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Moshe Dayan

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Moshe Dayan

Moshe Dayan (1915 – 1981), generale e politico israeliano.

Citazioni di Moshe Dayan

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  • Già nel lontano 1928 divenne chiaro quanto sia difficile raggiungere l'obbiettivo del sionismo e al tempo stesso ottemprare alle esigenze di un'etica universale [...] non c'era altra via per il sionismo che quella di degenerare in un assurdo sionismo? Si può assegnare una sfera crescente di attività a un numero crescente di ebrei senza espropriare gli arabi? [...] È chiaro che non è lontano il giorno in cui non ci saranno più terre disabitate a disposizione e l'insediamento di ogni nuovo ebreo comporterà automaticamente l'espropriazione di un fellah palestinese [...] in ogni località in cui ci procuriamo la terra e insediamo gente gli attuali coltivatori saranno inevitabilmente espulsi. Il nostro destino è quello di essere in uno stato di guerra permanente con gli arabi. Ciò non può piacerci, ma è la verità. (da un discorso nel 30 settembre 1968[1])
  • Il nostro regolamento consente a un generale di restare in servizio effettivo fino a cinquantacinque anni. Ma è sbagliato, perché a cinquantacinque anni un generale prepara regolarmente la guerra di domani coi criteri di quella di ieri, e la perde. Non c'è nulla di più nefasto, creda a me, dei vecchi generali. [...] Eppoi, un generale che non sa far altro che il generale, vuol dire che non sa fare nemmeno il generale. Le nostre forze armate non mirano a dare alle reclute soltanto un'istruzione militare, ma anche un mestiere: e per questo la ferma dura due anni e mezzo. [...] Io, mentre facevo il capo di stato maggiore, studiavo archeologia. Perché, come archeologo, uno ha anche il diritto di essere vecchio, anzi ne ha quasi il dovere. Può anche aver la pancia, un archeologo...[2]

Storia della mia vita

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Erano le dodici di martedì, il secondo giorno della Guerra dei sei giorni. Ventiquattr're prima, l'artiglieria giordana aveva martellato i settori ebraici di Gerusalemme. Dopo mezzanotte, era entrata in azione la Brigata paracadutisti di Motta Gur, la quale, nel corso dei successivi, aspri scontri che si erano accesi prima dell'alba, era riuscita a conquistare le posizioni fortificate della Legione Araba nei sobborghi settentrionali della Città Vecchia. Uri Ben-Ari aveva appena segnalato che la sua brigata meccanizzata si era impadronita della Collina dei Francesi. In tal modo, la via per Monte Scopus era praticamente aperta, e la quota che per diciannove anni aveva costituito un'enclave israeliana nell'ostile territorio giordano stava per essere collegata alla metà ebraica di Gerusalemme. Decisi di recarmici.

Citazioni

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  • Benché abbia vissuto a Gerusalemme per parecchi anni, non ne sono nativo. Quando, prima del 1948, visitai la Città Vecchia, ebbi l'impressione di trovarmi all'improvviso in un altro mondo, un universo di spesse mura di pietra che racchiudevano brulicanti bazaar affollati di acquirenti e mercanti, turisti e pellegrini stranieri, arabi con i loro kefieh, ebrei hassidici nei loro tradizionali abiti neri, e frati e monache non le tonache dei rispettivi ordini. Gradini sconnessi salivano dagli stretti vicoli del mercato verso l'oscurità di misteriose stradine. Era tutto assai diverso dall'Israele in cui ero nato e cresciuto, un paese aperto e pieno di luce. Ma ora, nel giorno della sua liberazione, Gerusalemme era ben diversa dalla città che avevo conosciuto. Paracadutisti, carristi e truppe della Brigata di fanteria Jerusalem affollavano la città, l'arma in spalla, l'esultanza nello sguardo. Questa era la Gerusalemme alla quale avevamo aspirato e per la quale avevamo combattuto, era la nostra Gerusalemme, la Gerusalemme ebraica, libera e piena di gioia. Ma c'era anche tristezza: per le vite che erano andate perdute al fine di rendere possibile l'esultanza, e per la vista del quartiere ebraico, distrutto nel 1948. (p. 10)
  • Sia nella teoria che nella pratica, io concordavo con la via indicata da Ben-Guiron, il quale si opponeva fermamente ai dissidenti ed esigeva che mettessero fine alle attività terroristiche. La sua politica, e quella dell'Haganah, consisteva nello scoprire e combattere gli assalitori arabi, non già nell'impegnarsi in rappresaglie indiscriminate che avevano come conseguenza la morte di arabi innocenti. (p. 72)
  • La decisione della Nazioni Unite, che riconosceva il diritto di Israele di esistere come stato, era d'importanza storica. L'approvazione della risoluzione costituiva un successo politico di enorme risonanza, e il merito principale ne spettava a Ben-Guiron. Ma, sottesa alla nostra gioia, era un'emozione ben più profonda, che avvertivo in quanto ebreo, e che mi faceva sentire più che mai tale. Esultavo, con ogni fibra del mio corpo, per la vittoria del giudaismo che durante i duemila anni d'esilio dalla Terra di Israele aveva resistito alle persecuzioni, all'Inquisizione spagnola, a pogrom, a legislazioni antiebraiche, a restrizioni d'ogni sorta e, per quanto riguardava la nostra generazione, al genocidio perpetrato dai nazisti, e che aveva conosciuto la realizzazione delle sue secolari aspirazioni, il ritorno a una Sion libera e indipendente. (p. 73)
  • Gli stati arabi si rifiutarono di accettare la risoluzione dell'ONU e proclamarono la loro intenzione di muovere guerra allo stato ebraico. Molti arabi, tuttavia, non attesero la dichiarazione ufficiale della nascita del nostro stato; quelli palestinese, spalleggiati da guerriglieri a loro volta sovvenzionati da nazioni vicine, iniziarono immediatamente gli attacchi, nella speranza di render nulla la risoluzione; e, durante i successivi cinque mesi e mezzo, il paese fu scosso da atti di violenza. Le aggressioni arabe contro insediamenti agricoli, villaggi e vie di comunicazione israeliani si moltiplicavano giorno dopo giorno. Il governo inglese, annunciando che il 15 maggio avrebbe rinunciato al mandato, non contribuì certo a gettar acqua sul fuoco. Ormai, l'anarchia regnava sovrana, con la conseguenza che parecchi paesi i quali avevano votato a favore della spartizione della Palestina all'ONU stavano tornando sulle loro decisioni, mentre sui leaders ebraici venivano esercitate forti pressioni a livello internazionale perché rinunciassero all'indipendenza. I paesi in questione temevano che il nostro stato fosse spazzato via al suo nascere, sotto l'impeto degli arabi locali cui si sarebbero uniti gli eserciti degli stati vincitori. I nostri leaders resistettero tuttavia alle pressioni, ignorando i consigli rivolti loro da amici preoccupati; erano ben decisi a procedere alla proclamazione dell'indipendenza e a respingere gli aggressori. Sapevano, al pari di ogni ebreo in Palestina, che da quel momento e finché lo stato in guerra non fosse cessato, la lotta avrebbe dovuto essere il nostro unico pensiero. Se così non fosse avvenuto, e se non avessimo vinto, il sogno sionista sarebbe andato in fumo, non avremmo avuto l'indipendenza né l'immigrazione e gli insediamenti agricoli. (p. 74)
  • La verità era che, se agli occhi del suo popolo Abdullah era il sovrano, gli inglesi lo trattavano da padroni. (p. 130)
  • Non ho mai sottovalutato Abdullah, che era un uomo saggio e un leader capace di decisioni audaci e sensate. Quando un nodo veniva al pettine, non ci rinviava mai dai suoi ministri, ma esigeva che il problema gli fosse sottoposto, assumendosi intera la responsabilità della decisione; e non aveva neppure perduto certi pittoreschi risvolti del beduino. (p. 132)
  • Dato le circostanze, era inevitabile che tra i riluttanti arabi israeliani e gli ebrei israeliani sussisstesse profonda sfiducia. I secondi avevano sconfitto gli eserciti arabi, non però il loro odio; e, governando le zone abitate da arabi, l'amministrazione militare si trovava pertanto nella necessità di trovare il giusto mezzo tra un atteggiamento di correttezza verso gli arabi in quanto cittadini di Israele e la vigilante coscienza che potevano trasformarsi in quinta colonna e i loro villaggi divenire altrettante basi di partenza per azioni contro lo stato. (p. 162)
  • Il pubblico arabo vedesse pure nel terrorismo contro Israele l'elemento di una nobile guerra nazionale, destinato a soddisfarne la sete di vendetta e, in parte almeno, a restituirgli l'onore perduto con la disfatta dei suoi eserciti durante la Guerra d'indipendenza israeliana. Ai critici d'oltremare, i governanti arabi, compreso re Hussein di Giordania, replicavano di essere impotenti a prevenire gli atti di terrorismo, che a loro dire erano iniziative di profughi palestinesi. Con i loro sudditi, invece, non facevano mistero dell'incoraggiamento che davano al terrorismo. Dal canto mio, ero certo che l'unico modo di metter fine alle aggressioni a civili israeliani consistesse nell'intraprendere azioni decise contro specifici obiettivi militari nei paesi da cui gli attacchi partivano. Solo questo avrebbe prodotto il desiderato effetto sui loro governanti, convincendoli che era nel loro interesse prevenire l'attività dei fedayin. Altrimenti, l'esercito israeliano avrebbe risposto con rappresaglie, comprovando la debolezza degli eserciti arabi e smascherandone l'incapacità ad affrontare gli israeliani in campo aperto. Per i capi arabi, la conseguenza poteva essere una sola, quella di far perdere la faccia agli occhi dei sudditi. (p. 186)
  • Le «rivoluzioni» promosse da giunte militari si susseguivano con un ritmo assillante, ed era triste constatare come alcuni dei leaders africani fossero più interessati ad assicurarsi posizioni di privilegio anziché allo sviluppo e al progresso del loro popolo; accadeva anzi che i nostri esperti sovente fossero assai più impegnati di certi funzionari africani nell'opera intesa a migliorare la produzione agricola locale e ad elevare il livello di vita dei contadini. I nostri lavoravano giorno e notte per assicurare il successo ai programmi di sviluppo, mordevano il freno a ogni rinvio, soffrivano per i fallimenti. Al contrario, molti leaders e amministratori locali africani consideravano la nostra assistenza quale uno strumento per raggiungere i propri fini, ed esibivano tutti fieri un nuovo villaggio modello e una fattoria moderna ai visitatori stranieri, solo per far colpo e assicurarsi prestigio politico. (p. 269)
  • Le vittorie dei Davide sui Golia erano cosa rara, nel mio paese, anche in tempi biblici, e più rare ancora sono in un universo di carri armati e cannoni. (p. 284)
  • La Guerra dei sei giorni, come venne più tardi chiamata, fu il terzo grande conflitto armato in cui Israele si trovò coinvolto da quando, diciannove anni prima, il nostro stato era venuto in essere; si trattò di una guerra alla base della quale stavano le errate valutazioni del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser. Le cause immediate del conflitto furono una serie di incidenti tra Israele da un lato e Siria e Giordania dall'altro, e la conseguente reazione dell'Egitto o meglio del suo presidente. Nasser sapeva benissimo che le sue iniziative di carattere aggressivo, soprattutto la chiusura degli Stretti di Tiran, sarebbero state considerate da Israele quale un atto di guerra, ma presumeva che le grandi potenze avrebbero impedito al nostro stato di reagire o, se l'esercito israeliano avesse attaccato, che le difese egiziane nel Sinai fossero sufficienti a fermarlo; in ogni caso, il Consiglio di Sicurezza avrebbe ben presto imposto un armistizio, e l'episodio si sarebbe concluso con un duplice successo per Nasser: la rimozione dell'UNEF e la permanenza del blocco sugli Stretti. Nasser aveva ben presente ciò che era accaduto nel 1956, quando USA e URSS avevano obbligato Francia, Inghilterra e Israele a ritirare le proprie forze e a far buon viso a cattivo gioco per la nazionalizzazione del Canale. Questa volta, non soltanto USA e URSS, ma anche la Francia e la Gran Bretagna erano contrari alla guerra; Nasser non aveva dunque altro da fare che sconfiggere Israele. (p. 290)
  • L'uomo che allora e oggi regge le sorti della Giordania è re Hussein, il quale, non diversamente dal nonno Abdullah, sembra dotato di notevole fascino personale e di cospicuo coraggio, tanto che si aggira tra la folla o si reca a ispezionare unità dell'esercito non scortato da guardie del corpo e senza temere la propria incolumità, Ma, a differenza di Abdullah, sembra un uomo illuminato, al corrente delle realtà del mondo moderno. Bisogna d'altro canto convenire che, nonostante l'istruzione ricevuta e la sua dimestichezza con le questioni internazionali, manca di effettiva profondità e di senso pratico. È senza dubbio cosciente del fatto che l'influenza che può esercitare sul mondo arabo è limitata, come non può ignorare che certe iniziative, che pure aspirerebbe a far sue, gli sono vietate perché inaccettabili agli occhi dell'opinione pubblica giordana e degli arabi in generale. (p. 416)
  • Lo stile di lavoro di Golda era caratterizzato da coerenza e decisione; non cercava mai di scansare le responsabilità, e le nostre discussioni si concludevano sempre con scelte o intese precise, mai con vaghe formule o rinvii. Soprattutto, Golda evitava di circondarsi di giornalisti pettegoli e assistenti disposti a favorire fughe di notizie in questioni di vitale importanza. La sua cerchia era composta da amici intimi, e io ero uno di loro. E, nelle questioni riguardanti la mia sfera d'attività, la difesa, tra noi non c'erano barriere di sorta. (p. 427)
  • Chiunque conosca Golda Meir non sarà sorpreso dalle sue decisioni. Golda Meir è una donna coraggiosa, tenace e decisa, e che oltretutto ha la fortuna di vedere il mondo tutto in bianco e nero, senza sfumature intermedie. (p. 445)

Mentre mi sforzavo di ricostruire la vita quotidiana degli antichi abitanti del sito, di tanto in tanto il silenzio anche là dentro era rotto dal suono ultramoderno di un aereo da caccia che sfrecciava in cielo rombando. Esaminai gli ossi di animali, residuo di antichi pasti, le impronte digitali lasciate dai vasai sui recipienti da essi modellati. Quei trogloditi erano vissuti lì duemila anni prima del nostro Patriarca Abramo; erano genti che non sapevano né leggere né scrivere, ma che a volte tracciavano disegni e dipinti su rocce e sassi e decoravano le proprie ceramiche di motivi geometrici a strisce rosso scuro. Questa era la loro casa, il centro della loro esistenza, da cui partivano per andare a caccia nel Negev e nel deserto del Sinai, e conoscevano ogni wadi, ogni collina, ogni piega del terreno. Era la loro terra, il loro luogo natale, e non potevano non amarla. Se assaliti, combattevano per difenderla. E adesso, eccomi lì, penetrato, dopo essermi calato con una corda, all'interno della loro dimora, passando per un'apertura della roccia. Era una sensazione esaltante. Mi accoccolai vicino all'antico focolare; era come se il fuoco si fosse appena spento, e non occorreva che chiudessi gli occhi per immaginarmi una donna china ad attizzare le braci e preparare il pasto per la famiglia. La mia famiglia.

Citazioni su Storia della mia vita

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  • Se Begin, come è stato detto, crede solo in Dio e in sé stesso, Dayan crede solo in Dayan. E questa sua «vita», narrata con piglio tacitiano, testimonia della profonda stima e considerazione che Dayan ha per il personaggio ch'egli è riuscito a fare di sé stesso con pazienza e ostinazione e non senza coraggio. Ma è forse proprio la «presunzione» (la tracotanza addirittura) a rendere affascinante il libro di Dayan, uno spaccato straordinario della favolosa e tormentata storia di Israele vista da un uomo che si è fatto da sé, un «solitario» come lo fu Ben Guiron. (Igor Man)
  • Se come storico, soprattutto di sé stesso, Dayan è discutibile, come scrittore si rivela pregevole e robusto. (Igor Man)

Citazioni su Moshe Dayan

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  • Diciamo così: io spero che un giorno egli sia giudicato come criminale di guerra: sia che si tratti di un leader geniale sia che la patente di leader geniale se la sia attribuita da sé. (Yasser Arafat)
  • Si sveglia con cento idee, di cui novantacinque pericolose, tre pessime, ma due estremamente brillanti. (Ariel Sharon)

Note

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  1. Citato in Vincenzo Vinciguerra, Storia cronologica del conflitto mediorientale, Youcanprint, 2015, p. 173.
  2. Citato in Indro Montanelli, Reportage su Israele, Derby, Milano, 1960, pp. 90-91.

Bibliografia

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  • Moshe Dayan, Storia della mia vita, traduzione di Francesco Saba Sardi, Arnoldo Mondadori Editore, 1976.

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