESI DA MARIA A MEDEA
369
Beloved, dimenticata ma non perduta, «sopravvive in forma di impronte, incessantemente cancellate dall’acqua sulla riva del fiume»60.
Se Medea, scrive Margaret Atwood, «manda echi e riflessi»61, anche Beloved è
sì μεταμόρϕωσις e metafora dei morti del Middle Passage, ma può essere, come afferma sua sorella Denver, more: è, senza dubbio, emblema e paradigma di sussunzione di un dolore collettivo condiviso da Sethe, Baby Suggs, le Madres di Plaza
de Mayo, Giasone, Creonte, la Llorona, Maria, Medea e altre dramatis personae.
A. Portelli, Non era una storia da tralasciare, in T. Morrison, Amatissima cit., pp. 404-405.
Margaret Atwood, La Medea di Christa Wolf, in C. Wolf, L’altra Medea. Premesse a un
romanzo, Roma, edizioni e/o, 1999, p. 103.
60
61
ll sacrificio (Sydney, Anzac Memorial – foto di Anna Dolfi).
COMPLICITÀ E SEDUZIONE.
INFANTICIDIO E DEGENERAZIONE ‘FEMMINEA’ NELL’«INNOCENTE»
DI D’ANNUNZIO
Manuele Marinoni
E poiché la mia arte era già matura, io
potei manifestare d’un tratto il mio nuovo
concetto della vita in un libro intero e organico. Questo libro è l’Innocente.
Gabriele d’Annunzio
1. Dal mondo della psicologia sperimentale
Nel 1888, presso l’editore torinese Bocca, comparve uno studio analitico di
Raffaello Balestrini dedicato ad Aborto, infanticidio ed esposizione d’infante (studio giuridico-sociologico). Pare così, da tempo, essere stata scovata una delle fonti principali dell’Innocente di d’Annunzio. Già il titolo lega insieme due componenti essenziali di un intero dibattito scientifico-culturale dell’Italia (e dell’Europa) di secondo Ottocento: la questione della delinquenza e i problemi della relativa responsabilità giuridica1. Naturalmente il soggetto indagato è femminile.
Il discorso teorico si amplia immediatamente verso una pluralità di aspetti e
di fenomeni che, proprio in questo periodo, ricevono una radicale risemantizzazione. Per fermarci alla storia del corpo femminile mutano non solo le architetture somatiche, per dirla con Edward Shorter, ma anche le teatralizzazioni in-
1
Negli sviluppi positivistici ottocenteschi della psicologia collettiva, connessa specialmente a
risvolti criminologici, è determinante la figura di Scipio Sighele (e lo è ancora di più nell’universo
dannunziano se pensiamo agli articoli e alle monografie dedicate agli effetti psicologici disseminati nelle opere del poeta). Sighele, nel 1889, esordiva nel mondo degli studi scientifici con un
significativo opuscolo dal titolo L’infanticidio. Nel triennio successivo arriveranno La folla delinquente e La coppia criminale. Importante, e in questo caso specificamente alle fonti dell’Innocente,
è il lavoro collettivo (con Augusto Guido Bianchi e Guglielmo Ferrero) sul Mondo criminale italiano (la prima serie dal 1889 al 1892 e la seconda dal 1893 al 1894). Per molti dati critici e precise indicazioni bibliografiche cfr. Nella Gridelli Velicogna, Scipio Sighele. Dalla criminologia alla
sociologia del diritto e della politica, Milano, Giuffrè, 1986. Per un quadro aggiornato sul contesto
culturale cfr. Damiano Palano, Il potere della moltitudine. L’invenzione dell’inconscio collettivo nella
teoria politica e nelle scienze sociali italiane tra Otto e Novecento, Milano, Vita e Pensiero, 2002.
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
372 MANUELE MARINONI
teriori dei nervi, e così gli immaginari del patologico, le fisiologie delle passioni, e quant’altro. Tutti caratteri che inducono a pensare la donna come campo
di combattimento di contrastanti e, talvolta, contrastive dissociazioni. Si tratta insomma dell’altra faccia dell’immaginario dell’agonia romantica inventariata da Mario Praz: la donna-fatale non è solo vampira e seduttrice, ma è anche isterica, delinquente e degenerata. E non occorre, a tal punto, insistere sulla dottrina misogina (basti ricordare Sesso e carattere di Weininger, coacervo di
ogni più intransigente prospettiva sul femminile) che ha contribuito a tali irrigidimenti culturali2.
Per tornare al rapporto donna-delinquenza possiamo anzitutto affidarci alla
Fisiopatologia del delitto del 1881 di Giuseppe Ziino, attento studioso di «fisiopatologia», che fa da apripista ai sondaggi scientifici sulla «questione femminile». L’organismo «linfatico-nervoso», così come lo definisce Ziino, sarebbe la dimostrazione empirica dell’inferiorità della donna rispetto all’uomo e il cervello il luogo del corpo prediletto a garantire tale dislivello. C’è qualcosa di prettamente fisiologico (e lo sapeva bene anche il Paolo Mantegazza delle Lezioni di
antropologia che sovente Ziino richiama a sostegno) soprattutto nelle propaggini degenerative, siano esse immaginative, oniriche, fantastiche. Questo divario naturale fra uomo e donna, secondo il medico, comporta una diversa interpretazione del dinamismo della pena. Un’esasperazione dello stato emotivo (nel
caso dell’Innocente, come vedremo, è evidente tale oscillazione dei movimenti
sentimentali della protagonista Giuliana, la «turris eburnea») porta la donna, in
modo, appunto, fisiologicamente determinato, a una riduzione delle capacità razionali, così da appartenere, per virtù biologiche, dirà Cesare Lombroso, esclusivamente all’«aristocrazia della grazia e della bellezza». Alle specificità dell’isterismo vanno poi confondendosi i risultati complici di una precisa interpretazione dell’antropologia positiva (Mantegazza in primis, ma anche Tito Vignoli
e Giuseppe Sergi3) che pensava il determinarsi di ogni funzione umana all’in-
2
Un esempio prototipico lo si può individuare nella Physique de l’amour (Essai sur l’instinct
sexuel) di Remy de Gourmont. Solo scorrendo i titoli dei paragrafi dell’opera è evidente una direttiva quasi antropologica, nella preminente casistica animale, delle potenzialità del femminino,
a partire dal dimorfismo sessuale. Cfr. l’introduzione di Daniela Baroncini a Remy de Gourmont,
La dissociazione delle idee, Firenze, Alinea, 2000.
3
Il noto articolo di d’Annunzio Per una festa della scienza, pubblicato sulla «Tribuna» il 4
novembre 1887, risente apertamente della cultura positivistica e, in particolare, delle più aggiornate forme di darwinismo (l’articolo si legge in Gabriele d’Annunzio, Scritti giornalistici, a cura
di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1996, I, pp. 943-951). Da qui è
sempre indispensabile prendere le mosse per sottolineare l’imperituro interesse di d’Annunzio per
il panorama evoluzionistico e con esso per i singoli risvolti di un sapere che tiene insieme plurime
direttive. L’opera di Tito Vignoli Mito e scienza (1879) ne è un esempio fecondo: un percorso
potrebbe essere quello riguardante il «pensiero primitivo», ripreso nel Trionfo della morte e nella
Figlia di Iorio, all’interno della lettura antropologica del popolo abruzzese; oppure quello della
semantica dell’onirico laddove, proprio nella sezione «analitica» di d’Annunzio, viene configurandosi un preciso centro psicopatologico (compreso l’Invincibile – ricordo che l’opera di Vignoli
INFANTICIDIO E DEGENERAZIONE ‘FEMMINEA’ NELL’«INNOCENTE»
373
terno dei processi fisiologici: la malattia dei tessuti del corpo incrementerebbe
le capacità percettive.
Leggiamo a questo punto nell’Innocente: «La singolare eccitazione mostrata
da Giuliana mi rammentò certi esempi della sua sensibilità fisica straordinariamente acuta. La malattia, forse, aveva aumentata, esasperata quella sensibilità»4.
Nelle prime pagine del romanzo Giuliana viene subito immersa nel sistema
del patologico; e l’immaginazione, ben screziata dalle tinte del sadico, corre subito all’Iconographie de la Salpêtrière di Charcot5 ben nota a d’Annunzio e a tanta cultura letteraria fin-de-siècle:
Ma un giorno io m’avvidi ch’ella soffriva anche nella sua salute; m’avvidi che
il suo pallore diveniva più cupo e talvolta si empiva come di ombre livide. Più
d’una volta sorpresi nella sua faccia le contrazioni d’uno spasimo represso; più
d’una volta ella fu assalita, in mia presenza, da un tremito infrenabile che la scoteva tutta e le faceva battere i denti come nel ribrezzo di una febbre subitanea6.
Si tratta, in modo preciso e dettagliato, delle forme fisiche degli attacchi isterici, spesso dovuti a forti contrazioni del sistema uterino, appunto, studiati da
Charcot e sovente ripresi, con dovizia di particolari ‘teatrali’, da molti studiosi
di psicopatologia in Italia7.
influenzò da vicino le indagini di Alfred Maury su Le sommeil et les rêves del 1861, un testo che
d’Annunzio plausibilmente conosceva); e certo sarà da rivedere anche l’insieme delle fonti sul
rituale del serpente – sempre nell’idea di un «d’Annunzio antropologo» – nella Fiaccola sotto il
Moggio (questo tema, purtroppo non ricordato da Annamaria Andreoli nel suo recente commento all’opera nel volume mondadoriano Tragedie sogni e misteri, rimanda persino all’influenza che
Vignoli ebbe su Aby Warburg). E molte altre ancora le suggestioni: pensiamo solo al capitolo titolato Dei sogni, delle illusioni, delle allucinazioni, normali ed anormali nel delirio e nella follia, ecc.
Sull’opera di Vignoli cfr. Elena Canadelli, «Più positivo dei positivisti». Antropologia, psicologia,
evoluzionismo in Tito Vignoli, Pisa, Ets, 2013. L’opera del ’79 è stata di recente ripubblicata: Tito
Vignoli, Mito e scienza e saggio di una dottrina razionale del progresso, a cura di Elena Canadelli e
Lorenzo Steardo, Pisa, Ets, 2010. Per una precisa prospettiva storico-filosofica cfr. Antonello La
Vergata, La teoria di Darwin e la biologia dell’Ottocento, in Scienza e filosofia nella cultura positivistica, a cura di Antonio Santucci, Milano, Feltrinelli, 1982, pp. 289-312.
4
Gabriele d’Annunzio, L’innocente, a cura di Maria Rosa Giacon, Milano, Mondadori,
1995, p. 25 (cfr. l’importante bibliografia delle fonti che, in parte, qui riutilizziamo); cfr. anche
l’edizione del romanzo in G. D’Annunzio, Prose di romanzi, a cura di Annamaria Andreoli e Niva
Lorenzini, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1988-1989, 2 voll.
5
Cfr. Pierre Henri Castel, La querelle de l’hystérie: la formation du discours psychopathologique en France, Paris, Presses Universitaires de France, 1998 e per la figuratività dell’isterismo
cfr. lo splendido Georges Didi-Huberman, L’invention de l’hystérie: Charcot et l’iconographie photographique de la Salpêtrière, Genève, Macula, 2012. Sul binomio «Grande Isteria» e «Grande
Ipnotismo» che nel corso del secondo Ottocento fa breccia nel pensiero scientifico interessato
alle diaspore dell’io (con Charcot siamo oramai alle soglie di Freud) cfr. quanto rilevato da Remo
Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Milano, Feltrinelli, 2002.
6
G. d’Annunzio, L’innocente cit., p. 7.
7
Cfr. Edward Shorter, Psicosomatica. Storia dei sintomi e delle patologie dall’Ottocento a oggi,
Milano, Feltrinelli, 1993.
374 MANUELE MARINONI
L’Innocente, dall’inizio alla fine, è un romanzo ricco di cellule descrittive psicosomatiche. Il dolore di Giuliana è anzitutto fisico e, sebbene molti degli effetti patologici siano pre-condizione della gravidanza, d’Annunzio non esita a dipingere i segni più conturbanti del profilo interiore femminile sub specie demenza, che solo in un secondo momento cadranno negli antri oscuri della psiche.
E a questa plasticità degli stadi della sofferenza della protagonista si aggiunge la
metamorfosi erotico-sessuale, il «vampirismo sensuale» di cui ha parlato Gianni
Turchetta8, attivato dall’occhio performativo di Tullio, oscillante fra una serie
di pulsioni ossimoriche – ma su questo tornerò in seguito.
Da ben più larga scala d’indagine, nel rapporto uomo-donna e, nello specifico, sulle modalità maschili del percepire il femminile, si è soffermato, nella costruzione delle mappe dell’inconscio, Henri F. Ellenberger parlando di tre tipi
determinati: 1) «l’ideale immaginario»; 2) «immagini tratte dal proprio passato» e 3) «quelle che si potrebbero chiamare immagini archetipiche»9. E considerando che la protagonista del secondo romanzo dannunziano viene inequivocabilmente offerta sulla pagina letteraria attraverso parole e osservazioni del
narratore, in forma autodiegetica (Tullio), non c’è motivo di dubitare che tutti
e tre i punti di Ellenberger confluiscano a pieno titolo nell’interpretazione della personalità di Giuliana10.
Ricordo che nell’Innocente, così come in quasi tutti i luoghi testuali in cui
d’Annunzio tematizza la follia (o degenerazione, ipersemanticità dei sensi, malattie di volontà, memoria e personalità, malinconie), le planimetrie del patologico contribuiscono in profondità al progetto simbolistico (e, per altre vie, alla
scrittura del sé11). E in tale prospettiva è spesso una clausola di reticenza, nel
più intenso languore verleniano, a favorire la sopravvivenza dell’«illusione»; è il
«torpore» che asseconda «sogni» e «oblii». Si tratta, da parte di d’Annunzio, di
inserire le forme del corpo, e il relativo sistema dei sensi, nel multiforme diaCfr. Gianni Turchetta, Gabriele d’Annunzio, Napoli, Morano, 1990, p. 76.
Cfr. Henri F. Ellenberger, La scoperta dell’inconscio. Storia della psichiatria dinamica [1970],
Torino, Bollati Boringhieri, 1976, I, pp. 343-344.
10
Problemi affini si presentano per l’Adriana dell’Invincibile e per l’Ippolita Sanzio del Trionfo della morte. Per un’analisi di questi temi cfr. Guido Baldi, La «Nemica», dall’«Invincibile» al
«Trionfo della morte», in D’Annunzio a Napoli, a cura di Angelo Raffaele Pupino, Napoli, Liguori,
2005, pp. 19-39. Baldi insiste giustamente sui materiali preparatori dell’Invincibile (in forma
d’appunti – testualmente molti vicini ai Taccuini) che Annamaria Andreoli rese noti nel 1998.
Va detto che alcuni di questi frammenti (perché di questo principalmente si tratta) rientrano, in
parte, (talvolta tali e quali) anche nell’Innocente, così da confermare un progetto unitario della
narrativa dannunziana di questi anni. Questi cartoni si leggono in G. d’Annunzio, La nemica e
altri scritti inediti (1888-1892), a cura di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori, 1998, pp.
81-139. Sull’Invincibile come romanzo «non finito» d’une maladie rimando al mio D’Annunzio,
il romanzo e la psicologia sperimentale. L’«Invincibile»: un «roman d’une maladie», in «Rivista di
Studi italiani», XXXIV, agosto 2016, 2, pp. 128-148.
11
Mi permetto qui di rimandare ai miei: Il linguaggio della follia: le “dementi” nell’opera di
d’Annunzio, in «Quaderni del Vittoriale», 2013, 9, pp. 69-86 e D’Annunzio e la sintassi della follia. Attraversando il linguaggio delle «dementi», in «Oblio», V, 2015, 20, pp. 79-101.
8
9
INFANTICIDIO E DEGENERAZIONE ‘FEMMINEA’ NELL’«INNOCENTE»
375
gramma del percepire l’oltre, per redimersi, anzitutto, dal fardello del tempo,
dell’«errore del tempo»12. Vedremo, sinteticamente, con l’Innocente, una nuova
sintassi della memoria, dei ricordi e del flusso, appunto, temporale, grammaticalizzata da peculiari immagini di pathos estrapolate dal mondo della psicologia
sperimentale, oltre che un nuovo legame sentimentale, e quindi una nuova geometria delle passioni – influenzata dalle ricerche di Théodule Ribot – e nuove
associazioni interpersonali fra cui affiorano due casi esemplari: il rapporto amato/amante e il rapporto madre/figlio.
Tradizionalmente (penso soprattutto all’Ottocento francese) la femme fatale non arriva a concepire una nuova creatura (esistono, naturalmente, specifiche
eccezioni): spesso si trovano donne colpite da particolari malattie del sistema
riproduttivo13 – e da qui numerosissime donne sterili (lo sarà l’Ippolita Sanzio
del Trionfo della morte) –, donne-demoniache dalla «vagina-dentata»14, donnevampiro15 (la cui unica creatura è il soggetto maschile medesimo da cui traggono il proprio rubicondo nutrimento), la figura dell’androgina16, donne malate e
Si potrebbe sintetizzare che l’intera opere letteraria (forse anche quella biografica, ma
ci vorrebbero altre prospettive che non intendo abbracciare) di d’Annunzio è esercizio pratico
dell’abolizione dell’errore del tempo. Sia i processi mitici che le tematizzazioni del patologico
producono un’estraneazione (per lo più panteistica) dal sentimento categoriale (spazio-tempo):
da una risemantizzazione dell’esterno (percepito primariamente dai sensi) si passa a una riscrittura dell’interno che privilegia moti circolari o labirintici, anziché lineari (di una metafisica sospesa,
fra dicotomie di interno ed esterno, fu maestro indiscusso Poe). Lo sprofondare medesimo nei
liquori della malinconia, e così nelle immagini fisiche della morte, dell’ultimo d’Annunzio (il
d’Annunzio della scrittura del sé) risponde a tale primaria esigenza poetica.
13
Molte indicazioni in proposito si trovano nei lavori raccolti in Variazioni sul tema d’amore
nella letteratura francese del secondo Ottocento, a cura di Elio Mosele, Fasano, Schena, 1999. Importante anche il volume Nevrosi e follia nella letteratura moderna, a cura di Anna Dolfi, Roma,
Bulzoni, 1993 (in particolare il saggio di Luciano Curreri dedicato al Trionfo della morte e rispettiva bibliografia critica). Cfr. anche Bruno P. F. Wanroij, Storia del pudore. La questione sessuale in
Italia (1860-1940), Venezia, Marsilio, 1990; Bram Dijkstra, Idoli di perversità. La donna nell’immaginario artistico filosofico letterario e scientifico tra Otto e Novecento, Milano, Garzanti, 1988 e
Nike Wagner, Spirito e sesso. La donna e l’erotismo nella Vienna fin de siècle, Torino, Einaudi, 1990
(aperto alle interferenze fra letteratura e ricerca psicologica coeva).
14
Il tòpos della «vagina dentata» risponde anzitutto al problema della paura del genere femminile, per cui cfr. Wolfgang Lederer, Ginofobia: la paura delle donne, Milano, Feltrinelli, 1973
(tema ricorrente anche nelle diagnosi cliniche sull’isteria collettiva – non va trascurato che tra
saperi scientifici e poteri occulti è pressoché unilateralmente la donna protagonista di nevrosi e
possessioni). Per l’immaginario culturale e letterario cfr. Simonetta Chiappini, Folli, sonnambule,
sartine. La voce femminile nell’Ottocento italiano, Firenze, Le Lettere, 2006 e, sempre in questa
prospettiva, sul tema della paura del femminile, cfr. Alberto Natale, Gli specchi della paura. Il
sensazionale e il prodigioso nella letteratura di consumo, Roma, Carocci, 2008.
15
La bibliografia sul tema è ormai sterminata (a partire dagli studi di La carne, la morte, il
diavolo di Praz sino ai lavori di Camille Paglia); per un suggestivo inquadramento, tra letteratura
e antropologia, cfr. Franco Pezzini, Cercando Carmilla. La leggenda della donna vampira, Torino,
Ananke, 2000 e Arianna Conti-Franco Pezzini, Le vampire. Crimini e misfatti delle succhiasangue
da Camilla a Van Helsing, Roma, Castelvecchi, 2005.
16
Sulla complessa sintesi di maschile e femminile (frequentatissima dalla narrativa francese
di tardo Ottocento) cfr. almeno Franca Franchi, La metamorfosi di Zambinella. L’immaginario an12
376 MANUELE MARINONI
«dementi» (e si capisce bene che il versante scapigliato «al femminile» è abbondantemente superato e trasgredito17). Di questa complessa fenomenologia delle seduzioni si può dire che la Giuliana dell’Innocente sia un prototipo perfetto. Ma c’è appunto di più: lei avrà un figlio (l’attenzione va ovviamente al figlio
maschio, ulteriore «doppio» del protagonista) e su ciò si fonda l’intera strutturazione del romanzo.
Proseguiamo col tratteggiare il carattere di questa madre-degenerata, sia nel
complesso psichico che fisico, e quindi nella sua aura di particolare bellezza (medusea, ma non solo) e di seduzione, precisando due aspetti da non obnubilare
per cogliere più a fondo l’immaginario femminile dell’Innocente. Per comprendere contesti, generi e sistemi sintattici, ricordo che quando d’Annunzio si accinge alla stesura del romanzo mette nel cassetto (pur riutilizzando alcune cellule
– anche di materiale genetico – nel tessuto dei nuovi lavori) il progetto dell’Invincibile che tornerà poi, ampiamente riscritto e ristrutturato, nel Trionfo della
morte (sono questi gli anni in cui d’Annunzio si avvicina per la prima volta al
mondo del teatro con l’incompiuto La Nemica). E ha alle spalle il successo del
Piacere. Ma mentre quest’ultimo è in tutti i suoi aspetti un romanzo emblematico della cultura decadente (sulla scia, come ben noto, di A rebours, di The picture of Dorian Gray e di Dracula), un prontuario semantico di gesti melliflui ed
evanescenti e di spazialità artificiali (spesso calate nella grammatica dell’analogia figurativa), con l’Innocente d’Annunzio guarda, come dichiara ad Hérelle, al
mondo slavo (Tolstoj e Dostoevskij in testa – nelle versioni francesi) per intraprendere così la strada verso il «monologo-confessione» (la parentesi della «sezione analitica» – così Ezio Raimondi – compreso il Giovanni Episcopo e, a parere di chi scrive, L’invincibile).
La stesura dell’Innocente segna dunque un passaggio importante nella parabola narrativa di d’Annunzio; e non tanto dal punto di vista strutturale o sintattico18, quanto da quello tematico19 e linguistico. Col romanzo del ’92 lo scrit-
drogino fra Ottocento e Novecento, Bergamo, Lubrina, 1991; della stessa L’immaginario androgino.
Migrazioni di genere nella contemporaneità, Bergamo, Sestante, 2012 e Robb Graham, Sconosciuti.
L’amore e la cultura omosessuale nell’Ottocento, Roma, Carocci, 2005. Non vanno trascurate le
indicazioni di Jean Starobinski, Dall’androgina alla donna fatale, in Ritratto dell’artista da saltimbanco, a cura di Corrado Bologna, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, pp. 69-80.
17
Cfr. Giovanna Zaccaro, Da angelo a medusa: le donne della Scapigliatura, in La parabola
della donna nella letteratura italiana dell’Ottocento, a cura di Gigliola De Donato, Bari, Adriatica,
1983, pp. 307-327 e Marziano Guglielminetti, Gertrude, Tristano e altri malnati. Studi sulla
letteratura romantica, Roma, Bonacci, 1988.
18
Ancora insuperato in tale prospettiva il capitolo di M. Guglielminetti, L’orazione di d’Annunzio, in Il romanzo del Novecento italiano. Struttura e sintassi, Roma, Editori Riuniti, 1986
(prima edizione del ’64).
19
Un’ottima indagine sui temi del romanzo, inteso primariamente e in modo convincente
come «romanzo matrimoniale», è quella realizzata da Fabio Danelon, Inchiesta sull’«Innocente».
Paragrafi su un romanzo dannunziano, in Né domani, né mai. Rappresentazioni del matrimonio
nella letteratura italiana, Venezia, Marsilio, 2004, pp. 327-345.
INFANTICIDIO E DEGENERAZIONE ‘FEMMINEA’ NELL’«INNOCENTE»
377
tore mette in scena un caso di psicopatologia (che, ripeto, corrisponde a un potenziamento delle capacità analogiche), rifacendosi, in buona parte, alle teorie scientifiche della scuola francese di psicopatologia sperimentale. Troviamo
così: 1) i caratteri essenziali del protagonista Tullio e della sua formulazione interiore «multanime», a partire dall’onnicomprensivo tema dello sdoppiamento
(Maxia) che va conformandosi grazie a una molteplicità complessa e sottile di
strati (interiori e non) disgregati, e che trova in Théodule Ribot un appoggio
teorico imprescindibile (e negli Essais di Bourget una vetrina di modelli); 2) le
«malattie» della volontà (ancora tra Borguet, Amiel, Ribot e Schopenhauer) e
3) della memoria (da non trascurare il nome di Bergson). Tullio sente il procedere di allucinazioni che contaminano il processo psichico del tessuto mnestico. 4) Incontriamo poi il fenomeno del déjà-vu (a d’Annunzio ben noto grazie
al complesso dibattito europeo, in ambito psicologico, sviluppatosi attorno alla
«Revue philosophique»)20, o paronomasia, di cui Tullio è ripetutamente vittima,
soprattutto in procinto di commettere il crimine. 6) E poi tutto il potenziale
immaginativo (le varie fenomenologie, spesso descritte in modo analitico, e riprese da Ribot, relative alla formazione di immagini interiori), la costruzione di
una «realtà multipla», di un doppio binario dei processi conoscitivi, oltre le coordinate spazio-temporali (modelli non solo i volumi ribotiani delle Maladies,
ma anche l’Imagination créatrice).
Da tutto questo retroterra culturale dipendono le particolareggiate predisposizioni dei sensi del protagonista maschile: dalla vista all’ascolto; dall’immaginazione ai ricordi. Si tratta di un caso clinico (forse il più disturbato fra i soggetti
maschili dannunziani) incerto fra letterarietà (da non scordare il grande motivo della pietà alla slava21) e medicalizzazione. Non mi soffermo oltre sul profilo
20
Sul tema del déjà-vu cfr. R. Bodei, Piramidi di tempo. Storie e teorie del déjà-vu, Bologna,
il Mulino, 2006.
21
La critica ha stabilito in modo convincente il 1890 come data del primo incontro fra
d’Annunzio e la letteratura russa; cfr. Eurialo De Michelis, Dostoevskij nella letteratura italiana,
in «Lettere italiane», XXIV, 1972, 2, pp. 177-201. In particolare risulta determinante, per temi
e fonti testuali, il nome di Tolstoj. A tal proposito trovo assai poco convincente l’idea di Giorgio Bárberi Squarotti di pensare la figura di Giovanni di Scordio come «del tutto superflua». Il
romanzo, su una molteplicità di livelli, si struttura secondo un principio speculare (dai luoghi ai
personaggi). In tal senso Giovanni di Scordio è il preciso esempio della specularità della bontà
(paterna) slava. Ogni personaggio ha il suo doppio: il piccolo Raimondi, per esempio, ha due
padri, l’uno doppio dell’altro: Tullio e Giovanni di Scordio, l’uno che prova ribrezzo, l’altro un
amore incondizionato. E oltre a rappresentare quella parte incontaminata (legata al mondo mitico contadino) contrapposta alle degenerazioni dei due protagonisti, il vecchio assume precisi
caratteri evangelici che nel romanzo qua e là emergono (fra i molti il tema del perdono: «il suo
stesso sangue s’è inviperito in altri esseri ch’egli ha sempre amato ed aiutato, che ama ancóra,
che non sa maledire, che certamente benedirà nell’ora della morte, anche se lo lasceranno morir
solo»). È dunque un ulteriore tassello imprescindibile della costruzione a icone (quasi alla slava)
dei personaggi; a lui, alla madre (sui cui tornerò) e al fratello di Tullio sono riservati i gesti della
bontà. Il parere di Bárberi Squarotti si legge in Lettura de «L’Innocente», in Dal Piacere all’Innocente, Pescara, Centro Nazionale di Studi dannunziani, 1992, pp. 7-32. Sul rapporto coi russi
378 MANUELE MARINONI
clinico di Tullio, data la bibliografia assai ricca in proposito (Baldi, Mazzarella,
Maxia e, con altre prospettive, Curreri) e dati i numerosi riscontri puntuali qua
e là disseminati nei vari commenti (specie mondadoriani) al romanzo.
2. Un teatro dei nervi: tra degenerazione e sonnambulismo
Torniamo ora a Giuliana e al teatro dei nervi in cui recita una parte da prima-donna. Focalizzerò l’attenzione sugli aspetti degenerativi della protagonista del romanzo, puntando sulle varie forme del patologico che la colpiscono.
Non indugerò di volta in volta su un dato acquisito (già ricordato) a proposito
dell’Innocente: la donna descritta è ricoperta da un’aura che il soggetto maschile le vuole addossare (Baldi lo ha mostrato analiticamente. Ed è questo un altro
tratto in comune con L’Invincibile22). Molti gesti, turbamenti, debolezze e perplessità sono il desiderio profondo di un egocentrismo (o egotismo) radicale di
colui che vuole riscrivere il reale, pur cedendo alla trappola dell’effimero e dello sconvolgente che a ogni angolo si frappone fra il «bisogno del sogno» e la più
caleidoscopica chimera prodotta dal cervello (d’Annunzio si ricorderà di queste
potenzialità nervose nel Notturno e nel Libro segreto).
Uso, per il complesso strutturale dell’Innocente, la metafora teatrale (specie
pensando al secolo «nevrosico» e all’implicito paradigma di «finzione»23) non a
caso. Sandro Maxia24 ha puntualizzato le molteplici intersezioni fra organismo
narrativo e situazioni da dramma borghese (tipicamente tardo-ottocentesco; ne
sarà memore anche il Fogazzaro di Malombra), desumendo esempi espliciti dal
vanno anche ricordati i passi in cui Giuliana parla attraverso i segni posti sul testo tolstoiano
(tema ricorrente in d’Annunzio). Sul libro come artificio del perturbante cfr. Alberto Castoldi,
Grandville & Company, il “perturbante” nell’illustrazione romantica, Bergamo, Lubrina, 1987.
22
Cfr. Guido Baldi, L’Innocente: il sadismo «multanime» e l’ossessione del doppio, in Le ambiguità della «decadenza». D’Annunzio romanziere, Napoli, Liguori, 2008, pp. 43-76.
23
Dal mondo ermeneutico dei vari (non cito per categorie) Weinrich, Genette, McHale
prima, e Pavel poi, ecc. sarebbe interessante chiedersi se la prospettiva narrativa dannunziana
(specie declinandola nel tessuto della finzione che fa delle costellazioni dell’individualismo un
importante baluardo) al cospetto delle varie disgregazioni e frantumazioni del possibile (l’accostamento con la scienza di Ribot non può oscurare tali vicinanze e percezioni), sia un effettivo
cambiamento di paradigma di modi e processi del narrativo, nei passaggi dall’Ottocento al Novecento. È certo che il progetto stesso della scrittura finesecolare risente di un determinismo
della parola romanzesca fondato sull’anti, sulla destabilizzazione di un universo precostituito e
ordinato. Un nuovo tessuto che ha da fare i conti più col realismo primo-ottocentesco che col
verismo concomitante (si potrebbe partire dai temi sviluppati da Stefano Calabrese, “Wertherfieber, bovarismo e altre patologie della lettura romanzesca”, in Il romanzo, “La cultura del romanzo”,
Torino, Einaudi, 2001, I, pp. 567-598). Ancora più significativa sarebbe invece un’aggressione
puntuale del sistema linguistico dei romanzi dannunziani per comprendere più a fondo i contatti
con la modernità (italiana ed europea).
24
Cfr. Sandro Maxia, Il tribunale della scrittura. Lettura dell’«Innocente», in D’Annunzio
romanziere e altri narratori del Novecento italiano, Venezia, Marsilio, pp. 35-57.
INFANTICIDIO E DEGENERAZIONE ‘FEMMINEA’ NELL’«INNOCENTE»
379
testo (mi piace ricordare che alle soglie dell’esperienza drammaturgica venne suggerita a d’Annunzio la possibilità – di cui non tenne però conto – di trasportare in forma teatrale l’Innocente, e con esso il Giovanni Episcopo)25:
Giuliana era là, davanti a me, in piedi, con una mano poggiata all’angolo di un
tavolo, immobile, più rigida di un’erma […]. Il mondo reale era completamente
svanito. Non restava più se non un mondo fittizio […], una scena di teatro. Una
candela ardeva sul tavolo, aggiungendo evidenza a quell’aspetto di finzione scenica, poiché la fiammella immobile pareva agitare intorno a sé quel vago orrore
che lasciano nell’aria con un gran gesto disperato o minaccioso gli attori di un
dramma26.
Dunque un primo punto su cui soffermarsi riguarda tale teatralizzazione del
patologico (al femminile). E il nesso coniugante fondamentale è il fenomeno
del sonnambulismo. Bertrand Méheust, studiando da un punto di vista storicosociologico il fenomeno, ha enucleato a fondo il turbamento globale, lo «shock
culturale», che tale campione dello psichico ebbe sulla cultura europea tardo ottocentesca, per lo meno a partire dalle pratiche, appunto teatrali, di Chastenet
de Puységur, allievo di Mesmer. D’Annunzio, ma con lui molti adepti dell’estetismo di fine secolo (pensiamo ancora a Fogazzaro, ma lo stesso Angelo Conti
ne subì a fondo il fascino), e così di certo verismo (Capuana), fu potentemente affascinato da queste forme degenerative, che andavano di pari passo con la
messa al margine dei poteri della volontà. Sono infatti numerosi i passi qua e là
disseminati nell’intero corpus testuale dannunziano dove il sonnambulismo entra in scena (dal Piacere al Sogno d’un mattino di primavera al Solus ad solam)27.
E parallelamente Charcot, dalle aule della Salpêtrière, non solo offrì i dettagli psichici e gli effetti suggestivi della crisi nervosa, di cui il sonnambulismo
era considerato una forma, nei movimenti ipnotici, ma, soprattutto tramite le
Leçons sur les maladies du système nerveux (in concomitanza con gli Études cliniques sur la grande hystérie ou hystéro-épilepsie del 1881 di Paul Richer), tratteggiò i lineamenti di un vero e proprio immaginario dei turbamenti femminili.
In modo speciale diede conto dell’automatismo fisico-motorio e del corpo inarSul Giovanni Episcopo oltre gli imprescindibili riferimenti di Ezio Raimondi (Il silenzio
della Gorgone, Bologna, Zanichelli, 1980, da cui deriva anche la più volte ricordata definizione di
parentesi «analitica») cfr. l’introduzione di Clelia Martignoni a Gabriele d’Annunzio, Giovanni
Episcopo, Milano, Mondadori, 1979 (punto di partenza imprescindibile per la ricerca di fonti russe) e S. Maxia, Un monologo «alla Dostoevskij» nell’Italia di fine Ottocento. Il «Giovanni Episcopo»,
in D’Annunzio romanziere, cit., pp. 19-43.
26
G. d’Annunzio, L’innocente cit., p. 152 (corsivi miei).
27
Sulla ripresa del fenomeno del sonnambulismo nella letteratura italiana fin de siècle cfr.
almeno Stefano Ferrari, Psicologia come romanzo. Dalle storie di isteria agli studi sull’ipnotismo,
Firenze, Alinea, 1987 e il recente Annamaria Cavalli Pasini, Letteratura e scienza. Scontri e incontri
tra immaginario letterario e sapere scientifico: i casi di d’Annunzio e Capuana, Rimini, Guaraldi,
2015.
25
380 MANUELE MARINONI
cato nell’arc-en-cercle (molta di questa energia figurativa venne diffusa in Italia,
attorno al 1888, da Giulio Melotti).
Se si volesse azzardare una lettura della topologia testuale del romanzo in
questa direzione, si potrebbe dire che l’Innocente è interamente edificato sulla
continua tensione alla circolarità, nella perpetua fuga (talvolta verticalizzata –
in quanto fissa nelle coordinate spaziali) dal centro (Villalilla e la Badiola sono
i due luoghi preposti a differenti stati d’animo e a diverse vicende, interiori e
non) verso le periferie. Tutto il romanzo è uno svolgimento teatrale, dall’esterno all’interno e dall’interno all’esterno.
E dunque, per tornare sui passi precedenti, come si configura, precipuamente, la figura femminile? Attraverso la messa in scena del proprio corpo, e così
del proprio sistema nervoso, mediante, prima di tutto, le forme sonnamboliche.
Vediamo, con lo sviluppo di altri temi, alcuni passi significativi:
[…] mentre io tacevo credendo ch’ella fosse per assopirsi, uscì in queste parole
oscure, con l’accento strano di chi parla in sogno:
– Ah, se davvero l’avessi fatto! Era un buon suggerimento...
Che dici, Giuliana?
Ella non rispose28.
Giuliana, «amante», «sorella» e «migliore amica», cade sovente nel silenzio,
tace a domande e prospettive future. È la reticenza necessaria affinché il dramma possa compiersi, nel pieno di una muta complicità. Il fatto medesimo che
tutto il romanzo si svolga in virtù di quest’atto finale (confessato) conferma l’intrinseco carattere teatrale.
Ulteriori piccoli gesti, qua e là disseminati nel romanzo, rimandano alla
grammatica metaforica del mesmerismo. Per esempio, a partire dai rituali ipnotici, nell’atto di catturare il fluido: «“A che pensi, Tullio?” mi domandò Giuliana,
con un gesto ingenuo appuntandomi l’indice tra l’uno e l’altro sopracciglio come
per fermare il pensiero»29.
Il rapporto mesmerico vincolava peraltro, secondo le leggi para-scientifiche
del periodo, la coppia soggetta al recitativo mediante gli effetti del potere di tale
«fluido magnetico»:
[…] mi pareva di non potermi distaccare da lei, di non poter interrompere
neppure per un attimo il contatto delle nostre mani, quasi che a traverso la
cute le estremità vive dei nostri nervi aderissero magneticamente. Ci avanzammo
insieme, ciechi30.
28
29
30
G. d’Annunzio, L’innocente cit., pp. 11-12.
Ivi, p. 29.
Ivi, p. 95 (corsivi miei).
INFANTICIDIO E DEGENERAZIONE ‘FEMMINEA’ NELL’«INNOCENTE»
381
La reggevo forte alle reni con un braccio e la sospingevo. Ella era come una
sonnambula. Per un tratto, rimanemmo in silenzio31.
Spesso ella si lamentava d’un dolore pulsatile alle tempie, che non le dava tregua. Io le passavo lungo le tempie l’estremità delle mie dita, per magnetizzare il
suo dolore32.
Tale specifico carattere del rapporto tra Giuliana e Tullio è alimentato da almeno due motivi principali: anzitutto dalla fragilità dei nervi della donna, che
la rende in tutto e per tutto una «demente», e quindi una perfetta, ipotetica,
paziente di uno Charcot; e secondo, ma non per questo di minore importanza,
dal fatto che il protagonista maschile ha una predisposizione psichica («multanime»), nonché un’acuta iper-sensibilità, che gli permette di indossare gli abiti
del buon mesmerizzatore (e quante volte il soggetto maschile ricopre in d’Annunzio tale ruolo salvifico! – esemplare il Solus ad solam). Ma anche la donna,
in quanto «demente», è dotata di una «sensibilità fisica straordinariamente acuta» ed è «forse» proprio «la malattia» ad aver «aumentata, esasperata quella sensibilità». Si tratta, non a caso, di «malattie complicate della matrice e dell’ovaia,
quelle terribili malattie nascoste che turbano in una donna tutte le funzioni della
vita»33. E credo che questa scelta tematica non sia semplicemente, così come indicava su ampia scala Praz, un tòpos della visione decadente, ma sia il mezzo con
cui d’Annunzio elabora, parallelamente alla teatralizzazione del testo, una teatralizzazione del corpo (femminile). L’identificazione di una patologia del sistema riproduttivo prelude e serve da sfondo al futuro parto dell’«intruso»: questi
è dalla malattia (dei nervi, del corpo e della psiche) che nasce. Se lo spunto reale è venuto dai problemi che colpirono Barbara Leoni, molte notizie tecniche,
con alta probabilità, l’autore le ricava dagli studi medici (la cui validità, anche
se per un altro caso, è ribadita da d’Annunzio nel romanzo stesso). Tale malattia dell’ovaia, per esempio, si trova descritta in modo analitico nel Corso teorico
e pratico di ostetricia, del 1838, di Joseph Capuron; così come in molti articoli
e dissertazioni di Melchiorre Gioja.
Ma un giorno io m’avvidi ch’ella soffriva anche nella sua salute; m’avvidi che
il suo pallore diveniva più cupo e talvolta si empiva come di ombre livide. Più
d’una volta sorpresi nella sua faccia le contrazioni d’uno spasimo represso; più
d’una volta ella fu assalita, in mia presenza, da un tremito infrenabile che la scoteva tutta e le faceva battere i denti come nel ribrezzo di una febbre subitanea34
31
32
33
34
Ivi, p. 90 (corsivi miei).
Ivi, p. 218 (corsivi miei)
Ivi, p. 10.
Ivi, p. 7.
382 MANUELE MARINONI
alla tassonomia del dolore fisico subito s’accosta quella del dolore psichico,
degenerato, sonnambolico, con qualche ombra, nella perfetta sintesi della cultura tardo ottocentesca, di possessione (per ricordare solo un caso, con Lombroso
si arrivò a definire scientificamente i casi esoterici più disparati35):
Una sera, da una stanza lontana mi giunse un grido di lei, lacerante; e io corsi,
e la trovai in piedi, addossata a un armario, convulsa, che si torceva come se
avesse inghiottito un veleno. Mi afferrò una mano e me la tenne stretta come
in una morsa.
[…] Vedevo in quei larghi occhi passare, come a onde, la sofferenza sconosciuta;
e quello sguardo continuo, intollerabile, mi suscitò d’un tratto un terrore folle36.
Quella che dunque d’Annunzio orchestra nell’Innocente, dalla parte femminile
del romanzo, è una vera e propria fenomenologia del somatico e del patologico.
Da un’angolazione più ampia «la geografia dei sensi», ha scritto Alessandra Violi,
«si ridefinisce in base ad un processo di inarrestabile sinestesia»37; le varie parti
del corpo sono in grado di sentire attraverso un più vasto orizzonte percettivo.
Come già accennato, nella seconda metà dell’Ottocento, soprattutto in Italia,
si poté assistere a un interessante dibattito sui rapporti tra malattie nervose e
malattie dell’apparato riproduttivo, insomma tra «cervello» e «utero», e dunque
tra sopravvivenza della specie e degenerazione. Sintetizza d’Annunzio (vicino
alle teorie di Vignoli):
[…] una pietà per quella e per le altre, agitate da aspirazioni indefinite verso
le idealità dell’amore, illuse dal sogno capzioso di cui il desiderio maschile le
avvolge, smanianti d’innalzarsi, e così deboli, e così malsane, così imperfette,
uguagliate alle femmine brute dalle leggi inabolibili della Natura; che impone a
loro il diritto della specie, sforza le loro matrici, le travagli di morbi orrendi, le
lascia esposte a tutte le degenerazioni. E in quella e nelle altre, rabbrividendo per
ogni fibra, io vidi allora, con una lucidità spaventevole, vidi la piaga originale, la
turpe ferita sempre aperta «che sanguina e che pute»38.
E non sarà un caso che in alcune dissertazioni specialistiche, penso ad esempio a quelle di Luigi Maria Bossi e Giovanni Brocca (molti risultati si potevano leggere sulle pagine dell’«Archivio italiano per le malattie nervose e più par35
Su questi e altri aspetti dell’opera, e dell’influenza sull’ambito letterario, di Cesare Lombroso cfr. il documentato lavoro di Delia Frigessi, Cesare Lombroso, Torino, Einaudi, 2003.
36
G. d’Annunzio, L’innocente cit., pp. 7-8.
37
Cfr. Alessandra Violi, Il teatro dei nervi. L’immaginario nevrosico nella cultura dell’Ottocento, Bergamo, Bergamo University Press, 2002, p. 117. Della stessa studiosa cfr. Il corpo nell’immaginario letterario, Sesto San Giovanni, Mimesis, 2013. Cfr. inoltre Clara Gallini, Magnetismo
e ipnotismo nell’Ottocento italiano, Milano, Feltrinelli, 1983 e Giacomo Scarpelli, Il cranio di
cristallo. Evoluzione della specie e spiritualismo, Torino, Bollati Boringhieri, 1993.
38
G. d’Annunzio, L’innocente cit., p. 15.
INFANTICIDIO E DEGENERAZIONE ‘FEMMINEA’ NELL’«INNOCENTE»
383
ticolarmente per le alienazioni mentali»; nel 1891 vi venne pubblicato un importante numero monografico del Congresso della società fremaiatrica italiana),
fosse vincente l’idea che particolari «deformità uterine» determinavo, spesso, o
«manie religiose» o «manie suicide».
Andrea Verga, Serafino Biffi e Cesare Castiglioni unirono più volte le forze per cercare di ordinare le cause «nervose» preposte alle manie; e d’individuare così le origini del suicidio, inteso prima come fenomeno collettivo e sociale e poi individuale39. Anche Arturo Morselli, il grande studioso degli isterismi
dei criminali, intendeva, nelle donne, il cervello come l’organo responsabile del
rapporto tra disordine mentale e funzioni mestruali.
Non c’è, inoltre, dubbio che Giuliana, ma così come la maggior parte delle donne descritte da d’Annunzio, sia un caso specifico della cosiddetta frenosi puerperale: secondo gli psicologi dell’epoca, riassume Annamaria Tagliavini,
«in questa malattia il dolore fisico, legato all’esperienza del parto», – e il parto
di Giuliana sarà assai doloroso – «faceva esplodere il delirio che si manifestava
principalmente sotto forma di una profonda avversione o una innaturale apatia verso il bambino»40.
3. Mania suicida e senso di colpa. Le ombre della seduzione
Anche la «mania suicida» ricorre nel romanzo e già dalle prime pagine è connessa alla formula del dubbio (tutta la prima parte del libro è inscritta nella dimensione semantica del dubbio – tema che ritorna, anche stilisticamente, nel
Forse che sì forse che no – mentre la seconda sarà all’insegna del segreto41). Ogni
qualvolta viene insinuandosi nei pensieri di Tullio l’immagine della fine volontaria di Giuliana agiscono immediatamente le sintassi della paura e dell’orrore
(Scipio Sighele parlava di tutti i disegni suggestivi del limite), ma raramente si
fa leva sulla maternità, sul fatto che la protagonista sia, per altro, già madre di
Maria e di Natalia. Sono ben altri i caratteri emergenti del profilo femmineo.
Fra questi, oltre la già ricordata acuta sensibilità, nonché una puntuale «memoria organica delle sensazioni», di cui si dissertava in tutti i più importanti tratta-
39
Per un quadro generale dei problemi cfr. La psicologia in Italia. I protagonisti e i problemi
scientifici, filosofici e istituzionali (1870-1945), a cura di Guido Cimino, Nino Dazzi, Milano,
Led, 1998.
40
Cfr. Annamaria Tagliavini, Il fondo oscuro dell’anima femminile, in Valeria P. Babini-Fernanda Minuz-Annamaria Tagliavini, La donna nelle scienze dell’uomo. Immagini del femminile
nella cultura scientifica italiana di fine secolo, Milano, FrancoAngeli, 1986, pp. 78-113. Molti
di questi temi sono indagati, in ambito letterario, da Annamaria Cavalli Pasini, La scienza nel
romanzo. Romanzo e cultura scientifica tra Ottocento e Novecento, Bologna, Patron, 1982.
41
Cfr. Roberto Puggioni, Destrutturazione e ricomposizione dell’io: il tema del segreto nell’«Innocente» di Gabriele d’Annunzio, in Il segreto, a cura di Ubaldo Floris, Maurizio Virdis, Roma,
Bulzoni, 2000, pp. 439-457.
384 MANUELE MARINONI
ti di frenologia dell’epoca42 (anche in quei lavori, come quelli di Filippo Masci,
in cui si tenevano insieme problemi morali a questioni di «nevrologia»; importantissima, per le dinamiche interne ai percorsi della psicopatologia italiana, la
definizione di «memoria organica» negli studi di Gabriele Buccola), anche una
certa predisposizione, fondata su base organica, all’intuito, imposta all’attenzione
di un’intera generazione medica dal Trattato di fisiologia, del 1848, di Salvatore
Tommasi. Non tralasciando il fatto che proprio nel 1891 Scipio Sighele, uno
dei sociologi più vicini a d’Annunzio, dava alle stampe, per l’editore Bocca, uno
studio sull’Evoluzione dal suicidio all’omicidio nei drammi d’amore.
Non manca poi, come si è già avuto modo di ricordare, tutto il versante della
seduzione, vicino al potere e alle debolezze del femminino, che assegna a Giuliana
alcune delle tipiche immagini della femme-fatale, pur formandone, nella sommatoria, qualcosa di diverso, specie dalle vesti della Nemica (forse più idonee a
Teresa Raffo, l’amante del momento di Tullio).
Gli altri motivi che si assommano a quello della malattia, nella configurazione femminile, sono:
1) il tipico sguardo meduseo, troppo poco efficace però per uno spirito acuito
come quello del protagonista, quindi teso, ancora una volta, alle svenevoli tracce del pathos degenerativo: gli incroci di sguardi, tra seduzione, pietà e complicità, dall’inizio alla fine del romanzo, sono un vero e proprio Leitmotiv che racconta il rapporto matrimoniale e sentimentale:
E la fissai; e, come ella rimaneva muta, a poco a poco non vidi se non gli occhi
suoi larghi, straordinariamente larghi, e cupi ed immobili. Tutto disparve intorno. E io dovetti chiudere le palpebre per dissipare la sensazione di terrore che
quegli occhi avevano messa in me43.
[…] ella stava nell’ombra, nascosta, immobile sotto le coperte. Più d’una volta
io mi chinai verso di lei per scorgerle il viso, o credendo ch’ella si fosse assopita
o temendo ch’ella fosse ricaduta nel deliquio. Tutte le volte ebbi la stessa sensazione inaspettata di sgomento, accorgendomi ch’ella teneva nell’ombra gli occhi
sbarrati e fissi44.
2) Una «profonda, inalterabile malinconia ch’ella porta negli occhi» intrecciata al motivo del segreto. Però il desiderio di Tullio, nelle trame di un
potere saturnino che cala laddove si palesano gli eccessi di pensiero e attenzione, di una «felicità» che «riposa tutta su l’abolizione del passato», non è
del tutto corrispondente, o meglio chiarificato, nei pensieri di Giuliana. È,
42
Molte indicazioni in proposito in Modelli della mente, modelli del cervello. Aspetti della
psicologia fisiologica anglosassone dell’Ottocento, a cura di Carmela Morabito, Milano, FrancoAngeli, 1998.
43
G. d’Annunzio, L’innocente cit., p. 110.
44
Ivi, p. 114.
INFANTICIDIO E DEGENERAZIONE ‘FEMMINEA’ NELL’«INNOCENTE»
385
ancora una volta, una certa reticenza la base da cui Tullio deduce desideri e
speranze complici.
A proposito della malinconia ha scritto Gianni Oliva che «Giuliana è la moglie-martire mortificata nei desideri e nelle emozioni. In lei si annida uno sconforto totale che ne annichilisce la volontà di agire rendendola apatica e indifferente alle cose, consegnandola a un tempo congelato», e, aggiunge lo studioso,
che «ella è vittima di una malinconia lacrimosa e improduttiva, eraclitea, che ha
compassione della condizione umana»45. Credo che in realtà il nostos di Giuliana
sia di tutt’altra natura: lei prova, anzitutto, un desiderio di morte al quale non è in
grado di dare definitivo sfogo: «grande errore […] grande errore non esser morta prima del tuo ritorno da Venezia. Ma la povera Maria, ma la povera Natalia,
come le avrei lasciate?», e poco oltre: «Credi tu – ella mi domandò, con una timidezza penosa – credi tu che la colpa sia grave, quando l’anima non consente?». Giuliana più che perdere ogni potenziale volontaristico (semmai quietato
dai sintomi degenerativi – come risultato di tutti i fenomeni dell’orizzonte degenerativo di cui si sta parlando) coltiva in corpo, così come tiene in sé l’intruso, un terribile senso di colpa, vincolato più al segreto che al tradimento stesso
(una sorta di bovarismo nevrosico)46, ed è lei stessa a confessarlo a Tullio: «Ma io
non cerco di farmi perdonare. So che il perdono è impossibile, che l’oblio è impossibile. So che non c’è scampo. Intendi? Volevo soltanto farmi perdonare da
te i baci che ho presi da tua madre»47.
Si tratta di un senso di colpa protetto ancora una volta dai giochi della finzione, dagli stessi ruoli teatrali che ogni soggetto del romanzo ricopre. D’altro
canto, scrive Starobinski, «il temperamento malinconico comporta una profonda ambiguità: possono scaturirne ugualmente genio e malattia»48. Tullio e
Giuliana sono, in questo modo, due facce della stessa medaglia, sono speculari e complici. La grande capacità di leggere i simboli di lui si perde nel momento in cui l’oggetto diventa il corpo della moglie: nonostante le sue acutissime
capacità percettive e interpretative, Tullio non è in grado di capire subito che
Cfr. Gianni Oliva, D’Annunzio e la malinconia, Milano, Mondadori, 2007, p. 73.
Per quanto riguarda la tematizzazione del tradimento (di entrambi), l’Innocente si presenta
interamente come romanzo europeo. Per una fenomenologia del tema cfr. Emilia Fiandra, Desiderio e tradimento. L’adulterio nella narrativa dell’Ottocento europeo, Roma, Carocci, 2005 (in
particolare il capitolo Le lingue dell’adulterio, pp. 55-78).
47
G. d’Annunzio, L’innocente cit., p. 158.
48
Cfr. Jean Starobinski, L’inchiostro della malinconia, Torino, Einaudi, 2014. Spesso nei protagonisti dannunziani il confine tra malattia e malinconia è molto sottile. Soprattutto gli effetti
della bile nera si stratificano a seconda delle diverse fasi della processualità simbolistica. Si hanno
così, semplificando non poco, una «malinconia analitica», una «malinconia solare e mitica» e
una «malinconia notturna». Sui vari aspetti dello statuto malinconico nell’opera dannunziana
cfr. il già citato studio di Gianni Oliva; i capitoli dannunziani in Lea Ritter Santini, Le immagini
incrociate, Bologna, il Mulino, 1986 e, per una malinconia vicina ai problemi della memoria e
della scrittura de sé, Manuele Marinoni, D’Annunzio o della malinconia. Le «faville del maglio»:
esempio di Journal intime, in «Otto/Novecento», 2016, 2, pp. 23-44.
45
46
386 MANUELE MARINONI
Giuliana è incinta. E lei, prima e dopo, tace la verità. Anche questi aspetti premono sul senso di colpa e sulla parziale complicità nell’infanticidio. Pare quasi,
soprattutto attraverso lo sguardo interpretativo di Tullio, sovvertita la teoria di
Tito Vignoli, dalle Note intorno ad una psicologia sessuale del 1887, seconda cui
la maternità fungeva da «vaccino morale» alla criminalità.
Ma il senso di colpa che conduce Tullio alla confessione (grazie alla scrittura
– il senso di colpa è motore immobile di tutto il monologo del protagonista) non
è il medesimo che colpisce Giuliana. Lei è doppiamente complice: da un lato è
consapevole, e aspetta l’atto finale, dall’altro è essa stessa la custode dell’impuro, del «germe» del male. Giuliana è, in modo assai dissacrante e blasfemo, e lo
si nota chiaramente dalla simbologia cronologica49 entro cui vanno svolgendosi le vicende (battesimo e morte dell’infante sono alle soglie del Natale) un’anti-Maria. Giuliana è destinata all’ombra e alla morte.
3) È in questa direzione che credo si debba leggere l’altro grande Leitmotiv
del romanzo: quello musicale50. Un cenno soltanto al Mendelssohn del Lieder
ohne worte da cui proviene «una di quelle melodie velate ma profonde in cui
pare che l’Anima rivolga alla vita con accenti sempre diversi una medesima domanda: “perché hai delusa la mia aspettazione?”» (rammento che Mendelssohn
era già presente nel Piacere con toni sospesi fra «stanchezza» e «dolore»). Un altro cenno spetta alla Marcia funebre sulla morte di un eroe (Sonata op. 26) di
Beethoven (legata al fratello di Tullio). Ma il vero e proprio Leitmotiv è quello dell’Orfeo di Gluck, che unisce, negli interstizi musicali, l’Innocente al Forse
che sì forse che no. La prima volta che l’aria compare nel romanzo è cantata da
Giuliana. La scena intreccia espressamente la riscrittura musicale del mito antico alla (drammatica e funerea) sorte della protagonista:
Un altro giorno palpitai forte, udendola cantare da una stanza lontana. Cantava
l’aria di Orfeo:
Che farò senza Euridice?…
Era la prima volta, dopo lungo tempo, che ella cantava così, movendosi per la
casa; era la prima volta che io la riudiva, dopo lunghissimo tempo51.
Sul simbolismo liturgico del romanzo cfr. Umberto Artioli, Il combattimento invisibile.
D’Annunzio tra romanzo e teatro, Bari-Roma, Laterza, 1995 e Marilena Giammarco, Una nuova
scrittura per il romanzo: dall’«Episcopo» all’«Innocente», in La parola tramata. Progettualità e invenzione nel testo di d’Annunzio, Roma, Carocci, 2005, pp. 57-78.
50
Per un approfondimento sulla conoscenza di d’Annunzio della musica tedesca pre-wagneriana (in senso cronologico) cfr. Renato Chiesa, L’altra musica tedesca, in D’Annunzio e la cultura
germanica, Pescara, Centro Nazionale di Studi Dannunziani, 1985, pp. 75-98.
51
G. d’Annunzio, L’innocente cit., p. 38.
49
INFANTICIDIO E DEGENERAZIONE ‘FEMMINEA’ NELL’«INNOCENTE»
387
Euridice non è più; e più non può appartenere a Orfeo52. Vive nell’ombra e
ad essa è eternamente legata. Tullio sente tutto questo mentre Giuliana canta:
Non riuscivo a dissipare la mia confusione, a riconquistare la mia franchezza.
Sentivo che ogni intimità fra noi due era caduta. Ella mi pareva un’altra donna.
E intanto l’aria di Orfeo mi ondeggiava ancóra su l’anima, m’inquietava ancora.
Che farò senza Euridice?…
In quella luce dorata e tepida, in quel profumo così molle, in mezzo a tutti quegli
oggetti improntati di grazia femminile, il fantasma della melodia antica pareva
svegliare il palpito d’una vita segreta, spandere l’ombra d’un non so che mistero53.
4) Al motivo dunque musicale della morte, e della distanza incolmabile, si
aggiunge una serie di altri indizi che declinano l’ombra nel romanzo, specialmente sulla figura femminile. Tra i più evidenti ricordo la trasparenza cerea delle mani assimilabili al «mazzo di crisantemi bianchi» (in una perfetta semantica
simbolistica del cromatico. Alcuni di questi particolari risalgono ai primi cartoni dell’Invincibile adoperati sia per il Trionfo della morte che per l’Innocente):
[mani] prone, così pallide che soltanto le vene azzurre le distinguevano dal
lino54.
Prese il mazzo, lo guardò a lungo insinuandovi le dita affilate: e una triste rispondenza correva tra il suo pallore e il pallore dei fiori autunnali. Erano crisantemi ampii come rose aperte, folti, grevi; avevano il colore delle carni malaticce,
esangui, quasi disfatte, la bianchezza livida che copre le guance delle piccole
mendicanti intirizzite dal gelo. Alcuni portavano lievissime venature violacee,
altri pendevano un poco nel giallo, delicatamente55.
4. Stabat Mater
Si è spesso fatto riferimento al tema del dubbio, e con esso a quelli della finzione e della simulazione teatrale. E dunque sorge spontanea la domanda di
quanto spirito materno sia in possesso la madre che partorisce e perde il figlio
52
Qualche spunto interessante, quantunque un po’ forzato in chiave psicoanalitica, sul tema
del mito d’Orfeo nell’Innocente, si legge in Sabino Caronia, L’innocente dannunziano: il mito di
Orfeo ed Euridice in una favola moderna, in «Letteratura italiana contemporanea», IX, settembredicembre 1988, 25, pp. 49-70. Si potrebbe forse pensare che dalla riscrittura di questo mito possa
derivare la semantica dello sguardo, segnale di come i due protagonisti sprofondano nel peccato,
nella colpa e, soprattutto, nella distanza.
53
G. d’Annunzio, L’innocente cit., p. 39.
54
Ivi, p. 17.
55
Ivi, p. 227.
388 MANUELE MARINONI
e se sia più forte l’amore per la vita che sta dentro di lei (e Tullio se lo chiede) o
l’amore per il marito (acceso e rinfocolato dopo il tradimento). Nel testo non
mancano riferimenti anche a questo enigma:
Ella si trovava dunque ancóra ai primi del mese: forse al terzo, forse al principio
del quarto. Le aderenze che univano il feto alla matrice dovevano essere deboli.
L’aborto doveva essere facilissimo […]. Come mai Giuliana, al primo sospetto,
non aveva tentato ogni mezzo per distruggere il concepimento infame? Era stata
ella trattenuta da un pregiudizio, da una paura, da una ripugnanza instintiva di
madre? Aveva ella un senso materno anche per il feto adulterino?56
Il dubbio di Tullio non verrà mai completamente smentito, semmai mitigato o veicolato altrove. Al destino è lasciato il compito di decidere; un destino da
costruire e da fare (è però sempre Tullio a interpretare):
Io le presi una mano; le dissi:
– Tu mi sollevi un poco. Ti sono grato. Tu intendi…
Soggiunsi, mascherando di speranza cristiana la mia intenzione micidiale:
– C’è una Provvidenza. Chi sa! Ci può essere per noi una liberazione… Tu intendi quale. Chi sa! Prega Iddio.
Era un augurio di morte al nascituro; era un vóto57.
È tutt’altro che da escludere che questa «liberazione» si riferisca alla propria morte; ed è d’Annunzio stesso a suggerirlo poco più in là nel testo:
Ella dunque non è trattenuta da un pregiudizio religioso, dalla paura del peccato; perché, essendo disposta a morire, ella è disposta a commettere un delitto
duplice, contro sé stessa, e contro il frutto del suo ventre. Ma ella è convinta
che la sua esistenza è utile sulla terra, anzi necessaria, alle persone che l’amano e
ch’ella ama; ed è convinta che l’esistenza del figliuolo non mio renderà la nostra
vita un supplizio insostenibile58.
Nel gioco degli specchi e delle rifrazioni nel romanzo, la vera madre, colei che
fa della sua vita una vocazione per il figlio (mi riferisco al piccolo Raimondo) è
la madre di Tullio: lei è destinata allo Stabat Mater, lei si strugge d’amore materno per la morte dell’infante, lei sostituisce nel ruolo della bontà la degenerata, così come il fratello Federico sostituisce Tullio nel vero amore fraterno per
Giuliana e così come Giovanni di Scordio ha sostituto la figura paterna. Gli
sdoppiamenti (oltre quelli topologici) sono dunque di due nature differenzia56
57
58
Ivi, p. 169.
Ivi, p. 178.
Ibidem.
INFANTICIDIO E DEGENERAZIONE ‘FEMMINEA’ NELL’«INNOCENTE»
389
te: una interiore, perpetrata costantemente, secondo le leggi dell’attenzione ribotiana, nella mappa psichica di Tullio; l’altra nella finzione teatrale dove ogni
personaggio ha un proprio doppio.
Più volte nel romanzo compare il tema dello specchio, focus di tutta la vicenda drammatica. Esso raddoppia la realtà, turba le coscienze e veicola certe vertigini del senso. Lo specchio, come talismano, infrange l’incantesimo della totalità e proietta una sorta di Wunderkammer della metamorfosi psichica. E in fondo
lo specchio, come scriveva Baltrušaitis, non è l’«allegoria» del «pensiero profondo e del lavoro dello spirito che esamina attentamente i dati di un problema»?
Maestro di Santa Caterina (1490 c., Colonia, Wallraf-Richartz Museum).
DONNE SENZA UOMINI: ALTEA E LE ALTRE
Anco Marzio Mutterle
«Strano. Le donne sofferte e odiate, nella Paura, cominciano per E; quelle
vagheggiate e intangibili per C. Elena Elvira; Concia Cate»1. Viene da chiedersi
se questa escursione pavesiana del 8 ottobre 1948 nella propria onomastica non
sia applicabile anche alla coppia Altea Atalanta del dialogo La madre. Questo è
l’ottavo dei Dialoghi con Leucò, composto tra 26 e 28 dicembre 1945. Si colloca dopo i primi dialoghi titanici e quelli che rappresentano la nequizia o la strapotenza olimpica2. Figure delineate separatamente nel corso del dialogo, Altea
e Atalanta si ritrovano allineate perfettamente nella scena finale, pedine di un
percorso costruttivo fortemente teatralizzato che vede due personaggi sulla scena (Meleagro ed Ermete, quelli che parlano) e due esterni, le donne, mute nella scena conclusiva. Riesce opportuno citare le parole di Ermete: «Le due donne
convivono senza parole, guardano il focolare, dov’è stramazzato il fratello di tua
madre e dove tu sei fatto cenere. Forse non si odiano nemmeno. Si conoscono
troppo. Senza l’uomo le donne son nulla»3.
Dunque una conoscenza reciproca, speculare e silenziosa, è ciò che le tiene prossime, oltre il presumibile odio e le rivalità: e i contenuti di tale sapienza
consistono nell’avere osteggiato e strumentalizzato il genere maschile, fino alla
scelta omicida. Strategia che tuttavia, come dichiarato esplicitamente nel finale, si risolve per le donne in una privazione – anzi, almeno per Altea, in un lutto tanto particolare che si nega di esprimere in parole il proprio dolore per la
perdita – una privazione non più colmabile, dentro una scenografia connotata da vuoto e silenzio.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. 1935-1950, nuova edizione condotta sull’autografo, a
cura di Marziano Guglielminetti e Laura Nay, Torino, Einaudi, 1990, p. 354.
2
Antonio Sichera, Pavese. Libri sacri, misteri, riscritture, Firenze, Olschki, 2015, p. 293,
immagina lo «snodarsi di una sinusoide». La madre si trova piazzato tra Schiuma d’ onda e I due
(che pertiene ad altro filone). Prima, temi affrontati erano stati la decadenza titanica, la nequizia
divina, il selvaggio del divino femminile (Artemide ne La belva e Afrodite appunto in Schiuma
d’onda).
3
Si cita da C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino, Einaudi, 1968, p. 56.
1
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
392 ANCO MARZIO MUTTERLE
Il dialogo è realizzato secondo una procedura già attiva in Lavorare stanca:
lasse segnate da parole-immagine ricorrenti, che si incrociano o scambiano o
condensano modificandosi e ritrovandosi, per esprimere alla fine un significato
conclusivo; e l’accoppiamento dei due personaggi è collocato alla confluenza di
tutto il percorso dialogico sostenuto dalle immagini racconto. D’altra parte, il
dialogo è saldato su un inizio e una fine tra loro simmetrici e anzi quasi uguali4;
ma proprio uguali non sono, qualcosa è avvenuto lungo il tragitto. Lo si riscontra nelle parole di Ermete: il «Sei quasi il nulla» delle battute iniziali si trova ribadito, anzi perfezionato nel «Tu sei un’ombra e il nulla» del bilancio conclusivo. Possiamo anzi anticipare, a tal proposito, che non si tratta della clausola o
equivalenti che solitamente corona i percorsi immaginativi pavesiani; il dialogo, infatti, approderà non ad una soluzione, ma a un ulteriore quesito che non
prevede risposta: «Chiedi perché vi han fatto, Meleagro». Ovvio che in tale assenza di risposte si legge la irremovibilità del destino.
Le due donne sole e mute fissano il focolare. L’ immagine del fuoco è uno dei
perni reggenti dell’intero testo; «bruciato come un tizzo» si definisce inizialmente Meleagro, che poi viene variando la propria condizione con forme del tipo:
«Sono ancora una brace…», «sentirsi bruciare, e quegli occhi che fissano il fuoco», «voi vivete mezzo riarsi» (parole, queste ultime, di Ermete). Ancora rammentiamo che dalle fiamme del rogo materno era nato Asclepio ne Le cavalle.
Questa di Meleagro è una variante della condizione di morte latente cui erano
condannati Issione e Bellerofonte rispettivamente ne La nube e La Chimera. La
condizione dimidiata manifestata con il «quasi» e successivamente colmata rientra nella tendenza ad allargarsi dal particolare al tutto in chiave negativa, dato
che non esistono casi singoli che non siano spiegabili con una legge generale.
Questo potenziamento del linguaggio avviene perché la lingua nel suo svolgersi
ha raccolto significati ed accresciuto la propria potenza semantica: e ciò che ne
origina è ovviamente lo svelamento del mistero: non dialettica, piuttosto partenogenesi. In altri dialoghi tale passaggio all’atto si verificava per semplici immagini; qui si è realizzato per via narrativa, dato che Ermete qualcosa racconta al suo interlocutore, e si tratta di una verità che si teneva celata o non poteva essere detta5: la complicità indiretta ma fondamentale di Atalanta nell’uccisione di Meleagro.
L’ immagine del fuoco è orchestrata in modo da subire una convergenza con
altri nuclei immaginativi, a cominciare da «occhi», precisamente gli occhi materni. Essi sono stati il motivo ossessivo dell’esistenza di Meleagro: «Ermete, bisogna aver visto i suoi occhi. Bisogna averli visti nell’ infanzia, e saputi familiari
4
Da notare anche la iterazione ravvicinata «tu hai avuto fortuna» -– «Hai avuto fortuna»
nella zona finale (C. Pavese, Dialoghi con Leucò cit., p. 55). Ma questa è soprattutto riproduzione
con finalità enfatica.
5
Specifica, del resto, del messaggio tragico: cfr. C. Pavese, Il mestiere di vivere cit., p. 279,
20 aprile 1944: «Il motivo tragico è quasi sempre una cosa nascosta che pena a venir fuori […]».
DONNE SENZA UOMINI: ALTEA E LE ALTRE
393
e sentiti fissi su ogni tuo passo e gesto, per giorni, per anni, e sapere che invecchiano, che muoiono, e soffrirci, farsene pena, temere di offenderli. Allora sì, è
inaccettabile che fissino il fuoco vedendo il tizzone»6.
Una madre ossessiva, dunque, che si pone al centro dei processi di allargamento verso l’universale, il «tutti»7: dato che gli occhi della madre che sono portatori di morte8 accompagnano ogni uomo, connotano la sua condanna, sospesa temporaneamente ma sempre sul punto di diventare esecutiva. Alla domanda se a qualcun altro sia toccato il medesimo destino, Ermete si pronuncia così:
«Tutti, Meleagro, tutti. Tutti attende una morte, per la passione di qualcuno.
Nella carne e nel sangue di ognuno rugge la madre»9.
Ma pure Meleagro aveva provato passione e pena nei suoi rapporti con la madre. Il motore, l’elemento comune tra fuoco e occhi, è la passione: che equivale a dire il sangue, o almeno un certo tipo di sangue, quello avvertito come derivazione materna: ecco il terzo nucleo ossessivo su cui cresce il tessuto testuale: «Qualche vile è riuscito a nascondere il capo, ma anche lui portava sangue di
madre, e allora l’odio, la passione, la furia son divampati nel suo cuore solo. In
qualche sera della vita anche lui si è sentito riardere»10.
La figura materna non porta pietà, dolcezza, comprensione: in sostanza, proietta l’incompatibilità tra i due sessi: una fermezza classica scossa dalla passione. E ancora il sangue, si ricordi, sta alla base del patto tra Meleagro e Atalanta:
il «prezzo del sangue» fungeva da voluto presagio di ciò che sarebbe avvenuto al
momento delle nozze.
A questo punto, svela i propri contorni anche l’andamento propriamente
diegetico della vicenda riassunta nel dialogo; e assume sorprendentemente un
andamento di «giallo». Dialogo scarsamente socratico, nel quale la confessione stimolata dall’impassibile magistero del ctonio Ermete consente di aprire un
cupo spiraglio su un destino che viene configurandosi come una vera e propria
esecuzione. Il fulcro di svelamento del «giallo» sta nel ruolo di Atalanta, segreta istigatrice – viene additato a piene lettere – della soluzione funesta. Al ruolo
maieutico di Ermete viene affidata la decifrazione della vera dinamica dell’intreccio; ma si tratta di una maieutica che viene attivata a fatti avvenuti. E tuttavia, un quesito c’è cui il dio non è in grado di dare risposta: quale senso abbiano gli incroci e i finali assurdi in cui si concretizza il destino.
È possibile recepire l’intero dialogo come una quête su chi sia il vero responsabile della luttuosa fine di Meleagro; tuttavia non si tratta di volontà di cono-
C. Pavese, Dialoghi con Leucò cit., p. 54.
Si veda anche più oltre «Non tutti – è vero – siete morti di questo», di seguito ribaltato in
«Tutti, quando sapete […]» (ivi, p. 55).
8
Rimando a Antonio Sichera, C’è Petrarca in Pavese? Dalle note alle «Rime» al petrarchismo
di «Verrà la morte», in «Rivista di Letteratura Italiana», 2, 2013, pp. 9-22.
9
C. Pavese, Dialoghi con Leucò cit., p.54.
10
Ivi, p. 55.
6
7
394 ANCO MARZIO MUTTERLE
scere da parte della vittima, bensì di una rivelazione in crescendo da parte del testimone impassibile e neutrale, Ermete, con la sua conoscenza a posteriori, storica. Richiama persino la funzione del coro tragico, autentico interlocutore protagonista e insieme depositario della verità. Tutta la dinamica del dialogo si gioca
sugli scatti, le gradazioni, i rovesciamenti del sapere. Se Meleagro è colui al quale è stato concesso il livello più ingenuo, primitivo, della conoscenza (la caccia,
i compagni, la madre), tuttavia la sua fortuna relativa è stata proprio il non aver
saputo, cosa che gli ha permesso di sfuggire un’esistenza da vile: «Tutti, quando
sapete, conducete una vita di morti».
Pavese dota Atalanta di una volontà negativa e non dichiarata che la rende
complementare alle potenzialità malefiche della madre. Il punto centrale è per
così dire l’interrogatorio, seguito dalla confessione della vittima (Meleagro), circa il comportamento della ragazza: è stata Atalanta, pretendendo come pegno di
nozze e del proprio sangue, la pelle del cinghiale, ad istigare Meleagro all’uccisione dello zio – o degli zii, a seconda delle varianti della tradizione: «Atalanta,
che ti ha istigato a vendicarti […]». Nuovamente è la passione, trasformata in
calcolo, il motore dell’azione. Di fronte alla volontà femminile, che omologa
amante e madre, l’uomo si ritrova soggiogato e schiacciato. Da un dialogo in cui
è assente la dialettica, in quanto radicato sulla rivelazione inesorabile di Ermete
deuteragonista depositario della soluzione, il resoconto di Meleagro che manifesta tutta la propria insipienza o impotenza equivale a una confessione. Il tratto nettamente originale immesso da Pavese risiede nella motivazione dell’opera compiuta alquanto subdolamente da Atalanta con l’aizzare il promesso sposo
contro lo zio; e del tutto estraneo al materiale mitologico più vulgato è il patto di non aggressione – si dica lo scambio – concordato tra i due innamorati: la
funzione di esso era immettere la problematica del sangue.
La violenza tutta interna che il dialogo sprigiona non è di gesti ma di volontà, e la posta che vi si esplicita è quella del conoscere. Come si accennava, la costruzione di Pavese gioca a trascorrere tra le diverse gradazioni del sapere. Il livello minimo è quello posseduto da Meleagro, ignaro dei moventi malefici di
donne, divinità, destino: «Ma io Meleagro fui soltanto cacciatore e figlio di cacciatori, non uscii mai dalle mie selve, vissi davanti a un focolare […]. Non conobbi che qualche compagno, le belve, e mia madre»11.
«So tante cose adesso» potrà anche affermare spostando l’angolatura, ma ciò
avverrà quando si crede alla fine del percorso; una gradazione intermedia va considerato invece il suo sapere o accorgersi che gli occhi della madre invecchiavano.
«Fin che l’uomo non sa, è coraggioso», viene commentato più oltre, con il completamento successivo: «Tutti, quando sapete, conducete una vita di morti». Il
non sapere viene addirittura omologato a una condizione di tranquilla viltà; ma
anche in questo caso, nessuno può ignorare di portarsi dentro il sangue materno.
11
Ivi, p. 53.
DONNE SENZA UOMINI: ALTEA E LE ALTRE
395
A questo punto lo spessore umano, composto di volizioni e impeti irrazionali,
anche se chi è arrivato a conoscere gode della medesima condizione di un morto, finisce per assumere una dignità addirittura superiore alla saggia e tranquilla conoscenza di cui è portatore il divino Ermete – a sua volta «dio ambiguo tra
la vita e la morte, tra il sesso e lo spirito, fra i Titani e gli dèi dell’Olimpo», come
veniva designato nel prologo de Le cavalle. Anche gli uomini sono capaci di qualche grandezza, ma quando si riaccende in essi il sangue della madre. Ecco perché Altea e Atalanta sono i medesimi occhi, dato che entrambe vivono nella passione: è il loro elemento di congiunzione. A Meleagro viene prospettata qualche
occasionale ribellione, in «qualche sera della vita», che strappi alla condizione di
morte latente, in cui consisterebbe il suo destino una volta che avesse compreso:
ossia una volta che avesse usufruito del risveglio – che in questo caso è omologato
in maniera inequivoca all’essere morti. Forse quanto Meleagro aveva potuto intuire dall’ atteggiamento della madre, faceva già di lui un’ombra; ora gli tocca la
nientificazione totale. Ermete lo guida a capire, ma si tratta di un risveglio letale,
equivalente a una morte definitiva; anche se in quanto mortale Meleagro prosegue inutilmente a protestare, e a porre questioni cui non c’ è risposta.
Conoscenza e intesa perfetta, si è constatato, è quella di Altea e Atalanta, che
rispecchiano l’una nell’altra la loro vocazione a capire il destino ovvero a personificarlo. Mutismo e fissità che caratterizzano la figura materna, oltre s’ intende al suo scarso istinto protettivo, sono l’altra faccia negativa del destino di
Meleagro: una casa vuota, i compagni che proseguono la loro vita come quando era assente – il corrispettivo dell’ambiente deserto in cui si ritrovano la madre e quella che era stata la promessa sposa del figlio. Caratteristica comune, il
vuoto. La serie di negazioni che Ermete elenca, a riprova della relativa fortuna
che secondo la crudele logica degli dèi andrebbe a beneficio di Meleagro, comprende pure la sterilità: «Ma nemmeno vedere i miei figli… non conoscere quasi il mio letto…», è la protesta della vittima cui risponde inesorabile il dio ctonio: «Hai avuto fortuna. I tuoi figli non nasceranno. Il tuo letto è deserto. I tuoi
compagni vanno a caccia come quando non c’eri. Tu sei un’ombra e il nulla» –
che costituisce un notevole esempio di sequenza tragica col proporre referenti e
subito sottrarre tramite l’impiego del segno negativo.
Esiste un frammento euripideo, che sarebbe arrischiato indicare quale fonte, ma
che sfiora il problema e forse poteva non essere ignoto a Pavese; infatti è contenuto
nella silloge di Untersteiner12. In verità, il frammento superstite del Meleagro eu-
Mario Untersteiner, I frammenti dei tragici greci. Eschilo – Sofocle – Euripide – Tragici
minori – Adespota, Milano, Cogliati, 1925, pp. 135 ss. Presente tra i volumi della biblioteca dello
scrittore custodita presso il Centro Studi «G. Gozzano-C. Pavese» dell’Università degli Studi
di Torino; nella prima carta bianca è segnalata la nota autografa: «2 sett. ’47 comprato usato il
primo mattino di pioggia autunnale Pavese». Ricorda sempre nei Dialoghi, nella Rubrica che
precede Gli Argonauti, che di Medea, «maga e gelosa e infanticida – ci parla a lungo e con calore
Euripide in una cara tragedia».
12
396 ANCO MARZIO MUTTERLE
ripideo concludeva col suicidio di Altea conseguente al suo pentimento; ma conteneva sotto varie angolature un dibattito tra due stili di esistenza femminile: la
giustificazione di una donna organica alla famiglia, opposta a un tipo di esistenza
del tutto individuale e indipendente: quest’ultimo, per intenderci, è la forma di
vita di Atalanta, creatura amazzonica e controfigura della dea vergine Artemide.
Quali che possano essere state le fonti classiche utilizzate da Pavese, risulta
chiaro la sua impronta eterodossa nello spostare tutta l’evidenza del mito classico verso il femminile. Il materiale mitologico non predisponeva un modello così
orientato, non evidenziava con tratti tanto forti il personaggio di Altea che ne La
madre non compare mai come elemento attivo, eppure si colloca al centro del
dialogo senza agirvi direttamente. A parte il Catalogo delle donne esiodee, in cui
Altea è poco più che un nome citato cursoriamente e dove i dati su Atalanta, per
quanto più ricchi, insistono sulla sua ritrosia al matrimonio, certo Pavese non
colse spunti dall’episodio omerico di Iliade, IX, 527 ss., dove Meleagro viene rievocato da Fenice allo scopo di provocare una identificazione con Achille che
possa servire da stimolo persuasivo al ritorno in battaglia. In tale ricostruzione
Meleagro (quanto diverso dal personaggio di Pavese!) colpito dalla maledizione
materna, si rifugia in casa nel talamo della sposa Cleopatra, durante la lotta tra
Cureti ed Etoli seguita all’uccisione del cinghiale calidonio; si convincerà al rientro solo al momento in cui vedrà minacciata la sua stessa casa. All’uccisione
dello zio viene concesso un fugace accenno e non più. Non compaiono il dettaglio del tizzone né la conseguente esecuzione: l’attenzione è tutta focalizzata
sul versante maschile e guerriero. A convincere che in questo caso la fonte non
fu questa, contrariamente alle frequenti occorrenze in cui Pavese si trovò ad attingere ai poemi omerici, spicca la lacuna lampante circa la figura di Atalanta:
non esiste, nemmeno nominata.
La figura della ragazza insieme a diversi dettagli, variamente intrecciati e integrati, si rintraccia in altre fonti, fino a confluire in Ovidio, Metamorfosi, VIII, 318
ss. dove si riscontrano: comparsa di Atalanta con innamoramento di Meleagro;
le Parche assegnano a Meleagro la stessa durata del tizzone; tragica vendetta di
Altea. Alle successive vicende matrimoniali di Atalanta viene riservato un seguito in X, 560 ss. Materiali che si rintracciavano ribaditi e variati anche con versioni successive (ad esempio, morte di Meleagro in battaglia e impiccagione di
Altea e della moglie Cleopatra; le vicende di Atalanta cacciatrice) nella Biblioteca
di Apollodoro13. All’autore de La madre la metamorfosi di Atalanta, prima che
in leone, in sposa, non interessa. In realtà, Pavese interviene tanto sulla cernita
del materiale, quanto nella prospettiva, ossia la maniera di presentarlo; e questa
prospettiva punta tutta la sua curiosità nel privilegiare le due figure femminili.
13
Sono questi ultimi, variamente registrati e compattati, i materiali costitutivi delle sintesi
più affidabili sul tema relativo, da I miti greci di Robert Graves, a Gli dei e gli eroi della Grecia di
Karl Kerényi, al più recente Giulio Guidorizzi de Il mito greco. E puntualmente sono riscontrabili
nel testo pavesiano.
DONNE SENZA UOMINI: ALTEA E LE ALTRE
397
Torniamo alla battuta finale, al «Chiedi perché vi han fatto»: interrogativo
che non promette risposta e riguarda ovviamente il destino. È allusione che si
polarizza sulla fissità ieratica di questa madre, della quale scenicamente non si
percepisce movimento né parola; la sua immobilità statuaria richiama uno schizzo che si legge nel Mestiere, quello riservato alla vecchia Mentina14, figura tratteggiata con smarrito stupore, quale documento di un’entità che si è conservata totalmente fuori dalla storia collettiva, politica, e persino individuale. Ci si
potrebbe domandare se in questa sfera non rientri in ultima istanza pure Elena
del Carcere, insopportabile e inamabile proprio per la sua tenerezza viziata da
una rigidità che non lascia liberi. Analoghi tratti, meno irritanti, si riscontrano in Elvira di Casa in collina, che riesce raddoppiata, oltretutto, nel personaggio di sua madre similare e simmetrica. Trova conferma il compiacimento onomastico di Pavese. Questi ultimi, è lampante, sono personaggi del tutto immuni da malvagità e istinto di morte: il che, agli occhi di Stefano o Corrado, non
li assolve minimamente. L’eroe di Pavese ama le capre (e la luna, se pensiamo
alla sua stima per un antico racconto di Tommaso Landolfi): Concia, o qualche
doppione di Artemide, come appunto Atalanta. Che poi Atalanta e Altea siano
le due facce di una identica forza sacrale e mortuaria, rimanda a un contesto di
valori matriarcali, dove l’umano maschile è condannato a rimanere schiacciato. Sembrerebbero reliquie di una cultura preellenica. Persino in Omero, Altea
batte la terra con le mani per suscitare la maledizione15: è una cultura rituale
che cerca il popolo sotterraneo. Se consideriamo Altea come una intermediaria
con il mondo ctonio, qualcosa dell’episodio omerico forse è filtrato nel dialogo
pavesiano. A proposito di femmine fatali e di tizzoni, registriamo che persino
Clitemnestra aveva sognato un serpente in qualità di futuro figlio16.
Altea, figlia di Testio e sposa di Oineo è di stirpe regale, e stando a una tradizione genera Meleagro da Ares; il particolare del ramo-tizzone la collega pure
ad arcaici e preclassici culti arborei. Non è una figlia del sole: ma con quella «famiglia» condivide due aspetti: essere maga e pure assassina: un po’ Circe un po’
Medea. Si potrebbe classificare come una maga a metà, che agisce per praticare
potere sul figlio e soprattutto per passione, secondo il suo destino. Anch’ essa,
dunque, come in altra forma il figlio, appare confinata in una condizione intermedia. Ella può apparirci apparentata con la «selva d’indescrivibili madri diLa madre dell’amico Pinolo Scaglione, 25 giugno 1949: «La vecchia Mentina, alla Cabianca, che cosa vede nella vita? Che cosa sa della massa enorme di pensieri, di fatti del mondo? Non
ha mai mutato il senso, il ritmo che avevano per te i giorni remoti dell’infanzia. E adesso che la
rivedi, 70enne, pronta a morire, e che non si pensa nemmeno che possa mutare questa statica
immobile vita, che cosa ha di meno che te? Che cos’è tutta la molteplice esperienza, davanti a
questo? Per 70 anni ha vissuto come tu nell’ infanzia. C’ è qualcosa che dà i brividi. Questo vuol
dire, ignorare la storia» (C. Pavese, Il mestiere di vivere. 1935-1950 cit., p. 371).
15
Si veda Jane Ellen Harrison, Themis. Uno studio sulle origini sociali della religione greca, a
cura di Giuliana Scalera McClintock, Napoli, La Città del Sole, 1996, p. 508.
16
Si veda ivi, p. 143.
14
398 ANCO MARZIO MUTTERLE
vine del mostruoso Mediterraneo» evocate in capo a La belva, ma in realtà, nel
suo agire per passione si percepisce una forza già individuata ne La selva17: quella delle volizioni e passioni naturali, attive su un piano tutto umano che resta
articolato e motivato in maniera indecifrabile.
Altea, in effetti, non è divina, e resta umana per una caratteristica che la condiziona sino in fondo: può scegliere tra due alternative, spegnere il figlio o mantenerlo in vita. Si tratta di uno scegliere che non è scegliere, in quanto impostole sin
dal momento della nascita di Meleagro: e in questo consiste appunto il suo destino. E il tragico della sua condizione non risiede tanto nel dover scegliere tra il figlio o il fratello, ma nel fatto che la sua scelta sarà necessariamente limitata e unica. Può impartire la morte, ma entro limiti ben precisi, anzi in una sola occasione: è umana e insieme maga. Ma lo sarà veramente? Può trasformare le situazioni? In effetti, le eroine femminili che le sono prossime, non godono della specificità di un unico gesto. Pavese stesso ne propone un discreto elenco nella Rubrica
che presenta e commenta Schiuma d’onda, e si tratta di una teoria di femmine, più
che malefiche, sventurate18. Inoltre di proprio ha fornito Altea della forza iconica degli occhi, che ne fa una figura statuaria, scolpita secondo la logica del timore
maschile: imperiosa e iraconda – si è visto – fin dalle premesse: «Madre imperiosa
[…] in uno scatto d’ ira […]». È attiva una sacralità feroce in quella impassibilità
femminile, che celebra un rito della potenza matriarcale basata sul sangue. Altea
riesce tragica non in quanto si opponga al destino, ma proprio perché lo adempie.
La possibilità di scelta che le è riservata è puramente binaria, gli spazi per la libertà negati. Altea svela, almeno in Leucò, il grado massimo di negatività materna; la
negatività è trasferita, in parallelo col mancato riferimento ad un padre inesistente, su una madre che uccide e fornisce una soluzione definitiva al rapporto femminile verso il maschio. Vengono alla mente il «sangue guasto» de Il toro, e le maghe
omicide de Gli Argonauti19. La fissità ieratica presuppone una sacralità selvaggia,
non dialogica – ben lontana dalla discorsività pur dura di Ermete. Altea, vendicativa e iraconda, non è articolata secondo una dialettica psicologica, ma possiede
solo determinazione omicida. Non parla, ma vive solo nella fissità dello sguardo:
portatrice di morte, quale lo era stata di vita. Pavese inventa un incrocio di misandria e misoginia, a colori cupi e soluzioni omicide. Dal sangue al fuoco, viene
17
Breve scritto pubblicato in «Darsena Nuova» nel 1946, ha per oggetto il «selvatico» che si
cela nei cuori umani, e di cui gli oggetti naturali sarebbero soltanto un simbolo. In piena tensione
umanitaria, Pavese si propone di amare indagando quel mistero che si cela nella volontà di ognuno: «Malanni e intemperie ci trovano rassegnati, ci danno la morte – non scatenano il selvatico
in noi come fa la volontà deliberata che a passione contrappone passione» (si cita da C. Pavese,
Saggi letterari, Torino, Einaudi, 1968, p. 291).
18
Preoccupandosi di precisare come tutte siano coinvolte col mare greco: «Mare che vide
molti amori e grosse sventure. È necessario fare i nomi di Ariadne, Fedra, Andromaca, Elle, Scilla,
Io, Cassandra, Medea?» (C. Pavese, Dialoghi con Leucò cit., p. 46).
19
«[…] eppure morimmo ciascuno di un’ arte di maga, ciascuno per l’ incanto o la passione
di una maga»: ivi, p. 135.
DONNE SENZA UOMINI: ALTEA E LE ALTRE
399
consolidata l’incompatibilità tra i due sessi e il loro reciproco bisogno di eliminazione. Per crearsi questo orizzonte tragico, Pavese attinge a una consistenza arcaica
della femminilità, tradita dagli atteggiamenti amazzonici di Atalanta e dal silenzio
luttuoso della madre omicida. Sono epifanie prossime al sacro e al selvaggio, fornite magari di una misteriosa consapevolezza che si esplica soltanto nella violenza
potenziale sotto cui viene percepita la dedizione materna. Si ricordi «rugge la madre», constatazione che sarebbe adeguata per una potnia preellenica.
Nella sfera umana la morale tragica si esplica nella passione, in quella divina col paradosso. Ermete è l’autentico nunzio del sottofondo tragico del vivere; non è un caso che sia la divinità a esprimersi per paradossi, proprio perché si
muove al massimo grado di conoscenza rispetto al destino - che tuttavia, come
si sa, non è all’altezza di modificare. Qualcuna delle definizioni di Ermete: «Che
un nemico non pesi, è evidente. Così come ognuno ha una madre»; «O sciocco,
non si tradisce che il compagno…»: ciò reindirizza il discorso verso un approdo
più sconfortante ancora, la reticenza dei mortali ad accettare un risveglio: «Siete
stranezze, voi mortali. Vi stupite di ciò che sapete» (e si aggiunga: quando uno
sa, ha compreso, conosce, diventa un’ombra).
La tramatura che abbiamo ravvisato è lo schema che giustifica l’accoppiamento finale tra le due figure femminili; diversamente dalla pratica seguita più
di frequente da Pavese (pensiamo nuovamente a Lavorare stanca), si snoda secondo una linea che è anche concettuale e non puramente metaforica. La prova è fornita dall’aggirarsi una volta di più del discorso intorno alla condizione di
«sapere»: alla supposizione di Meleagro che tenta di salvare moralmente dalla catastrofe almeno Atalanta, attenuando il rapporto di essa con gli occhi della madre e tutto ciò che implicano, la risposta di Ermete è: «Non li sapeva. Era quegli
occhi». Dunque il centro del continuo mutare di piano e angolatura attraverso
cui l’ingenuo Meleagro viene accompagnato, non è l’analogia, ma l’essere, zona
in cui i termini del contrasto impattano in misura talmente diretta e violenta da
penetrarsi e identificarsi. Si tratta di un dialogo su tutti e sul destino dove la figura della madre ha finito per sintetizzare questi nuclei ossessivi. Dialogo di costruzione elementare, fondato su pochi concetti portanti: morte e destino, sangue e passione, occhi e fuoco. Non si riscontra tecnica di combinazione o attraversamento, e nemmeno di sostituzione (di cui già La nube, dialogo di apertura, offriva esempio insigne): niente fenomeni di magia o cessione di sostanza20.
Neanche di destino o sorte si parla mai in modo esplicito: il duo sorte-legge non
è presente. Aleggia un’atmosfera di tragedia, come potrebbe venire da un prologo confermato in un epilogo senza aggiunte o spiegazioni particolari: tanto da
far sospettare che l’intero corpo del dialogo sia solo glossa, esemplificazione. In
qualità di fulcro centrale, sta il conseguimento di un risveglio che è la vera mor-
20
Ma non si dimentichi la dinamica transitiva sapere > essere: questo è un vero momento
di magia.
400 ANCO MARZIO MUTTERLE
te: tutto si rovescia, e questa è un’ulteriore acquisizione tragica. Più che il destino,
se ne conclude che è il paradosso a contenere la chiave della verità: non si tradisce che il compagno; senza uomini le donne son nulla, però li eliminano: i contrari si allineano, vecchie e giovani finiscono omologate. Opera qui una regola
di tipo nuovo, che richiama quella infranta da Issione. Si precipita in un appiattimento generale, enunciato da una legge di fronte alla quale le differenze spariscono in una coesione unitaria. Gradazioni del sapere, per approdare al non sapere. E dunque la parziale omonimia Altea Atalanta ha un senso e una logica precisi: una selezione di bersaglio che avvicina molto al misterioso nulla dell’essere.
Esempi se ne riscontrano anche in Feria21. Sono momenti di una identificazione che è corretto chiamare mistica, atemporale e muta. Nello sforzo per liberarsi oltre il puro approdo analogico, non si procede dall’essere per frantumarlo o
astrarlo in singole unità metaforiche. Il processo è inverso e di massima sintesi:
somigliare a una cosa implica essere quella medesima cosa. In ciò si rivela la poderosa valenza di «sapere», e il processo di concentrazione fittissimo, inesorabile,
dato che tramite gli occhi si stabilisce la complicità del sangue e l’equivalenza di
conoscere ed essere. Meleagro percepiva gli occhi materni e se ne dava pena, senza decifrarne fino in fondo il significato; tanto è vero che cercandoli in Atalanta
non era cosciente di perseguire la medesima realtà. Soltanto Atalanta sa usufruire di tale privilegio, in forza dell’identità sessuale che giustifica l’eliminazione del
maschio. Maternità o partecipazione alla maternità è gestire il potere assoluto di
vita-morte, dare la vita o – caso di Altea – essere destinata a toglierla.
Tuttavia nei Dialoghi con Leucò un’alternativa al tragico si affaccia, ovvero
un profilo materno animato da dolcezza e tolleranza, quasi che una nuova icona femminile possegga doti di discrezione e generosità caritativa. Si legga il colloquio di Esiodo con Mnemòsine ne Le Muse, quando la poesia viene prospettata quale grado massimo di civilizzazione, compenso alle frustrazioni e sconfitte dell’esistenza: essa è la sapienza nel fermare il tempo in attimi perfetti, che
si fanno ricordo, modello, e passione ripetuta oltre il fastidio dei giorni. Quella
figura mitica assume tratti inconfondibilmente materni, all’opposto di come si
configurava Altea; sa tenersi in disparte ma non rifiuta di discorrere, è atemporale e onnipresente: «Tu sei come una madre il cui nome si perde negli anni»22.
Al contrario di Altea madre impietosa, esiste una dimensione della maternità
che può educare gli uomini a rintracciare i segni del divino. Qualora si assecondi
la Musa, le cose di ogni giorno assumono esistenza, sono; allora si tratterà non
soltanto di sapere, ma di vivere per toccare le cose immortali.
21
Citiamo, tra le diverse occorrenze, da La vigna, in C. Pavese, Feria d’ agosto, Torino, Einaudi, 1968, p. 155: «Davanti al sentiero che sale all’ orizzonte, l’uomo non ritorna ragazzo: è
ragazzo». E poi certi passaggi ne Il campo di granturco, Una certezza, dove la distinzione tra l’io
e l’estraneo adulto in cui si è rifugiato viene bruciata in una confluenza assoluta, estatica, nella
prima persona e nel vero io.
22
C. Pavese, Dialoghi con Leucò cit., p. 163.
ALDA MERINI E LE «MATERNITÀ DISFATTE»
Francesco Vasarri
Ma Maria di Nazareth, lo sappiamo, resta
imprigionata, come Alda Merini, nel suo
dolore. Come ogni madre cui hanno ucciso
o strappato il figlio1.
Io sono una madre
che ormai muore là
vicino alla croce.
Io sono una madre
che non è stata nulla2.
1. «Maternità disfatte» tra testimonianza e totem
Dedicandosi un autoritratto nel ciclo di immagini rubate che si intitola La
gazza ladra, Alda Merini ha inquadrato con particolare lucidità il tratto forse
più caratteristico e personale della propria opera:
Amai teneramente dei dolcissimi amanti
senza che essi sapessero mai nulla.
E su questi intessei tele di ragno
e fui preda della mia stessa materia3.
Ai dati della vita, che lasciano il soggetto perpetuamente ai margini dell’inclusione sociale, la poesia risponde con un’aggressiva rivendicazione di presenza,
talmente forte da diventare labirinto anche per chi stia scrivendola. Nell’intreccio
Renzo Ricchi, Rassegna di poesia, in «Nuova antologia», CXXXVII, ottobre-dicembre
2002, 2224, [pp. 350-360], p. 357.
2
Alda Merini, «Non portatemi via il figlio», in Magnificat. Un incontro con Maria, in Mistica
d’amore [2008], Milano, Sperling & Kupfer, 2013, [pp. 71-152], p. 135.
3
A. Merini, Alda Merini, in da «Vuoto d’amore», in Il suono dell’ombra. Poesie e prose 19532009, a cura di Ambrogio Borsani, Milano, Mondadori, 2010, [pp. 337-423], p. 383.
1
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
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402 FRANCESCO VASARRI
vischioso dei versi l’unica possibile conquista pare allora farsi margine tra focalizzazione e smarrimento; l’immagine di sé, pur ricollocata al centro della scena, cade nella trappola destinata all’altro e vi si occulta, continua a sbiadire dentro il velame. Ancora oggi, a qualche anno di distanza dalla scomparsa della poetessa, il suo ritratto continua a sfuggire, incrostato com’è dalla proliferazione, difficilmente censibile, di un’opera che ha accolto anche le diramazioni e le
scorie, i ‘conati’ assai lontani dalla chiusura perfetta del testo4. La stessa biografia, pericolosamente compromessa con le ragioni dello scrivere, mescola quadri
poco conciliabili, dagli internamenti manicomiali (tuttora databili con qualche
difficoltà, tra il caleidoscopio dell’autofinzione e il susseguirsi delle cartelle cliniche5) all’ultimo, fluviale ventennio di sovraesposizione letteraria e televisiva,
che ha visto l’autrice nuovamente preda di sé, dei «patetici fans»6 e degli «editori improvvisati, qualche volta di sottobosco»7, in un «crescendo mediatico che
continuerà fino a raggiungere eccessi incontrollabili»8. Ciò detto, è proprio in
questo stato di particolare confusione tra i vari piani (nel continuo sovrapporsi di testimonianza biografica, oggettivamente estrema, e di irruenza mitopoietico-simbolica) che si può rinvenire, sulla scorta di diverse voci critiche, dalla Corti a Raboni, da Borsani alla Centovalli, un punto d’accesso al valore della scrittura. In primo luogo l’opera della Merini si qualifica infatti come «costruzione necessaria del poema di sé»9, mentre la poetessa diventa, con abbondanza di esche auto-narrative, «coraggiosa decifratrice, oltre che protagonista e
vittima, della propria difficile esperienza esistenziale»10. In seconda battuta, l’ininterrotta fedeltà a pochi argomenti ricorrenti («l’intrecciarsi di temi erotici e
mistici»11, l’«ossessione nei confronti del corpo»12, il tema del «sequestro-esiliomanicomio»13, il «binomio poeta-poesia»14) e il loro coagularsi in gruppi, spes-
4
Cfr., sull’argomento, almeno Giovanni Raboni, Merini: per vocazione e per destino [2001],
in La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento poetico italiano 1959-2004, a cura di Andrea Cortellessa, Milano, Garzanti, 2005, [pp. 369-371], p. 370 e Ambrogio Borsani, Il buio
illuminato di Alda Merini, in A. Merini, Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009 cit., [pp.
IX-LXIII], p. LX.
5
Cfr. ivi, p. XXXIII.
6
Maria Corti, Introduzione, in A. Merini, Fiore di poesia 1951-1997 [1998], a cura di Maria
Corti, Torino, Einaudi, 2014, [pp. V-XX], p. XIV.
7
A. Borsani, Il buio illuminato di Alda Merini cit., p. XLIX.
8
Ivi, p. XLVI.
9
Benedetta Centovalli, Il volume del canto, in «Nuovi argomenti», 7, aprile-giugno 1996, p.
48 (nota a Alda Merini, La crudeltà di questo giorno, ivi, pp. 47-48).
10
G. Raboni, Il secondo Novecento [1986], in La poesia che si fa. Cronaca e storia del Novecento
poetico italiano 1959-2004 cit., [pp. 190-250], p. 237.
11
M. Corti, Introduzione cit., p. VII.
12
Elisa Biagini, Nella prigione della carne: appunti sul corpo nella poesia di Alda Merini, in
«Forum italicum», XXXV, Fall 2001, 2, [pp. 442-456], p. 444.
13
B. Centovalli, Il volume del canto cit., p. 48.
14
Enrico Testa, Alda Merini, in Enrico Testa (a cura di), Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-
ALDA MERINI E LE «MATERNITÀ DISFATTE»
403
so ossimorici, di «parole-totem»15 fanno sì che anche gli apporti più documentari rimangano, almeno nelle prove più felici, levitanti al di sopra della stretta
espressione soggettiva. Documento e simbolo, sfogo e costruzione letteraria si
porgono come un tutto inscindibile:
Insomma l’esperienza biografica di Alda Merini non può non violentarsi in simbolo, e offrire al poeta materia incandescente in un corpo a corpo sul crinale
tra ragione e follia. Ogni testo riconferma questo tragitto infinito dal desiderio
della parola alla ritrovata necessità dell’ascolto, di un destinatario cui affidare il
bisogno di senso della propria storia16.
Totem testimoniale per eccellenza sembra allora, oltre a quello macroscopico dell’esperienza manicomiale in sé, il motivo non meno dolente delle «maternità disfatte»17. Non si tratta, almeno a partire dai documenti disponibili, di figli realmente morti o di gravidanze interrotte18, poiché a disfarsi, in modo altrettanto luttuoso, è la capacità di essere madre negli anni degli internamenti.
Dati della vita – come l’affido obbligato delle figlie e la conseguente, drammatica interruzione di un rapporto che doveva essere il punto più alto dell’amore terreno, sul modello dei Vangeli – intorno ai quali l’opera non smette mai di
scavare, esplorandone e risarcendone i corollari di disagio e di negazione, fino
all’immedicabilità della colpa. A complicare il quadro, inoltre, sta un’ambivalenza di fondo nel contatto con l’universo maschile, che già dalle prime prove
giovanili si esprime con accenti non pacificati. La poesia continua allora a farsi carico delle contraddizioni tra genesi e morte, presenza e assenza degli amori filiali, mentre la prosa affronta più direttamente il dramma autobiografico di
una maternità negata.
Può essere utile puntualizzare, vista anche la relativa libertà che l’autrice
adotta nella riscrittura del proprio vissuto, alcuni degli snodi biografici che riguardano, nello specifico, la maternità – nell’ottica, come direbbe Maria Corti,
di un avvicinamento alla «vicenda terrena in funzione delle successive creazioni
poetiche»19. Nel 1959 Alda Merini ha già pubblicato tre raccolte di poesia e dato
alla luce, con il marito Ettore Carniti, due figlie, Emanuela nel 1955 e Flavia nel
2000, Torino, Einaudi, 2005, [pp. 315-317], p. 317.
15
Il sintagma, a cui diamo qui valore complessivo, è originariamente usato da Giovanna
Rosadini per definire il clima stilistico-semantico dei Poemi eroici, editi in Clinica dell’abbandono
(Giovanna Rosadini, Nota del curatore, in A. Merini, Clinica dell’abbandono, a cura di Giovanna
Rosadini, Introduzione di Ambrogio Borsani, Con un scritto di Vincenzo Mollica, Torino, Einaudi, 2003, [pp. IX-X], p. IX).
16
B. Centovalli, Il volume del canto cit., p. 48.
17
A. Merini, Rivolta, in La Terra Santa, in Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009 cit.,
[pp. 201-245], p. 233.
18
Ma si veda anche A. Borsani, Il buio illuminato di Alda Merini cit., p. XXXI.
19
M. Corti, Introduzione cit., p. V.
404 FRANCESCO VASARRI
1958. In una nota d’autore destinata alla seconda edizione dell’antologia poetica di Spagnoletti, la poetessa vuole mostrare di aver compiuto, alla difficile bilancia degli impegni letterari e familiari, una scelta in favore del proprio ruolo
di moglie e di madre: «Ora che sono solo una moglie e una mamma (ho infatti due bambine) d’ora in poi, penso che scriverò solo in funzione di loro, perché possano sapere tutto il mio amore o forse non scriverò affatto perché i sentimenti migliori non trovano adeguate parole»20.
L’equazione, come è noto, viene invece risolta altrimenti: esce senza il clamore sperato un quarto libro, la situazione familiare e con essa l’equilibrio mentale
dell’autrice precipitano, inizia, nel 1965, il periodo circolare delle degenze cliniche
e della violenza terapeutica, tra elettroshock e Pentothal. Al crollo decisivo (dopo
quelli, più lievi, vissuti durante la giovinezza) contribuisce non poco, secondo la
testimonianza di Enzo Gabrici, che fu medico della Merini all’Ospedale psichiatrico Paolo Pini, proprio l’impossibilità di mediare tra le necessità della scrittrice e le richieste di un mondo domestico lontanissimo dagli orizzonti letterari21:
In definitiva, penso che le alterazioni della sua vita cosciente nascessero dal conflitto fra la sua natura istintivo-passionale, che trovava espressione naturale nel
linguaggio della poesia, e la costrizione della normale vita famigliare che aveva
accettato, come le responsabilità legate alla crescita e all’educazione delle figlie,
che tanto amava, e le probabili incomprensioni con il marito (di cui tuttavia
mai mi parlò)22.
Qui non interessa, ad ogni modo, ricercare eziologie o concentrarsi sulla difficoltà dell’esperienza manicomiale in se stessa, quanto ribadire come quel periodo abbia prodotto, oltre al dolore della perdita di sé, coincidente con l’abbandono della scrittura23, anche lo sdoppiarsi della propria identità di madre in
due figure non coincidenti: alla malata non più in grado di occuparsi delle necessità delle figlie (Flavia verrà ospitata da parenti, Emanuela resterà con il padre ma si sposerà giovanissima) si affianca infatti la donna corporalmente presente, ancora moglie e capace, se non di accudire, di generare (nascono infatti, nelle pause tra i ricoveri, altre due bambine subito date in affido, Barbara nel
1968 e Simona nel 1972). Circostanze che creeranno sentimenti contrastanti e
20
A. Merini, nota d’autore a Alda Merini, in Giacinto Spagnoletti, Poesia italiana contemporanea 1909-1959 [1959], Milano, Guanda, 1961, [pp. 945-952], p. 946.
21
Vedi anche A. Borsani, Il buio illuminato di Alda Merini cit., p. XXI: «Il passaggio da
un’intelligenza sofisticata e bizzarra come quella di Manganelli alla semplicità pratica di un operaio del pane [il marito Ettore Carniti] non è un cambiamento che possa lasciare indifferenti».
22
Enzo Gabrici, Prefazione, in A. Merini, Lettere al dottor G., Milano, Frassinelli, 2008, [pp.
1-11], p. 6.
23
Cfr. B. Centovalli, Il volume del canto cit., p. 48: «Se la scrittura mantiene intatta la sua capacità taumaturgica e catartica, non può che divenire elemento costitutivo dell’esserci. Il silenzio
della clausura manicomiale fu infatti sanzione dal senso e perdita inaudita del proprio ascolto».
ALDA MERINI E LE «MATERNITÀ DISFATTE»
405
difficili da sciogliere, di cui l’opera tiene costante traccia: dal senso di colpa per
il non essere riuscita ad offrire alle figlie il dovuto maternage fino alla difficoltà
estrema, a volte venata di rancore, che segnerà il tentativo di recuperare rapporti interrotti o resi impossibili ab origine.
2. La «foresta pietrificata»
Il rapporto ambivalente con il tema della famiglia, dei figli e dell’amplessoconcepimento era già stato postulato in testi appartenenti alla prima fase dell’attività poetica meriniana. Già in Confessione (datata al 26 dicembre del 1948, tra
le prime poesie della raccolta d’esordio), una Merini ancora adolescente (in «stato di rapimento e di oscuro interrogarsi, sincero e violento»24, con le parole della Corti) disegna un soggetto chiuso nella percezione immediata dell’orgasmo,
incapace di svilupparsi in una figura femminile dai connotati adulti:
Tu mi domandi per sempre,
ma io non ho vita continua;
ti nutrirei di attimi soltanto.
[…]
Io vivo nello spazio di un amplesso:
tu stesso mi maturi senza accorgerti
sotto il tepore delle tue carezze…
Ma ti confesso, e credimi:
non c’è forma di donna che continui,
dentro di me, il rovescio dell’amante25.
La «forma di donna» cui si allude è forse quella che la società dell’immediato
dopoguerra poteva ritenere integra e completa: la donna coniugata docilmente,
capace di fare da madre tanto ai figli quanto al marito, con assunzione oblativa di un panorama essenzialmente domestico. Una donna, insomma, che agisse anche nella realtà che corre da amplesso ad amplesso, e che quegli incontri
amorosi sapesse finalizzare nella costruzione di una famiglia. Si tratta, evidentemente, di valori che il dettato della poesia rovescia in termini già venati di colpa (basti pensare al titolo), perentori anche nel loro scandirsi in dolci curvature endecasillabiche26. La forma che la Merini rivendicava per sé era invece plu-
M. Corti, Introduzione cit., p. VII.
A. Merini, Confessione, in La presenza di Orfeo, in Il suono dell’ombra. Poesie e prose 19532009 cit., [pp. 5-32], p. 11.
26
Tracce esplicite di un’intenzione di tipo femminista, spesso in rapporto al destino doloroso
delle poetesse nella storia, si rilevano nella sezione La gazza ladra – venti ritratti (1985), ospitata
in Vuoto d’amore: prima, in modo ancora generico, «l’amore ingiustamente negato» di Saffo (A.
Merini, da «Vuoto d’amore» cit., p. 373), poi l’«inaudito errore» di Gaspara Stampa, che dà «le
24
25
406 FRANCESCO VASARRI
rima e mobile, segnata da una «sembianza» sfaccettata e comprensiva di opposti, dall’«urgenza incalzante di sviluppo», tra «proporsi» e «risolversi d’enigmi»27.
Ancora più chiara, nella raccolta che segue di poco il matrimonio con Ettore
Carniti, è la poesia Nozze romane (eponima e posta in posizione iniziale), dove
al tema della convivenza («Sì, questa sarà la nostra casa, / oggi arrivo a capirlo»)
fa seguito un tricolo di strofe dominate dall’azione violenta dei verbi al futuro:
Mi scaverai fin dove ho le radici
(non per cercarmi, non per aiutarmi)
tutto scoperchierai che fu nascosto
per la ferocia di malsane usanze.
Avrai in potere le mie fondamenta
uomo che mi costringi;
ferirai le mie carni col tuo dente
t’insedierai al fervore d’un anelito
per soffocarne il senso dell’urgenza.
Come una pietra che divide un corso,
un corso d’acqua giovane e irruente,
tu mi dividerai con incoscienza
nelle braccia di un delta dolorose…28
L’oracolarità del sistema verbale29 sembra voler incidere, nel prossimo futuro
proprie confetture a una bocca amara» (ivi, p. 375), i «deliqui» di Emily Dickinson (ivi, p. 376),
l’elegia commossa per la Plath («Povera Plath troppo alta per le miserie della terra, / meglio
certamente la morte / e un forno crematorio / alle continue bruciature del vento, / meglio Silvia
l’avveniristica impresa / di una donna che voleva essere donna / che è stata scalpitata da un uomo
femmina», ivi, p. 377), un Montale riletto dal cotê della rivendicazione femminile («Maria Luisa
fu il tuo gingillo felice / vi ci giocasti la senilità», ivi, p. 378) e poi l’astrazione connotativa, fissata
sui valori estremi («In me l’anima c’era della meretrice / della santa»: Alda Merini, ivi, p. 383) nel
ritratto che la società fa di lei stessa, la vita della madre riassunta attraverso Il grembiule dei lavori
domestici (ivi, p. 385), laddove il padre era stato identificato con Il pastrano (ivi, p. 384), che
rimanda al ‘fuori’ delle attività maschili.
27
A. Merini, La presenza di Orfeo, in La presenza di Orfeo, cit., p. 15. Enrico Testa trova che
la poesia della Merini possa «leggersi […] come una continua lotta ingaggiata contro la “fissità” e
tutto ciò che possa agire da limite al soggetto e al suo violento interrogarsi» (E. Testa, Alda Merini
cit., p. 316), mentre risalta «in stretto contatto con le armoniche del pensiero “primitivo”, la
preferenza accordata al “divenire”» (ivi, p. 315).
28
A. Merini, Nozze romane, in Nozze romane, in Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009
cit., [pp. 33-60], p. 35. Cfr. M. Corti, Introduzione cit., p. VIII.
29
Oracolarità che Maria Corti, sulla scorta della quarta di copertina della prima edizione,
pone, insieme alla percezione del male interiore, come caratteristica rilevante della voce poetica
nella raccolta. Contano allora «il potere profetico che emana dai versi» e «l’impossibilità della
donna a liberarsi dall’angoscia, l’impotenza a una soluzione razionale, i primi segnali» anch’essi almeno in parte divinatori «della futura follia» (M. Corti, Introduzione cit., p. IX): elementi che poi
la studiosa ravvisa proprio nella poesia eponima, effettivamente en abîme da questo punto di vista.
ALDA MERINI E LE «MATERNITÀ DISFATTE»
407
della coabitazione e della comunione fisica, il suggello appunto «inesorabile» della dominazione maschile sul corpo della donna: tra «scaverai», «scoperchierai»,
«ferirai», «t’insedierai», «dividerai», nel possesso reificante delle «fondamenta»,
l’assetto metaforico del testo chiude la dimensione del contatto sessuale nell’ambito della costrizione. L’uomo è, d’altronde, paragonato a «una pietra», elemento per eccellenza contundente ed inalterabile, chiuso in una sostanza stabile e
rigida anche a livello morale. Di altro registro appare invece, ma forse soltanto
a un primo sguardo, la poesia Genesi, dalla Parte seconda di Tu sei Pietro. Il testo (ispirato con ogni probabilità non dal marito ma dal pediatra delle proprie
figlie, il Pietro sul cui nome si gioca l’intera raccolta30) tratta infatti, con accenti fortemente ottativi, della possibilità di concretizzare l’amore con il concepimento di un figlio. Il padre e la madre sono qui raffigurati attraverso una simbologia vegetale, mentre il figlio, che pure è nominato, in conclusione, «vergine
viticcio», assume i tratti consueti della durezza e forse ostilità maschile (laddove può venir atteso nei termini della «spada / lucente», del «grido», benché «di
alta grazia», della «pietra»). Inoltre, anche il suo presentarsi come un antidoto
alla stanchezza luttuosa della madre cade leggermente fuori bersaglio, se il «lievito del mio sangue» e la «genesi […] della mia carne» non si accordano completamente con il travestimento arboreo della figura materna (gemmante «fiori
da ogni stanco ramo» fino a sbocciare «fiorita […] tutta» oltre il «velo» del «lutto»). Quanto all’ultima strofa, dove il desiderio cede all’imperativo, la composizione idillica del gruppo familiare appare venata, sotto la superficie, da sfumature meno rassicuranti:
E perciò dammi un figlio delicato,
un bellissimo, vergine viticcio
da allacciare al mio tronco, e tu, possente
olmo, tu padre ricco d’ogni forza pura
mieterai liete ombre alle mie luci31.
Pur connotato da aggettivi di piena positività, il figlio rimane un elemento
estraneo e quasi parassitario, continuatore di quella costrizione che si era altrove
ritrovata come principale espressione della forza maschile sulla donna; il padre,
anche nella ‘purità’ della «forza» e della ‘possanza’ vegetali, miete «liete ombre»
alle «luci» della donna. Il verso terminale, pur di non facilissimo scioglimento,
pare infatti alludere a una protezione amorosa che diviene gabbia e priva il soggetto del necessario nutrimento (gli alberi di specie diverse peraltro competono
anche cercando di privarsi vicendevolmente della luce solare). A proporsi può
allora essere, come ribadiscono le poesie della Parte terza, soltanto la simulazioCfr. M. Corti, Introduzione cit., p. X.
A. Merini, Genesi, in Tu sei Pietro, in Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009 cit.,
[pp. 83-124], p. 96.
30
31
408 FRANCESCO VASARRI
ne dell’equilibrio e del benessere, il «tronco di albero antico ove si posi / la finzione dell’Eden accanita»32, o la sua perdita, nell’«amarezza del grembo» cui viene sottratto «il fortissimo seme della vita»33.
Fin qui gli antefatti poetici al trauma dell’abbandono manicomiale. Nel secondo tempo della Merini, apertosi negli anni ’80, la poesia cerca invece di riportare ordine, con il suo potere simbolico e riattributivo, nella dissipazione degli affetti familiari e filiali. Nella Lettera a Gentilucci che apre Destinati a morire. Poesie vecchie e nuove, il primo testo pubblicato dalla Merini dopo il ventennio di silenzio, l’autrice sceglie di tornare in scena proprio nel ruolo di figlio torturato, mentre all’amico con cui si interloquisce vengono assegnati i panni di
una madre vicina nel dolore, ma impotente: «Ma ho visto [dentro i tuoi occhi],
vi ho letto anche della pietà, pietà buona, umana, pietà che può avere una madre per suo figlio messo a soffrire in modo deludente e strano e ne ho pianto»34.
Si emenda in questo modo, per via preliminare, il nodo doloroso del rapporto con le proprie figlie, che diverse poesie delle sezioni inedite (Da le nuove
poesie e Canto di chiusura) tematizzano con grande chiarezza. Sempre in dedica
a Franco Gentilucci, il Canto di risposta offre, in una chiusa di notevole equilibrio stilistico, il sogno impossibile di un’inversione temporale che lasci intatta,
ai drammi della mente e della detenzione, la sfera violata della famiglia:
ho continuato mio malgrado il canto
della tristezza, e dentro ad ogni fiore
della mia casa è ancora la speranza
che nulla sia accaduto a devastare
il mio solco di luce ed abbia perso
la vera chiave che mi chiude al vero35.
In altri casi, a volte documentari anche sotto il livello dello stile, si affronta
invece la durezza della realtà e la propria solitudine di madre abbandonante e
abbandonata. La figlia Barbara, introdotta da attribuzioni petrarchesche, svanisce infatti come l’imprendibile Laura, «sta […] sempre lontana» dalla madre e
benché sia, nel suo biondo-ceruleo di fantasma, l’«unica stella dentro la tempesta» vive ormai di una vita distante «nei liti / remoti […] dell’Italia»36. Di conflitti insanabili, di amorosi ottativi distrutti parla anche A mia figlia. Il testo si
configura infatti su una doppia serie di incomprensioni: l’impossibilità di una
distesa comunicazione affettiva («Cara, ti vorrei scrivere il mio amore, / […] /
Visito spesso in te, ivi, p. 121.
Ti ho detto addio, ivi, p. 122.
34
A. Merini, Lettera a Gentilucci, in da «Destinati a morire. Poesie vecchie e nuove», in Il suono
dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009 cit., [pp. 125-166], p. 127.
35
Canto di risposta, ivi, p. 141.
36
A Barbara, ivi, p. 131.
32
33
ALDA MERINI E LE «MATERNITÀ DISFATTE»
409
ma se tu vuoi riuscire / a guardarmi nel viso […] / rimarrai tu delusa e poi ferita») e la difficoltà di ignorare il passato di dolore e di abbandono:
No, non volgerti indietro, la vestale
cammina adagio, lenta, a sé davanti
guardando sempre, no, non ritornare
su ciò che hai fatto, può essere morte
te lo dice una antica profetessa
che è una povera madre e ti vuol bene37.
Il distacco della figlia Emanuela assume toni particolarmente sofferti. Alla
madre rimane, come un’«ombra» che svanisce in «chiaro profumo», l’impossibilità di riconoscere una figlia rimasta ammezzata tra la dolcezza e l’orrore, insieme «fiore di questo mio corpo» e «specie martoriata di figlia»38. Il luogo che
si abbandona non è solo la casa familiare, ma il «cuore» che chiude due poesie
dedicate a «Manuela»39, «a M.»40. La fuga non conduce a una nuova vita, ma si
trasforma in uno scenario di agonia, alla quale il soggetto poetico vorrebbe reagire, seppur per via verbale, con il gesto definitivo della morte. La figlia che vive
in un contesto estraneo è infatti diventata un «pesce rosso» (e il pesce è, per la
Merini, anche quello dell’«immanenza» tutta filiale del Cristo41) che si dibatte in asfissia, mentre l’impotenza dell’io non prevede, come avrebbe forse potuto negli anni giovanili, il soccorso salvifico dell’acqua, ma ancora una volta, per
porre termine alle sofferenze, il ricorso alla «pietra». Sono evidenti, infatti, alcune specularità con Nozze romane; anche qui l’elemento che non ama abbastanza deve venir ‘fermato’, costretto all’affetto:
Perché t’amo e mi sfuggi
pesce rosso di vita
viscido dentro l’erba
palpitante nel sole?
Perché non ho parola
dura come la pietra
che ti ferisca a morte?
Così ti fermerei
A mia figlia, ivi, p. 151.
Tu te ne sei andata, ivi, p. 162.
39
Perché t’amo, ivi, p. 160.
40
Tu te ne sei andata, ivi, p. 162.
41
«Fu trapiantato in lei [Maria di Nazareth] / l’albero e la luce, / il pesce dell’immanenza /
il Dio secolare, / ambrosia di tutte le genti» (A. Merini, «Salvate la madre di Gesù», Magnificat
cit., p. 118).
37
38
410 FRANCESCO VASARRI
e potrei disegnarti
un arabesco sul cuore42.
Il modello del rapporto con le figlie, fatto di senso di colpa, inversione di ruoli
e attesa di un perdono difficilmente accordabile acquista una forza tale da estendersi a relazioni non parentali. Così, nella sezione di Vuoto d’amore che s’intitola
da Poesie per Marina (1987-1990)43, la Marina Bignotti a cui si dedica la silloge
(collaboratrice di Scheiwiller, cruciale per il sostentamento economico e morale
della poetessa in quegli anni)44 viene attratta nella sfera della filialità proprio perché svolge il ruolo, antifrastico, di latrice di un’istanza pedagogica. Tipologica appare la poesia Natale 1988, dove vediamo ricorrere uno schema consueto del teatro para-familiare. Ai primi versi cui si affida la lode per la ‘figlia’, somma di ogni
virtù positiva («Buon Natale, Marina, / mia rondine felice / mia adorata figliola /
piena di mille grazie»), subentra immediatamente l’elemento del distacco affettivo, causato da una mancanza di comprensione per le colpe (psichiatriche e poetiche) della ‘madre’ («non perdoni mai / gli sprechi di denaro: / tu non perdoni /
l’usura dei poeti»), poi quello stesso distacco si estende alla più ampia gamma della socialità, compatta e implacabile nel risentimento («Se tu non mi perdoni / che
debbon dire i figli / dell’intero Naviglio / sopra cui giace inerte / la nera poesia»),
compare un riferimento semantico al nodo problematico («il seno della colpa») e
il testo si chiude infine su una ripetizione anaforica dell’apertura, che reitera l’augurio e improvvisamente, con una fulminante accensione di rancore per la mancanza di pietas, capovolge sulla perdita i fondamenti del rapporto: «Buon Natale,
Marina, / per ciò che non avuto»45. Fa eco, nel testo successivo anche cronologicamente (Natale 1989) una negazione della discendenza che colpisce in anafora,
per progressivi avvicinamenti all’assenza, anche il significato religioso della festività («Natale senza cordoglio / e senza false allegrie […] / Natale senza corone / e
senza nascite ormai»46). Anche le poesie che si scrivono diventano, con un simile
carico di ambiguità, presenze affini alla sfera filiale. Sempre in Vuoto d’amore la li-
A. Merini, Perché t’amo, in da «Destinati a morire. Poesie vecchie e nuove» cit, p. 160.
La tendenza ad utilizzare, nei paratesti, la preposizione da, che rimanda a nuclei progettuali almeno idealmente più ampi di quelli effettivamente realizzatisi nelle raccolte, compariva
già nelle opere del primo tempo di Alda Merini, nello specifico in tre testi pubblicati nelle due
raccolte del 1955: La pietà e La Sibilla Cumana da Nozze romane e Gli antenati di Cristo in Paura
di Dio, titoli tutti conclusi con l’indicazione parentetica (dalle Michelangiolesche).
44
«In questi anni è Vanni Scheiwiller, con le sue collaboratrici, Chiara Negri e Marina
Bignotti (a quest’ultima la Merini dedicherà una raccolta di poesie), a prendersi cura di lei. Le
amministrano la povera pensione, Vanni Scheiwiller ripiana i conti quando serve, cura i suoi
rapporti e la difende da se stessa, dalle imprevedibili bizzarrie a cui ogni tanto si lascia andare»
(A. Borsani, Il buio illuminato di Alda Merini cit., pp. XLII-XLII).
45
A. Merini, Natale 1988, in da «Vuoto d’amore» cit., p. 416.
46
Natale 1989, ivi, p. 417.
42
43
ALDA MERINI E LE «MATERNITÀ DISFATTE»
411
rica O mia poesia salvami presenta, con connotati evangelici, tre agenti principali
(l’io, la poesia, la primavera, peraltro accomunati dalla data di nascita dell’autrice47)
che risultano contemporaneamente, tra vocativi e smentite, partoriti e partorienti
di loro stessi («mia dolce chiara bella creatura, / mia vita e morte, / mia trionfale e
aperta poesia / […] / torno perché tu sei la primavera: / dunque perché rifiuti me
germoglio, / casto germoglio della vita tua?»48). Non mancano poi, a poche pagine dall’invocazione di soccorso, rovesciamenti per cui dalla poesia-figlio ci si debba invece difendere, tentando di spezzare nella calma il cerchio furioso dell’invasamento poetico: «Fino a quando dovrò, mente dannata, / partorir la tua rima e
la tua forza / onde per gioco mi giocò l’amore?»49. La stessa memoria della malattia e dello spazio concreto che l’aveva ospitata può risolversi nell’inscenamento di
un complesso, quasi eziologico, quadro di maternità continua:
Addio addio mio chiostro,
mia dimora precisa,
ti lascerò per gli alberi
per le ginestre e i fiori
ma il tuo avello terreno
lo porterò nel grembo,
dentro le mie turgide mammelle
che da sempre allattano gli angeli
da quando io fui generata50.
La poesia è allora sia il dato originario che connota l’io nella sua diversità
personale, tra demoniaca e angelica, sia il prodotto di sé che continua a vivere
filialmente una volta staccatosi dal cavo della mente.
La coppia ossimorica dell’albero e della pietra, che tanto corso aveva avuto
nel rappresentare la lettura difficile della coppia e della generazione, si trova poi
impiegata in maniera inedita in Rivolta, una poesia della Terra Santa dove l’interruzione della maternità si esprime in una simbologia inequivocabilmente funebre. Qui l’io, ormai sterile, infertile, provato al punto da non poter offrire più
nulla di positivo alla prole, regredisce in un mondo subumano dove la letizia e
la fecondità appartengono a un tempo geologicamente remoto:
47
Il 21 marzo, giorno dell’equinozio di primavera e poi, per una curiosa coincidenza, della
Giornata Mondiale della Poesia istituita dall’Unesco nel 1999.
48
O mia poesia, salvami, ivi, p. 348.
49
Erinni, ivi, p. 356.
50
«Ho trovato il mio momento preciso», ivi, p. 351. Si noti come il manicomio venga abbandonato in favore di elementi vegetali, che per la Merini si collegano assai spesso con la sfera
semantica della generazione. Non sfugga nemmeno, tra gli altri, la ginestra, che con il ricorso
a Leopardi connota anche la libertà del mondo esterno al carcere terapeutico come uno spazio
refrattario alla fragile vita del soggetto, dove ugualmente si rimarrà privi di un supporto sociale
che non sia costruito, verso dopo verso, dall’immaginazione poetica.
412 FRANCESCO VASARRI
Mi hai reso qualcosa d’ottuso,
una foresta pietrificata,
una che non può piangere
per le maternità disfatte51.
Alla pietrificazione della propria primavera di madre fa seguito la scomparsa dei «cuccioli», cercati dalle «unghie assetate» che «scavano nette la terra», in
una dimensione dunque mortuaria, che il soggetto contempla restando ‘ammantato’ nel «lutto»52.
3. Una «diversa» e il suo «diario di […] madre»
L’altra verità. Diario di una diversa, oltre a essere uno dei testi più interessanti della Merini, è anche quello dove viene affrontato con maggiore concentrazione e insistenza il tema della maternità negata negli anni del manicomio. Proprio
il motivo del distacco dalle figlie, insieme all’istantanea sottrazione di quelle nate
durante i ricoveri, pare infatti informare i principali snodi narrativi, contribuendo a realizzare la circolarità temporale della prosa e a definire un sistema di dramatis personae che almeno in parte si stabilisce, per specularità, intorno ad attributi materni o filiali. La dedica, innanzitutto, è rivolta53 non a tutte e quattro le
figlie, ma soltanto a Barbara e Simona, la cui nascita è narrata entro i confini della
prosa. Ciò avviene, probabilmente, perché nel loro caso la responsabilità dell’abbandono può venir ascritta integralmente alle regole della kafkiana burocrazia
terapeutica che circondava la Merini in quegli anni, mentre il deterioramento
dei rapporti con le figlie nate prima del ’65 aveva già assunto i contorni di una
colpa personale, di una intrinseca incapacità che aveva prodotto rancori e ferite:
La mia figura di madre era quanto mai incerta. Alle volte agivo come una bambina. Alle volte mi dimenticavo dei miei fanciulli e diventavo io stessa la figlia
di me stessa. Una volta mia figlia maggiore mi disse: «Dacché sei ricoverata
qui dentro ho imparato a farti da madre». La cosa mi colpì come una fucilata
in pieno petto. Come osava dirmi una cosa simile? Anche se minorata, le mie
viscere erano comunque mature per una generazione, e lei ne era stata la prima
conferma. Da quel momento la odiai e non volli più che venisse a trovarmi. Mi
pareva inferiore alle mie aspettative. In poche parole, avevo trasferito su mia
figlia il concetto di madre che tanto pesava sopra la mia coscienza54.
A. Merini, Rivolta, in La Terra Santa cit., p. 233.
Ibidem.
53
Oltre che alla dottoressa Marcella Rizzo, che seguì la Merini a partire dalla fine degli anni
70. Cfr. A. Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, in Il suono dell’ombra. Poesie e prose 19532009 cit., [pp. 701-787], p. 701.
54
Ivi, pp. 736-737.
51
52
ALDA MERINI E LE «MATERNITÀ DISFATTE»
413
Proprio dal rovesciamento problematico dei ruoli si avvia, in apertura al libro, la presentazione della protagonista: da un lato essa è «poco più di una bambina», dall’altro è «sposa e […] madre felice», benché gravata «dall’immenso lavoro[,] dalla continua povertà» e dalla morte della madre55. Qualche paragrafo
dopo, descrivendo il primo ingresso nella realtà altra del manicomio, lo sprofondamento nel nuovo contesto è segnato da un grido che attraversa il corpo e
la psiche con la violenza di un parto: «Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti»56.
In un simile travaglio senza generazione, le «figlie»57 sulle quali si apre la prosa sono già diventate impossibili da pronunciare per via direttamente denotativa, sostituite dalle figure generiche e indeterminate dei «figli». Scomparso il nesso
personale degli affetti, resta soltanto la memoria di una prole perduta, di un’interruzione quasi più biologica che biografica. Da quel momento in poi, le attenzioni che non si possono più dare a chi le avrebbe di diritto meritate, l’accudimento
reso impossibile dalla malattia e dalla detenzione saranno riversati su oggetti sostitutivi. È infatti da notare come, nella forte dicotomia manicheistica che connota
i personaggi dell’Altra verità, in quella divisione che si stabilisce, con le parole di
Manganelli, tra «il naturale inferno e il naturale numinoso dell’essere umano»58,
tutte le figure che porgono all’io narrante un po’ d’amore o d’affetto siano immediatamente annesse, con descrizione fisiche e attribuzioni comportamentali, all’orizzonte della filialità. Il dato, che pure si può spiegare in rapporto alla semplice
condizione della malattia – se è vero che, in simili, durissimi contesti e forse al di
là dei sintomi, l’essere umano regredisce allo stato dell’infans, di colui cioè che più
non parla né può decidere della propria vita – appare però troppo costante per non
porsi, in qualche modo, come meccanismo di risarcimento personale. Ecco allora
che le pazienti con cui il soggetto intrattiene conversazioni e scambi affettivi sono
cullate, accarezzate, rassicurate, a volte anche blandite come le bambine cui d’altronde, espressamente, somigliano. La Z., uno dei primi personaggi a comparire nel teatro manicomiale, è «una bonacciona»59, Cleo, «morbida e dolce», ha «un
bel visino di fanciulla che ancora non sa nulla del mondo» ed è tanto lontana dalla comprensione della realtà manicomiale che stringerla a sé permette di percepire, pur a distanza, un abbraccio con le proprie «figliole»60. Altre giovani figure di
donne sono tratteggiate in descrizioni che ne esaltano la grazia e fragilità infantili:
Ivi, p. 705.
Ivi, p. 706.
57
Ivi, p. 705.
58
Giorgio Manganelli, Prefazione, in A. Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, Prefazione di Giorgio Manganelli, Nuova edizione accresciuta, Milano, Rizzoli, 2000, [pp. 7-9], p. 7.
59
A. Merini, L’altra verità. Diario di una diversa cit., p. 706.
60
Ivi, p. 756.
55
56
414 FRANCESCO VASARRI
Una ragazza, che mi piaceva particolarmente, era affetta da epilessia. Era così
bella, così perfetta che pareva una bambola, e quando rideva, squittiva proprio
come le rondinelle. Quanta tenerezza mi faceva. […] Di questa ragazza ricordo
la fine evanescenza tranquilla. Pareva appena uscita dal grembo materno. Aveva
lo stupore dell’infante, la grazia della Vergine, la bellezza delle concubine61.
Anche nei casi in cui i contatti umani si tingono di venature erotiche compare,
con effetti espressivi particolarmente intensi, il richiamo straniante a una dimensione non adulta, per cui anche l’approccio sessuale venga riconvertito in una generica, infantile ricerca di protezione e la passione si riconduca all’agape delle attenzioni materne. La degente Z., che cerca di forzare il soggetto in un rapporto omoerotico, passa rapidamente da motivo di timore a oggetto di tenera rassicurazione:
Tuttavia compresi che la Z. si trovava anche sotto uno stato di eccitazione psichica. Ma non volevo chiamare le infermiere. «Vieni» le dissi dolcemente, «ti
porto a letto.» La Z. mi appioppò un sonoro bacio sulla bocca credendo che io
sarei stata alle sue voglie morbose. Invece io la feci adagiare sul fianco e presi
a farle aria, come si fa con i bambini. […] Allora la Z. si mise a piangere, e il
suo corpo di ragazzona infelice pareva squassato dal terremoto. Dopo di che si
acquietò, e, finalmente, riuscì ad addormentarsi62.
Particolarmente interessanti appaiono, su questo frangente, le figure di Pierre
e di Aldo, due malati con i quali il soggetto sperimenta, anche nel disagio del
manicomio, il sogno di aprirsi nuovamente all’amore. Da notare sono, prima
di tutto, i nomi, che paiono riferirsi da un lato a un raddoppiamento della stessa autrice (tanto più che con Aldo si parlerà, lasciando sfogo alla disperazione,
della lontananza straziante delle «figliolette»63), dall’altro a una crasi tra il pittore Charles, cui la Merini aveva affittato una stanza negli anni di composizione
del volume, e Michele Pierri, con cui si infittiva una corrispondenza destinata
a sfociare nel matrimonio64. Si tratta, anche in questo caso, di uomini in cui rimangono compresenti le necessità dell’adulto e quelle del bambino. Il rapporto con loro si configura, coerentemente, sia attraverso il progetto di un figlio al
quale dare la luce sia con l’istituzione di un teatro affettivo dove gli amanti vestono, reciprocamente, i panni del genitore e del figlio:
Ivi, pp. 772-773.
Ivi, p. 752.
63
«Invece, dopo due ore di silenzio si alzò; si pulì i calzoni; mi prese in braccio e disse: “Sai a
che ho pensato, Aldina, in tutto questo tempo? Alle mie figliolette”. In quel momento lo abbandonai per correre a piangere nel mio reparto» (ivi, p. 757).
64
V. A. Borsani, Il buio illuminato di Alda Merini cit., p. XXXVI. Ad amare la narratrice
nella ricostruzione letteraria, tentando la guarigione delle vecchie ferite, paiono allora essere le
controfigure di una se stessa più matura, ormai sfuggita all’epicentro del male, e degli uomini
che materialmente avevano alleviato, nei primi anni 80, la solitudine seguente al ventennio di
internamento.
61
62
ALDA MERINI E LE «MATERNITÀ DISFATTE»
415
Mi trovai improvvisamente di fronte [Pierre,] un uomo, un uomo nella sua interezza anche se malato e mi trovavo di fronte lo spazio della antica libertà. Entrambi sentimmo fortemente questo shock tanto che non riuscimmo a far nulla
e solo ci riposammo sull’erba carezzandoci teneramente la mano e parlando di
quell’ipotetico bimbo che avremmo potuto avere65.
Allora [Aldo] mi abbracciava e rideva forte e mi faceva rotolare per terra e mi
impasticciava di baci che non avevano nulla di adulto. Erano baci di un bambino teneramente commosso e felice di qualche caramella66.
Si tratta, peraltro, di amori infelici, continuamente ribaditi in un testo che
non segue una progressione temporale lineare ma torna a riavvolgersi su alcuni
eventi in risalto. Non è facile comprendere, specialmente per queste due figure,
dove si fermi la biografia e dove la letteratura instauri, anche in un testo a caratura testimoniale, uno spazio aperto all’invenzione67. Quanto conta è però che la
separazione dagli uomini amati e potenziali padri avvenga, a intervalli regolari,
nella narrazione, fino a un distacco terminale che si realizza, però, dopo il concepimento. Entrambi, Aldo e Pierre, saranno allontanati dalla poetessa smarrita all’inferno, così che l’attesa di un figlio da crescere, finalmente, insieme, anche in mezzo all’orrore, rimarrà frustrata:
Ma prima che la bimba nascesse, sia Pierre che Aldo vennero mandati in un cronicario, e io rimasi, senza volerlo, vedova di me stessa. La bimba nacque egualmente e in modo abbastanza felice, malgrado avessero preso tutte le precauzioni
per farmi fare un parto orribile (all’uopo venni portata, demandata al neurodeliri). La piccina venne alla luce nel pieno della sua bellezza […]. Era quello il
primo frutto bello, non intaccato, che usciva da un luogo di alienazione. Ma mi
fu subito tolta. Oggi la bimba non è con me, ma è mia come non mai68.
Anche i momenti della gestazione e della gravidanza tendono a ripetersi senza che sia sempre possibile stabilire precise cronologie. Il testo ne tiene traccia,
ancora una volta, sotto l’egida dell’ossimoro, per cui l’esperienza può venir percepita sia come un momento di sollievo e di potenziamento dell’identità69 che
come un acuirsi dello stato confusionale e del malessere, indotto dal terrore di
subire, con la nascita del figlio, la perdita o mutilazione di una parte di sé70. La
contraddizione è risolta, ad ogni modo, nel reiterato dolore della separazione,
A. Merini, L’altra verità. Diario di una diversa cit., p. 711.
Ivi, p. 730.
67
La stessa autrice indica, nella Conclusione, una collisione tra il polo della menzogna/invenzione e le «spietate constatazioni dei fatti» (ivi, p. 787).
68
Ivi, p. 772.
69
Cfr. ivi, p. 724.
70
Cfr. ivi, p. 726.
65
66
416 FRANCESCO VASARRI
mentre il più alto simbolo del conflitto tra due ordini irriducibili (quello biologico-sociale della maternità e quello tecnico-detentivo del manicomio) si individua nell’impossibilità di allattare a causa delle terapie farmacologiche. Lo stesso corpo della madre, in accordo con quando già scritto nella Terra Santa («Mi
hai reso una foresta / dove serpeggiano serpi velenose […] / e avevo dei morbidi cuccioli»71) è diventato nocivo, venefico, interrompendo anche l’atto naturalissimo della nutrizione:
«Sono forse una bestia io, che non posso dare il latte alla mia bambina?» continuavo ad urlare. «Ma no!» mi disse il medico, «non è questo. È che tu hai
sempre preso pastiglie e il tuo latte può non essere idoneo per la piccola. Può
farle male.» Comunque, il latte dovettero levarmelo e quella fu la più dolorosa
operazione morale che avessi mai subito dall’entrata in quel terribile luogo72.
La perdita dei figli non rimane, ad ogni modo, soltanto l’espressione di un dolore privato e coincidente con il vissuto di chi scrive. Proprio sul fronte dell’impedimento alla genitorialità, nonché sul problema soggiacente del ruolo della donna in una società maschilista, L’altra verità impernia infatti, con tratti di
engagement, la rappresentazione di moltissimi degli internati. Z. viene rinchiusa perché «era stata una ragazza madre e volevano disfarsene». Non folle, anzi
«quieta, e a volte persino serena», soffre soltanto la «cosa atroce»73 della maternità manicomiale. Padre è Aldo, madre è T. che uscita dal manicomio dovrà far
comprendere alla figlia la sua condizione di «povera donna, in balia di se stessa
e della sua tossicodipendenza»74. Madri sono le giovani ragazze che continuano
a tentare il suicidio per non dover vedere impresso sui figli il marchio corruttivo della propria malattia:
E molto ci sarebbe da scrivere sulla storia di questa fanciulla, che poi riuscì a
morire, in un giorno di festa, dopo che fu maltrattata dagli infermieri. Ricordo
che le piacevano i dolci. Ed era madre anche lei, ma nessuno sapeva che il suo
grembo così dolce aveva già dato un figlio, e che per quel figlio temeva la sua
stessa storia75.
Il manicomio che la Merini descrive è insomma, come certi scenari ariosteschi, un luogo dove tutti i personaggi, siano o meno in presa diretta dalla memoria fattuale o persi tra i duplicati dell’autrice, cercano di riallacciare il filo di
un amore smarrito insieme al proprio senno. Scrive la stessa Merini, nel Delirio
71
72
73
74
75
A. Merini, Rivolta, in La Terra Santa cit., p. 233.
A. Merini, L’altra verità. Diario di una diversa, pp. 733-734.
Ivi, pp. 706-707.
Ivi, p. 738.
Ivi, p. 765.
ALDA MERINI E LE «MATERNITÀ DISFATTE»
417
amoroso del 1989, che il Diario di una diversa va inteso, appunto, come autodafé di una madre che non ha saputo proteggere le figlie dal proprio dolore, ma
nonostante tutto continua, sul crepaccio di un tempo non condiviso e proustianamente perso, ad amarle e cercarle76.
4. Sotto la croce
Tra il 2000 e il 2007, con la curatela di Arnoldo Mosca Mondadori, la Merini
dà alle stampe per Frassinelli una serie di sillogi di argomento religioso: testi non
di rado riusciti (soprattutto in rapporto all’abbandono stilistico di molta altra
produzione coeva) dove la consueta ispirazione religiosa sfocia in un teatro teologico di figure monologanti. Da Gesù Cristo a San Francesco, passando in rassegna i principali personaggi evangelici, pur «non v[olendo] minimamente intaccare i dogmi del cristianesimo»77, la Merini finisce per annettere ai propri territori i tracciati biblici, confondendoli con le consuete istanze dell’io (dalla poesia al disagio mentale) e imperniando la verità di fede sul rapporto amoroso tra
la madre e il figlio. È infatti in particolare la figura della Madonna che si carica,
come nota Renzo Ricchi, di evidenti riferimenti autobiografici:
In Magnificat le vicende e la sofferenza di Maria di Nazareth fanno pensare
spesso alle vicende e alle sofferenze della poetessa. In un’intervista fattale per la
rivista statunitense «Gradiva» Alda Merini mi ha confessato a forti note che il
suo maggior dolore, quando fu internata in un manicomio, fu di essere allontanata dai suoi figli; dolore che si protrasse anche dopo i lunghi anni di detenzione
perché questi avevano frapposto una distanza quasi invalicabile tra lei e le sue
creature (E questa, penso, è ancora oggi la pena più tenace). Dunque l’angelo
annuncia alla fanciulla che genererà il Figlio di Dio e la sua prima reazione, nella
identificazione-proiezione di Alda Merini, è di paura: «Ho dovuto coprirmi la
faccia / e le orecchie e gli occhi / per non sentire il rombo delle sue ali. / Dio, che
spavento, / rombavano nell’azzurro / come due grosse eliche»78.
Già nei primi testi di Corpo d’amore, Maria è presentata secondo la triade
femminilità-poesia-follia che pertiene normalmente al soggetto («Maria era una
donna che aveva in animo la poesia: per lei un angelo poteva essere una visita
di tutti i giorni»)79. Sempre tipica dell’immaginario meriniano è poi la vocazio-
76
Cfr. A. Merini, Delirio amoroso, in Il suono dell’ombra. Poesie e prose 1953-2009 cit., [pp.
789-849], p. 843.
77
A. Merini, Corpo d’amore. Un incontro con Gesù, in Mistica d’amore [2008], Milano, Sperling & Kupfer, 2013, [pp. 1-69], p. 5.
78
R. Ricchi, Rassegna di poesia cit., p. 356.
79
A. Merini, “Maria era una donna…”, in Corpo d’amore. Un incontro con Gesù cit., p. 26.
In Magnificat la visitazione angelica sarà ancora più sovrapposta all’idea del delirio, con identico
418 FRANCESCO VASARRI
ne all’antitesi, poiché «la donna avrà in sé tutte le contraddizioni care a Gesù:
la tenerezza e l’oblio, la condanna e l’assoluzione, il parto e il figlio, la luce e la
tenebra»80. «Parto» e «figlio» sono, ancora una volta, due concetti non contigui ma opposti, laddove l’esperienza della maternità non può venir separata da
quella della perdita, nella comprensione incipitaria, propria sia della narrazione evangelica che delle vicende manicomiali, di dare alla luce un figlio che non
apparterrà integralmente, destinato a morire/venir sottratto:
Maria accetta l’amore in letizia e il figlio in letizia, sa che non sarà mai suo,
come tutti i figli di questo mondo, e sa che deve anche tenerselo in cuore, e con
il figlio anche il patimento del figlio. D’altra parte Gesù che aveva la sua strada
non poteva obbedire al cuore terreno di Maria che voleva per sé tutta la carne
del figlio81.
Tutto è insomma già scritto, la maternità si incarna attraverso la negazione e
soltanto il polo della fede/poesia può a volte risarcire, levitando verso il simbolo, il peso gravoso dell’assenza. Pure, anche a livello metaforico non mancano
contraddittorie attribuzioni di valore. La vegetazione, compromessa con l’immagine cristologica della croce, conosce la propria morte anche mentre germina («L’albero ha sempre le sue radici nella paura e il seme prima di crescere impara a morire»82), mentre la salita ai cieli, dopo la morte, non può connotarsi
con gli attributi della nascita (sempre passibile di convertirsi in lutto), ma soltanto con quelli della gestazione («l’uomo quando muore risorge in te e diventa una lunga gravidanza d’amore»83). Lo stesso Cristo è d’altronde «materno e
plurimo»84 e riunisce i «figli» «in un abbraccio che è l’assenza della sua parola»85,
mentre in un libro successivo, il Cantico dei Vangeli, l’anima dell’uomo rischia
di abortire senza vedere mai la luce della verità, perché «è come un feto / che sta
nel […] grembo / e non riesce a giungere / al nono mese / né riesce a risalire /
le correnti del grande dolore»86. In Magnificat la figura di Maria si sdoppia in
tramite della poesia. Giuseppe dirà all’angelo di abbandonare Maria, perché «è soltanto un grande poeta / di cui Dio è innamorato» (A. Merini, «Se Giuseppe mi abbandonasse», in Magnificat.
Un incontro con Maria cit., p. 111).
80
A. Merini, «Così è per te…», in Corpo d’amore. Un incontro con Gesù cit., pp. 30-31. Sugli
ossimori mariani insiste anche Magnificat, che preme ulteriormente il pedale dell’identificazione
biografiche, chiamando in causa la data di nascita della poetessa: «Ed era così casta e ombra, ed
era così ombra e luce, che su di lei si alternavano tutti gli equinozi di primavera» (A. Merini, «Ella
era di media statura…», in Magnificat. Un incontro con Maria cit., p. 113).
81
A. Merini, «Maria accetta l’amore…», in Corpo d’amore. Un incontro con Gesù cit., p. 27.
82
«Il sogno di Cristo…», ivi, p. 29.
83
«Dicono che le sorgenti…», ivi, p. 58.
84
Ibidem.
85
«Dicono che le sorgenti…», ivi, p. 59.
86
A. Merini, «Alzatevi dalle vostre sedie di dolore», in Cantico dei Vangeli, in Mistica d’amore
cit., [pp. 235-326], p. 250.
ALDA MERINI E LE «MATERNITÀ DISFATTE»
419
due voci, una direttamente monologante in prima persona, e l’altra agente alla
terza o alla seconda attraverso le invocazioni dell’io. Si tratta, nell’arco di tutto
il lungo prosimetro, di una Madonna dai connotati, ancora una volta, ancipiti.
Da un lato, infatti, la figura mariana viene esaltata, anche al di là del dogma, ad
agente importante nella salvezza dell’umanità; dall’altro ci si trova di fronte ad
una madre assolutamente terrestre, non esente dal dolore in quanto «forse anche lei umanamente dubitò della resurrezione del figlio, altrimenti non avrebbe
sofferto»87. Interessanti sono le spie di commistione biografica. Oltre a quanto
ricordavamo già citando la recensione di Renzo Ricchi, si possono considerare
le ambiguità di alcune simbolizzazioni, per cui, ad esempio, il momento della
gravidanza e del concepimento, marcato dal «dubbio atroce della fede», si connota già nel segno del dolore patibolare diventando un’incomprensibile «crocifissione amorosa»88. Specularmente, il grido di dolore della madre dinanzi al figlio suppliziato ne trascende la natura di adulto e torna a lamentare la perdita,
pienamente autobiografica, del figlio ancora piccolo. Trapelano allora dai versi
le immagini di un’infanzia dolorosamente sottratta alla progressione cronologica e rimasta cristallizzata nella memoria. Continua a campeggiare la gestazione
come simbolo centrale dell’esperienza di madre, tanto che la ferita inflitta al figlio viene ugualmente patita nel fondo del ventre:
Ridatemi le spoglie del mio bambino.
Non l’avessi mai visto correre per i prati,
non l’avessi mai sentito gridare dalla gioia,
non avessi mai incontrato il suo volto89.
Non toccategli il cuore:
io sono la madre,
per nove mesi
io l’ho costruito e amato.
Non straziatemi il grembo90.
La situazione non cambia nemmeno nel volume dedicato nella sua interezza
alla passione golgotina. Anche nel Poema della croce Cristo è rimasto un «bambino» che Maria osserva mentre patisce il tormento della «crocifissione»91. Il momento della perdita filiale si svolge, ancora una volta, in un tempo ineluttabi-
87
A. Merini, «Il cammino di Maria…», in Magnificat. Un incontro con Maria, in Mistica
d’amore cit., p. 83.
88
A. Merini, «L’anima mia scorre verso di Te come la luce», in Magnificat. Un incontro con
Maria cit., p. 97.
89
A. Merini, «Gesù è una fiamma d’amore», ivi, p. 131.
90
A. Merini, «Non prendete mio figlio», ivi, p. 132.
91
A. Merini, «Eppure le mie parole», in Poema della croce, in Mistica d’amore cit., [pp. 153234], p. 223.
420 FRANCESCO VASARRI
le che non conosce tregua e si avvolge circolarmente su stesso92. Il nuovo nato
non potrà mai coesistere nella stessa dimensione della madre perché, anche nell’«infanzia», ha già «in sé / l’immagine del suo futuro»93, mentre questa è costretta a continuare il ciclo della generazione e della perdita, legata «ai piedi del figlio
/ per esserne trascinata con lui sulla croce» e poi «sciolta» affinché «continui a
vivere nel suo dolore» di sopravvissuta a sé stessa e all’interruzione del proprio
ruolo materno, nella «pastura divina» che si rivela, con un ultimo scatto testimoniale, l’ancora e sempre indigeribile «terra del manicomio»94. Lo stesso Gesù ha
ricordi che sorgono dal retroterra personale dell’autrice: guardandosi alle spalle rammenta di aver vissuto un’«infanzia feroce, ma un’infanzia delicata come il
volto di mia madre»95. Volto che già era stato ammezzato, nei versi ormai lontani di Canzone triste, datata 1951, tra la tenerezza dell’equilibrio e l’improvviso irrompere della furia, tra le «colombe che filano armonia» e le mani che poi
si ergeranno «alte, levate in gesti di minaccia»96. Proseguendo in un percorso a
ritroso che ritorna alle figure della prima raccolta giovanile, il Cristo del Poema
della croce, penetrando «fino nel profondo» dei «misteri dell’anima» tramutati in inferno, libera «le anime dei non credenti» senza dimenticarsi «neanche di
Orfeo, e del liuto della misericordia che Dio fa suonare nel cuore degli uomini
quando […] non osano più muoversi dal letto del dolore»97. Diventa, allora, la
desiderata immagine di un figlio capace di perdono, che alla «madre / che non
è stata nulla»98, che troppo poco ha potuto essere nelle pieghe del male, risponde con un gesto di salvifico soccorso, nell’accettazione di quanto di disgregante,
di corrosivo, di biograficamente esiziale risiede a volte nel proporsi della poesia.
92
La figura della madre è infatti singolarmente sottratta allo scorrere degli anni, fissa nella
cecità del dolore: a preservarla persino dall’invecchiamento, che condurrebbe alla morte/ascensione, è infatti il «tempo della croce» («Maria non invecchiò mai», ivi, p. 162), ma anche lo
scandirsi dei momenti che segnarono la comparsa del disagio mentale dell’autrice, adiacente
all’annunciazione: «Maria era ferma nella sua adolescenza, era rimasta lì, impigliata nei capelli
dell’angelo, e non cresciuta più. Era una sposa bambina» («Cominciai a conoscere…», ivi, p. 175).
93
A. Merini, «L’infanzia di Gesù», ivi, p. 159.
94
A. Merini, «[Risposta di Maria]», ivi, p. 169.
95
A. Merini, «[Ricordi della mia vita]», ivi, p. 173. E poi: «Ecco che mi hanno spezzato in
mille parti / e mi hanno buttato ai cani / come se fossi stato partorito / da un ventre selvaggio, /
ed era invece il ventre di una fanciulla […] inconsapevole persino della sua grazia» («Leggimi nel
pensiero, padre», ivi, pp. 196-197).
96
A. Merini, Canzone triste, in La presenza di Orfeo cit., p. 31.
97
A. Merini, «Poi venni schiaffeggiato…», in Poema della croce cit., p. 87.
98
A. Merini, «Non portatemi via il figlio», in Magnificat. Un incontro con Maria cit., p. 135.
DONNE DI DOLORI. DONNE DI SPADE
Ernestina Pellegrini
1. Ombre. Donne in follia
Madre e figlia, donne di dolori. Mi sono chiesta: cosa succede se nelle immagini e nelle forme letterarie e artistiche della Pietà e dello Stabat Mater i due
soggetti rappresentati sono due donne? I due sguardi incrociati in un desiderio
di identificazione e di differenziazione. Lo Stabat Mater, nelle opere di alcune
scrittrici, dove i ruoli sono spesso capovolti. Il primo amore assoluto, l’origine
di tutto il resto, la sua sofferenza, la tua, la mia, in un cortocircuito senza fine.
Mi rendo conto che questo saggio, rispetto al tema puro di uno Stabat Mater
che va da Jacopone da Todi a Tiziano Scarpa possa risultare eccentrico, spurio,
ma credo anche che l’apparente divagare della sua struttura, costruita per paragrafetti separati ma interrelati dal ritorno di alcuni motivi e leitmotiv, riesca a
dimostrare come la deriva interpretativa, legata al tema misto e incrociato del
«materno» e della «follia», cioè della sofferenza femminile, produca frutti non
del tutto disprezzabili, almeno in quella zona franca dove si incrociano la letteratura e le scienze umane1.
Nella letteratura del Novecento la relazione tra madre e figlia è stata spesso descritta e raccontata come uno spazio conflittuale, luogo di ferite e di sofferenze.
Riflessi di un matricidio simbolico. Oppure all’opposto, come una santificazione
dell’ordine simbolico della madre, fino allo straordinario, provocatorio libro di Luisa
Muraro, Il Dio delle donne, in cui il divino, Colui-Colei, è raccontato in lingua materna, è l’indicibile delle mistiche, dal Medioevo al Novecento, da Margherita Porete
a Simone Weil, da Angela da Foligno a Hetty Hillesum, da Giuliana di Norwich a
Cristina Campo2. Il bagaglio teorico è pesante. Basta forse ricordare qualche titolo che ha ormai, forse, il sapore del vintage: da Marianne Hirsh, Mother-Daughter
1
Alcuni aspetti di questo saggio sono stati diversamente e ampiamente sviluppati in precedenti lavori a cui vorrei rimandare: Ernestina Pellegrini, Le spietate. Eros e violenza nella letteratura
femminile, Roma, Avagliano, 2010; E. Pellegrini, Dietro di me. Genealogie. Le artiste surrealiste e
altre storie, Firenze, Florence Art Edizioni, 2016.
2
Luisa Muraro, Il Dio delle donne, Trento, il Margine, 2012.
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
422 ERNESTINA PELLEGRINI
Plot del 1981 a Writing Mothers and Daughters. Renegotiating the Mother in Western
European Narratives by Women, curato da Adalgisa Giorgio nel 2002; da Lo specchio materno. Madri e figlie fra biografia e letteratura, uscito a cura di Anna Scacchi
nel 2005 al numero monografico della rivista «Legendaria», Madri, del 2006, fino
alla complessa riflessione di Julia Kristeva sul materno, che tiene insieme aspetti corporei e attribuzioni di senso, esperienza soggettiva e ricadute sociali. Al centro, naturalmente, come rimando resta il saggio di Kristeva del 1977 intitolato
Stabat Mater (il titolo originale in francese era Hérethique de l’amour, pubblicato
su «Tel Quel» nel 1977), tradotto in inglese da Arthur Goldhammer e pubblicato in «Poetics Today» nel 1985, e tradotto infine da Leon S. Roudiez per il bel volume di Toril Moi, The Kristeva Reader uscito per la Colombia UP nel 1986 e ora
open access all’indirizzo: <https://archive.org/details/TheKristevaReader>. Come
ultima voce mi limito a segnalare anche il libro di Saveria Chemotti, L’inchiostro
bianco. Madri e figlie nella narrativa italiana contemporanea, che ha indagato il tema
attraversando l’opera letteraria di Sibilla Aleramo, Grazia Deledda, Paola Drigo,
Gianna Manzini, Anna Maria Ortese, Fausta Cialente, Alba De Céspedes, Elsa
Morante, Natalia Ginzburg, Giovanna Zangrandi, Lalla Romano, Gina Lagorio,
Francesca Duranti, Francesca Sanvitale, Fabrizia Ramondino, Carla Cerati, Dacia
Maraini, Elena Ferrante e Elisabetta Rasy. Inutile dire che questo studio di Saveria
Chemotti offre un campionario prezioso di citazioni e rimandi a autrici e opere
che restano fuori dal presente lavoro, ma ne costituiscono un necessario retroterra e una integrazione3.
Prima di entrare nell’ambito di alcune riflessioni teoriche supplementari e
poi in una breve rassegna comparatistica, voglio partire a mo’ di prologo da una
citazione tratta da un libro di Roberta Dapunt – una giovane scrittrice della Val
Badia, classe 1970, edita da Einaudi – da un testo che si intitola Le beatitudini
della malattia, dove si mette in scena un dialogo sacro, nei misteri del quotidiano, fra una figlia e una madre, malata di Alzheimer, sospesa in un luogo apparentemente metafisico fatto di silenzio e amorosa ritualità. I ruoli sono capovolti. Nessun conflitto, nessuna ribellione, ma un ritrovarsi delle due donne, madre
e figlia, sulla soglia della morte e della separazione. La figlia guarda, accudisce e
piange il corpo senza memoria della madre, che si chiama Uma. Il nome in ladino
significa madre, dall’autrice usato qui come un universale, come una chiamata:
Ho compreso, colmato di carezze il silenzio,
ho trasportato il suo acume dalla tua carità alle mie
orecchie,
per non ricusare, oppormi alla tua quiete.
Mi hai portata nella tua mancanza di suono,
nel non dire, tra le pause della tua voce
3
Cfr. Saveria Chemotti, L’inchiostro bianco. Madri e figlie nella narrativa italiana contemporanea, Padova, il Poligrafo, 2009.
DONNE DI DOLORI. DONNE DI SPADE
423
e mi hai accompagnata fino all’assenza totale dei rumori.
Ho capito l’astensione del parlare,
la muta esistenza del corpo.
Mi hai dato in mano il suo accordo all’abbandono
Delle richieste, dei tuoi desideri.
Mi hai consegnato tutto nella tua privazione
e senza rimpianto e senza nostalgia da un giorno all’altro
non hai più detto, non hai proferito, non risposto, non
hai capito.
E da lì, dal tuo tempo distante, coerente luogo il tuo,
non hai cambiato silenzio, non lo hai più tradito4.
Questo lavoro ha due facce. Un lato della medaglia è sul genere della rassegna, della compilazione e del commento di una catena di citazioni organizzate
intorno a micromotivi testuali; e l’altro lato assomiglia, invece, a certe macchine ipertestuali che mostrano delle finestre attraverso le quali si può sbirciare un
mondo di questioni diverse e lungo le quali il lettore, se vuole, può decidere di
addentrarsi e di continuare l’esplorazione da solo, portando sotto il braccio almeno il volume Psicoanalisi al femminile, curato Silvia Vegetti Finzi5.
Vorrei aprire il discorso con una osservazione molto generale. Nel bel volume
Nevrosi e follia nella letteratura moderna, uscito a cura di Anna Dolfi nel 1993,
c’è un intervento dedicato alla follia femminile, ed è quello di Monica Farnetti
intitolato “Pathologia amoris”. Alcuni casi di follia femminile nel romanzo italiano
tra Otto e Novecento, dove si analizza la relazione fra scompenso amoroso e patologia; vale a dire ci si muove nel recinto esclusivo della “follia per amore”, in
una serie di opere di scrittori scapigliati, veristi, modernisti e decadenti, all’interno di un arco cronologico che va dalla Fosca di Tarchetti (1869) alla Adele di
Tozzi (1909-1911)6. Il campionario è ricchissimo: Giacinta di Capuana, Marina
di Fogazzaro, Arabella di De Marchi, e così via, donne folli, lungo un percorso che sembra fissare una volta per tutte l’equivalenza fra isteria, ferita affettiva
e parola corporea. Ma bisogna precisare che, nel capitolo della Pathologia amoris,
le donne in follia sono sempre e solo i personaggi, e mai i soggetti della scrittura. Vale a dire che nella letteratura sulla «pazza», almeno per quel che riguarda
il panorama italiano canonizzato di quei quarant’anni, manca quasi del tutto il
punto di vista femminile (se non fugacemente nel romanzo d’appendice La vendetta d’una pazza del 1894 di Carolina Invernizio)7.
Roberta Dapunt, Le beatitudini della malattia, Torino, Einaudi, 2013, p. 27.
Silvia Vegetti Finzi, Psicoanalisi al femminile, Roma-Bari, Laterza, 1992.
6
Monica Farnetti, «Pathologia amoris». Alcuni casi di follia femminile nel romanzo italiano
tra ottocento e novecento, in Nevrosi e follia nella letteratura moderna, a cura di Anna Dolfi, Roma,
Bulzoni, 1993, pp. 247-265.
7
Agli inizi degli anni Duemila è uscito il romanzo La pazza di Giovanna Querci Favini
(Venezia, Marsilio, 2002).
4
5
424 ERNESTINA PELLEGRINI
Aggiungendo al catalogo una riflessione inevitabilmente generica, che ha soprattutto una valenza di carattere antropologico, possiamo dire che se ci si avventura nel campo dell’espressione artistica di quelle donne che, negli ultimi
due secoli, si sono trovate a rappresentare il proprio disagio psichico, donne che
hanno scritto sulla e dentro la propria follia, si scopre che in linea di massima
la maggior parte di loro ha cercato di venire a patti con i propri demoni interiori, ha cercato di integrare la propria parte d’ombra, quasi dimostrando che
qualche volta il soggetto femminile – l’Altro per antonomasia nella cultura occidentale – è riuscito a instaurare quasi una relazione di familiarità, di empatia
con tutto ciò che è perturbante, con alcuni vertici espressivi, quale – solo per
fare un esempio – il Giù in fondo della artista surrealista Leonora Carrington8:
«Bisogna vedere attraverso il mostro» – scrive l’artista nella Lettera all’Editore
che apre la sua cronaca manicomiale9. Questo Perturbante – come ci insegnano
i maestri della psicoanalisi – ha legami stretti coi fantasmi dell’origine. Franca
Ongaro Basaglia, nell’introduzione all’edizione italiana dell’interessante volume
di Phyllis Chesler, Le donne e la pazzia, uscito per Einaudi nel 1977, dopo aver
specificato la necessità di considerare le differenze di classe, i margini di libertà o di privilegio, i diversi livelli di oppressione e di coscienza, per cui in genere le donne sottoproletarie finiscono in manicomio e le donne dell’alta borghesia sul lettino dello psicoanalista, richiamava l’attenzione su quel comune denominatore che unisce le donne al «primo livello di oppressione» che consiste
«nell’essere nata donna in una cultura in cui questo fatto costituisce di per sé una
menomazione»10. C’è un paragrafo nella lunga introduzione di Franca Basaglia
che si intitola Le madri non hanno niente da lasciare alle figlie se non la capitolazione11, ovvero una sezione dove si pone l’accento su una costruzione socio-culturale fatta a giustificazione di una oppressione e di una inconsistenza sociale,
che conferma l’invisibilità in termini di potere di una soggettività riconosciuta
solo in una costante donazione e annullamento di sé.
Come ci ricorda Phyllis Chesler, accadeva che, negli anni Trenta in America,
Scott Fitzgerald trovasse patologico e penosamente egoistico l’interesse della moglie Zelda per la danza e per se stessa, e soprattutto trovasse insopportabile che lei
entrasse in competizione con lui, insomma scrivesse come lui. Zelda, come si sa,
avrebbe finito col preferire a lui il manicomio, dove sarebbe morta in un incendio, piuttosto che vivere la sua vita monca. Anche la scultrice Camille Claudel,
sorella di Paul Claudel, uno dei più importanti scrittori cattolici della letteratura
francese, a causa della sua scandalosa e infelice relazione con Auguste Rodin, fi8
1979.
Leonora Carrington, Giù in fondo (En Bas, Le Terrain Vague, 1973), Milano, Adelphi,
Ivi, p. 9.
Phyllis Chesler, Le donne e la pazzia, con un commento di Franca Ongaro Basaglia, Torino, Einaudi, 1977, p. XIV.
11
Ivi, pp. XXII-XXV.
9
10
DONNE DI DOLORI. DONNE DI SPADE
425
nirà i suoi giorni internata in una clinica psichiatrica12. Come dimostrano alcuni trattati sui cosiddetti «casi clinici», presentati nel volume della Chesler, sembra che l’autorestringimento, cioè l’esasperazione del ruolo imposto fino all’annullamento di sé, sia una risposta comune, folle, della donna alla dinamica sociale
dei ruoli di genere. Del resto, non è un caso – ci ricorda sempre Chesler, statistiche alla mano – che i manicomi e le case di cura si riempiano di donne di mezz’età, le quali improvvisamente sono costrette a mettere a fuoco la propria non-storia, la fine della commedia sociale, la mancanza o l’impossibilità di una dialettica all’interno di una situazione chiusa che non offre sbocchi o alternative, se non
tutto ciò che è già fisso e pietrificato socialmente e che ormai appartiene al passato. Si accorgono, queste donne di mezz’età, di essere state archiviate, mandate in
soffitta, di incarnare ormai soltanto delle identità fossilizzate, e si rendono conto
che il loro corpo che non è mai esistito per sé, ora non esiste più nemmeno per
gli altri. Per certe donne è «un delitto» – si legge in Snapshots of a Daughter-in law
di Adrienne Rich – «solo gettare un’ombra troppo audace / o rompere lo stampo
troppo stretto»13. Anche per sfuggire a tutto questo, forse, al di là di certe spericolate inclinazioni personali, quella briosa acrobata dell’identità che fu la scrittrice Anais Nin, passando da un amante all’altro e da un continente all’altro con la
sensazione di essere una contrabbandiera di sé, di star trasportando merce scottante, si lasciava andare a queste fantasie: «Pensavo che essere un ragazzo volesse dire
non soffrire. Che era essere ragazza la causa della sofferenza… E poi c’era un’altra
cosa… Scoprii una via d’uscita: l’azione… Se solo mi avessero lasciata diventare
Giovanna d’Arco! Giovanna d’Arco portava un’armatura, cavalcava, combatteva
fianco a fianco con gli uomini. Essa dev’essere riuscita ad acquisire la loro forza»14.
2. Io senza garanzie
Avvenuta faticosamente la strage degli stereotipi di genere, deposte le camicie di forza dei ruoli socialmente accreditati, molte donne si sono confrontate
con la scrittura, l’espressione artistica e quindi con la legittimazione di un destino di dignità e di autocoscienza, e dunque hanno provato nel corso degli ultimi secoli l’esperienza dolorosa di quello che Ingeborg Bachmann, in un lungo
saggio intitolato L’io che scrive, ha chiamato Io senza garanzie:
Un io senza garanzie! Che cosa è l’Io, infatti, che cosa potrebbe essere? Un astro
di cui posizione e orbita non sono mai state del tutto individuate e il cui nucleo
12
Cfr. Marilena Mosco, Artisti in coppia. Passione, complicità, competizione, Firenze, Nicomp, 2013.
13
Adrienne Rich, Snapshots of a Daughter-in-Law: Poems 1954-1962, New York, Norton,
1968, p. 15.
14
Anais Nin, Cities of Interior, New York, Phoenix Box Shop, 1959, p. 44.
426 ERNESTINA PELLEGRINI
è composto di sostanze ancora sconosciute. Potrebbe essere questo: miriadi di
particelle che formano un ‘io’, ma al tempo stesso l’Io potrebbe essere un nulla,
l’ipostasi di una forma pura, qualcosa di simile a una sostanza sognata, qualcosa
che definisce una identità sognata, cifra di qualcosa che è più faticoso decifrare
del più segreto dei codici15.
Un «io senza garanzie». È ovvio che l’espressione di un forte malessere psichico personale vada al di là di qualsiasi comoda ideologia femminista, e che
fare di ogni erba un fascio rischi di impoverire il quadro di per sé imponente di
queste storie di reclusione e di sconfinamenti. Credo che il modo più onesto per
presentare qualche scheggia di un eterogeneo materiale autobiografico come un
insieme – nelle varie forme del diario, dell’autobiografia vera e propria, del romanzo autobiografico, delle memorie – sarebbe quello delle Vite parallele, ovvero nel senso inverso rispetto alle Vite di Plutarco, cioè di vite a tal punto parallele che nulla può congiungerle, vite che anzi avrebbero trovato – come scriveva Foucault presentando la storia di vita di Herculine Barbin, un ermafrodita
ferocemente emarginato – la loro forza proprio «nel movimento che le separa»,
vite che «non hanno avuto altra eco che questa loro condanna»16.
Mi piace qui dare spazio di comparazione a una polifonia folle, come se a
parlare, con tante lingue e voci diverse, fosse Bertha, la donna mandata in soffitta nel romanzo Jane Eyre di Charlotte Brönte, la donna dal sangue misto e pazza da legare che è diventata una delle protagoniste principali dell’ormai mitico
saggio di Sandra M. Gilbert e Susan Gubar, The Madwoman in the Attic. The
Woman Writer and the Nineteenth-Century Literary Imagination17. Bertha apre il
sacco, quel sacco dentro il quale – secondo Robert Bly, l’autore del leggendario
Piccolo libro dell’ombra – sono andate a finire tutte le parti dell’io rimosse, sacrificate, demonizzate socialmente18. A quei tesori neri, per tanto tempo dimenticati, viene data voce e riscatto.
Ci sono tante storie di vita, depositate all’Archivio diaristico di Pieve Santo
Stefano, che descrivono senza nessuna patina letteraria, senza nessuna resurre-
15
p. 58.
Ingeborg Bachmann, L’io che scrive, in Letteratura come utopia, Milano, Adelphi, 1993,
Cfr. Michel Foucault, (présenté par), Herculine Barbin, dite Alexina B., Mes souvenirs,
Paris, Gallimard, 1978 (collection: Les Vies palallèles). La citazione è tratta da Herculine Barbin,
Una strana confessione. Memorie di un ermafrodita presentate da Michel Foucault, Torino, Einaudi,
2007, p. 9.
17
Sandra M. Gilbert e Susan Gubar, The Madwoman in the Attic. The Woman Writer and the
Nineteenth-Century Literary Imagination, New Haven, Yale University Press, 1979. Fra l’altro,
nel volume viene data una interessante lettura di The Last Man di Mary Shelley, nell’interpretazione della peste come metafora del femminile represso che si vendica distruggendo l’intera razza
umana, per poi regnare in piena libertà nel mondo. Sul romanzo di Shelley si veda anche l’interessante saggio di Ornella De Zordo, Profezia di un commiato. L’ultimo uomo di Mary Shelley, in
En Travesti. Figurazioni del femminile nella narrativa inglese, Roma, Bulzoni, 1999, pp. 111-122.
18
Robert Bly, Il piccolo libro dell’Ombra, Milano, RED, 1992.
16
DONNE DI DOLORI. DONNE DI SPADE
427
zione estetica, la cronaca della follia femminile, le vertigini da ottovolante della mente devastata dall’isteria, dalla malinconia, dalle psicosi maniaco-depressive, storie di vita analizzate nella loro dialettica di dolore e pudore da Duccio
Demetrio che ha tentato di individuare un’equivalenza terapeutica al racconto di sé19. Depositare, oggettivare e universalizzare nella scrittura la cronaca del
proprio delirio ha un’indubbia valenza liberatoria, ma la cosa acquista un surplus di senso e di esibizionismo provocatorio se il meccanismo diventa, nell’opera di alcune scrittrici che quell’inferno hanno attraversato, una specie, come
dire, di sovraesposizione autobiografica, uno streeptease macabro dove il paradigma
vittimario e il maquillage estetico viene strutturato nell’osmosi strettissima fra
sacralità e degradazione. Come accade nel celebre Lady-Lazarus di Sylvia Plath,
per citare un esempio noto a tutti, che mostra il corpo piagato della donna tecnicamente resuscitata dal regno della morte in un ospedale psichiatrico dopo
un tentativo di suicidio:
Via il drappo / O mio nemico! / Faccio forse paura? / Il naso, le occhiaie, la
chiostra dei denti? / […] / La folla sgranocchiante noccioline / Si accalca per
vedere // Che mi sbendano mano e piede – / Il grande spogliarello / Signori e
signore, ecco qui / […] / Morire / un’arte come ogni altra cosa. / Io lo faccio in
un modo eccezionale / Dalla cenere io rinvengo / Con le mie rosse chiome / E
mangio uomini come aria di vento20.
Sin dai tempi di The Bell Jar (La campana di vetro), malgrado il doppio travestimento difensivo dell’io empirico dietro lo pseudonimo (Victoria Lucas) e il
personaggio romanzesco (Esther Greenwood), Sylvia Plath aveva narrato il proprio internamento in una clinica psichiatrica, senza censure, anzi assecondando cadenze voieuristiche, inscenando la propria mortificazione secondo i parametri della poetica confessional di altri due poeti americani, Anne Sexton (anche lei morta suicida come Plath) e Robert Lowell, maestro di tutte e due – autori, Sexton e Lowell, rispettivamente, di To Bedlam and Part Way Back ( del
1960, In manicomio e parziale ritorno) e di Life Studies (1959) – i quali, reagendo al conformismo del regime maccartista, maturarono insieme con Plath un
rilancio del discorso autobiografico inteso come coraggiosa messa a nudo delle
loro esperienze più traumatiche e devianti. L’esibizione della propria parte sacrificata assume subito per Sylvia Plath una forte carica di denuncia politica, se
sin dall’inizio la donna si paragona ai coniugi Rosemberg giustiziati sulla sedia
elettrica. I Confessional Poets andavano in manicomio qualche volta, si sa, come
19
Duccio Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Milano, Cortina, 1996.
Inoltre Cfr. Pietro Clemente, Scrivere di sé tra dolore e pudore; storie di donne, di uomini, di generazioni, in Griselda. Tra memoria e scrittura, Firenze, Olschki, 2001, pp. 20-49.
20
Silvia Plath, Lady Lazarus e altre poesie, trad.it. di Giovanni Giudici, Milano, Mondadori,
1976, pp. 25-27 (tutte le citazioni dai testi vengono fatte dalle ottime traduzioni in commercio).
428 ERNESTINA PELLEGRINI
per una vacanza-studio, una ricerca sul campo o una immedesimazione attoriale
del proprio dramma esistenziale: «Fu un’estate bizzarra e afosa – si legge nell’attacco di The Bell Jar - quella in cui morirono sulla sedia elettrica i Rosenberg.
Che cosa mai facessi, allora, a New York, non lo sapevo davvero: divento proprio una stupida quando si esegue una condanna»21.
Esther Greenwood, la brillante controfigura di Sylvia, l’incarnazione del sogno americano di una gioventù felice e spregiudicata, che è andata a New York
per occuparsi di moda, ha conosciuto – per stare all’equazione sbrigativamente definitoria, ma efficace, di un critico americano – «la pazzia del mondo e il
mondo della pazzia»22, riuscendo in qualche modo a riscattare e a oggettivare
l’esperienza del dolore individuale in opera d’arte. La scrittura di The Bell Jar fu
il tentativo, come affermò più volte l’autrice stessa, di fare un esorcismo (malriuscito) delle proprie tentazioni autodistruttive, una pratica di rafforzamento
dell’io, la scelta di vivere l’angoscia come strategia di potenziamento del sé, nella
trasformazione della scrittura autobiografica – come suggerisce Aldo Gargani –
da pura testimonianza memoriale ad autogestazione, a possibilità di una seconda nascita23. Autobiografia come seconda nascita, un meccanismo molto presente in questi racconti di negoziazione dell’identità, come la ricerca di recuperare i futuri abortiti della propria identità e della propria vicenda esistenziale.
Se proseguiamo in questa via crucis della sofferenza psichica femminile, ci
imbattiamo in uno dei resoconti in versi più potenti dell’esperienza manicomiale: Neurosuite (1970) di Margherita Guidacci, poetessa, anglista, grande traduttrice di Dickinson, una raccolta poetica sussurrata in punta di piedi, che dà
di questa «storia ingloriosa»24, di questa claustrazione annichilente, un’immagine gelida e struggente, come se fosse l’attraversamento di un inferno assopito, incolore, dove si compie un destino di passività assoluta, di espropriazione
e di resa del soggetto non più soggetto: «Come una tela su cui i colori si avventino / io restavo sotto – non vi fu alcun segno / della mia presenza / fuorché il
segno altrui su di me. / Fui la terra d’autunno coperta di foglie, / terra d’inverno coperta di neve, / orlo della terra divorato dal mare. / Cedetti sempre, a tutto, / variando solo il grado della resa /…»25. Nessun scavo archeologico nel proprio passato per ricomporre i cocci di una identità frantumata, semmai un faticosissimo viaggio al termine della notte, uno sprofondamento che ancora conserva qua e là le tracce della mistica notte oscura dei sensi e dell’anima di San
Juan de la Cruz, fino alla cancellazione di tutte le immagini, dello stesso volto
S. Plath, La campana di vetro, a cura di Ted Hughes, Milano, Mondadori, 1979, p. 5 (I ed.
con lo pseudonimo di Victoria Lucas, nel 1963).
22
Riportato da Claudio Gorlier nell’introduzione a S. Plath, La campana di vetro cit., p. VII.
23
Aldo Gargani, La nascita attraverso la scrittura, in «Anterem», 60, giugno 2000, pp. 11-13.
24
Margherita Guidacci, Neurosuite, in Le poesie, a cura di Maura Del Serra, Firenze, Le
Lettere, 1999, p. 189.
25
Ibidem.
21
DONNE DI DOLORI. DONNE DI SPADE
429
nello specchio di ghiaccio della malinconia. E del silenzio. Cito una delle poesie più belle, Ombra in Cocìto, che è un autoritratto pietrificato dal gelo e dall’aridità della malinconia:
Non solo i duri ghiaccioli / che ti pendono agli occhi / quando chini la testa.
// Non solo la visiera di cristallo / che ti livella l’orbite / quando giaci riversa. //
Il vento demoniaco fa gelare / le lacrime / ancor prima che sbocchino. // Una
rigida spada / di ghiaccio, dentro. E intorno il sasso preme / nella lotta silente /
finché tutta la vita sia spaccata. / (Non esiste lo spazio / per dilatarla, il disgelo,
il torrente)26.
In questo canzoniere della follia, in questa melodia neurologica, come dice il
titolo, c’è una poesia che meglio di tutte le altre esprime musicalmente la dinamica della frana psichica. Si chiama Crollo, che è insieme un sostantivo e la prima persona del presente indicativo, cioè un lungo, spiraliforme grido:
Il nostro crollo non fu il crollo di una casa / dove caduta l’ultima / tegola, trave
o muro, / tutto giace e nell’amaro silenzio / uno pensa (l’incauto costruttore
/ sulla sabbia): «È finita». / Il nostro crollo non finiva mai. / Come se tutto si
ricomponesse / per crollare ancora, / l’ultimo pezzo diventava il primo / e ricadeva senza pausa. / Né eravamo soltanto la materia crollante, / ma l’atto stesso
del crollare, vento / della forza che ci squassava, spazio / dove questo accadeva. /
Dovunque si spingesse il nostro sguardo, / dentro o fuori di noi, / nulla esisteva
ormai se non il crollo27.
Non c’è follia più impressionante, forse, di quella privata della sua irruenza,
della sua carica di trasgressione. Ma in Neurosuite – il libro «più spigoloso e riarso di questa poetessa colta, pia, fieramente indipendente dai condizionamenti della società»28 – accade un fenomeno letterario interessante, che è facile trovare in altri testi che parlano del disagio psichico e dell’esperienza manicomiale
riportata da voci di donne. Durante questa catabasi infera, avviene una dilatazione corale della prospettiva, una amplificazione polifonica che porta a superare
la frantumazione solipsistica innescata dall’angoscia depressiva, e porta a concretizzare la voce, questo grido afono, in una dimensione solidaristica di splendide invocazioni («Se un mio gesto potesse liberarti, / io pure sarei libera, / ancor prima di te»29) e si fa cifra emblematica del libro sin nella dedica: «A Bruna
e a Guido, a Maddalena / a quanti conobbero le acque oscure / agli scampati ai
Ivi, p. 204.
Ivi, pp. 207-208.
28
Bianca Maria Frabotta, Margherita Guidacci e l’«assegnata fatica di esistere», in Per Margherita Guidacci, Atti delle Giornate di Studio svolte al Lyceum Club, Firenze, 15-16 ottobre 1999,
a cura di Margherita Ghilardi, Firenze, Le Lettere, 2001, p. 90.
29
M. Guidacci, Neurosuite cit., p. 208.
26
27
430 ERNESTINA PELLEGRINI
sommersi»30. La coralità, lo sconfinamento dell’io, ha però anche il suo risvolto
negativo, il suo lato d’ombra, quando si capovolge nell’anonimato, nella identità di nessuno, come nella poesia che si intitola Madame X:
Io non sono il mio corpo. / Mi è straniero, nemico. / Ancora peggio è l’anima,
/ e neppure con essa m’identifico. // Osservo di lontano / le rozze acrobazie di
questa coppia, / con distacco, ironia – / con disgusto talvolta. // E intanto penso
che la loro assenza / sarebbe più guadagno che dolore: / questa e altre cose… Ma
mentre le penso, / io chi sono?, e dove?31
La psicoanalista fiorentina Graziella Magherini, la inventrice della Sindrome
di Stendhal, in uno studio su Campana, Novalis, Dostoevskij, su scrittori che
hanno attraversato la pazzia dice: «finché l’artista crea non crolla» – è questo il
succo del discorso32. Ma io vorrei aggiungere, per sfatare qualsiasi mitologia romantica del cortocircuito follia/creatività, che ciò che colpisce e impressiona,
per esempio, in Dostoevskij, è che, proprio quando era malato e povero, sia riuscito a scrivere I Karamazov, e che lo abbia fatto non a causa di tutto questo, ma
nonostante tutto questo. Ciò che colpisce, in questo studio della psicoanalista
fiorentina, come in tanti altri lavori su arte e follia, è la quasi totale assenza delle
donne dai cataloghi d’elezione, quasi si stentasse ad attribuire loro quello statuto
romantico di nobiltà garantito a certi artisti e poeti maledetti, come se ci fosse
un di più di indecenza, di pericolosità in quella follia, una sottrazione più spinta di identità e di legittimità sociale. Perché? Forse perché l’identità della donna
è concepita quasi sempre in relazione (di madre, di moglie), per cui quel non
riuscire a contenere più nemmeno se stessa diventa uno scandalo difficilmente riscattabile. Letta in questa chiave, la follia femminile non produce, sottrae.
Eppure, se si guarda agli scritti teorici, alle pagine di carattere metaletterario
di queste artiste, si vede che hanno dato un’importanza vitale, creativamente dinamica a questo lato oscuro, doloroso dell’ispirazione. A cominciare da Virginia
Woolf di On Being Ill, del 1926: «Confessiamolo (la malattia è il grande confessionale), c’è una sincerità infantile nella malattia; si dicono cose, scappano verità che la cauta rispettabilità della salute nasconde»33. Per continuare con Natalia
Ginzburg che sosteneva sulla rivista «Mercurio» del 1948 la necessità per le donne di sprofondare ogni tanto nel «pozzo fondo della malinconia»34; fino a Alda
Merini, che in Diario di una diversa, una cronaca del proprio internamento psi-
Ivi, p. 29.
Ivi, p. 190.
32
Graziella Magherini, Oh Signore! Sto forse impazzendo? Dubbio e sgomento della follia in
letteratura, Firenze, Nicomp, 2002.
33
Virginia Woolf, Dell’essere malati, in Saggi, Prose, Racconti, a cura di Nadia Fusini, Milano,
Mondadori, 1998, pp. 267-281.
34
Natalia Ginzburg, Discorso sulle donne, in «Mercurio», 1948, 36, pp. 105-110.
30
31
DONNE DI DOLORI. DONNE DI SPADE
431
chiatrico buttata giù venti anni più tardi, ci narra l’abiezione e la accecante verità di un’identità in perdita, mentre poi, in uno dei suoi libri più forti, La Terra
Santa, avrebbe scritto questi due versi lancinanti: «manicomio è parola assai più
grande / delle oscure voragini del sogno»35. Un richiamo alla realtà, al di fuori di ogni amplificazione romantica. Merini indossa la lettera scarlatta della follia come un titolo d’orgoglio. In Reato di vita, un’autobiografia estorta in forma
di intervista, aggiunge: «Questa lettera scarlatta, questa A che ogni donna porta appuntata sul petto può significare adulterio, attesa, ape, amore, Solitudine.
Se la donna raggiunge la propria solitudine, se riesce a toccarla con mani di filigrana, è salva. Il più grande dono che possa ricevere una donna è il miracolo
della sua mente, della sua grande follia, della sua verginità»36.
3. La sintassi della follia
Per questa occasione ho soltanto messo insieme alcune tipologie e illuminato
qualche scorcio problematico. Mi sono dedicata in particolare, come credo sia
evidente da quanto ho finora citato, ad alcune cronache autobiografiche di reclusione manicomiale. Davanti a questi testi, però, ci si deve chiedere non solo
cosa ma come la follia ci parli. Vittorio Coletti in un saggio intitolato La sintassi
della follia ci ricorda che «la trascrizione della malattia dell’animo nella scrittura
non è stata un’operazione inerte per la lingua letteraria»37. La malattia mentale è
un disturbo dell’ordine (anche linguistico). La scrittura, se stesa a caldo, dovrebbe essere «informale», sintatticamente sconquassata. Ma spesso non lo è. Faccio
solo l’esempio di una specie di diario, Brutt, della scrittrice austriaca Friederike
Mayrocker (tradotta da Sara Barni), che se è una simulazione della follia è una
perfetta simulazione: «Mi risveglio spesso in una sensazione di abbraccio per 2
o 3 persone, una specie di autodissipazione, non è vero, dico a Blum, altre volte
mi sento sperduta tra le persone, oppure mi convinco che io, incontrando questa o quella persona perdo qualcosa della mia sostanza oppure che ne vengo arricchita, a seconda…»38.
In modo piattamente catalogatorio, si potrebbero allineare cronache di reclusione manicomiale. Dopo Leonora Carrington, dopo Alda Merini, dopo Margherita
Guidacci, dopo Sylvia Plath e Anne Sexton, un’altra voce che ha lasciato una fero35
Alda Merini, La Terra Santa, Milano, Scheiwiller, 1984, p. 91. E ancora si legge: «Il
manicomio è una grande cassa / di risonanza / e il delirio diventa eco / l’anonimità misura, / il
manicomio è il monte Sinai, / maledetto, su cui tu ricevi / le tavole di una legge / agli uomini
sconosciuta» (ivi, p. 92).
36
A. Merini, Reato di vita, Milano, Melusine, 1994, p. 45.
37
Vittorio Coletti, La sintassi della follia, in Nevrosi e follia nella letteratura moderna cit., pp.
267-279.
38
Friederike Mayrocker, Brutt, in Fuoricampo. Racconti di scrittrici austriache e tedesche, a
cura di Ernestina Pellegrini, Cava de’ Tirreni, Avagliano, 2000, p. 25.
432 ERNESTINA PELLEGRINI
ce testimonianza in versi del proprio disagio psichico è quella di Amelia Rosselli
che, con Serie ospedaliera (1969)39, celebra una vera e propria voluptas dello svanire, portando alle estreme conseguenze quella aberrante coincidenza fra lo «spazio dell’autentico» e la follia. La poetessa sigla con coerenza questa cifra di pura
inappartenza al mondo col suicidio. Follia e senso di inappartenenza. Così la sua
scrittura poetica, che prolifera – scrive Mengaldo – «come un tumore maligno»,
e che secondo Pasolini assomiglia a un fungo atomico, tende, per stessa ammissione dell’autrice, a fare il vuoto, ovvero «all’eliminazione dell’io»40. In Serie ospedaliera ci si imbatte in una poesia centrale che è un vero e proprio inno alla disintegrazione dell’io e un epicedio al proprio corpo andato in mille schegge:
Attorno a questo mio corpo / stretto in mille schegge, io / corro vendemmiando, sibilando / come il vento d’estate, che / si nasconde; attorno a questo /
vecchio corpo che si nasconde / stendo un velo di paludi sulle / coste dirupate,
per scendere / poi, a patti. / Attorno a questo corpo dalle / mille paludi, attorno
a questa / miniera irrequieta, attorno / a questo vaso di tenerezze / mai esaudite,
mai vidi altro / che pesci ingrandire, divenire / altro che se stessi, altro / che una
incontrollabile angoscia / di divenire / […]41.
La scrittura poetica equivale per la poetessa – come scrivevo anni fa – a «un
paesaggio sonoro dietro al quale la donna si nasconde, convertendo il disagio
privato in anonimità»42. Anzi, posso aggiungere oggi che la scelta di abbandonarsi a tratti alla proliferazione impazzita dei segni (quasi a una surrealistica scrittura automatica), fosse per la scrittrice uno stratagemma per nascondersi dietro ai suoni rivelandosi (per lei, musicista e musicologa, un percorso quasi obbligato), facendo in qualche modo il vuoto dentro di sé per attuare una specie
di grammatica dell’assenza43.
Su un piano radicalmente diverso ma altrettanto doloroso, incontriamo la
performer della propria follia, la già ricordata Anne Sexton, che solo su un palcoscenico si sentiva viva, che identificandosi col proprio personaggio, la Daisy
della splendida serie The Death of the Fathers di The Book of Folly (1972), scrive
più volte: «I was tired of being a woman»44. La ragazza cristica che si sente di diventare nella sofferenza la Figlia con la F. maiuscola, angelicamente «oltre il genere», («I am no more a woman / than Christ was a man!»), e che negli ultimi
anni si faceva chiamare Ms. Dog (la Cagna), che è il palindromo di God (Dio),
Amelia Rosselli, Serie ospedaliera, Milano, il Saggiatore, 1969.
A. Rosselli, Documento, Milano, Garzanti, 1976, p. 13.
41
A. Rosselli, Serie ospedaliera, in Le poesie, Milano, Garzanti, 1997, p. 429.
42
E. Pellegrini, Amelia Rosselli, in Le eccentriche. Scrittrici del Novecento, a cura di Anna Botta, Monica Farnetti e Giorgio Rimondi, Mantova, Tre Lune, 2003, pp. 137-152.
43
Cfr. A. Rosselli, L’opera poetica, a cura di Stefano Giovannuzzi, con un saggio introduttivo
di Emmanuela Tandello, Milano, Mondadori, 2012.
44
Anne Sexton, The Book of Folly, Houhton Mifflin, 1972, passim.
39
40
DONNE DI DOLORI. DONNE DI SPADE
433
arriva a chiudere la leggenda trasformativa di sé stessa nello stato di accusa del
monopolio patriarcale (Padre-Amante-Sor Decesso) annegandolo in un coktail
mortale di psicofarmaci45.
4. Difficoltà a fare genealogia al femminile
Abbiamo sottolineato, sin dal primo paragrafo – con il riferimento al saggio
di Franca Ongaro Basaglia che si intitola Le madri non hanno niente da lasciare alle figlie se non la capitolazione – la difficoltà, e quasi la condanna delle donne a «non poter fare genealogia», a riconoscere per sé e dopo di sé la possibilità
di costruire una tradizione, di lasciare una eredità. Sembra comparire ovunque,
sotto miriadi di spoglie letterarie diverse, detta con tecniche e strategie formali
molto variegate, l’immagine di una grande solitudine e precarietà. Ostacoli nella costruzione e trasmissione della memoria. Mi piace dare suono a questo motivo con la poesia emblematica di Anne Sexton, The Double Image (La doppia
immagine), nella quale la scrittrice parla alla figlia Joyce della sua malattia mentale, della sua precaria identità di donna (un micidiale, involontariamente ricattatorio Stabat Mater), proiettando in lei un desiderio di realizzazione e di felicità, riducendo involontariamente la figlia a una specie di protesi, di destino alternativo e non fallimentare, finendo col creare, però, una genealogia femminile autoreferenziale, in cui la madre alla fine diventa figlia di se stessa:
A novembre ho trent’anni / Tu sei piccola nei tuoi quattro. / Ferme stiamo a
guardare le foglie gialle volteggiare / e nella pioggia invernale diventare strane,
/ cadere piatte e bagnate. E i tre autunni / che non vivesti qui mi fermo a ricordare. / Dicevano che mai ti avrei riavuta. / Ti dico quel che mai conoscerai: / le
ipotesi dei medici spiegavano / che mai questo cervello sarà sano / come queste
foglie colpite che si lasciano andare. // […] // Lasciai per l’ultima volta la clinica
/ il primo di maggio – / laureata in malattie mentali, / con l’okay del mio analista, / il mio libro di poesie terminato, / la macchina da scrivere, la valigia. //
Mi chiami mamma, e io ricordo la mia / che muore in una periferia di Boston.
// Ricordo, scegliemmo il nome Joyce / per poterti chiamare Gioia. / la prima
volta venisti, ospite goffa / tutta fasciata e umida, / estranea al mio seno pesante.
/ Avevo bisogno di te. Non volevo un maschio, / ma una bambina, una topina
bianca, / già amata, sonora nella sua / presenza. Ti abbiamo chiamata Gioia. / Io
che non sono mai stata davvero certa / del mio essere donna, ho avuto bisogno /
di un’altra vita, di un’altra immagine per ricordarmi. / Questa è la mia peggiore
colpa; tu non hai potuto curarla / né alleviarla. Ti ho fatto per trovarmi46.
45
Rimando all’introduzione e alle traduzioni di Rosaria Lo Russo per l’edizione italiana di
A. Sexton, Poesie d’amore, Firenze, Le Lettere, 1996.
46
A. Sexton, La doppia immagine e altre poesie, a cura di Marina Camboni, Caltanissetta,
Sciascia, 1989, p. 23.
434 ERNESTINA PELLEGRINI
Sarebbero poi da passare in rassegna i numerosi e struggenti, dolorosossimi regolamenti di conti con la figura materna, fra pietas e risentimento, a cominciare da Milk della poetessa americana Alicia Ostriker: «[mamma] un aspirapolvere che si sacrificava che succhiava e / mormorava, succhiava e mormorava il suo amore per / me»47. Cito altri significativi frammenti del lungo poema che andrebbe letto per intero, nella sua tastiera infinita di note contrastanti, fra alti e bassi che modulano il tema del materno alla luce evidente di un’esperienza psicoanalitica:
[…] La amo così tanto, sono così posseduta da lei che / voglio scrivere solo
di lei, anche se credo che non ci / sia niente di nuovo da dire sulla relazione
madre-/figlia o sui figli che osservano i propri genitori lenta-/mente evaporare.
/ Senza denti, senza occhi, senza orecchie. / Si dimentica di usare l’apparecchio
acustico che le / abbiamo comperato per il suo ottantacinquesimo com-/pleanno…/ […] Altre madri ignoravano i propri figli, ma non lei. / Tutto quello
che voleva nella vita era essere una buona / madre. E di far sapere a tutti quale
buona figlia io fossi / […] / «Mia figlia», dice con quella voce bassa, musicale, /
orgogliosa e leggermente rauca, indicandomi se sono / nella stanza. Per lei sono
una sua estensione, come un / membro in più. / E questo mi fa ritrarre come
fossi colpita. / Ma forse la rabbia che provo è impersonale. / La rabbia di ogni
figlia. / Forse il problema è che vogliamo che le nostre madri / siano i cancelli
per il divino. Verso la Dea. / Dovrebbero essere le sue sacerdotesse, le rappresen-/tanti mortali e le celebranti della sua potenza e della / sua grazia immortali.
Riconosciute pubblicamente, / come Iside e Astante, quali forze universali. O
indos-/sando apertamente collane di teschi come Kalì. Forse / ci tormenta la
traccia sbiadita di una memoria colletti-/va, e accusiamo le nostre madri per la
loro incapacità / di incarnarla. / O forse vogliamo semplicemente il loro seno48.
Un percorso che potrebbe finire con L’ospite di Elisa Biagini (la traduttrice,
fra l’altro, di Milk di Ostriker), dove avviene il confronto ai ferri corti con «una
femminilità domestica, una fisicità in disarmo fotografata con cruda esattezza.
[…] È lo specchio rovesciato in cui si scruta la soggettività del poeta, il referente implicito di un dialogo a distanza fra corpi e intelletti»49. Cito alcuni versi
dall’incipit, perché ci riconducono al motivo della eredità mancata, di cui abbiamo più volte parlato: «Coperte, asciugamani, tovaglioli, / federe, tovaglie e poi
presine, / ci facciamo una trincea / con questa roba / visto che non la merito»50.
L’ospite diventa qui, in questa raccolta di guerriglia domestica ed interiore, una
figura della psiche, fotografata con cruda esattezza, il referente implicito di un
47
p. 17.
48
49
50
Alicia Ostriker, Milk, traduzione e introduzione di Elisa Biagini, Fiesole, Cadmo, 2001,
Ivi, pp. 16-17.
Elisa Biagini, L’ospite, Torino, Einaudi, 2004.
Ivi, p. 5.
DONNE DI DOLORI. DONNE DI SPADE
435
dialogo a distanza fra corpi e intelletti. Lo scenario claustrofobico è quello di un
metaforico orizzonte casalingo, in cui in gioco c’è, ancora una volta, il motivo
drammatico di una eredità fallita. Chi è qui la Donna di dolori, trafitta dalle sette spade? – ci chiediamo. Cito tre brevi poesie a riscontro:
Senza senso, // come stirare lenzuoli / e asciugamani, per / poter dire che / il
vapore del ferro è / il tuo sudore, // dire che c’hai / quasi lasciato le dita / nella
torta per me, / a me, a cui lo sai che / piace solo il pane. // Di questo film di
martirio / – di cui pure / le luci tu hai curato –, / non c’è trama / solo un giro di
specchi, / solo il caldo di fiato / dentro un forno51.
Scrivi ancora diari / di conti? La tua epos // di numeri-alfabeto, / il codice che
non passa // il vetro, scontrini serbati / da te come santini52.
Questo io / voglio come / eredità: / A4 e A4 / di pelle – / come già / pronta per
/ la mia / stampante – / per dare / giusta / forma a / questa / storia53.
In questa catena di citazioni che lascio parlare da sole, senza la parafrasi di
un commento che potrebbe solo addomesticare e scolorare la potenza drammatica delle immagini, vorrei finire con una delle poesie più eloquenti sul tema
di un’eredità spirituale profonda che c’è e non c’è, una eredità afona che qui si
specchia, come nella Malinconia di Dürer, nella contemplazione di inutili oggetti sparpagliati al suolo. È la poesia di Anne Sexton intitolata L’eredità, una specie di Requiem scritto per la morte della madre, pubblicato in traduzione italiana nell’antologia Poesie su Dio:
Mary Gray, madre mia, appartamento / a Gloucester, nell’Essex, una volta/ fotocopia del tuo testamento / mi giunge oggi per posta. / Questa è la divisione
del patrimonio. / Sono un terzo delle figlie che conta / o solitaria regina nel parlatoio / che mangia pane e miele. / È Venerdì Santo. / Uccelli neri beccheggiano
sul davanzale. // Il tuo cappotto nel mio guardaroba, / il tuo brillante al mio
dito, / la pelliccia vistosa di animale: / non riesco ad usare questa roba, / riposa
su di me come un debito. / Una settimana fa, / mentre burrasche marzoline /
s’abbattevano sulla tua magione / abbiamo spartito le cose: / ostacoli di lettere,
scarpe, occhiali, / l’argenteria di famiglia. / Come un Natale fuori stagione. //
[…] // Ora è Mezzogiorno del Venerdì Santo / e ancora ti maledico con parole
in rima, / e invece ti vorrei svolazzante, / amore mio vecchio e santo, / dea lunare, vecchio circo sferruzzante, / la più bella nei miei versi di prima. / Cinta
di bimbi organza di sposa, / assurda, impacciata, sfarzosa, / corno per cani, del
ritorno ammiraglia, / custode di teche di stelle marine stecchite / che ardono nei
51
52
53
Ivi, p. 68.
Ivi, p. 77.
Ivi, p. 98.
436 ERNESTINA PELLEGRINI
puritani di sesso femminile, / rammendatrice di pagliacci di paglia, / guancia di
colomba nel pietrame: / delle prime parole Signora mia, / qui si divide la nostra
via. […]54.
Un’altra grande scrittrice americana contemporanea, Sharon Olds – nata nel
1942 a San Francisco, in California, alla quale dobbiamo la celebre raccolta The
Father del 1992, in cui la poesia sembra gareggiare col cinema per la forza delle
immagini e delle storie rappresentate, fra intensi primi piani e ampie carrellate
– si è imposta recentemente al pubblico italiano con la sconvolgente poesia di
Satana dice, in cui compare la figura di una donna luciferina e aggressivamente
dirompente, che affronta in singole sezioni intitolate Figlia, Donna e Madre il
serbatoio profondo delle immagini archetipali, per inscenare uno sconvolgente
teatro tragico della dysfunctional family55. Nella sezione Figlia incontriamo scontri verbali portati al parossismo, fino alla prefigurazione di un matricidio simbolico: «La figlia è stata rilasciata, / […] / ma mentre guardi le foto…/ …la condanna è evidente. / Solo una figlia può aver fatto questo»56. Poesia dopo poesia, la tensione si sovraccarica, fino ai versi di Teoria del movimento, in cui la relazione fra madre e figlia è paragonata alla faglia fra due placche di crosta terrestre, in attesa del terremoto distruttore e risolutivo: «Ci sono faglie che scivolano dolcemente una oltre l’altra / due pollici all’anno, con solo un debole raspio / come un uomo che si passa la mano sul mento, / quell’uomo tra noi, // e
ci sono faglie che si bloccano ad un’inclinazione per anni. / La cresta spunta in
fuori come la fronte sarcastica di un padre / e l’intera cosa è bloccata lì, l’uomo
tra noi»57. Un intero canzoniere di dolorosissime, efficacissime blasfemie, che
trovano un momento di ironico, agghiacciante, tenerissimo controcanto nella
poesia Trucchi, dove compare la figura di una madre prestigiatrice, onnipotente, distruttiva, che fa scomparire tutto, anche le ovaie della figlia, il padre tirato fuori dal cappello, i propri occhi, per produrre soltanto il pulitissimo niente.
Un gioco di prestigio per fare il vuoto. Una madre che fa il vuoto:
Mia madre / la maga / può far apparire / uova nella sua mano. / Le mie ovaie
/ appaiono nella sua mano, nere come fichi / e rugose come dita il giorno del
bucato. // Chiude la mano / e quando l’apre / nulla. // Si tira fuori dalle orecchie sciarpe di seta / di tutti i colori, gioielli dalla bocca, / latte dai capezzoli.
Mia madre la nuda / maga sta sul palco bianco / e fa i suoi trucchi. // Si toglie
gli occhi. / I buchi delle cavità / riempiti d’olio che cola / con bourbon e feci. /
Dalle narici / estrae rotoli di carta / e questi prendono fuoco. // Nel gran finale
/ tira fuori mio padre / lentamente dalla sua fica, lo mette / in un alto cappello
54
55
56
57
A. Sexton, Poesie su Dio, a cura di Rosaria Lo Russo, Firenze, Le Lettere, 2003, pp. 9-19.
S. Olds, Satana dice, a cura di Elisa Biagini, Firenze, Le Lettere, 2002, p. 9.
Ivi, pp. 37-39.
Ivi, p. 43.
DONNE DI DOLORI. DONNE DI SPADE
437
di seta / e lui scompare. // Dico che può trasformare tutto / in niente, lei è un
buco nello spazio, / il massimo, la maga / migliore. Tutto questo // io l’ho tirato
fuori dalla mia bocca proprio / di fronte ai vostri occhi58.
Ma il repertorio può continuare con il rimando e una citazione dal romanzo
Madre e figlia di Francesca Sanvitale, in cui è difficile trovare, nel complicato gioco
delle parti, lo spartiacque «fra l’amore e l’odio, la rabbia e la dedizione, la dolcezza dalla crudeltà»59. Lungo il decorso della malattia mortale della madre, Sonia,
la figlia si chiede: «Non la stava defraudando, ancora una volta per costringerla
a vivere di lei?»60. Accudendola, come se fosse la madre di sua madre, però, «La
osservava adorandola, come si ama il quadro d’autore caduto nelle nostre mani
rapaci e di cui vediamo per una malattia corrodersi i colori e mantenere per miracolo la stupenda sinopia, e si sa che nessuno lo può apprezzare quanto noi»61:
[…] amava anche i particolari che le appartenevano e che lei stessa aveva ricreato
negli anni: il golf elegante che cadeva dalle spalle dimagrite, i capelli dai riflessi
argento ben pettinati, il vestito di seta bianco e blu, la collana di perle che non
scordava mai di mettere e le scarpe ben scelte, le calze trasparenti sulle gambe
snelle senza una vena, dalla caviglia sottile. Spesso il suo sentimento era simile a
quello di un amante che non sa amare, che è consapevole di avere a disposizione
troppo poco e sciupa le ore in un nervosismo atroce senza esprimersi, anzi aggredendo l’oggetto del suo desiderio, l’essere amato62.
Si può finalmente chiudere questo percorso di un copro a corpo con la figura materna, con il rimando a un testo emblematico, L’amore molesto di Elena
Ferrante del 1992, nel quale si assiste a un disperato confronto nella asimmetria
della differenza, fra desiderio di identificazione e distruzione di un fantasma ingombrante e parassitario: «Quante volte ero entrata di soppiatto nell’armadio in
camera da letto, avevo rinchiuso l’anta, ero rimasta al buio tra i suoi vestiti, sotto
la gonna odorosa di quel tailleur, respirando il corpo di lei, rivestendomene?»63.
La figlia prova a indossare un vecchio vestito della madre, «celebrando una
cerimonia ancestrale e iniziatica che richiama la vestizione dei paramenti sacri,
Ivi, pp. 48-49. Nella raccolta troviamo, come immagine antitetica e insieme complementare, la poesia intitolata Sono la moglie dello strizzacervelli, in cui la scrittrice si diverte ad incarnare
l’archetipo della madre nera: «Sono la moglie dello strizzacervelli, la madre / originaria che si
aggira, il coltello che pende / dalla mia mano. La mia gonna vi soffoca tutti come un piumino…
/ Io sono quella nel / sogno, quella che vi insegue, col mangime / lanciato come uno sparo dal
mio archetipico grembiule… / […]» (ivi, pp. 67-69).
59
Cfr. S. Chemotti, Francesca Sanvitale: Madre e figlia, una doppia agnizione, in L’inchiostro
bianco cit., p. 215.
60
F. Sanvitale, Madre e figlia, Torino, Einaudi, 1981, p. 199.
61
Ivi, p. 213.
62
Ivi, p. 214.
63
Elena Ferrante, L’amore molesto, Roma, e/o, 2006, p. 154.
58
438 ERNESTINA PELLEGRINI
ma anche la spogliazione e il rivestimento come procedimento di sovrapposizione identitaria e quindi di ricongiunzione del divino con l’umano»64. In questo cammino verso la riappropriazione di un modello, la figlia – che ha cercato
di ritrovare l’immagine della madre dentro di sé, dopo il suicidio di lei – fruga
nella propria borsa ed estrae la propria carta di identità e disegna con un pennarello attorno ai propri lineamenti la pettinatura della madre:
Mi allungai i capelli corti muovendo dalle orecchie e gonfiando due ampie bande che andavano a chiudersi in un’onda nerissima, levata sulla fronte. Mi abbozzai un ricciolo ribelle sull’occhio destro, trattenuto a stento tra l’attaccatura dei
capelli e il sopracciglio. Mi guardai, mi sorrisi. Quell’acconciatura antiquata, in
uso negli anni Quaranta ma già rara alla fine degli anni Cinquanta, mi donava.
Amalia c’era stata. Io ero Amalia65.
5. Una madre lo sa
La citazione precedente di una poesia che rappresenta ironicamente il sognoincubo dell’onnipotenza materna mi ha fatto ricordare un interessante saggio
di Teresa De Lauretis su immaginario maternale e sessualità, nel volume uscito,
nella versione italiana, per Feltrinelli col titolo Sui Generi(s) nel 1996. Il capitolo, che si intitola Salve Regina, si apre sull’immagine della chiesa di Santa Anna
a Siviglia, dove c’è un’icona sconcertante: al lato della Vergine col bambino in
braccio c’è un’altra figura femminile, che dal nome della chiesa si presume essere Sant’Anna. L’iconografia dell’immagine suggerisce «una famiglia reale de periodo rinascimentale: le tre figure (bambino compreso) sono riccamente vestite, ingioiellate e portano la corona. La regina, Maria Vergine, è madre, non c’è
dubbio. L’altra figura, più alta di statura e nel posto che siamo abituati a vedere occupato dal re padre, qui è un’altra regina…»66. L’immagine può ricordare il celebre quadro di Leonardo, Sant’Anna, la Vergine e il bambino, in cui secondo Freud l’artista ha raffigurato se stesso bambino con due madri67. L’icona
Sivigliana è particolarmente perturbante, ma anche suscita, alla luce della sfera
di onnipotenza materna su cui ci eravamo soffermati poco fa, un moto di comicità prorompente:
La glorificazione della figura materna (matriarcale) raddoppiata in quelle due
figure immobili, imperiose e imperiali, fianco a fianco nell’icona statica, è
sconcertante e esilarante a un tempo – sconcertante perché stravolge il senso
64
65
66
67
S. Chemotti, Francesca Sanvitale: Madre e figlia, una doppia agnizione cit., p. 281.
E. Ferrante, L’amore molesto cit., p. 171.
Teresa De Lauretis, Sui Generi(s), Milano, Feltrinelli, 1996, p. 164.
Cfr. Sigmund Freud, Opere, Torino, Bollati Boringhieri, 1974, pp. 207 ss.
DONNE DI DOLORI. DONNE DI SPADE
439
affettivo, privato, intimo, corporeo del rapporto madre-figlio/madre-figlia, trasponendolo alla sfera del simbolico, del potere fallico patriarcale, da cui la donna-madre è in effetti esclusa; ma perciò stesso esilarante, come rappresentazione
di un enorme potere materno percepito e vissuto nel quotidiano ma che non ha
avuto rappresentazione simbolica nell’iconografia o nelle formazioni discorsive
della cultura egemonica68.
Vorrei finire questo mio cantiere di lavoro – dove sono stati presentati materiali allo stato grezzo, come esposti in vetrina per una interpretazione specialistica che deve ancora venire – con alcune frettolose riflessioni nate in margine
al recente libro di Concita De Gregorio, Una madre lo sa. Tutte le ombre dell’amore perfetto69, perché mi è sembrato che questo vispo e accattivante libretto che
si legge in un paio d’ore, nella sua particolare accezione di cronaca narrativa, di
reperti giornalistici convertiti in racconto, fosse adatto a chiudere su note molto attuali questo avventuroso e precario viaggio nei territori di ciò che chiamerò
enigmaticamente l’arcipelago materno. Le storie di vita, presentate con brio, nei
numerosi capitoli del libro, prese di peso dalla vita di tutti i giorni, mostrano
con un’evidenza difficile da trovare nelle più sublimi invenzioni letterarie quanto sia variegato lo zoo antropologico del femminile contemporaneo, quanto positivamente e negativamente ricco sia il pantheon occidentale dei nuovi stereotipi delle donne moderne, e così quanto complessi e metamorfici siano anche i
garbugli archetipici nel profondo delle loro calotte craniche.
Fra le tante cose interessanti che vengono fuori, la più ovvia e eclatante riguarda la manifestazione molto esplicita, direi esplosiva socialmente, di ciò si
potrebbe definire la micidiale e irriducibile ambivalenza inevitabile del sentimento materno (una ambivalenza che è vecchia quanto il mondo, ma che è progressivamente venuta a galla, e soprattutto è stata detta nel tempo, in parallelo ai sacrosanti processi di emancipazione femminile, e con l’entrata delle donne nelle
sfere pubbliche e di potere sociale), una ambivalenza che sta sul fondo di ogni
sclerotizzata e superficiale retorica dei buoni sentimenti e nel cortocircuito fra
due cifre del materno: quello dell’innatismo biologico e quello del piano culturale. Una dimensione psichica profonda, quella dell’immaginario del materno e sul materno, che è divenuta un bel campo di verifica per le scienze umane degli ultimi decenni, grazie a importanti e numerosi studi interdisciplinari,
non solo di marca femminista (dagli studi arcinoti della Vegetti Finzi a quelli di
Marina D’Amelia, il cui saggio, uscito per il Mulino nel 2005, affronta la storia
del mammismo patrio: una tradizione inventata, costruita, ovvero un percorso
che individua e si sofferma sulle varie tappe storiche e sui meccanismi di costruzione della mamma come mito e ossessione dell’Italia unita, dal Risorgimento
Ivi, pp. 164-166.
Concita De Gregorio, Una madre lo sa. Tutte le ombre dell’amore perfetto, Milano, Mondadori, 2006.
68
69
440 ERNESTINA PELLEGRINI
al secondo dopoguerra70). Si tratta della messa a fuoco di un complesso e ricco groviglio di emozioni e di fragilissimi stati d’animo che si è trasformato socialmente, a un certo punto – probabilmente a cominciare dagli anni Settanta
– in ciò che chiamerei «una tradizione interrotta», un mancato passaggio delle consegne, una discontinuità nel corso della genealogia al femminile, un processo storico che Anna Rossi Doria ha sintetizzato così: «la difficoltà di costruire una tradizione femminile altro non è che la registrazione dell’insicurezza della madre a dare un’eredità che non crede di avere e della paura della figlia ad assumere tale eredità che può mettere in discussione la costruzione della propria
autonomia»71. Un nodo di implicazioni storiche, simboliche, psicologiche di ricchezza quasi inesplicabile, che mi piace racchiudere enigmaticamente in tre versi di Sylvia Plath: «Madre / stai fuori dal mio cortile / sto diventando un’altra»;
e con un verso ancora più potente di un’altra grande scrittrice americana, Anne
Sexton, che scrive: «Madre posso usarti come pseudonimo?»72.
Ecco, questo nucleo incandescente del simbolico e dell’immaginario del materno, portato all’attenzione di tutti anche in seguito al dibattito fiorito attorno
al fenomeno inquietante delle madri assassine, è al centro del vispo e poliedrico
pamphlet di Concita De Gregorio, la cui forza consiste, secondo me, proprio
nel fatto di stare fuori da ogni complicazione intellettualistica e ideologica, nella scelta di fare parlare la cronaca, il vissuto quotidiano di tante donne diverse,
attraverso una ventina di fotogrammi, in cui sono proprio gli aspetti maldestri
e asimmetrici della vita delle donne di oggi a parlare, a ridurre a calco astratto e
vuoto qual è il mito della «nutrice solare», della Madonna come madre di tutte
le madri, della martire biologicamente e spiritualmente condannata alla autoabnegazione silenziosa e rassegnata, mostrando le luci e le ombre di un sentimento
troppo spesso prefabbricato quanto individualmente diverso e «imprevedibile».
Nel libro di Concita De Gregorio ci si imbatte in una ventina di storie di vita.
C’è la vicenda del Cobra che allatta, la storia della sportiva Valentina Vezzali che,
dopo quattro mesi dalla nascita del primo figlio, torna in pedana, diventa nuovamente campionessa del mondo di scherma, offrendo al pubblico l’immagine
di una donna aggressiva e «vincente» che è anche madre e che pianifica la propria vita, la messa la mondo di un secondo figlio, fra battaglie e sentimenti, con
una spietatezza disumanamente innocente, come un computer dell’efficienza e
della performance. C’è la violinista quarantenne che con ventimila euro, grazie
alle disponibilità del bancomat, diventa madre di un figlio in provetta, un bambino tutto suo, e la regina onnipotente di un mito disperato: quello del «ce la
faccio da sola». C’è l’ostetrica senza figli che ha aiutato a nascere più di diecimila bambini, ma poi da vecchia, in procinto di andare in pensione, ripensa alla
Cfr. Marina D’Amelia, Mamma, Bologna, il Mulino, 2006.
Cfr. Anna Rossi Doria, in Carte di donne, a cura di Sandra Contini e Anna Scattigno,
Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005, p. 237.
72
A. Sexton, Poesie su Dio, a cura di Rosaria Lo Russo, Firenze, Le Lettere, 2006, p. 321.
70
71
DONNE DI DOLORI. DONNE DI SPADE
441
vita fuori della sala parto come a un film a cui non ha partecipato. C’è la fotografa Lesley McIntyre, che per quattordici anni ha donato una vita quasi normale e felice alla figlia Molly, condannata a morire sin dalla nascita da una malattia degenerativa, una donna interamente dedicata al compito di fare sopravvivere la bambina, dimenticando tutto il resto, e che quando la perde può solo
passare il tempo a lavorare la terra e a piantare piante per sentire vicino qualcosa che dipenda ancora da lei, mentre pensa però nel frattempo che «l’amore
profondo è [in fondo anche] un’esperienza molto negativa». Ma intanto Lesley
ha dedicato tutta se stessa, per quattordici anni, senza dubbi, senza rimpianti a
un’esperienza d’amore totale. E questo appare senza retorica nella grandiosità
naturale di quel gesto. Sono narrate, nel libro, anche le difficoltà sociali e interiori dei genitori adottivi e dei cosiddetti dico (c’è la storia di Alice, una bambina felice con due madri); ma si racconta anche di come è felice e autonoma la
fiabesca Pippi Calzelunghe, arrivata da noi in televisione verso la fine degli anni
Sessanta, la bambina immaginaria che incarna in Svezia l’anarchia assoluta, una
bambina che non ha avuto né genitori né maestri e che vuole diventare un pirata, al cui confronto gli iperprotetti bambini italiani sembrano votati a una vita
di dipendenze e insicurezze intollerabili. Si esplora poi l’universo cupo e dolente delle madri che uccidono i loro figli, i cui segni di disagio non vengono mai
ascoltati prima che la follia esploda; così come non è stato ascoltato il malessere di Liseli Hoepli, figlia del noto editore milanese, morta suicida a poco più di
trent’anni, la cui vita è stata ricostruita in maniera struggente dal documentario
bellissimo e dolorosissimo, fatto dalla figlia Alina Marrazzi, che la aveva perduta
quando aveva solo sette anni; una vita e una figura ricostruita attraverso i filmini
di famiglia, le lettere e i diari, in un’opera (documentario e libro) che porta per
titolo le parole di una nota canzone degli anni Trenta, Un’ora sola ti vorrei73. Ci
sono poi, le voci dei bambini, nell’impertinente libro di Concita De Gregorio
(impertinente alla rovescia, nel senso che c’è il coraggio vistoso di dire una nostalgia per il grembo accogliente e indifferenziato che abita spesso inconfessata,
in gradi naturalmente e per fortuna diversi, dentro ogni essere umano). Ci sono
le voci dei bambini, c’è il punto di vista dei figli, con pezzi esilaranti come quello che si intitola Mi vuoi bene anche se sono cattivo?, dedicato alla pedagogia taumaturgica delle fiabe. E ci sono pezzi duri e commoventi come Hijos, i racconti
degli orfani dei desparecidos di Buenos Aires. E infine c’è il bizzarro finale, che è
dedicato alle onnipotenti madri di Volver di Almodóvar, madri che «sanno portare il peso di un errore e che sanno dare un posto a quello che altrimenti posto
non avrebbe e sanno trovarci dentro la bellezza, sempre». Aldomovar che, come
si sa, è il regista di un altro interessante film, Tutto su mia madre.
Ecco, «questo libro nasce dal disagio di non trovare fuori quel che c’è dentro»
– come si legge in una delle prime pagine dell’introduzione. E quindi risponde a
73
Cfr. Alina Marrazzi, Un’ora sola ti vorrei, Milano, Rizzoli, 2006.
442 ERNESTINA PELLEGRINI
una domanda fortemente soggettiva delle donne, la cui esperienza di diventare o
non diventare madri è vissuta molto spesso in modo unico e sostanzialmente solitario, in una dimensione di schiacciante inadeguatezza di fronte alle cattedrali retoriche e benpensanti del senso comune collettivo. È un libro, questo, che parla
dell’ambivalenza che tutti i miti hanno raccontato nei secoli, che le ninne nanne
per bambini hanno racchiuso universalmente come scrigni di saggezza popolare,
ninne nanne che Federico García Lorca raccolse e studiò alla fine degli anni Venti,
girando per i paesi dell’Andalusia – come ci racconta ancora una volta Concita De
Gregorio, la cui mamma, bisogna ricordarlo, è spagnola, e che appartiene (come si
viene a sapere nelle prime pagine del libro) alla generazione delle mamme lavoratrici e impegnate ad affermarsi nella vita pubblica, quelle che portavano i figli alle
assemblee per le battaglie dell’uguaglianza: «la mia generazione ha conosciuto le
nonne. Ci è cresciuta, spesso. Le nonne venivano da un’altra epoca, quella in cui
alle donne era richiesta la cura della famiglia: un lavoro immane, ma solo quello».
È molto significativo, credo, che molte artiste e scrittrici del Novecento abbiano testimoniato la profonda ambivalenza, se non il rifiuto di diventare madri (Anna Banti, Paola Masino, solo per ricordarne due), quasi venisse sottratto
loro qualcosa, come se si trattasse di affrontare il pericolo decisivo di essere risucchiate nei recinti stretti del destino della femminilità. Per fare un solo esempio dai Diari di Sylvia Plath: «Sono arrivata a desiderare la spaventosa iniziazione della donna primordiale: fare un figlio». E ancora: «Non dovrò trasformarmi
in una semplice madre (il bambino è come una minaccia)». E alla fine, quando il figlio è nato, dice che si sente «come messa fra parentesi», e sostiene di voler «tornare ad essere»74. Non è un caso, certo, che queste faccende così radicalmente legate al piano personale e simbolico diventino micidiali tavole di scontro ideologico e politico nei momenti di forte transizione storica e politica. Per
non parlare di oggi – in cui si assiste secondo Luisa Passerini e Adriana Cavarero
all’avvento di un nuovo mito di ritorno, quello della «grande Dea Demetra»75,
come figura sovrana della soggettività femminile, «la quale decide, nella singolarità concreta di ogni donna, se generare o no, essendo il generare una prerogativa radicata nel suo potere, e quindi nella sua scelta, di farlo, e non invece il
compito imposto da un’etica esterna»76 – per non parlare di oggi, dicevo, penso
nel passato alle letture stravolte di Evola del Matriarcato di Bachofen, o alle interpretazioni faziose di alcuni studiosi del testo di Robert Briffault, The Mothers
(del 1931)77. Da ricordare, infine, nella sterminata bibliografia in merito, l’indi-
74
75
p. 54.
S. Plath, Diari, Milano, Adelphi, 1999, passim.
Luisa Passerini, Il mito d’Europa. Radici antiche per nuovi simboli, Firenze, Giunti, 2002,
76
Adriana Cavarero, Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica, Roma, Editori Riuniti, 1999, p. 83.
77
Robert Briffault, The Mothers. The Matriarchal Theory of Social Origins, New York, The
Macmillan Company, 1931.
DONNE DI DOLORI. DONNE DI SPADE
443
menticabile saggio degli anni Settanta di Adrienne Rich, stampato in Italia solo
nel 1996 per Garzanti col titolo Nato di donna, ma anche il fondamentale studio di Luisa Muraro L’ordine simbolico della madre (uscito per gli Editori Riuniti,
nel 1991), ed il recente libro di scuola junghiana di Maria Cristina Barducci
sull’aggressività femminile tra cura e cultura, Il velo e il coltello, in cui alcuni capitoli sono dedicati proprio a Le madri assassine e alla Non-madre, alla luce dei
miti di Medea, Lilith, Niobe, ma anche alla luce di alcuni casi clinici rivissuti
nel dramma della solitudine e nel miracolo della condivisione78.
Credo che il libro di Concita De Gregorio abbia nel suo retrobottega gran
parte di questa biblioteca di latte e sangue, ma che sia riuscito a liberarsene, a
sganciarsi da radici imbevute inevitabilmente di saperi diversi e di ideologia, che
possono diventare talvolta dei freni e delle gabbie interpretative, per trovare il
coraggio di mettere insieme, con l’evidenza di storie di vita colte dalla strada, di
personaggi famosi e di anonimi protagonisti di tragedie postmoderne, l’ambivalenza e l’imperfezione incontenibile dell’esistenza vera e attuale, per decollare su piste più libere, sia, insomma, il frutto originale e anomalo di un pensiero
che è diventato quasi ossessivo negli ultimi decenni, per ragioni storiche e politiche che sono note a tutti: il pensiero che gira intorno alle ombre e alle luci del
«materno», e – non bisogna dimenticarlo – fiorisce fertile attorno al mercato
della procreazione assistita e della manipolazione giusta e ingiusta degli embrioni. Saggisticamente si sono spesi quintali di inchiostro sulle dinamiche dei legami perversi così come sulle chimiche del diventare e essere madri. Certo commuove e non stupisce venire a sapere dall’ostetrica intervistata da Concita De
Gregorio che quando una donna ha partorito tutti chiedono sempre come sta il
bambino e che l’unica persona che chieda invece come sta la figlia che ha partorito sia la madre. Così come non stupiscono i racconti che parlano del senso
di depressione e di inadeguatezza delle donne che sono appena diventate madri,
che hanno visto invadere e sformare il proprio corpo, che subiscono una crisi
di identità inaspettata, che sentono di perdere il loro spazio di autonomia e di
libertà, con la rassegnazione profonda e la reattiva piccola rabbia che così debba essere, che così va il mondo, e che finiscono col provare, quindi, le più, sentimenti misti di amore e ambivalenza nei confronti di questi «alieni» usciti dal
proprio corpo79, di questi neonati urlanti e ancora sconosciuti, per poi finire di
amarli più di se stesse, perché – come ha scritto Nadia Fusini in una bella recensione al libro su «Repubblica» – l’amore materno, di cui la donna è il soggetto e insieme la vittima, «sopra ogni altro lei lo patisce», e lo patisce a volte nella quintessenza perturbante più assoluta. Una perturbanza, questa, che riguarda non solo la relazione della madre nei confronti del proprio figlio, ma anche
78
79
Maria Cristina Barducci, Il velo e il coltello, Milano, Vivarium, 2006.
Cfr. la poesia di Sharon Olds, intitolata Lo straniero, in Satana dice cit., pp. 103-105.
444 ERNESTINA PELLEGRINI
concerne – come si è cercato di documentare nei paragrafi precedenti – la relazione della figlia nei confronti della propria madre – una ambivalenza che poi
si riproduce nella proiezione del rapporto della figlia con la propria figlia. Cito
la poesia Figlia (a mia figlia) di Antonella Anedda, antologizzata in una raccolta a più voci intitolata Mater:
Mi piace la sua fierezza quando combatte contro di me / e grida «non è giusto».
E i suoi occhi a fessura / come le persiane nelle città di mare. / La sua vita piena
di falò – visibili e invisibili – / fuochi che ardono a ogni anno che avanza / per
farla vivere ancora e ancora in un miracolo di fumo. / È questo stare al caldo,
credo, a darle il senso del perdono / quel suo baciarmi la spalla all’improvviso,
se la sgrido. / Forse ricorda i ferri da cui è nata / e il cui segno mi attraversa la
pelle senza orrore. / È uscita dalla pancia mentre io dormivo. Ci unisce la pace
/ l’assenza di urla, il mio pudore. / Siamo una tela di Giovanni Bellini: una vergine e / un coniglio gentile80.
Un libro, dunque, questo di Concita De Gregorio, che si legge tutto d’un fiato, che sa passare dalla tragedia alla farsa, dalla commozione al riso, con la naturalezza dei fenomeni naturali, un libro-storia che con parole semplici sa ricreare
situazioni altamente drammatiche, spaccati di vita quotidiana dei nostri tempi
resi con maestria e understatement minimalista (minimalista, nel senso che spesso sono i dettagli a parlare di più, fuori dalle gabbie del politicamente corretto). Questo libro è sembrato a me quasi un gioco, un gioco serissimo come tutti i giochi dei bambini, un gioco coraggioso, provocante, che unisce la capacità epica di far rivivere atmosfere e personaggi veri con la messa a fuoco di nodi
essenziali del nostro tempo. E lo fa narrando, narrando alcune odissee materne dimenticate, storie di destini minimi e di gente di successo, nei loro grovigli
di verità e ambiguità, narrando anche le epifanie e i malintesi del mondo delle
donne, in un intreccio di pietas e ironia, di grottesco e avventura. Con il suo stile asciutto e insieme avvolgente, denso di epifanie fulminee e capace di respiro
disteso, il libro di Concita De Gregorio ha la vivacità e l’intensità delle vicende
eterne della vita, riesce a svelare il suo oggetto, l’esperienza multipla del materno, cogliendolo da vicoli laterali, da scorciatoie a volte imprevedibili, . È un libro coraggioso e provocante che ha, al centro, una specie di struttura profonda,
universale e astorica: la madre. E devo dire che quest’ultima struttura astorica,
immanente, del pensiero, viene investita da Concita De Gregorio da una carica
micidiale di positività: è il materno visto, anzi sentito, come luogo di accoglienza infinita e inesauribile. Dopo il girovagare del mio discorso fra tante macerie
dell’immaginario maternale, fa piacere ritrovarsi davanti a questa figura teneramente e ironicamente ricomposta:
80
Antonella Anedda, da Il catalogo della gioia, riportata nella antologia Mater, a cura di
Cristina Landi, Firenze, Morgana edizioni, 2005, p. 21.
DONNE DI DOLORI. DONNE DI SPADE
445
Volver. La storia è così: c’è una madre, morta, che torna. Torna dalle figlie perché
ha lasciato dei conti in sospeso, ci sono cose che le restano da dire, ha un perdono da chiedere […]. Ecco: in queste donne di Spagna così intrepide, divertenti,
folli, sagge, capaci di appiccare un incendio e di tornare a casa coi sacchi della
spesa a cucinare per tutti c’è un meraviglioso segreto. Il segreto delle madri,
anche di quelle che non sanno e non vogliono esserlo: la capacità misteriosa di
diventare un posto che accoglie tutto quello che succede nel cammino, tutto
quello che viene e che c’è. La capacità di tenere insieme quel che insieme non
sta. Di ricordare daccapo, ogni volta, da dove passa la vita e perché81.
L’ autrice, insomma, sa ricreare con le sue venti storie vere il prisma inesauribile del materno nelle sue infinite, tutte umanissime ambivalenze, ma anche
nella sua altrettanto inesauribile carica di generosità umana. Il materno visto ora
dalla parte delle madri, ora dalla parte dei figli. La madre come sorgente e come
strumento della continuità della vita. Al lettore, credo, non possono non tornare
in mente certe pagine di Gita al faro di Virginia Woolf, dove la Signora Ramsey
fa la maglia, il suo interminabile calzerotto marrone, incarnando agli occhi di
tutti l’immagine regale della donna che ritrova in sé la potenza cosmogonica del
bene, della donna che diventa pure la grande Dike, la potenza della connessione, la portatrice di luce, la cui scomparsa riporterà, come avviene nello spazio
casalingo e familiare di quello splendido romanzo, ogni cosa al caos primigenio.
Ma, come si sa, i ferri da calza della Signora Ramsey mandano, agli occhi della vergine artista Lily, anche dei bagliori sinistri, e luccicano come spade («tutto
quel dare dare dare» – dice Lily, mentre cerca di dipingere qualcosa che ancora non le riesce ideare, qualcosa che ha a che fare con quel paesaggio di donnamadre che le manca). È la stessa situazione che troviamo espressa in una celebre
poesia di Sylvia Plath che si intitola Le muse inquietanti, e che era stata suggerita alla scrittrice dalle immagini dei manichini presenti in alcuni quadri metafisici e surrealisti, immagini che la avevano portata a fare una specie di rivisitazione della fiaba della Bella addormentata nel bosco. Cito la prima e l’ultima strofa:
Mamma mamma, quale zia maleducata / o cugina sfigurata e repellente / dimenticasti così sconsideratamente / d’invitare al mio battesimo, che quella /
al posto suo mandò queste signore / dalla testa come un uovo da rammendo, /
per dondolarla e dondolarla ai piedi, / al capo e a sinistra della culla? // […] //
Giorno e notte ora, al mio capo, al fianco, ai piedi, / stanno a veglia con vesti di
pietra, / le facce vuote come il giorno in cui nacqui, / le ombre lunghe nel sole
calante / che mai splende più vivo e mai tramonta. / E questo è il regno a cui mi
hai portato, / mamma mamma. Ma nessuna espressione del mio viso / tradirà la
compagnia che frequento82.
81
82
C. De Gregorio, Una madre lo sa cit., pp. 121-123.
S. Plath, Le muse inquietanti, traduzione di Anna Ravano (online).
446 ERNESTINA PELLEGRINI
Devo segnalare un fatto curioso e endemico in letteratura, il fatto che molte scrittrici chiamano, evocano la madre raddoppiandola nel sintagma mammamamma, cioè con una immagine doppia, a due facce. Non vorrei metterla sul
difficile, ma quasi tutti quelli che leggono libri sulla questione sanno che sin
dagli studi fondamentali di Foucault e Derrida si è denunciato il costante rifiuto della filosofia occidentale di identificare la femminilità con le donne reali. Il
femminile nella letteratura e nella filosofia della tradizione occidentale è visto
come il soggetto radicalmente altro, decentrato e desessualizzato, rappresentato emblematicamente nell’archetipo della Madonna. E a questo proposito, vorrei finire con un’ultima, eloquente citazione, che potrebbe sembrare blasfema
ma non lo è, e che risponde a un umano troppo umano desiderio racchiuso nel
mistero della nascita e della universale e individualissima incarnazione di ognuno di noi. È una citazione che fa piazza pulita di ogni retorica e astrazione del
materno. È la preghiera del figlio di Dio al proprio padre, una poesia che mette contemporaneamente davanti al lettore i due volti del materno, attraverso la
compresenza di due punti di vista compresenti e contraddittori: c’è il disumano ego trascendentale del materno incarnato dalla Madonna, da un lato, e c’è
il fantasma del desiderio del figlio ormai adulto, dall’altra, in una nostalgia senza oggetto. Cito alcuni versi di Anne Sexton, tratti dalla raccolta intitolata The
Jesus Papers: «Sono nato mille volte, falso Messia / tu fammi nascere ancora /
dentro qualcosa di vero»83.
83
A. Sexton, Poesie su Dio cit., p. 83.
Benedetto Antelami, Deposizione dalla croce (1178 – Parma, Duomo – particolare – foto di Anna Dolfi).
Virgen de la Esperanza Macarena (foto di Laura Dolfi).
INDICE DEI NOMI
a cura di
Martina Romanelli
Abécassis, Éliette 187n.
Abraham, F. Murray 350
Abrugiati, Luigia 30n.
Adami, Giuseppe 259
Adamo, Giuliana 153n.
Adorno, Theodor Wiesengrund 57, 84
Affuso, Olimpia 344n.
Aggelis, Aristidis 310n.
Agnoletto, Attilio 31n.
Ajazzi Mancini, Mario 69n.
Albert, Claudia 218n.
Albini, Napoleona 240
Aleramo, Sibilla (Rina Faccio) 422
Alexander, Jeffrey 337n., 344n.
Alighieri, Dante 36n., 258, 271, 277 e
n., 288, 350
Almodóvar, Pedro 441
Altea, Giuliana 151-152
Alvaro, Corrado 363n., 365 e n.
Amato, Pietro 193n.
Amelio, Lucio 364
Amiel, Henri-Frédéric 377
Anastasio I, imperatore 310n.
Andreoli, Annamaria 12n., 29n., 30n.,
372n.-373n., 374n.,
Andreozzi, Gaetano 238n.
Anedda, Antonella 444 e n.
Angela da Foligno 421
Angelino, Carlo 285n.
Anselmi, Gian Mario 63n.
Antelami, Benedetto 447
Aranda, Samuel 287
Arangio Ruiz, Vladimiro 281n.
Arecco, Sergio 80 e n.
Arendt, Hannah 285
Aristotele 323, 326
Arnaud, Simone 250 e n.
Artemyev, Eduard 350
Artioli, Umberto 386n.
Asburgo, famiglia 310, 320
Asor Rosa, Alberto 114n.
Atwood, Margaret 369 e n.
August, Bille 352
Azama, Michel 365, 366n.
Babini, Valeria P. 383n.
Bach, Johann Sebastian 261, 350
Bachelard, Gaston 32 e n.
Bachmann, Ingeborg 425, 426n.
Bachofen, Johann Jakob 72, 78, 442
Bacigalupo, Massimo 167n.
Badalamenti, famiglia 342
Badalamenti, Gaetano 343
Baden, famiglia 320
Badinter, Élisabeth 13n.
Balbis, Franco (detto Francis) 299
Baldacci, Luigi 264 e n.
Baldi, Guido 374n., 378 e n.
Baldi, Stefano 207, 208n.
Balestracci, Achille 240
Balestrini, Raffaello 371
Ballerini, David 63n.
Baltrušaitis, Jurgis 389
Bandini, Fernando 31n., 44n.
Banti, Anna (Lucia Lopresti) 442
Baraldi Dessí, Lina 141n.
Anna Dolfi (a cura di), Stabat Mater. Immagini e sequenze nel moderno, ISBN 978-88-6453-687-3 (print),
ISBN 978-88-6453-688-0 (online PDF), ISBN 978-88-6453-689-7 (online EPUB)
© the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2018, published by Firenze University Press
452 INDICE DEI NOMI
Barbera, Davide 340n.
Bárberi Squarotti, Giorgio 377n.
Barbin, Herculine 426 e n.
Barducci, Maria Cristina 443 e n.
Barenghi, Mario 153n., 155n., 165n.
Barni, Sara 431
Baroncini, Daniela 372n.
Bartoloni, Stefania 364n.
Bartolotta Impastato, Felicia 337, 342343
Bassani, Giorgio 12n., 141n.
Bates, Tyler 354
Battaglia, Letizia 14, 337-348
Bazzoni, Ludmila 364n.
Beaujour, Jérôme 355
Beccaria, Gian Luigi 36n., 42n.
Beck, Julian 72
Beethoven, Ludwig van 386
Begarelli, Antonio 294
Belasco, David 259, 260n.
Bellini, Giovanni 292, 444
Bellini, Vincenzo 266n.
Belloc, Teresa 244
Bellour, Raymond 194n.
Belvederi, Gualtiero 265n., 269n.
Benedetti, Andrea 218n.
Benevento, Aurelio 133n.
Benn, Gottfried 220n.
Bentley, Paul 239n.
Beretta, Cristina 204n.
Bergman, Ingmar 281
Bergson, Henri 377
Bériot, Charles de 241
Berlioz, Hector 234
Bermann Cipri, Adolfo 323, 326, 328
Bernini, Gian Lorenzo 314
Berridge, Elizabeth 350
Bérthier, Philippe 226
Berti, Irene 81n.
Bertolotti, Davide 239
Betocchi, Carlo 30n., 34n., 121n.
Betti, Laura 66n.
Biagini, Elisa 402n., 434 e n., 436n.
Bianchi, Augusto Guido 371n.
Bianchi, Francesco 238n.
Bianchi, Sergio 339n.
Bichet, Yves 14, 170-171, 174
Bidera, Giovanni Emanuele 239-240
Biderman, Ann 352
Biffi, Serafino 383
Bignotti, Marina 410 e n.
Billing, Hermann 320-323, 326 e n.,
328
Binoche, Juliette 14n.
Bismarck, Otto von 315n.
Bizet, Georges 364
Black, John 237n., 239n., 240 e n.
Blagini, Felice 239n.
Blanchett, Cate 353
Blau, Édouard 250 e n.
Bly, Robert 426 e n.
Boccherini, Luigi 14
Bocci, Valerio 213n.
Bodei, Remo 373n., 377n.
Bogani, Giulio 341n.
Boïeldieu, Adrien 239
Boito, Arrigo 249, 252 e n., 257, 261
Bonauro, Antonietta 362n.
Bonzanini, Marta 30n.
Borraro, Pietro 30n.
Borsani, Ambrogio 401n., 402 e n.,
403n., 404n., 410n., 414n.
Borsellino, Paolo 343
Boschi, Susanna 327n.
Bossi, Luigi Maria 382
Boswell, Simon 351
Botta, Anna 432n.
Bourget, Paul 377
Bourgoin, Louise 355
Bowlt, John 186n.
Bragaglia, Manlio 142n.
Braidotti, Rosi 362 e n.
Brandstetter, Andrea 218n.
Brandt, Ingeborg 149n.
Brecht, Bertold 13n.
Bredekamp, Horst 186n., 194n.
Breker, Arno 324n.
Briffault, Robert 442 e n.
Brisseau, Jean-Claude 358
Brizuela, Leopoldo 364n.
INDICE DEI NOMI
Brocca, Giovanni 382
Brönte, Charlotte 426
Brooke, Zachary Nugent 238n.
Brown, Raymond 362n.
Browning, Emily 354
Bruce Lee (Bruce Jun Fan Lee) 354-355
Buccola, Gabriele 384
Budden, Julien 257n., 258n., 261n.,
267 e n., 268n., 270n., 271 e n.
Buonarroti, Michelangelo 26, 282,
286-287, 295, 310, 312-314, 315,
324, 358
Buongiorno, Teresa 149n.
Burke, Peter 338n.
Buscemi, Michela 341 e n.
Buscemi, Rodolfo 341n.
Buscemi, Salvatore 341n.
Busenello, Gian Francesco 234
Butler, Judith 361n.
Buttazzi, Simone 186n., 194n.
Byrne, Gabriel 352
Cadenas, José Juan 239n.
Caillevet, Gaston-Armand de 258n.
Čajkovskij, Pëtr Il’ič 264
Calabrese, Stefano 378n.
Callas, Maria 76, 280
Calleja Gómez, Rafael 239n.
Callow, Simon 350
Calò Mariani, Maria Stella 193n.
Calvi, Attilio 102
Calvino, Italo 14, 153-165
Camarda, Antonella 152
Camboni, Marina 433n.
Cammarano, Salvatore 231n., 232,
237 e n., 239-243, 245 e n., 247n.
Cammaréri, Corinne 14n.
Camoẽs, Luís Vaz de 238
Campana, Dino 430
Campo, Cristina 421
Canadelli, Elena 373n.
Candian, Bianca 200n.
Candiani, Livia 192 e n., 195 e n.
Cane, Domenico 297
Canetti, Elias 11 e n., 84
453
Canziani, Giuseppe 239n.
Cape, Yves 355
Caproni, Giorgio 12n.
Capuana, Luigi 423, 379 e n.
Capuron, Joseph 381
Caravaggio (Michelangelo Merisi, detto) 26
Cardilli, Lorenzo 185n.
Carducci, Giosue 141n.
Carmichael, Stokely Standiford Churchill 75
Carner, Mosco 266n., 267 e n., 269,
271 e n.
Carniti, Barbara 404
Carniti, Emanuela 403
Carniti, Ettore 403, 404n.
Carniti, Flavia 403
Carniti, Simona 403
Caronia, Sabino 387n.
Carrera, Alessandro 82n.
Carrington, Leonora 424 e n., 431
Caruso, Margherita 60
Casado, Germinal 239n.
Casali, Erika 197n.
Casini, Claudio 266n., 267n.
Cassanmagnago, Giorgio 364n.
Castagnaro, Alvise 239n.
Castel, Pierre Henri 373n.
Castellano, Carolina 341n.
Castiglioni, Cesare 383
Castoldi, Alberto 378n.
Cavagnoli, Franca 366n.
Cavalli Pasini, Annamaria 379n., 383n.
Cavalli, Francesco 234
Cavarero, Adriana 442 e n.
Cavilla, Tonio (pseud. di Italo Calvino)
161n.
Cecconi, Massimo 364n.
Čechov, Anton Pavlovič 350
Centovalli, Benedetta 402 e n., 403n.,
404n.
Cerati, Carla 422
Cervellini, Giuseppe 238n.
Cevenini, Alessandro 207, 209 e n.
Charcot, Jean-Martin 373 e n., 379, 381
454 INDICE DEI NOMI
Charpentier, Marc-Antoine 222
Chastenet,
Amand-Marie-Jacques,
marquis de Puységur 379
Chateaubriand, François-René 223,
224 e n., 227, 230
Chemotti, Saveria 422 e n., 437n., 438n.
Chesler, Phyllis 424 e n., 425
Chiappini, Simonetta 362n., 375n.
Chiarcossi, Graziella 66n.
Chiesa, Renato 386n.
Chivers, Steven 351
Churchill, Winston 307n.
Cialente, Fausta 422
Ciani, Ivanos 30n.
Ciani, Maria Grazia 365n.
Ciarlantini, Paola 237n., 239n., 240 e
n., 241 e n., 242n., 244n., 246n.
Ciarletta, Nicola 33n., 43n.
Cimarosa, Domenico 227
Cimino, Guido 383n.
Cipolla, Franco (detto Fido) 298
Citti, Franco 75
Ciusa, Francesco 142 e n., 144n., 147,
151
Cixous, Hélène 191
Claudel, Camille 424
Claudel, Paul 424
Clemente, Pietro 427n.
Clifford, John 239n.
Cocchiara, Giuseppe 86n.
Cocchini, Martino 197n.
Coelho, Pero 244n.
Coelho, Rui 239n.
Colautti, Arturo 265
Coletti, Vittorio 431 e n.
Colley, Don Pedro 349
Colussi, famiglia 69
Colussi, Susanna 69, 280
Cometa, Michele 185n., 193n.
Conte, Gian Biagio 94n.
Conti Calabrese, Giuseppe 76 e n.
Conti, Angelo 379
Conti, Arianna 375n.
Contini, Gianfranco 171 e n., 172,
276, 291
Contini, Sandra 440n.
Contorno, Salvatore 341n.
Coppola, Pietro Antonio 242
Cordignano, Fulvio 329 e n.
Cornelia, madre dei Gracchi 112n.
Cornil, Suzanne 238n.
Cornish, Abbie 354
Cortázar, Julio 364n.
Cortellessa, Andrea 402
Cortesi, Antonio 239
Corti, Antonio Cesare 356
Corti, Maria 107n., 402 e n., 403 e n.,
405 e n., 406n., 407n.
Costa y Nogueras, Vicente 239n.
Coudreuse, Anne 262n.
Cranach, Lucas 195n.
Crichton, Emma 188n.
Crimi, Giulio 269
Croce, Catalina 265n.
Cross, Dorothy 188 e n., 189 e n., 190
e n., 191 e n., 197, 206
Crotti, Ilaria 18n.
Curiel, Eugenio 123, 126n., 133
Curreri, Luciano 149 e n., 375n., 378
D’Amelia, Marina 439, 440n.
D’Amico, Tano 339n.
D’Annunzio, Gabriele 14, 29 e n.,
30n., 33 e n., 34n., 35, 36 e n., 39,
40n., 41n., 43, 44 e n., 46, 48, 53,
251 e n., 252, 267, 257, 371-389
D’Episcopo, Francesco 30n., 33n.
Daberning, Josef 196 e n., 199
Dalla Chiesa, Nando 343n.
Dalla Rizza, Gilda 270
Damiani, Claudio 197, 202n.
Damon, Matt (Matthew Paige Damon)
353
Danelon, Fabio 376n.
Danilcev, Ignat 350
Danino, Nina 191 e n., 192 e n., 193
e n., 194 e n., 195-196, 199, 202,
206
Dapunt, Roberta 422, 423n.
Darwin, Charles 373n.
INDICE DEI NOMI
Daudet, Alphonse 258
David, Jacques-Louis 333
Davoli, Ninetto (Giovanni Davoli) 57
Dazzi, Nino 383n.
De Céspedes, Alba 422
De Chirico, Giorgio 319
De Dominicis, Gino 364n.
De Donato, Gigliola 375n.
De Gregorio, Concita 439 e n., 440444, 445n.
De Laude, Silvia 60n., 68n., 70n.,
78n., 85n.
De Lauretis, Teresa 362 e n., 438 e n.
De Luca, Giuseppe 269
De Luna, Giovanni 337, 338n., 339 e
n.
De Marchi, Giacomo 423
De Martino, Ernesto 67 e n.
De Michelis, Eurialo 377n.
De Ruiter, Jacob 218n.
De Sanctis, Luigi 238n.
De Signoribus, Eugenio 14, 23n.
De Sousa, David 239n.
De Vries, Marius 354
De Zordo, Ornella 426n.
Defert, Daniel 333n.
Degelo, Heinrich 326
Del Cossa, Francesco 288
Del Fiorentino, Dante 266
Del Serra, Maura 428n.
Delacroix, Eugène 26
Deledda, Grazia 265n., 422
Deleuze, Gilles 202
Delitala, Mario 88
Demetrio, Duccio 427 e n.
Denver, Amy 367, 369
Der Vogel des Bruders, Philipp 239n.
Derrida, Jacques 446
Despiau, Charles-Albert 319
Dessí, Giuseppe 15 e n., 18 e n., 137150, 364n.
Devoto, Giacomo 48 e n.
Dezède, Nicolas-Alexandre 238n.
Di Giacomo, Salvatore 262
Di Giammatteo, Ferdinando 57
455
Di Giovanni, Edoardo (Edward Johnson) 270
Di Segni, Riccardo 194n.
Dickinson, Emily 406n., 428
Didelot, Auguste 239
Diderot, Angélique 223
Diderot, Denis 14, 222 e n., 223 e n.,
224, 262 e n., 355
Didier, Béatrice 221n.
Didi-Huberman, Georges 373n.
Dijkstra, Bram 375n.
Dillon, Andrew 187n.
Dino, Alessandra 340n.
Dionisio, Silvia 356
Ditter, David Ludwig 239n.
Dizdarević, Zlatko 204 e n.
Djagilev, Sergej Pavlovič 264, 271
Dolfi, Anna 12n., 13n., 15n., 18 e n.,
23n., 30n., 57, 90n., 121n., 125n.,
137n., 138n., 139n., 143n. 147n.,
149n., 221, 265n., 327n., 364 e n.,
370, 375n., 423 e n., 447
Dolfi, Laura 20, 448
Donati, Alba 196 e n., 197 e n., 198
e n., 199 e n., 200 e n., 201, 202
e n., 206
Donizetti, Gaetano 234 e n., 235 e n.,
240n., 246n., 251
Dostoevskij, Fëdor Michajlovič 350,
376. 377n., 379n., 430
Dragoni, Maria 242
Drigo, Paola 422
Drigo, Riccardo 242
Du Locle, Camille 250, 251n.
Duby, Georges 13n.
Duchesne, Julien 239n.
Duflot, Jean 68n., 84 e n.
Dumas, Alexandre, père 14, 227
Dumézil, Georges 200n.
Dunn, Ellen 188n.
Duprez, Gilbert-Louis 240 e n.
Durante, Saverio 239n. 241n. 246n.
Duranti, Francesca 422
Dürer, Albrecht 26, 350, 435
Duvall, Robert 349
456 INDICE DEI NOMI
Dzasochov, Aleksandr 203n.
Ebat, Costanzo 299
Ecker, Ueli 327n.
El Greco (Domínikos Theotokópoulos,
detto) 60, 299
Elia Ariadne, imperatrice 310n.
Eliade, Mircea 65, 82, 84, 85 e n., 86,
87n.
Ellenberger, Henri F. 374 e n.
Endo, Shusaku 281
Engelmann, Richard 307-308
Erasmo da Rotterdam (Desiderius Erasmus) 312
Esposito, Roberto 281n.
Euripide 12, 76, 84, 119, 365n., 395
e n., 363
Fabbri, Marisa 242
Fabbri, Paolo 339n.
Faccio, Francesco Antonio 239n.
Falcetto, Bruno 153n., 155n.
Falcone, Giovanni 343
Falk, Peter 327n.
Faludi, Susan 361 e n.
Farinelli, Giuseppe 239n.
Farnetti, Monica 423 e n., 432n.
Farrar, Geraldine 269
Faubion, James D. 334n.
Faverzani, Camillo 234n., 250n.
Feder, Gottfried 325n.
Federico I di Baden, granduca 319,
320, 322 e n.
Federico II di Baden, granduca 320,
322
Fellechner, Wilhelm 239n.
Ferenczi, Sándor 75
Ferrage, Hervé 168n.
Ferrante, Elena 422, 437 e n., 438
Ferrari, Fulvio 187n.
Ferrari, Stefano 379n.
Ferreira, António 238 e n., 239n.
Ferrero, Guglielmo 371n.
Ferretti, Jacopo 235n., 239n.
Ferrini, Luisa 261n.
Fiandra, Emilia 385n.
Finotti, Fabio 31n.
Fioravanti, Leonardo 60
Fiorilli, Olivia 94n., 95n.
Fitzgerald, Francis Scott 424
Flers, Robert de 258n.
Floris, Ubaldo 383n.
Fogazzaro, Angelo 31n.
Fogazzaro, Antonio 14, 29 e n., 31n.,
32, 33 e n., 46, 48 e n., 378-379,
423
Folena, Gianfranco 44n.
Fong, Larry 354
Fonseca, Cosimo Damiano 12n.
Fontanella, Elena 12n.
Forest, Philippe 13n., 207n., 212 e n.
Forman, Miloš 350, 358
Fortini, Franco (Franco Lattes) 90
Forzano, Giovacchino 249 e n., 257,
258 e n., 259, 262-263, 265, 267,
271
Foscolo, Ugo 134n., 135
Foucault, Michel 333 e n., 334 e n.,
335n., 362, 363n., 426 e n., 446
Frabotta, Bianca Maria 429n.
Francesco (Jorge Mario Bergoglio),
papa 361
Francese, Mario 342
Franchetti, Alberto 257
Franchi, Franca 375n.
Frank, Hans Michael 325n.
Frazer, James George 84
Freccero, Carlo 202n.
Freda, Riccardo 356-357
Frediani, Roberta 202n.
Freleng, Friz 356
Freud, Sigmund 12, 17, 65, 69 e n., 72 e
n., 74 e n., 75, 210, 373n., 438 e n.
Frick, Wilhelm 325n.
Frigessi, Delia 382n.
Fuchs, Christian Martin 239n.
Fuery, Kelly 185n.
Fusillo 70n., 73 e n., 75 e n., 76 e n.,
80n.
Fusini, Nadia 430n., 443n.
INDICE DEI NOMI
Gabrici, Enzo 404 e n.
Gabussi, Rita 244
Gadda, Carlo Emilio 14, 93-105
Gadda, Clara 96
Gadda, Enrico 95, 98
Gagnebin, Bernard 138n.
Galeffi, Carlo 270
Gall, Toni 46
Gallini, Clara 382n.
Garagnani, Timoleone 239n.
García Lorca, Federico 442
Gargani, Aldo 428 e n.
Gasparini, Antonio 238n.
Gassmann, Vittorio 82-83
Gatti Casazza, Giulio 269 e n.
Gatto, Alfonso 14, 15n., 29 e n., 30n.,
31, 32n., 33 e n., 34, 43-44, 46, 53,
119-136
Gauguin, Paul 26
Gedeck, Martina 355
Geise, Alfred 325n.
Genette, Gérard 378n.
Gengis Kahn 198n.
Gentilucci, Franco 408 e n.
Gerace, Ignazio 238n.
Gere, Richard 351-352
Gérolt, Frederich 239n.
Gerstel, Wilhelm 320n., 321 e n., 323,
328
Getto, Giovanni 31n., 39n.
Ghidinelli, Stefano 130n., 131
Ghilardi, Margherita 429n.
Ghislanzoni, Antonio 257n.
Giacon, Maria Rosa 373n.
Giammarco, Marilena 386n.
Gianesini, Simone 63n.
Gibbon, James 269
Gibelli, Luigi 242
Gibson, Mel 290, 311
Gilardoni, Domenico 235 e n.
Gilbert, Sandra M. 426 e n.
Gimmi, Annalisa 30n.
Ginzburg, Natalia 422, 430 e n.
Gioja, Melchiorre 381
Giordana, Marco Tullio 342
457
Giordani, Giuseppe 238n.
Giordano, Umberto 262-263, 265
Giorgio, Adalgisa 422
Giotti, Cosimo 238n.
Giotto di Bondone 12
Giovanna d’Arco 425
Giovannuzzi, Stefano 432
Girardi, Enzo Noè 31n.
Girardi, Michele 259n., 263n., 268n.,
269 e n., 270n., 271 e n.
Girelli, Davide 197n.
Giribaldi, Tomás 242n.
Giudici, Giovanna 66n.
Giudici, Giovanni 427n.
Gluck, Christoph Willibald 386
Goebbels, Joseph 325n.
Goethe, Johann Wolfgang von 171-172
Gold, Didier 257, 259
Goldhammer, Arthur 422
Gor’kji, Maksim (Aleksej Maksimovič
Peškov) 258
Göring, Hermann Wilhelm 319,
324n., 325 e n.
Gorlier, Claudio 428n.
Gounod, Charles 252
Gourmont, Remy de 372n.
Gracco, Caio Sempronio 112n.
Gracco, Tiberio Sempronio 112n.
Gracia, Jordi 18n.
Graham, Robb 376n.
Grandis, Pierangela 125n.
Granges de Fontenelle, Georges 233
Graves, Robert 396
Greenwald, Helen 268
Greenwood, Ethel 427-428
Gregson-Williams, Harry 352
Greppi, Giovanni 239
Gridelli Velicogna, Nella 371n.
Grillparzer, Franz 365n., 367 e n.
Grimm, Friedrich Melchior von 223
Grisi, Giulia 225-226
Grosman, Vasilij 296
Grünewald, Matthias Gothart 11n.
Guaraldo, Olivia 364n.
Guarnieri, Patrizia 365
458 INDICE DEI NOMI
Gubar, Susan 426 e n.
Guéranger, Prosper Louis Pascal 224
Gugino, Carla 354
Guglielmi, Pietro Carlo 239n.
Guglielminetti, Marziano 37n., 376n.,
391n.
Guglielmo I di Hoenzollern, imperatore 320n.
Guglielmo II di Hoenzollern, imperatore 320n., 322n.
Guidacci, Margherita 428 e n., 429n.,
431
Guidorizzi, Giulio 396n.
Guidorizzi, Guido 365n.
Guilleragues, Gabriel-Joseph de Lavergne, comte de 262
Guitry, Sacha 258n.
Gulinucci, Michele 66n.
Guttuso, Renato 282-283
Haesler, Louis 167
Halevy, Alon 204n.
Halevy, Orana Li 204n.
Halilović, Hariz 203n.
Halliday, Jon 60n., 63 e n., 64n., 74n.
Hand, Brian 189 e n.
Haofeng, Xu 354
Harbour, Killary 188 e n.
Harris, Richard 352-353
Harrison, Jane Ellen 397n.
Haydn, Franz Joseph 196 e n., 200,
222, 224, 226, 349
Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 80,
82n.
Heinze, Wilhlelm 137 e n.
Hellingrath, Friedrich Norbert Theodor von 137
Hemon, Aleksandar 204 e n.
Henry, Paul 188n.
Hérelle, Georges 376
Hermil, Giuliana 34
Herzl, Theodor (Binyamin Ze’ev Herzl)
322n.
Highsmith, Patricia 353
Hillesum, Hetty 421
Hindemit, Paul 364
Hindenburg, Paul (Paul Ludwig Hans
Anton von Beneckendoff und von
Hindenburg) 324
Hirsh, Marianne 421
Hitler, Adolf 311, 315 e n., 318, 321n.,
322 e n., 324, 325 e n. 326n.
Hoeg, Peter 352
Hoepli, Liseli 441
Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus
227
Hohenzollern, famiglia 311n., 320, 322
Hölderlin, Friedrich 137 e n.
Holmes, Alfred 239n.
Honda, Ishiro 351
Hopp, Helmut 316 e n., 317-318
Hoptman, Laura 199n.
Howells, Richard 186n.
Hughes, Ted 428n.
Hugo, Victor 234n., 261
Hulce, Tom 350
Huppert, Isabelle 355-356
Hye-kyo, Song 354
Igawa, Hisashi 351
Ikebe, Shinichiro 351
Illica, Luigi 259, 261
Impastato, Luigi 342
Impastato, Peppino (Giuseppe Impastato) 342
Irazoqui, Enrique 60
Isaac, Oscar 354
Isella, Dante 93n., 94n., 102n., 114n.,
171 e n., 172
Italia, Paola 93n., 103n.
Jaccottet, Philippe 14, 167 e n., 168 e
n., 169 e n., 170, 173
Jacobbi, Ruggero 121n.
Jacopone da Todi 11 e n., 12, 50, 57,
87, 90, 119, 139, 141, 146, 150,
170, 220, 222, 231, 260 e n., 276,
349, 421
Jakubec, Doris 168n.
Janigro, Nicola 204n.
INDICE DEI NOMI
Jankélévitch, Vladimir 207 e n.
Jankovskij, Filipp 350
Jankovskij, Oleg 350
Jingzhi, Zon 354
Johnson, Edward 270
Johnson, Elizabeth 362n., 363 e n., 367n.
Jommelli, Niccolò 223
Jonas, Hans 285 e n.
Jones, Caroline A. 335n.
Jourdain, Pierre-Alain 168
Joyce, James 191
Jung, Gustav 65, 69 e n., 71, 280, 443
Jung, Rudolf 325n.
Juzik, Julija 202n.
Kabierske, Gerhard 326n.
Kalchthaler, Peter 319n.
Kantorowicz, Ernst 335
Karahasan, Dževad 204 e n.
Kar-wai, Wong 354
Kaufman, Thomas G. 241 e n.
Kayashima, Nerumi 351-352
Keller, Ferdinand 326n., 328
Kemper, Dirk 218n.
Keplero, Giovanni (Johannes von Kepler) 97
Kerényi, Karl 396n.
Kihn, Albert 349
Klant, Michael 306, 313, 318, 321,
327n.
Klopstock, Friedrich Gottlieb 218
Knibiehler, Yvonne 13n.
Knopf, famiglia 325
Kodály, Zoltán 231
Kottenrodt, Ulrich 316-318
Kristeva, Julia 14n., 187n., 422
Kubanek, Ludwig 315 e n., 327
Kullak, Frank 239n.
Kuqali, Gjikë 331
Kurosawa, Akira 351
La Chapelle, David 313n.
La Manna, Federica 217n., 218n.
La Motte, Antoine (Antoine Hougar de
La Motte) 239
459
La Rochefaucauld, François de 12
La Vergata, Antonello 373n.
Labia, Maria 270
Lagorio, Gina 422
Lalo, Édouard 250
Lamarque, Vivian 15n.
Landi, Cristina 444n.
Landolfi, Tommaso 397
Lansperge, Jean-Juste 222n.
Lanzman, Claude 302
Lasso, Orlando di (Roland de Lattre)
231
Law, Jude 353
Lawrence, David Herbert 137n., 143
Le Lannou, Maurice 142n., 144n., 145
e n.
Le Sourd, Philippe 354
Le, Cung 354
Lederer, Wolfgang 375n.
Leibniz, Gottfried Wilhelm von 18n.
Lentini, Stefano 349, 354-355
Leonardo da Vinci 350, 438
Leoncavallo, Ruggero 257, 263, 265 e
n., 269n.
Leoni, Barbara 381
Leopardi, Giacomo 33, 89, 130 e n.,
132, 170, 197, 411n.
Leopoldo II d’Asburgo, imperatore 309
Leung, Tony 354
Levi, Primo 284, 301
Lévi-Strauss, Claude 75
Lévy-Bruhl, Lucien 85, 86 e n., 70, 84,
84
Lewinter, Roger 222n.
Leyva, Virginia Maria de 263
Linari, Franca 138n., 141n.
Lingiardi, Vittorio 280n.
Lisciani Petrini, Enrica 207n.
Liszt, Franz 349
Lleó y Balbastre, Vincente 239n.
Lo Russo, Rosaria 433n., 436n., 440n.
Lombardi Satriani, Luigi 364
Lombroso, Cesare 372, 382 e n.
Long, John Luther 260n.
Lorde, Audre 363n., 367n.
460 INDICE DEI NOMI
Loreaux, Nicole 12n., 13n.
Lorenz, Adolf Julius 327n.
Lorenzini, Niva 373n.
Loti, Pierre (Louis Marie-Julien Viaud)
260n.
Lowel, Robert 427
Lucas, George 349
Lucas, Victoria (pseud. di Sylvia Plath)
427, 428n.
Lucchini, Guido 93n.
Lupo, Salvatore 338n.
Lussu, Emilio 142 e n.
Luzi, Mario 11n., 15n.
Lynch, John 351
Machiavelli, Niccolò 193n.
MacManus, Steve 351
Macor, Anna Laura 185n.
Macrí, Oreste 30n., 34 e n., 120, 121 e
n., 122 e n., 123-125, 126n., 127n.,
128, 129n., 132, 134 e n.
Maeckelberghe, Els 363 e n.
Maestro del Primo Gruppo (Primo Maestro di San Antonio in Polesine)
292-293
Maestro del Terzo Gruppo (Terzo Maestro di San Antonio in Polesine) 294
Maestro delle Ore di Rohan 312n.
Maestro di Santa Caterina 390
Magherini, Graziella 430 e n.
Magnani, Anna 57, 66, 280
Magris, Claudio 363 e n., 366 e n., 367n.
Maillol, Aristide (Aristide Bonaventure
Jean Maillot) 319
Malcom X (Malcom Little) 75
Mallarmé, Stéphane 207n.
Mameli Calvino, Eva 155, 159, 161162
Mancinelli, Luigi 263
Mandanici, Placido 239
Manes, Yael 193n., 194n.
Manfroce, Nicola Antonio 232, 234n.
Manganelli, Giorgio 404n., 413 e n.
Mangano, Silvana 71, 75
Mangiameli, Rosario 338n.
Mannino, Franco 356
Mantegazza, Paolo 372
Mantegna, Andrea 225
Mantioni, Susanna 262n.
Manuel, Juan 238
Manzella, Cesare 342
Manzini, Gianna 422
Manzoni, Alessandro 14, 138n., 139,
249, 262, 280, 281 e n., 282 e n.,
284n.
Manzotti, Emilio 93n., 96n.
Maraini, Dacia 422
Marchand, Jean-Jacques 32n.
Marchesani, Pietro 199n.
Marcora, Carlo 31n.
Marcuse, Herbert 75
Maria Luisa di Borbone, Infanta di
Spagna 310n.
Mariano, Emilio 30n.
Marinoni, Manuele 385n.
Marinuzzi, Gino 270
Marmontel, Jean-François 225
Marrazzi, Alina 441 e n.
Martignoni, Clelia 102n., 379n.
Martyn, John R. C. 238n.
Marzolino, Ludovico 302
Mascagni, Pietro 251 e n., 257, 263 e
n., 265
Masci, Filippo 384
Masino, Paola 442
Maskhadov, Aslan Allievič 201n.
Massenet, Jules 260-262
Massimiliano I d’Asburgo, imperatore
312, 320
Massin, Brigitte 229-230
Massin, Jean 229-230
Mastriani, Francesco 362n.
Matti, Erik 358
Mauri, Silvana 63
Maury, Alfred 373n.
Maxia, Sandro 17n., 139n., 377, 378
e n., 379n.
Mayr, Giovanni Simone 236 e n.
Mayrocker, Friederike 431 e n.
Mazzoni, Guido 294
INDICE DEI NOMI
Mazzotti, Emilio 93n.
McDermott, Dylan 351
McHale, Brian 378n.
McIntyre, Lesley 441
McIntyre, Molly 441
McOmie, Maggie 349
McScherry, Elizabeth A. 149n.
Méchaly, Nathaniel 354
Meckel, Carl Anton 316n., 327n.
Méheust, Bertrand 379
Melotti, Giulio 380
Menasci, Guido 263
Mendelssohn Bartholdy, Felix 386
Meneghello, Luigi 114n.
Mengaldo, Pier Vincenzo 44n., 432
Menicacci, Marco 129n.
Mercadante, Saverio 242
Merini, Alda 14, 401-420, 430, 431 e n.
Mesmer, Franz Anton 379
Messina, Piero 14n.
Metastasio, Pietro (Pietro Trapassi)
225-226
Mettel, Paolo Andrea 11n.
Meyerspeer, Paul 319
Migliore, Tiziana 339n.
Migliorucci, Vincenzo 239n.
Milana, Enza Maria 213 e n., 214
Milanini, Claudio 153n.-154n.
Milcent, Jean-Baptiste-Gabriel-Marie
de 233
Minghella, Anthony 353
Ministry, gruppo musicale 351
Minuz, Fernanda 383n.
Misarin, Aleksandr 350
Misler, Nicoletta 186n.
Mitchell, William John Thomas 186n.,
187 e n.
Moi, Toril 422
Molière (Jean-Baptiste Poquelin) 101
Mollica, Vincenzo 403n.
Mongrédien, Jean 226n.
Montale, Eugenio 15n., 44n., 89, 169,
171 e n., 172, 406n.
Montani, Pietro 201 e n.
Montesanto, Luigi 269
461
Montessori, Maria 352n.
Monteverdi, Claudio 1900 e n.
Montherlant, Henry de 238
Morabito, Carmela 384n.
Morandini, Morando 58n.
Morante, Elsa 14, 277 e n., 278 e n.,
279, 280, 422
Moranzoni, Roberto 255, 269
Moravia, Alberto (Alberto Pincherle) 67
Morbiato, Luciano 31n., 48n.
Morelli, Giulia 340n.
Morello, Vincenzo 30n.
Moroni, Anna Maria 29n.
Morrison, Toni 366 e n., 367n., 368n.,
369n.
Mosca Mondadori, Arnoldo 417
Moscè, Alessandro 207, 210, 211n.
Mosco, Marilena 425n.
Mosele, Elio 375n.
Mozart, Wolfgang Amadeus 224, 229,
350-351
Mulack, Christa 362n., 363 e n., 366n.
Müller-Ruby, Bernhard 314n.
Mulvey, Laura 362n.
Muñiz Muñiz, María de las Nieves 18n.
Munro, Eleanor C. 310n.
Muraro, Luisa 421 e n., 443
Murase, Sachiko 351-352
Murata, Kiyoko 351
Murch, Walter 349
Murgia, Giovanni Antonio 265n.
Murgia, Michela 361n., 362n.
Mussolini, Benito 257, 318
Mutterle, Anco Marzio 44n.
Muzio, Claudia 269
Myers, David 349
Nabert, Nathalie 222n.
Nacca, Giovanni 172n.
Naigeon, Jacques-André 223
Naldini, Nico 60n., 60n., 68n., 78n.,
85n.
Nancy, Jean-Luc 186n.
Napoleone I Bonaparte, imperatore
281-282, 301, 310
462 INDICE DEI NOMI
Nardi, Piero 32n.
Nasolini, Sebastiano 238n.
Natalicchio, Paola 212 e n., 213n.
Nay, Laura 391n.
Negri, Chiara 410n.
Nencioni, Francesca 138n.
Nescio (Jan Hendrik Frederik Grönloh) 187 e n.
Neumann, Erich 70 e n., 71
Niccodemi, Dario 13n., 259n.
Niccolò dall’Arca 293
Nicloux, Guillame 355
Nietzsche, Friedrich 30n.
Nin, Anais 425 e n.
Norris, Kathleen 362n.
Novalis (Georg Friedrich Philipp
Freiherr von Hardenberg) 430
O’Neill, Kevin 351
Olds, Sharon 436 e n., 443
Omero 50, 186n., 323, 326
Ondricek, Miroslav 350
Ongaro Basaglia, Franca 424 e n., 433
Orlandi, Ferdinando 236 e n.
Orlando, Liliana 102n.
Ortega y Frias, Pablo 75
Ortese, Anna Maria 422
Orvieto, Paolo 69n.
Ossola, Carlo 133n.
Ostali, Pietro 263n.
Ouida (Louise de la Ramée) 257
Ovidio (Publius Ovidius Naso) 119
Ozon, François 99n.
Pacini, Giovanni 242, 265
Padoan, Daniela 362n., 363n., 364n.
Paduano, Guido 72n., 74n.
Paglia, Camille 375n.
Paisiello, Giovanni 239n.
Pala, Valeria 18n.
Palano, Damiano 371n.
Palestrina, Giovanni Pierluigi da 14,
219, 222, 231
Palma il Giovane, Jacopo (Giacomo
Negretti, detto) 25-26
Paltrow, Gwyneth 353
Palumbo, Giovanni 166n.
Panicali, Pietro 266, 267 e n.
Panichelli, Anna 112n., 114n.
Pannonio, Michele 291
Pargament, Juanita 362n., 363
Parmiggiani, Claudio 186n.
Pärt, Arvo 222, 231
Pasatieri, Thomas 239n.
Pascoli, Giovanni 15n., 36n., 90
Paskali, Odhise 334, 336
Pasolini, Carlo Alberto 62, 69-70
Pasolini, Pier Paolo 14, 57-87, 195n.,
279-280, 305n., 432
Pasolini, Susanna 57-60, 68-71
Passerini, Luisa 442 e n.
Pasta, Giuditta (Giuditta Negri) 226
Patrício, António 239n.
Patrizi, Stefano 356
Pavel, Thomas 378n.
Pavese, Cesare 14, 44n., 84, 114n.,
391-400
Pavesi, Stefano 239n.
Pedrizzetti, Paolo 339
Pellandini, Bruno 196 e n.
Pellegrini, Ernestina 421n., 431n.,
432n.
Penderecki, Krysztof 222, 349
Pergolesi, Giovanni Battista 14, 187,
188n., 189n., 190, 218 e n., 220,
221, 222 e n., 223-227, 229-231,
242, 349-351, 353-354
Perini, Flora 269
Perrot, Michelle 13n.
Persiani, Giuseppe 237 e n., 239n., 240
e n., 241 e n., 242n., 244n., 246n.
Persson, Jorgen 352
Petraglia, Sandro 67n., 74n.
Petrarca, Francesco 169, 393n., 408
Pezzini, Franco 375n.
Philidor, André Danican 222n.
Piasi, Renato 192n.
Piave, Francesco Maria 248n.
Picasso, Pablo 166
Piccioni, Fabio 356
INDICE DEI NOMI
Piero della Francesca 61, 290
Pierri, Michele 414
Pignon-Ernest, Ernest 305n.
Pinna, Marco 339
Pinotti, Andrea 195n.
Pinotti, Giorgio 93n., 103n.
Pirandello, Luigi 13n.
Pittau, Mauro 19n.
Pizzetti, Ildebrando 251
Plath, Sylvia 406n., 427 e n., 428 e n.,
431, 440, 442 e n., 445 e n.
Platone 442n.
Plauto (Titus Maccius Plautus) 101
Pleasence, Donald 349
Plutarco 426
Poe, Edgar Allan 375n.
Pogany, Cristiano 356
Polato, Lorenzo 44n.
Politkvoskaja, Anna 197n., 203 e n.
Pollock, Griselda 191n.
Ponchielli, Amilcare 263, 266
Pontani, Filippo Maria 365n.
Porete, Margherita 421
Porta, Carlo 154n.
Portelli, Alessandro 367n., 368 e n.,
369n.
Portugal, Marcos António 239n.
Pospizyl, Tomas 199n.
Poulenc, Francis 222, 231, 349
Poussin, Nicolas 332
Praz, Mario 372, 375n., 381
Pretto, Maurizio 105
Prévité-Orton, Charles William 238n.
Prosenc Segula, Irena 363 e n.
Puccini, Giacomo 14, 249, 252, 253n.,
255-272
Puccini, Iginia (suor Giulia Enrichetta)
266
Puccini, Michele 265
Puggioni, Roberto 383
Pupino, Angelo Raffaele 374n.
Purcell, Henry 168, 350
Puškin, Aleksandr Sergeevič 350
Pusterla, Fabio 14, 167n., 168n., 169n.,
170n., 173, 182
463
Putin, Vladimir Vladimirovič 197n.,
203n.
Qendro, Gezim 14
Quasimodo, Salvatore 15n.
Querci Favini, Susanna 423n.
Querci, Isabella 205n.
Quinzio, Sergio 281n.
Raboni, Giovanni 89, 402 e n.
Racine, Jean 236
Radiciotti, Giuseppe 241n.
Raferty, John H. 269
Raffaelli, Domenico 240
Raffaello Sanzio 106, 193n.
Raimondi, Ezio 29n., 38n., 39n., 40n.,
376, 379n.
Rajchman, Chil 300
Rama, Kristaq 331
Ramat, Silvio 121n., 132n., 134
Rameau, Jean-Philippe 222-223, 224
e n.
Ramondino, Fabrizia 422
Rasy, Elisabetta 422
Ravano, Anna 445n.
Ravel, Maurice 264
Raymond, Marcel 138n.
Reich, Wilhelm 315n.
Reichardt, Johann Friedrich 218
Reid, Barbara 362n.
Rekut-Liberatore, Oleksandra 14n.
Reni, Guido 290, 334
Renzi, Rossella 192 e n., 193-194, 195
e n.
Rerberg, Georgi 350
Ribot, Thodule 375, 377, 378n.
Ricchi, Renzo 401n., 417, 419
Rich, Adrienne 264 e n., 425 e n., 443
Richardson, John 356
Richer, Paul 379
Richter, Fritz 325n.
Richter, Max 355
Rickert, Arnold 306, 318-319, 320 e
n., 321, 323-325, 327 e n., 328
Ricordi, Tito 258 e n.
464 INDICE DEI NOMI
Riefenstahl, Leni (Helene Amalia Berta
Riefenstahl) 324n.
Rigotti, Francesca 202n.
Rimbaud, Arthur 225
Rimondi, Giorgio 432
Rimskij-Korsakov, Nikolaj Andreevič
264
Ripa di Meana, Ludovica 156n.
Ritter Santini, Lea 385n.
Rizzo, Marcella 412n.
Roberti, Ercole de’ 301
Rodin, Auguste 424
Rodondi, Raffaella 93n., 98n., 107n.,
110n., 111n., 112n., 116n.
Rolfe, James 239n.
Romanelli, Luigi 235, 236 e n.
Romani, Felice 234 e n., 235 e n.,
237n.
Romano, Lalla (Graziella Romano) 422
Romolini, Marica 126, 127 e n., 128,
132 e n., 134
Rosadini, Giovanna 403n.
Rosenberg, Alfred Ernst 325n.
Rosenberg, Ethel e Julius 427-428
Rosselli, Amelia 432 e n.
Rossi Doria, Anna 440
Rossi, Tiziano 200, 201n.
Rossini, Gioacchino 14, 241n., 231,
349, 351
Rota, Vittorio 270
Roudiez, Leon S. 422-428
Rousseau, Jean-Jacques 138 e n., 224,
226-228
Rubin Soleiman, Susan 187n.
Rudas, Nereide 137n., 139n., 141n.,
142n., 144n., 147n.
Ruddick, Sara 188 e n., 202, 205
Rugnetta, Antonino 341n.
Rugnetta, Vita 341 e n.
Saba, Umberto 15n., 44n.
Sagaert, Martine 13n.
Saito, Takao 351
Salieri, Antonio 350-351
Sanguineti, Edoardo 90, 132n.
Santato, Guido 87n.
Santino, Umberto 341 e n., 342 e n.,
343 e n.
Santucci, Antonio 373n.
Sanvitale, Francesca 422, 437 e n.,
438n.
Saracino, Egidio 234n.
Sardou, Victorien 264
Saronne, Edgardo T. 198n.
Sartori, Claudio 258n., 270n.
Saviano, Roberto 341n.
Savoca, Giuseppe 87n.
Sayre Fitzgerald, Zelda 424
Scacchi, Anna 422
Scäfer, Carl Wilhelm Ernst 323
Scaglione, Pinolo 397n.
Scalera Mc Clintock, Giuliana 397n.
Scarlatti, Alessandro 14, 222, 231, 349
Scarpa, Tiziano 421
Scarpelli, Giacomo 382n.
Scartazzini, Andea Lorenzo 239n.
Scattigno, Anna 440n.
Sceab, Mohamed 133
Schaffer, Peter 350
Scheibe, Richard 324n.
Scheidemann, Philipp Heinrich 324
Scheiwiller, Vanni 410 e n.
Scherb, Ute 327n.
Schifrin, Lalo 349
Schirra, Italo 118
Schlippe, Joseph Karl Paul Rosa 326
Schmidt, Gianni 232
Schneider, Georg Jakob 322-323, 326
Schoener, Georg von 322n.
Schöllkop, Hanna 219n.
Schönberg, Arnold 264
Schopenhauer, Arthur 75, 377
Schopp, Claude 227n.
Schubert, Franz 349
Schüssler Fiorenza, Elisabeth 366n.
Schweizer, Ernst Otto 321, 325
Scorsese, Martin 281
Scribe, Eugène 249 e n.
Seale, John 353
Seeling, Heinrich 323, 325
INDICE DEI NOMI
Seghettini, Abdon 239n.
Segre, Cesare 78n., 85n.
Šehović, Aida 203-206
Seibel, Katharina 327n.
Seligman, Sybil 271
Seneca il giovane (Lucius Anneus Seneca) 361, 365n.
Sergi, Giuseppe 372
Serra, Joaquin 239n.
Servières, Eugénie 254
Severino. Emanuele 82n.
Sexton, Anne 427, 431, 432 e n., 433 e
n., 435, 436n., 440n., 446 e n.
Shakespeare, William 100, 213
Shaw, George Bernard 258n.
Shelley, Mary (Mary Wollstonecraft
Godwin) 426
Shibuya, Steve 354
Shirer, William Lawrence 327
Shorter, Edward 371, 373n.
Sichera, Antonio 87n., 391n., 393n.
Siciliano, Enzo 69 e n.
Siebert, Renate 341n.
Sighele, Scipio 371n., 383-384
Simić, Olivera 205 e n.
Singer, Isaac B. 281n.
Sinisgalli, Leonardo 15n.
Sinou, Gilbert 238
Siti, Walter 59n., 60n., 66n., 67n.,
68n., 70n., 78n., 85n., 133n.
Snyder, Zack 354
Soden, Friedrich 238n.
Sofocle 70, 72n., 74 e n., 75, 365n.,
395n.
Sofri, Adriano 2204n.
Sohravardî, Shihāb al-Dīn Yaḥyā, mistico 168
Soldani, Valentino 261
Sourdillon, Jean-Marc 168n.
Spagnoletti, Giacinto 404 e n.
Spaziani, Maria Luisa 406n.
Spech, János 239n.
Spezzani, Pietro 44n.
Spinazzola, Vittorio 114n., 130n.,
139n.
465
Spinella, Mario 364
Spinoza, Baruch 18n., 138n.
Stabili, Maria Rosaria 364b.
Stadelhofer, Emil 313-314, 318, 322n.
Stambler, Bernard 239n.
Stanley, Richard 351
Starobinski, Jean 376n., 385 e n.
Stead, Evanghelia 327n.
Steardo, Lorenzo 373n.
Stendhal (Henry Beyle) 224 e n. 225 e
n., 226, 228-229
Stern, Fritz 285n.
Stevens, Wallace 167 e n., 169
Stöhr, Franz 325n.
Stolz, Alban Isidor 322n.
Strasser, Gregor 325n.
Strauss, Richard 263-264
Stravinskij, Igor Fedörovič 264
Streicher, Johannes 250n.
Streicher, Julius 325n.
Strindberg, Anita 356
Strumia, Filippo 193n.
Stuparich, Giani 102 e n., 103 e n.
Subini, Tomaso 58n.
Szymborska, Wisława 198, 199 e n.
Tabucchi, Antonio 238
Tacchinardi, Fanny 237n., 240n., 241 e
n., 242n., 244 e n., 246n.
Tagliavini, Annamaria 383 e n.
Taglioni, Salvatore 239
Tandello, Emmanuela 432n.
Tappy, José-Flore 168 e n.
Tarabotti, Arcangela 262
Tarchetti, Igino Ugo 423
Tarducci, Filippo 239n.
Targioni-Tozzetti, Giovanni 263
Tarkovskij, Andrej 350
Tarrow, Sydney 343n.
Tasso, Torquato 235n.
Tavolara, Eugenio 152
Tellini, Gino 32n.
Tentori, Francesco 30n., 34n., 121n.
Teocrito 186n.
Terekhova, Margarita 350
466 INDICE DEI NOMI
Terzoli, Maria Antonietta 99n.
Testa, Enrico 402n., 406n.
Thiersch, Ulrich 326
Tiboni, Edoardo 30n.
Tiziano Vecellio 25-26
Tolstoj, Lev Nikolaevič 376, 377n.378n.
Tommaseo, Niccolò 77
Tommasi, Salvatore 384
Toscanini, Arturo 270
Tozzi, Federigo 423
Travi, Ernesto 31n., 33n.
Travis, Stacey 351
Tula, Besim 332
Turchetta, Gianni 36n., 37 e n., 39n.,
52n., 374 e n.
Turi, Nicola 19n., 149n.
Ueda, Masaharu 351
Umebayashi, Shigeru 354
Ungaretti, Giuseppe 15n., 44n., 133 e
n., 134
Ungher, Carolina 241, 244, 280n.
Untersteiner, Mario 395 e n.
Verga, Andrea 383
Verga, Giovanni 263, 265
Vezzali, Valentina 440
Vigliani, Ada 11n.
Vignal, Marc 22n.
Vignoli, Tito 372, 372n.-373n., 382,
386
Vignozzi, Egisto 240
Vigolo, Giorgio 15n.
Violi, Alessandra 382 e n.
Virdis, Maurizio 383n.
Virgilio (Publius Virgilius Maro) 94n.,
119, 186n.
Visetti, Giampaolo 198n.
Vittorini, Elio 14, 84, 95n., 107-117,
133-135
Vivaldi, Antonio 14, 222, 231, 247,
349, 351-353, 356
Viviani, Luigi Maria 239
Vlad, Roman 263n.
Vollenweider, Alice 149n.
Volz, Hermann 320n.
Von Trier, Lars (Lars Trier) 365
Vrba, Rudolf 302
Valentini, Carlo 239n.
Valeri, Nino 15n.
Valli, Romolo 350
Van der Lubbe, Marinus 324n.
Van der Stock, Vrank 304
Van der Weyden, Roger 12, 184
Van Gogh, Vincent 26
Vannucci, Giulio 142n.
Vanorio, Maria Laura 187n.
Varese, Claudio 138n., 150n.
Vassallo, Nicla 202n.
Vega y Carpio, Félix Lope de 261
Vegetti Finzi, Silvia 423 e n., 439
Vegliante, Jean-Charles 14, 89
Venturi, Gianni 234n.
Vercellone, Federico 185n.
Verdi, Giuseppe 14, 231 e n., 232, 235,
242, 247, 248n., 250 e n., 251n.,
252, 257n., 258, 263-265, 268, 349
Verdino, Stefano 11n.
Wackenroder, Wilhelm Heinrich 217220
Wagner, Nike 375n.
Wallace, Arminta 188n., 190n.
Wanroij, Bruno P. F. 375n.
Warburg, Aby 373n.
Warner, Marina 193 e n.
Weber, Bernard Anselm 238
Weil, Simone 421
Weininger, Otto 372
Weinrich, Harald 89, 378n.
Wiesel, Elie 303
Wilde, Oscar 264
Wilkinson, Tom 352
Wineberg, Lincoln jr. 351
Winter, Peter von 239n.
Wolf, Christa 361n., 363 e n., 368n.,
369n.
Wolf-Ferrari, Ermanno 257, 263
Wöllfflin, Heinrich 195n.
INDICE DEI NOMI
Woolf, Virginia 168, 430 e n., 445
Xanthulis, Nikos 239n.
Yared, Gabriel 353
Zabagli, Franco 59n.
Zaccaro, Giovanna 376n.
Zanda, Antonello 18n.
Zangrandi, Giovanna 422
Zappucci, Teresa 240
Zauner, Franz Anton von 309
Zecchin, Franco 338 e n., 340
Zemlinsky, Alexander von 264
Zenone, imperatore 310n.
Zibechi, Raúl 364n.
Ziino, Giuseppe 372
Zimmer, Hans 352
Zingarelli, Nicola 238n.-239n.
Ziyi, Zhang 354
Zola, Émile 262
467
VOLUMI PUBBLICATI
MODERNA/COMPARATA
1.
2.
3.
4.
Giuseppe Dessí tra traduzioni e edizioni. Una raccolta di saggi, a cura di Anna Dolfi, 2013.
Il racconto e il romanzo filosofico nella modernità, a cura di Anna Dolfi, 2013.
Dessí e la Sardegna. I carteggi con il «Ponte» e Il Polifilo, a cura di Giulio Vannucci, 2013.
Tre amici tra la Sardegna e Ferrara. Le lettere di Mario Pinna a Giuseppe Dessí e Claudio Varese,
a cura di Costanza Chimirri, 2013.
5. Non dimenticarsi di Proust. Declinazioni di un mito nella cultura moderna, a cura di Anna
Dolfi, 2014.
6. Nicola Turi, Giuseppe Dessí. Storia e genesi dell’opera. Con una bibliografia completa degli scritti
di e sull’autore, 2014.
7. Giorgio Caproni, Il mondo ha bisogno dei poeti. Interviste e autocommenti (1948-1990), a
cura di Melissa Rota. Introduzione di Anna Dolfi, 2014.
8. Non finito, opera interrotta e modernità, a cura di Anna Dolfi, 2015.
9. Giuseppe Dessí-Enrico Falqui, Lettere 1935-1972. Con una raccolta di racconti dispersi, a
cura di Alberto Baldi, 2015.
10. Biblioteche reali, biblioteche immaginarie. Tracce di libri, luoghi e letture, a cura di Anna Dolfi,
2015.
11. Enza Biagini, Saggi di Teoria della letteratura. Percorsi tematici, 2016.
12. L’ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi. Firenze, 27-31 ottobre
2014, a cura di Anna Dolfi, 2016, voll. 2.
13. Ecosistemi letterari. Luoghi e spazi della finzione narrativa, a cura di Nicola Turi, 2016.
14. Oreste Macrí-Vittorio Pagano, Lettere 1942-1978. Con un’appendice di testi dispersi, a cura
di Dario Collini, 2016.
15. Giorgio Caproni, «Il girasole». Un’antologia per la radio, a cura di Giada Baragli, 2017.
16. Enza Biagini, L’interprete e il traduttore. Saggi di Teoria della letteratura, 2016.
17. Giuseppe Dessí, Sulle riviste di Vecchietti negli anni 30-40. Racconti e scritti dispersi, a cura
di Francesca Bartolini, 2016.
18. Girolamo Bartolommei, Didascalia cioè dottrina comica libri tre (1658-1661). Saggio introduttivo. L’opera esemplare di un ‘moderato riformatore’, edizione critica e note di Sandro
Piazzesi, 2016.
19. Anna Dolfi, Dopo la morte dell’io. Percorsi bassaniani «di là dal cuore», 2017.
20. Raccontare la guerra. I conflitti bellici e la modernità, a cura di Nicola Turi, 2017.
21. Gli intellettuali/scrittori ebrei e il dovere della testimonianza. In ricordo di Giorgio Bassani, a
cura di Anna Dolfi, 2017.
22. Margherita Dalmati, Lettere agli amici fiorentini. Con i carteggi di Mario Luzi, Leone Traverso
e Oreste Macrí, a cura di Sara Moran, 2017.
23. Vasco Pratolini, L’ammuina, a cura di Maria Carla Papini, 2017.
24. Stabat mater. Immagini e sequenze nel moderno, a cura di Anna Dolfi, 2018.
25. Nel «melograno di lingue». Plurilinguismo e traduzione in Andrea Zanzotto, a cura di Giorgia
Bongiorno e Laura Toppan, 2018.
26. La fortuna del Grand Siècle. Per Marco Lombardi, a cura di Barbara Innocenti (in preparazione).
27. Claudio Cazzola, Ars poetica. I classici greci e latini nell’opera di Giorgio Bassani (in preparazione).
28. Ruggero Jacobbi, Le notti di Copacabana, a cura di Gioia Benedetti (in preparazione).
29. Luciano Anceschi-Giuseppe De Robertis, Lettere 1940-1952, a cura di Dario Collini (in
preparazione).
30. Giorgio Caproni. Bibliografia delle opere e della critica (1933-2018), a cura di Michela Baldini
(in preparazione)
La collana, che si propone lo studio e la pubblicazione di testi di e sulla modernità
letteraria (cataloghi, corrispondenze, edizioni, commenti, proposte interpretative,
discussioni teoriche) prosegue un’ormai decennale attività avviata dalla sezione
Moderna (diretta da Anna Dolfi) della Biblioteca digitale del Dipartimento di Italianistica
dell’Università di Firenze di cui riportiamo di seguito i titoli.
MODERNA
BIBLIOTECA DIGITALE DEL DIPARTIMENTO DI ITALIANISTICA
1.
2.
3.
4.
Giuseppe Dessí. Storia e catalogo di un archivio, a cura di Agnese Landini, 2002.
Le corrispondenze familiari nell’archivio Dessí, a cura di Chiara Andrei, 2003.
Nives Trentini, Lettere dalla Spagna. Sugli epistolari a Oreste Macrí, 2004.
Lettere a Ruggero Jacobbi. Regesto di un fondo inedito con un’appendice di lettere, a cura di
Francesca Bartolini, 2006.
5. «L’Approdo». Copioni, lettere, indici, a cura di Michela Baldini, Teresa Spignoli e del GRAP,
sotto la direzione di Anna Dolfi, 2007 (CD-Rom allegato con gli indici della rivista e la
schedatura completa di copioni e lettere).
6. Anna Dolfi, Percorsi di macritica, 2007 (CD-Rom allegato con il Catalogo della Biblioteca
di Oreste Macrí).
7. Ruggero Jacobbi alla radio, a cura di Eleonora Pancani, 2007.
8. Ruggero Jacobbi, Prose e racconti. Inediti e rari, a cura di Silvia Fantacci, 2007.
9. Luciano Curreri, La consegna dei testimoni tra letteratura e critica. A partire da Nerval, Valéry,
Foscolo, D’Annunzio, 2009.
10. Ruggero Jacobbi, Faulkner ed Hemingway. Due nobel americani, a cura di Nicola Turi, 2009.
11. Sandro Piazzesi, Girolamo Borsieri. Un colto poligrafo del Seicento. Con un inedito «Il Salterio
Affetti Spirituali», 2009.
12. A Giuseppe Dessí. Lettere di amici e lettori. Con un’appendice di lettere inedite, a cura di Francesca Nencioni, 2009.
13. Giuseppe Dessí, Diari 1949-1951, a cura di Franca Linari, 2009.
14. Giuseppe Dessí, Diari 1952-1962. Trascrizione di Franca Linari. Introduzione e note di
Francesca Nencioni, 2011.
15. Giuseppe Dessí, Diari 1963-1977. Trascrizione di Franca Linari. Introduzione e note di
Francesca Nencioni, 2011.
16. A Giuseppe Dessí. Lettere editoriali e altra corrispondenza, a cura di Francesca Nencioni. Con
un’appendice di lettere inedite a cura di Monica Graceffa, 2012.
17. Giuseppe Dessí-Raffaello Delogu, Lettere 1936-1963, a cura di Monica Graceffa, 2012.
“CENTRO INTERNAZIONALE DI STUDI GIUSEPPE DESSÍ”
Via Roma, 65 - Villacidro
Istituito nel 2013, sotto l’egida della Fondazione Dessí, il “Centro
Internazionale di Studi Giuseppe Dessí”, con l’obiettivo di valorizzare l’opera
letteraria e il messaggio culturale e umano dello scrittore nel quadro della cultura e della letteratura moderna, ha contribuito finanziariamente alla pubblicazione dei seguenti volumi:
•
•
•
•
•
•
•
•
•
Non dimenticarsi di Proust. Declinazioni di un mito nella cultura moderna, a cura di Anna
Dolfi, 2014.
Nicola Turi, Giuseppe Dessí. Storia e genesi dell’opera. Con una bibliografia completa degli scritti
di e sull’autore, 2014.
Non finito, opera interrotta e modernità, a cura di Anna Dolfi, 2015.
Giuseppe Dessí-Enrico Falqui, Lettere 1935-1972, con una raccolta di racconti dispersi, a
cura di Alberto Baldi, 2015.
Biblioteche reali, biblioteche immaginarie. Tracce di libri, luoghi e letture, a cura di Anna Dolfi,
2015.
Ecosistemi letterari. Luoghi e spazi della finzione narrativa, a cura di Nicola Turi, 2016.
Giuseppe Dessí, Sulle riviste di Vecchietti negli anni 30-40. Racconti e scritti dispersi, a cura
di Francesca Bartolini, 2016.
Raccontare la guerra. I conflitti bellici e la modernità, a cura di Nicola Turi, 2017.
Stabat mater. Immagini e sequenze nel moderno, a cura di Anna Dolfi, 2018.
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