Questa è una voce in vetrina. Clicca qui per maggiori informazioni

Alpini

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Alpini (disambigua).
Alpini
File:Monumento Alpini, Lago Maggiore (fronte).jpg
Monumento alla memoria degli alpini a Stresa sul lago Maggiore
Descrizione generale
Attivo15 ottobre 1872 - oggi
NazioneBandiera dell'Italia Italia
Bandiera dell'Italia Italia
Servizio Regio esercito
Esercito Italiano
TipoFanteria da montagna
Dimensione8 reggimenti ripartiti in due brigate
Guarnigione/QGBolzano
Soprannome"Le Penne nere"
PatronoSan Maurizio martire
celebrato ogni 22 settembre
Motto"Di qui non si passa"
Battaglie/guerreGuerra di Abissinia
Ribellione dei Boxer
Guerra italo-turca
Prima guerra mondiale
Guerra d'Etiopia
Seconda guerra mondiale
Guerra in Afghanistan
Anniversari15 ottobre 1872 (fondazione)
Decorazioni10 Croci di Cavaliere all'O.M.I.
10 MOVM
30 MAVM
8 MBVM
1 Croce di Guerra al Valor Militare
3 Medaglie di Bronzo al Valore dell'Esercito
1 Medaglia d'oro al valor civile
1 Medaglia d'argento al valor civile
1 Medaglia di bronzo al valor civile
1 Croce d'oro al merito dell'Esercito
1 Croce d'argento al merito dell'Esercito
6 Medaglie d'Argento di Benemerenza
4 Medaglie di Bronzo al Merito della Croce Rossa Italiana
Simboli
FregioFile:Fregio alpini (per personale in servizio permanente).jpg
Mostrine
Sito istituzionale dell'Esercito Italiano, su esercito.difesa.it. URL consultato il 12 aprile 2011.
Voci su unità militari presenti su Wikipedia

Gli Alpini sono le truppe da montagna dell'Esercito Italiano[1], una specialità dell'arma di fanteria specializzata nella guerra sui terreni montani, organizzata in due brigate operative subordinate al Comando truppe alpine.

Formatisi nel 1872, gli Alpini sono il più antico corpo di fanteria da montagna attivo nel mondo, originariamente creato per proteggere i confini montani settentrionali dell'Italia con Francia, Impero austro-ungarico e Svizzera[2]. Nel 1888 gli Alpini furono inviati alla loro prima missione all'estero, in Africa, continente nel quale sono tornati più volte nella loro storia, per combattere le guerre coloniali del Regno d'Italia. Essi si sono distinti durante la prima guerra mondiale, quando furono impiegati nei combattimenti al confine nord-est con l'Austria-Ungheria, dove per tre anni dovettero confrontarsi con le truppe da montagna austriache e tedesche, rispettivamente Kaiserschützen e Alpenkorps, in quella che da allora è diventata nota come la "guerra in alta quota". Durante la seconda guerra mondiale, gli alpini combatterono a fianco delle forze dell'Asse principalmente nei Balcani (nel difficile teatro greco-albanese) e sul fronte orientale, dove, impegnate sulla linea del Don invece che nel Caucaso come inizialmente previsto, subirono perdite gravissime durante la battaglia difensiva e la tragica ritirata dell'inverno 1942-1943.

A causa della riorganizzazione dell'Esercito Italiano dopo la fine della guerra fredda, nel 1990 tre delle cinque brigate alpine e molte unità di supporto furono sciolte. Dal 2003 al 4 aprile 2011 gli Alpini sono stati costantemente impegnati in Afghanistan.

Cenni storici

Origini del corpo

Giuseppe Perrucchetti, il "padre" degli Alpini.

Durante la riorganizzazione dell'esercito italiano iniziata a seguito del successo prussiano nella guerra contro la Francia, venne istituita la "riforma Ricotti" voluta dal generale e ministro della Guerra Cesare Ricotti-Magnani, che prevedeva una ristrutturazione delle forze armate condotta sul modello prussiano[3], basata sull'obbligo generale ad un servizio militare di breve durata, in modo tale da sottoporre all'addestramento militare tutti gli iscritti alle liste di leva fisicamente idonei, abolire la surrogazione e trasformare l'esercito italiano in un esercito-numerico, espressione delle potenzialità umane della nazione[3].

«Applichiamo quindi il sistema prussiano poiché questo comandano le necessità dei tempi [...] il nostro paese ha bisogno di militarizzarsi e disciplinarsi come il nostro esercito di coltivarsi, e il servizio militare obbligatorio [...] recherà bene all'uno e all'altro»

Nel fervore innovativo in seno alla gestione Ricotti venne affrontato anche il problema della difesa dei valichi alpini. Fino ad allora si era ritenuto che una reale difesa dei valichi fosse impossibile e che un eventuale invasore dovesse essere ostacolato dagli sbarramenti fortificati delle vallate, ma definitivamente fermato solo nella pianura Padana[4]. Questa tattica avrebbe lasciato completamente sguarniti tutti i passi alpini dal Sempione allo Stelvio e tutto il Friuli, cioè la più diretta e potente linea d'invasione disponibile all'Impero austro-ungarico[4].

Nell'autunno 1871 il capitano di Stato Maggiore, ex insegnante di geografia, Giuseppe Domenico Perrucchetti, preparò uno studio dal titolo "Considerazioni su la difesa di alcuni valichi alpini e proposta di un ordinamento militare territoriale nella zona alpina" nel quale sosteneva il principio che la difesa delle Alpi dovesse essere affidata alla gente di montagna[5]. Nato nel 1839 a Cassano d'Adda, dunque in pianura e non in montagna, Perrucchetti che non era un alpino e non lo diventò mai[6], fu un appassionato studioso attento alle operazioni militari condotte nei secoli precedenti nei territori alpini, e fin dall'inizio colse le contraddizioni che il sistema di reclutamento italiano comportava[5]. A causa del complesso sistema di reclutamento concentrato nella pianura, all'atto della mobilitazione gli uomini avrebbero dovuto affluire dalle vallate alpine ai centri abitati per essere equipaggiati e inquadrati, quindi ritornare nelle vallate per sostenere l'urto di un nemico che nel frattempo avrebbe potuto organizzare e disporre al meglio le proprie forze[5]. In questo modo si sarebbe venuta a creare una concentrazione caotica di uomini presso i distretti militari atti a rifornire il personale sceso a valle insieme a quello di stanza in pianura, il che avrebbe portato conseguenti e inevitabili ritardi. A ciò si sarebbe aggiunto - sempre secondo Perrucchetti - un altro grave limite: le esigenze di mobilitazione avrebbero portato alla creazione di battaglioni eterogenei composti da provinciali della pianura poco atti alla guerra di montagna e non pratici dei luoghi[7].

Nel 1872 Perrucchetti firmò un articolo per "Rivista militare", nel quale trattava il problema della difesa dei valichi alpini e suggeriva alcune innovazioni per l'ordinamento militare nelle zone di frontiera[6]. Nelle zone di confine sarebbero stati arruolati i montanari locali, similmente all'ordinamento territoriale alla prussiana, per il quale la zona alpina sarebbe stata divisa per vallate in tante unità difensive, costituenti ciascuna un piccolo distretto militare[7]. In ciascuna unità difensiva le forze reclutate sarebbero state formate su un determinato numero di compagnie raggruppate attorno a un centro di amministrazione e di comando, in modo tale da avere tante unità difensive quanti erano i valichi alpini da proteggere[7]. Secondo Perrucchetti i soldati destinati a queste unità dovevano essere abituati al clima rigido, alla fatica dello spostamento in montagna, alle insidie di un terreno accidentato e pericoloso e ai disagi delle intemperie; dal canto loro gli ufficiali dovevano essere conoscitori diretti e profondi del territorio, alpinisti ancor prima che militari[8]. Infine, i rapporti con la popolazione civile dovevano essere stretti e spontanei, in modo tale da giovarsi della funzione di informatori e di guide che i montanari potevano svolgere a beneficio delle truppe[8]. Il reclutamento locale, oltre a fornire uomini già abituati alla dura vita in montagna, era un forte elemento di coesione tra le truppe: riunendo nelle compagnie i giovani provenienti dalla stessa vallata, e stanziandoli nella loro terra d'origine si ottenevano grossi vantaggi senza esporsi a rischi[9].

Per i problemi di bilancio che affliggevano il ministero della Guerra, e quindi per paura che il voto del Parlamento fosse sfavorevole, Ricotti non presentò un progetto organico per la creazione di un nuovo corpo, ma lo inserì in una generale ristrutturazione dei distretti militari che da 54 dovevano diventare 62, unitamente alla creazione di un certo numero di compagnie alpine limitato a quindici[10]. Il progetto fu appoggiato dal ministro della Guerra del governo di Quintino Sella, Ricotti-Magnani, che condivideva le necessità della difesa dei valichi alpini e preparò il decreto nel quale si istituiva praticamente di nascosto il nuovo corpo mascherato con compiti di fureria[6]. Il decreto venne quindi firmato dal re Vittorio Emanuele II il 15 ottobre 1872, ironia della sorte in una città che nulla aveva a che vedere con le montagne dei confini settentrionali, cioè Napoli[6], nella relazione ministeriale che accompagnava il Regio Decreto n. 1056[2], si parlava dell'istituzione delle prime compagnie alpine[11]. Subito dopo, in occasione della chiamata alle armi della classe 1852, iniziò la formazione delle prime quindici compagnie alpine[12], che si sarebbero costituite nel giro di un anno[10].

La rapidità con la quale il Ministero decise la costituzione ebbe come contropartita riflessi negativi nel numero e soprattutto nell'equipaggiamento. La divisa era la stessa della fanteria, con evidenti inconvenienti in rapporto alle esigenze di montagna; chepì di feltro, cappotto di panno indossato direttamente sulla camicia, ghette di tela e scarpe basse[13]. L'armamento era costituito da un fucile di modello recente, il "Vetterli 1870"[14], in linea con i fucili impiegati dagli eserciti europei, ma dal peso e dalla lunghezza eccessivi per gli spostamenti su terreni impervi, mentre gli ufficiali erano invece dotati dell'obsoleta pistola a rotazione "Lefaucheaux"[15]. Per il trasporto dei materiali ogni compagnia aveva a disposizione un solo mulo e una carretta da bagaglio, in modo tale da riempire gli zaini dei soldati non solo degli effetti personali, ma di tutto quello utile alla compagnia, dai generi alimentari, alle munizioni, alla stessa legna da ardere[15].

Ma le insufficienze organizzative non pregiudicarono l'affermazione del corpo, che crebbe ben presto, tanto che nel 1873 le compagnie furono portate a 24 e ripartite in sette battaglioni. Nel 1875, constatato che la zona assegnata a ciascuna compagnia era troppo vasta, i battaglioni furono aumentati a 10 per un totale di 36 compagnie con un capitano, quattro ufficiali subalterni e 250 uomini di truppa[15]. Nel 1882 il ministro della Guerra Emilio Ferrero decise una ristrutturazione dei reparti, e con il Regio Decreto del 5 ottobre[15] i dieci battaglioni e le trentasei compagnie furono sdoppiati e raggruppati nei primi sei reggimenti composti da tre battaglioni[16], che divennero sette nel 1887 e otto nel 1910[12].

L'armamento e le uniformi

All'evoluzione organica si accompagnava un progressivo adeguamento delle uniformi e dell'armamento. Nell'ottobre 1874 il cappotto a falde venne sostituito con una giubba grigio-azzurra, sulla quale veniva indossata una mantella alla bersagliera color turchino e le scarpe basse vennero sostituite con scarponi alti[17]. Nell'estate 1883 l'uniforme venne caratterizzata dal colore distintivo rispetto agli altri corpi, il verde, colore che due anni più tardi venne esteso a tutte le mostreggiature e le rifiniture della divisa[17]. L'elemento caratterizzante del corpo era però sin dal 1873 il cappello alla "calabrese" con la penna nera, ornato con fregio rappresentante un'aquila ad ali spiegate sormontata da una corona reale[18].

Per quanto riguarda l'armamento, il fucile Wetterli 1870 fu trasformato nel 1887 in un'arma a ripetizione ordinaria grazie al progetto del capitano d'artiglieria Giuseppe Vitali, il quale diede anche il nome alla nuova arma; "fucile mod. 70/87 Wetterli-Vitali"[19]. Nonostante l'impegno del Vitali, la necessità di un munizionamento più leggero portò la Commissione delle armi portatili ad adottare il calibro 6,5 mm e nel settembre 1890 ad affidare alle fabbriche d'armi del Regno lo studio di un nuovo fucile. Tra i vari modelli presentati fu scelto quello della fabbrica d'armi di Torino, il "Carcano-Mannlincher mod. 1891", più corto e maneggevole[19]. Parallelamente al mod. 91 per la truppa, venne anche rinnovato l'armamento degli ufficiali alpini con la pistola mod. 89 a ripetizione ordinaria con tamburo girevole[19].

Il battesimo del fuoco

Il tenente colonnello Davide Menini, comandante del 1º Battaglione alpini d'Africa, gravemente ferito, incita i suoi uomini alla carica (stampa del 1897).

Verso la fine del XIX secolo anche l'Italia venne colta dal "mal d'Africa" sospinta dalla brama di cercare alla pari di altre potenze europee nuovi "spazi vitali"[20]. Il "battesimo del fuoco" delle truppe Alpine avvenne durante la campagna d'Eritrea. Per cancellare la cocente sconfitta dell'agguato di Dogali dove nel 1887 caddero 413 soldati italiani su 500[20], il Presidente del consiglio Francesco Crispi spedì un secondo contingente di Alpini in Eritrea nell'inverno 1895/'96[21], dopo che gli insuccessi dell'Amba Alagi e di Macallé indussero Crispi a mandare i rinforzi richiesti al generale Oreste Baratieri, governatore della colonia[22].

«Lo facciamo tanto per prova[20]»

Queste furono le parole con cui Francesco Crispi giustificò quell'impegno un po' improprio degli Alpini. Nato per la difesa dell'arco alpino, questo corpo di fanteria da montagna ebbe il suo battesimo nella battaglia di Adua in Etiopia, durante la quale patirono indicibili sofferenze nonostante l'iniziale fiducia nell'impresa[20], e dove all'alba del 1º marzo 1896 i 15.000 soldati del generale Oreste Baratieri, di cui facevano parte anche 954 alpini, vennero travolti dagli oltre 100.000 guerrieri di Menelik II[22]. Dei 954 alpini partiti dall'Italia sotto il comando del tenente colonnello Davide Menini, ne rimasero vivi solo 92 e lo stesso Menini fu decorato con la medaglia d'argento alla memoria[23]. Il primo Alpino a cui venne assegnata la medaglia d'oro al valor militare fu il capitano Pietro Cella, nato a Bardi, anch'egli morto in quella mattina ad Adua[23]. Un epilogo onorevole nonostante la sconfitta fosse l'inevitabile conclusione di una missione organizzata male e frettolosamente[23].

Alla vigilia della Grande Guerra

Nei quindici anni che intercorsero tra l'inizio del secolo e lo scoppio della prima guerra mondiale, le truppe alpine non subirono trasformazioni determinanti. Dai sei reggimenti costituiti nel 1882 e dal settimo formato nel 1887, le unità vennero aumentate di qualche migliaio tra il 1908 e il 1909 con la costituzione dell'ottavo reggimento dopo che l'apertura della ferrovia del Sempione aveva imposto maggiori esigenze difensive in val d'Ossola[24]. Nei primi anni del secolo venne aperto un dibattito sull'opportunità di unire i reparti Alpini e bersaglieri creando un unico corpo[25], ma le speciali esigenze della guerra in montagna mal si accostavano a maggiori raggruppamenti di truppe che avrebbe portato questa unione.

Per iniziativa di Luigi Brioschi, presidente della sezione milanese del Club Alpino Italiano, nel 1908 dopo quasi due anni di sperimentazione, venne adottata una divisa grigioverde e due anni dopo anche il cappello venne adeguato ai nuovi colori[26]. Per quanto riguarda l'armamento, la novità dei primi anni del secolo fu la mitragliatrice, affermatasi dopo il conflitto russo-giapponese del 1905[26]. Le prime mitragliatrici utilizzate dagli Alpini furono le Maxim mod. 1906 (utilizzate nella campagna di Libia) e le Maxim-Vickers mod. 1911 distribuite a partire dal 1913[26].

L'artiglieria da montagna venne istituita a partire dal 1873, e quattro anni più tardi nacque il primo reggimento di artiglieria da montagna, specialità in grado di operare in alta montagna per fornire l'adeguato supporto di fuoco agli alpini, capace di operare in zone inaccessibili alle artiglierie trainate[27]. Batterie da montagna e reparti alpini si abituarono presto a vivere e manovrare insieme, e dal 1888 anche l'artiglieria da montagna veniva reclutata in base alla provenienza[27]. La sanzione formale di tale simbiosi si ebbe nel 1910, con l'adozione per gli artiglieri da montagna del cappello alpino di feltro grigio con la penna[27]. Alla vigilia del primo conflitto mondiale, erano operativi tre reggimenti d'artiglieria da montagna per 36 batterie, dotate di cannoni da 65/17[27].

Mentre negli eserciti dell'Europa settentrionale già da inizio '800 l'impiego delle truppe dotate di sci era cosa nota, in Italia l'introduzione di tale strumento avvenne tardivamente. Gli Alpini li sperimentarono solo nell'inverno 1896/'97, per iniziativa del tenente d'artiglieria Luciano Roiti[28]. Durante quell'inverno il 3º Reggimento fece diverse esercitazioni sperimentali, con risultati incoraggianti che portarono all'organizzazione di campi di istruzione specifici a livello di compagnia con l'assunzione di istruttori svizzeri e norvegesi[29]. In pochissimi anni gli sci acquistarono posto in modo stabile nell'equipaggiamento degli alpini e con decreto del 25 novembre 1902, il ministro della Guerra Giuseppe Ottolenghi ne ordinò l'impiego nei reggimenti[30].

La guerra italo-turca

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra italo-turca.

Lo scoppio del conflitto italo-turco per il possesso della Libia, nell'autunno 1911, significò un nuovo impiego operativo per le truppe alpine in terra d'Africa[31][32]. Il 29 settembre 1911, dopo il rifiuto dell'ultimatum, l'Italia dichiarò guerra all'Impero ottomano e appena una settimana dopo, il 4 ottobre, sbarcarono a Tobruk i primi uomini del Corpo di spedizione comandato dal tenente generale Carlo Caneva[31].

Quella che doveva essere una facile e trionfale occupazione, scontava in realtà fin dall'inizio delle operazioni i limiti di una campagna improvvisata in pochi giorni e condotta con la piena sottovalutazione delle forze nemiche[31]. Le truppe turche calcolate in circa 5.000 uomini in Tripolitania e 3.000 in Cirenaica si ritirarono verso l'interno dando il via ad una consistente resistenza nel deserto, anche grazie all'appoggio della popolazione indigena[33]. Dopo i primi scontri si capì subito la portata del conflitto; fu una guerra difficile per cui il contingente dovette essere aumentato dagli iniziali 35.000 uomini a oltre 100.000[34], in cui l'ambiente e l'ostilità della popolazione rese impossibile mantenere il controllo delle terre occupate[33]. Alla fine il bilancio fu di 3.500 morti (di cui 2.500 italiani e circa 1.000 tra ascari eritrei, libici o somali), 1.500 prigionieri[34]; 37 cannoni e 9.000 fucili furono invece le perdite di materiali[33].

Alpini in posizione di tiro sull'Adamello.

Le truppe alpine parteciparono alla campagna libica con un numeroso contingente: 13 batterie da montagna e i battaglioni "Saluzzo", "Edolo", "Mondovì", "Feltre", "Vestone", "Ivrea", "Fenestrelle", "Verona", "Susa" e "Tolmezzo"[34]. Questi non furono impiegati come unità autonoma, ma aggregati a reparti di fanteria, prendendo parte a tutti i combattimenti significativi, da Ain Zara (4 dicembre), a Sidi Said (26-28 giugno), a Zuara (luglio 1912). Dopo la firma del trattato di Ouchy, rimasero in Libia i battaglioni "Feltre", "Vestone", "Susa" e "Tolmezzo" con tre batterie da montagna riuniti nell'8º Reggimento alpini "speciale" al comando del colonnello Antonio Cantore[33].

Dopo un periodo di allenamento alla marcia, il reggimento dovette adattarsi a combattere tra le dune contro le tribù berbere o contro i musulmani della Cirenaica o nell'entroterra tripolino[34] in una guerra più lunga del previsto tanto che i primi contingenti che sbarcarono a Tobruch nell'ottobre 1911 come l'8º Reggimento alpini "speciale", nel maggio 1915 quando l'Italia entrò in guerra contro l'Austria, si trovavano ancora impegnati a difendere Tripoli e Homs dalle azioni di guerriglia della popolazione indigena[34].

La Grande Guerra

Lo stesso argomento in dettaglio: Fronte italiano (prima guerra mondiale).
Alpini caduti durante la battaglia del Monte Ortigara.

Il 24 maggio 1915, con l'entrata in guerra dell'Italia, gli Alpini occuparono lo stesso giorno i più importanti ed impervi punti, dal passo dello Stelvio, alle Alpi Giulie, passando per il passo del Tonale e il monte Pasubio. Parteciparono alle più cruente battaglie, come quella dell'Ortigara con la conquista dell'omonimo monte, la disfatta di Caporetto, fino alla resistenza sul monte Grappa e la controffensiva finale del generale Armando Diaz, che portò alla vittoria dell'ottobre 1918. Gli Alpini furono i protagonisti di un conflitto che si combatté quasi interamente sulle Alpi, e su tutti i fronti, dai ghiacciai dell'Adamello alle crode dolomitiche, dal Carso al monte Grappa, dagli Altipiani al Piave, dimostrando il loro valore, come testimoniano gli oltre 85.000 morti e dispersi e gli 83.000 feriti[35][36].

Non fu quindi solo il caso a volere che il primo caduto italiano del conflitto sia stato un alpino della 16ª compagnia del battaglione Cividale, 8º Reggimento, di nome Riccardo di Giusto, che alla mezzanotte del 24 maggio mentre varcava la frontiera sul monte Natpriciar venne freddato da un cecchino austriaco[37].

Stabilire la cifra esatta degli Alpini mobilitati durante la Grande Guerra è difficile. Durante il conflitto le truppe alpine raggiunsero il loro massimo sviluppo, arrivando a contare 88 battaglioni per 311 compagnie per un totale poco inferiore a 80.000 uomini[38], cifra puramente indicativa perché gli effettivi variavano e i vuoti lasciati dai caduti e dai feriti venivano colmati, almeno in parte, dalle nuove leve[38]. Inoltre alla somma vanno aggiunti 67 gruppi di artiglieria da montagna per un totale di 175 batterie. In questo periodo infatti le zone di reclutamento alpino vennero estese a quasi tutti i distretti montani della penisola[12].

Tra i tanti fatti d'armi della guerra che coinvolsero gli alpini è possibile individuarne alcuni significativi per la loro drammaticità, come la conquista di monte Nero, la guerra sui ghiacciai dell'Adamello e monte Cavento e la battaglia dell'Ortigara che causarono migliaia di vittime soprattutto tra le unità Alpine[39]. Questi combattimenti e tutti quelli a cui gli alpini presero parte, fecero diventare queste truppe da montagna un vero e proprio simbolo dello sforzo nazionale[39].

Dal primo dopoguerra al fascismo

Dei 61 battaglioni Alpini esistenti nel novembre 1918, ne furono sciolti più della metà e alla fine del 1919 gli otto reggimenti avevano ripreso quasi per intero la fisionomia del 1914[43]. Già l'anno successivo alla fine del conflitto gli alpini reduci costituirono l'8 luglio 1919 l'Associazione Nazionale Alpini (ANA) a Milano, presso la sede dell'Associazione geometri, che ebbe come primo presidente l'alpino Daniele Crespi[44]. Nel settembre del 1920 l'ANA organizzò la prima adunata nazionale sul monte Ortigara, che tre anni prima fu teatro di violentissimi scontri che videro cadere circa 24.000 uomini[45] di cui molti alpini, e da quel primo appuntamento ne seguirono altri venti fino al giugno 1940, a Torino, quando lo scoppio del secondo conflitto mondiale sospese per sette anni la manifestazione[44].

Intanto il paese nell'immediato dopoguerra fu caratterizzato da un periodo di forti tensioni sociali alimentate dalle condizioni di quella parte del popolo che per decenni era stata ai margini della vita nazionale ed ora rivendicava un ruolo primario, forte dei sacrifici patiti in guerra[46]. Le esigenze di ordine pubblico, legate alle oggettive difficoltà strutturali e logistiche di un paese devastato nell'economia, resero la smobilitazione un'operazione lunga e complicata e fece sì che fosse mantenuta in armi una forza di circa 300.000 uomini, abbastanza da tenere in vita reparti teoricamente soppressi sulla carta[46].

Con l'avvento del fascismo ci furono dei primi ordinamenti atti alla riorganizzazione dell'esercito e delle unità alpine. Negli anni '30 la difesa dei confini alpini fu affidata alla Regia Guardia di Finanza, ai Carabinieri Reali, alla Milizia Confinaria e a reparti d'alpini ai quali fu dato anche il compito di presidiare le nuove opere difensive della fortificazione permanente, allora in corso di progettazione e costruzione lungo il confine montano italiano, da Ventimiglia all'Istria[47].

Questo impiego per le truppe alpine era in contrasto con le dottrine d'impiego di quel tempo che prevedevano l'utilizzo delle grandi unità Alpine ovunque la necessità lo richiedesse, essendo le stesse truppe idonee a svolgere azioni di carattere dinamico e non milizie destinate alla difesa di punti fissi[47]. Con il Regio Decreto Legge n. 833 del 28 aprile 1937 fu ufficialmente istituito un Corpo speciale che aveva il compito di vigilare in permanenza sulla linea fortificata di tutto il confine italiano, denominato "Guardia alla Frontiera" (GaF), comprendente reparti di fanteria, artiglieria, genio e servizi[47].

La GaF venne quindi impiegata per la difesa dei confini nazionali mentre per gli Alpini fu previsto l'impiego in ogni luogo richiesto dalle esigenze militari, anche in azioni offensive e al di fuori del teatro alpino[47]: a tale scopo nel 1934 furono costituite le divisioni Alpine "Taurinense", "Tridentina", "Julia" e "Cuneense", cui si aggiunse la "Pusteria" nel 1935. A queste unità si aggiungevano cinque battaglioni misti del genio (che allora comprendeva anche le trasmissioni), il battaglione "Duca degli Abruzzi" (aggregato alla Scuola centrale militare di alpinismo) e il battaglione "Uork Amba"": in totale 31 battaglioni, 93 compagnie, 10 gruppi d'artiglieria alpina e 30 batterie, articolati su cinque comandi divisionali[48]. Ogni divisione aveva in organico anche unità del genio militare e dei servizi logistici: nacquero così i supporti delle Truppe alpine, che si affiancarono agli alpini e all'artiglieria da montagna.

Fu nel 1931 che iniziarono le prima competizioni sciistiche per le truppe alpine, oggi conosciute come Ca.STA[49]. Nel 1934 venne costituita ad Aosta la Scuola militare centrale di alpinismo, per provvedere all'addestramento sci-alpinistico dei quadri delle truppe alpine. La scuola diverrà ben presto un polo di eccellenza in campo sportivo e sci-alpinistico, tanto da essere considerata "università della montagna".

Lo sviluppo dell'armamento degli alpini nel corso del ventennio 1919-'39 fu limitato essenzialmente alle sole mitragliatrici e alle armi a tiro curvo. Nel primo caso si trattava di realizzare un'arma automatica per il tiro collettivo che fosse più leggera e mobile della mitragliatrice pesante Fiat mod. 14 che era più adatta come arma di posizione[50]. Dopo varie sperimentazioni fu sviluppata la leggera Breda mod. 1930 che divenne l'arma delle squadre fucilieri Alpine. In linea con le necessità della guerra in montagna furono sviluppati due nuovi mortai, il Brixia mod. 1935 da 45 mm e quello da 81 mm. La scarsa attenzione che le forze armate diedero allo sviluppo di nuove armi, soprattutto al carro armato e alle armi controcarro; fece sì che il solo cannone atto a fermare le truppe corazzate, il 47/32 Mod. 1935, fu assegnato solo a tre divisioni alpine (Cuneense, Tridentina e Julia) con conseguenti gravi carenze di fronte al massiccio impiego di mezzi corazzati negli altri eserciti[50].

La guerra d'Etiopia e la campagna d'Albania

Lo stesso argomento in dettaglio: Guerra d'Etiopia e Occupazione italiana del Regno di Albania.

«Il maresciallo Badoglio ha scritto a Mussolini, per prender l'Abissinia ci vogliono gli Alpini...»

Gli anni 1935-'36 videro gli alpini ancora impegnati in Africa e precisamente in Etiopia[53], dove sbarcarono a Massaua da dove gli alpini della 5ª Divisione alpina "Pusteria" parteciparono alle operazioni di guerra, con le battaglie di Amba Aradam e dell'Amba Alagi. Il 31 marzo ci fu la battaglia finale di Mai Ceu, dove le truppe di Hailé Selassié furono costrette a ripiegare[54] e per l'imperatore di Etiopia fu la sconfitta. Per la colonna italiana formata da mille automezzi la strada verso Addis Abeba era spianata, e la "Pusteria", con sole 220 perdite[55], rientrò nell'aprile del 1937[56].

Dopo le operazioni in Albania durante la Grande Guerra, meno di vent'anni dopo gli alpini sbarcarono di nuovo sulle coste di Durazzo e Valona il 7 aprile 1939 per volere del Duce, che volle riequilibrare la mossa dell'alleato tedesco in Austria di pochi mesi prima. Fu una spedizione all'insegna della disorganizzazione, tanto che gli stessi muli imbarcati senza basto, finimenti e cavezza al momento dello sbarco cominciarono a scappare dal porto invadendo le strade di Durazzo[57]. Nella città gli alpini rimasero un paio di settimane, poi si sparpagliarono nel paese attraverso le montagne che sono raggiungibili grazie alle strade costruite in quell'occasione dal genio militare[58].

L'estate fu particolarmente calda e l'inverno particolarmente rigido, le perdite per malaria raggiunsero il 30% degli effettivi, e gli alpini dovettero anche subire l'umiliazione delle leggi razziali fasciste che nel giugno 1940 imposero ai reparti l'allontanamento degli ufficiali e dei soldati di origine slava e non solo quelli provenienti dalle zone annesse nella guerra del '15/'18[59], ma anche dalle terre incorporate settant'anni prima. Solo le forti proteste del generale Visconti Prasca impedirono alla Divisione Julia di essere seriamente indebolita da tale provvedimento[60].

La seconda guerra mondiale

Lo stesso argomento in dettaglio: Battaglia delle Alpi e Campagna italiana di Grecia.
File:Montenegro-1941.DivisionePusteria.JPG
Elementi della Pusteria in Montenegro nel 1941.

La seconda guerra mondiale vide gli alpini impegnati inizialmente sul confine francese durante la battaglia delle Alpi del giugno 1940, dove quattro divisioni Alpine erano schierate in zona di guerra: la Divisione Taurinense schierata sul confine alla testa della Dora Baltea, la Tridentina in seconda linea nella stessa vallata, con alcuni battaglioni Alpini costituiti all'atto della mobilitazione; in riserva erano la Cuneense e la Pusteria, rispettivamente in valle Gesso e val Tanaro. Questi reparti furono inquadrati nel Gruppo Armate Ovest forte di 315.000 uomini lungo tutto il confine[61].

Nonostante le forze preponderanti, le unità italiane furono chiamate ad operare in condizioni precarie e pregiudizievoli in quanto, soprattutto per gli alpini di origine piemontese, il disagio fu acuito dalla constatazione delle ripercussioni sociali ed economiche sulle popolazioni civili[62]. Inoltre migliaia di truppe male addestrate e mal equipaggiate di mezzi e armamenti[62] si trovarono a combattere in un terreno impervio e contro un sistema difensivo di prim'ordine attrezzato con un complesso di oltre 400 opere servite da un'ottima rete ferroviaria e stradale[62]. Il 21 giugno arrivò l'ordine di attacco, e le divisioni Tridentina, Cuneense e Pusteria furono spostate nei rispettivi teatri di scontro; la Tridentina fu spostata in prima linea assieme alla Taurinense con il compito di penetrare verso Bourg St. Maurice dal colle del Piccolo San Bernardo, mentre le altre due divisioni ebbero il compito di penetrazione nel settore Maira-Po-Stura[63]. Ma nella notte tra il 24 e 25 giugno, appena tre giorni dopo l'inizio delle operazioni per le divisioni alpine, fu firmato l'armistizio con la Francia[64].

Nell'ottobre dello stesso anno le divisioni Cuneense, Tridentina, Pusteria e la Alpi Graie[65] furono spostate sul fronte greco-albanese dove era già presente la Julia, che fu anche la prima a compiere azioni di guerra nel settore[66]. L'invio degli alpini avvenne a causa dello sfondamento del fronte difensivo italiano sulla Vojussa, l'avanzata greca minacciava di raggiungere l'Adriatico e ricacciare oltremare le truppe italiane. Solo grazie all'afflusso di reparti di rinforzo, tra cui le tre divisioni alpine, fu possibile stabilire una posizione di resistenza in grado di reggere fino alla primavera successiva[67]. La Julia venne impiegata nei primi attacchi, ma la disorganizzazione dei comandi fece sì che in appena un mese di difficoltose avanzate, la Julia fu costretta a ritirarsi e a difendersi dalle incursioni greche. A fine dicembre da 9000 uomini la Julia rimase con sole 800 unità[68]. La campagna di Grecia fu un fallimento per l'Italia, e solo l'intervento dell'alleato tedesco nella primavera 1941 diede una svolta alle operazioni. Per assicurarsi il controllo dei Balcani in previsione dell'invasione dell'Unione Sovietica, Adolf Hitler e il suo Stato Maggiore misero a punto l'operazione Marita. L'attacco italo-tedesco partì il 6 aprile e il 23 la Grecia chiese l'armistizio, armistizio che giunse dopo un enorme tributo di sangue per gli alpini, con 14.000 morti, 25.000 dispersi, 50.000 feriti e 12.000 congelati[69].

La campagna di Russia

Lo stesso argomento in dettaglio: Reparti italiani al fronte orientale.
Prigionieri italiani dell'ARMIR catturati sul fronte orientale durante il tragico inverno del 1942-1943.

Nel 1942 per decisione di Mussolini e dell'alto comando venne potenziato il corpo di spedizione inviato sul fronte orientale costituendo la cosiddetta Armata italiana in Russia (ARMIR) forte di oltre 200.000 uomini; tra questi, 57.000 costituivano il Corpo d'Armata alpino, composto dalle Divisioni Cuneense, Tridentina e Julia, per un totale di 18 battaglioni alpini, nove gruppi d'artiglieria alpina e tre battaglioni misto genio[70][71]. Invece di essere schierato sul Caucaso, come inizialmente previsto dai piani dei comandi italo-tedeschi, il Corpo d'armata alpino venne invece impiegato nella difesa del Don dove gli alpini giunsero nella prima settimana del settembre 1942 passando alle dipendenze dell'8a Armata italiana.

L'ambiente operativo del Don presentava caratteristiche assolutamente diverse da quelle in cui gli alpini erano addestrati a muoversi; una vasta pianura uniforme e priva di rilievi montuosi, dove un esercito invasore avrebbe dovuto disporre di forze corazzate e motorizzate per trarre beneficio da una fondamentale mobilità sul piano tattico[71]. Il Corpo d'Armata alpino invece disponeva di 4800 muli e 1600 automezzi che sarebbero stati largamente insufficienti anche in spazi operativi molto più ristretti; mancava inoltre tutto l'armamento anticarro, l'artiglieria contraerea e i mezzi di trasmissione, costruiti per l'impiego in alta montagna, avevano una potenza limitata e non riuscivano a stabilire i corretti collegamenti sulle grandi distanze[72]. In generale tutto l'armamento in dotazione agli alpini fu gravemente insufficiente, non furono forniti spazzaneve, né mezzi cingolati, né slitte, né lubrificanti antigelo né vestiario adeguato né armi automatiche in grado di resistere alle gelide temperature russe[72]. La destinazione del Corpo d'Armata alpino sul Don non era nato da un piano strategico e organico, ma dall'emergenza determinatasi su tutto il fronte russo nell'estate-autunno 1942 e accentuatasi nell'inverno successivo sino alla rotta dei reparti invasori nel dicembre-gennaio. Gli alpini dirottati sul Don arrivarono appena in tempo per essere schierati in prima linea, venire accerchiati dall'avanzata dell'Armata Rossa ed essere costretti a una ritirata epica e tragica nella quale caddero oltre i due terzi degli uomini[72]. Nell'insieme, agli alpini spettava un settore di 70 km, per cui non fu possibile tenere una divisione di riserva[73].

File:Il 12° Corpo corazzato a Rossosh (1943) .jpg
Le forze meccanizzate sovietiche entrano a Rossoš, sede del quartier generale del Corpo d'armata alpino il 16 gennaio 1943, durante la disastrosa offensiva Ostrogorzk-Rossoš.

Il primo periodo di permanenza in linea degli alpini fu soprattutto di "stasi operativa", senza azioni di rilievo né da una né dall'altra parte, e gli alpini si preoccuparono di garantirsi condizioni di sopravvivenza in vista dell'inverno con la costruzione di ricoveri, postazioni coperte, approvvigionamento di ogni tipo di materiale, scavati fossati anticarro, minate vaste aree e posizionamento di reticolati e postazioni di tiro[73].

Dopo aver sconfitto l'esercito rumeno, accerchiato la 6. Armee tedesca a Stalingrado nel novembre 1942 e distrutto gran parte dell'ARMIR nel dicembre, il 14 gennaio 1943 l'Armata Rossa sferrò la poderosa offensiva Ostrogorzk-Rossoš e sbaragliò le truppe ungheresi e tedesche schierate sui fianchi del corpo alpino che quindi venne rapidamente circondato dalle colonne corazzate nemiche[74]; le tre divisioni Alpine furono costrette a ripiegare con una lunghissima marcia tra le gelide pianure russe, subendo perdite altissime. Due delle divisioni (la Julia e la Cuneense) vennero infine intrappolate a Valujki e costrette alla resa, mentre i superstiti della divisione Tridentina riuscirono ad aprirsi la strada dopo una serie di disperati combattimenti, tra cui il più noto è la battaglia di Nikolaevka, riuscendo a conquistare il paese e uscire dalla "sacca"[75].

Le perdite complessive del Corpo d'armata alpino (divisioni alpine Julia, Cuneense e Tridentina e Divisione fanteria Vicenza) nella tragica battaglia superarono l'80% degli effettivi schierati sul fronte del Don: su una forza iniziale di circa 63.000 uomini si contarono 1.290 ufficiali caduti o dispersi, 39.720 soldati caduti o dispersi, 420 ufficiali feriti e 9.910 soldati feriti, per un totale di 51.340 perdite. Anche i generali Umberto Ricagno (comandante della Julia), Emilio Battisti (comandante della Cuneense) ed Etvoldo Pascolini (comandante della Vicenza) caddero prigionieri[76].

Ma né cifre né cronologie sono però sufficienti a rendere giustizia dei drammi, del coraggio e della forza dimostrati dai superstiti, dai caduti e da chi fu costretto alla resa. Assai più efficace della storiografia, la letteratura ha consegnato i fatti accaduti in Russia alla memoria futura con libri come "Centomila gavette di ghiaccio" e "Nikolajewka: c'ero anch'io" di Giulio Bedeschi (ufficiale medico), "Il sergente nella neve" di Mario Rigoni Stern e "I più non ritornano" di Eugenio Corti; tutti autori che parteciparono alla ritirata.

Gli Alpini dopo l'armistizio

Ufficiali italiani, catturati da paracadutisti tedeschi immediatamente dopo l'annuncio dell'armistizio fatto l'8 settembre 1943, a colloquio con ufficiali tedeschi.

Con la proclamazione dell'armistizio avvenuta l'8 settembre 1943 la storia degli alpini si frazionò. Molti uomini si unirono ai gruppi partigiani a nord, alcuni ai reparti Alleati che risalivano la penisola, altri entrarono a far parte della neonata Repubblica Sociale Italiana; mentre i meno fortunati finirono imprigionati nei campi sovietici o tedeschi[77]. Nella RSI fu costituita la "4ª Divisione Alpina Monterosa" cui si aggiunsero altre unità Alpine inquadrate nella "Divisione Littorio", mentre la maggior parte degli alpini decisero di combattere a fianco degli Alleati e nella resistenza[78] che operò in tutto il sud e in particolare nell'Abruzzo[79]. Vennero formate la 6ª Divisione alpina "Alpi Graje", che si scontrò duramente con i tedeschi sull'Appennino nei primi giorni successivi all'armistizio,[79] il battaglione alpini "L'Aquila" che con gli Alleati risalì tutta la penisola fino alla vittoria[80], mentre i reduci dalla Russia della Cuneense e Tridentina dettero vita a formazioni partigiane in Alto Adige[80].

Le uniche unità Alpine organizzate di cui si poterono seguire le vicende furono quelle inquadrate nell'esercito Alleato impegnato nella guerra di liberazione, come il battaglione "Piemonte", dapprima in organico al Primo Raggruppamento Motorizzato[81], che nell'aprile 1944 fu assorbito dal 3º Reggimento alpini e inquadrato nel costituendo Corpo Italiano di Liberazione[77]. Il battaglione fu impiegato nel settore adriatico sino all'agosto 1944, quando il CIL, giunto a contatto con la Linea Gotica fu sciolto per essere sostituito con i Gruppi di Combattimento[82]. Il battaglione Piemonte entrò a far parte del gruppo di combattimento "Legnano" assieme al battaglione "l'Aquila" partecipando agli scontri nella val dell'Idice e all'inseguimento dei tedeschi fino a Bergamo e Torino. Il battaglione alpini "Monte Granero", assorbito assieme al Piemonte nel 3º Reggimento, nel settembre 1944 fu inviato in Sicilia in servizio di ordine pubblico[82].

Il generale Eisenhower con il cappello da Alpino

Il dopoguerra

Lo stesso argomento in dettaglio: Alpini d'Arresto.

Il periodo di ricostruzione delle truppe alpine dopo il conflitto fu relativamente lungo; dagli iniziali due battaglioni (Piemonte e L'Aquila) all'istituzione delle cinque brigate che hanno costituito l'organico del corpo alpino fino agli inizi degli anni novanta, trascorsero circa otto anni[82]. I vincoli posti dall'armistizio furono superati solo nel 1949 con l'entrata dell'Italia nel patto Atlantico dove le forze armate si impegnavano a controllare da sole le frontiere orientali e l'ordine pubblico in tutta la penisola. Intanto nell'aprile del 1947 ricomparve il giornale "L'Alpino", anch'esso nato nel 1919 su iniziativa del tenente degli alpini Italo Balbo, poi noto esponente del fascismo. Nell'ottobre del 1948 si svolse a Bassano del Grappa la prima adunata del dopoguerra, che dopo una sosta del 1950 dovuta a ragioni tecniche, riprese senza più interrompersi[44]. Nello stesso anno venne ricostituita la scuola militare alpina di Aosta[83], mentre la Guardia alla Frontiera, istituita durante il fascismo, fu assorbita dalle truppe Alpine, dando vita alla specialità degli Alpini d'Arresto. Per presidiare le nuove opere fortificate, nei primi anni cinquanta vennero costituiti dapprima i "battaglioni da posizione", poi i "raggruppamenti da posizione" per poi passare, nel 1962, ai "reparti d'arresto". I battaglioni da posizione e i reggimenti da posizione fino al 1957 ebbero in carico tutte le postazioni di montagna e di pianura. A partire da tale data, invece, le fortificazioni di pianura restarono alla Fanteria d'Arresto, mentre quelle di montagna passarono definitivamente agli alpini.

Verso la metà degli anni cinquanta le truppe Alpine furono quindi portate a cinque brigate[84]:

  • "Taurinense", di stanza in Piemonte con il comando a Torino ed i reparti in val Chisone, val Susa e nel cuneese; bacino di reclutamento in Piemonte, Valle d'Aosta, piacentino e nelle zone appenniniche della Liguria e della Toscana;
  • "Orobica", di stanza nell'Alto Adige occidentale, con il comando a Merano ed i reparti in val Venosta e valle Isarco; bacino di reclutamento in Lombardia;
  • "Tridentina", di stanza in Alto Adige orientale, con il comando a Bressanone ed i reparti in val Pusteria e valle Isarco; bacino di reclutamento in Trentino-Alto Adige e nella provincia di Verona;
  • "Cadore", di stanza in Veneto con il comando a Belluno ed i reparti nel Cadore; bacino di reclutamento nelle province di Belluno e di Vicenza e nelle zone appenniniche dell'Emilia-Romagna;
  • "Julia", di stanza in Friuli con il comando a Udine ed i reparti in Carnia (un battaglione, "L'Aquila" distaccato in Abruzzo); bacino di reclutamento nella provincia di Treviso, in Friuli-Venezia Giulia, in Abruzzo e nella provincia di Isernia.

Negli anni '50 nacquero gli alpini paracadutisti "Monte Cervino", specialità nella specialità, che tuttora rappresentano l'élite delle truppe alpine. Altra novità fu l'istituzione dei Centro Addestramento Reclute (CAR), per la formazione iniziale delle reclute di leva.

Negli anni settanta, nell'ambito di una ristrutturazione dell'esercito per ridurre i contingenti rendendo l'istituzione militare più efficiente e moderna, le truppe alpine furono riorganizzate con l'abolizione dei reggimenti e la formazione di unità di livello superiore; le brigate[88]. Queste brigate alpine erano riunite nel 4º Corpo d'Armata Alpino[88] del quale il primo comandante nel 1952 fu il generale Clemente Primieri, che comprendeva anche unità di supporto di cavalleria, artiglieria, genio militare, trasmissioni, aviazione leggera e servizi. Compito del IV Corpo d'Armata era la difesa del settore alpino nord-orientale in caso di un attacco sferrato dalle forze del patto di Varsavia. Nell'estate 1972, per festeggiare il centenario, rappresentanze di cinque brigate alpine e della Scuola militare alpina organizzarono il cosiddetto "raid del centenario" con una marcia che da Savona, passando per Trieste, arrivò il 20 luglio a Roma[85].

Dalle truppe alpine dal 1963 era inoltre tratto il contingente che costituiva la componente italiana assegnata all'Allied Mobile Force-Land (AMF-L) della NATO, dipendente dal Comando alleato in Europa. Una piccola e mobile task force formata nell'ambito della Taurinense, formato da 1500 uomini suddivisi in tre unità: il "Gruppo tattico alpini aviotrasportabile", il "Reparto di sanità aviotrasportabile" e il "National Support Element" per il sostegno logistico del contingente[89].

Gli anni novanta

Elementi dell'8º Reggimento Alpini (Battaglione Tolmezzo) durante le celebrazioni del 2 giugno 2007.

Nei primi anni novanta, con il venire meno della minaccia sovietica, venne avviato il processo di ristrutturazione dell'esercito, che comportò per le truppe alpine la soppressione di gloriosi reparti, tra i quali anche le Brigate Orobica e Cadore e degli Alpini d'Arresto. Nel 1997 il IV Corpo d'Armata alpino fu riorganizzato nel Comando truppe alpine formato da tre Brigate (Taurinense, Tridentina e Julia), che divennero due nel 2002 in seguito alla soppressione della seconda[90]. Questa ristrutturazione vide gli alpini impegnati in un rinnovamento addestrativo e logistico che gli permise di diventare uno dei reparti più idonei agli impieghi all'estero, là dove servono uomini ben preparati fisicamente, militarmente abituati a muoversi in piccoli gruppi autonomi[91]. Per superare le difficoltà legate all'opinione pubblica contraria ad utilizzare militari di leva per missioni all'estero, nel 1995 è stato introdotto l'arruolamento di personale volontario, e questa nuova disponibilità di personale ha trasformato le brigate in un prezioso serbatoio di unità da utilizzare sia in operazioni di ordine pubblico interno (missioni "Forza Paris" in Sardegna, "Vespri Siciliani" in Sicilia e "Riace" in Calabria)[91], sia in operazioni umanitarie all'estero[91].

A partire dagli anni '90 è iniziato l'impegno delle truppe alpine nelle missioni internazionali e umanitarie all'estero. Tra queste vanno ricordate le missioni di peacekeeping in Libano (missioni "Libano 1" e "Libano 2" tra il 1982 e 1984[92]) e Albania (KFOR 1993, Alba 1997[93] e AFOR 1999), la missione operazione Provide Comfort nel Kurdistan iracheno al termine della guerra del Golfo, l'operazione Onumoz nel 1993/'94 con le brigate Taurinense e Julia inquadrate nel contingente "Albatros" in Mozambico e le missioni per il mantenimento della pace in Bosnia (operazione Joint Guard e operazione Costant Guard 1997/1998). Dalla fine degli anni '90 gli alpini hanno visto il loro impegno in Kosovo (OSCE/KVM 1998/'99[94]) dopo l'intervento della NATO e il ritiro dell'esercito serbo, e in Afghanistan (dal 2002 missione Nibbio e operazione Enduring Freedom). Questi sono i principali teatri che hanno visto operare le Penne nere a cavallo tra il novecento e gli anni duemila; e se da un lato ciò ha permesso di apprezzare gli Alpini a livello internazionale, dall'altro ha comportato la riduzione dell'addestramento prettamente alpino a favore di una versatilità d'impiego su ogni teatro mondiale[91].

Con la legge 23 agosto del 2004 nr. 226 venne decretata la sospensione del servizio militare a partire dal 1º gennaio 2005[95] e con essa la coscrizione obbligatoria. La sospensione della leva obbligatoria ha determinato la fine del reclutamento regionale e dal 2005 gli alpini vengono reclutati su tutto il territorio nazionale[95].

La missione in Afghanistan

La prima aliquota di alpini inviati in Afghanistan fu una compagnia dell'allora Battaglione alpini "Monte Cervino", giunta a Kabul nel maggio 2002.[96] Il 30 gennaio 2003 si svolse a L'Aquila la cerimonia di saluto del 9º Reggimento alpini, che di lì a pochi giorni avrebbe rappresentato il grosso del nucleo italiano inviato in Afghanistan nell'ambito dell'operazione Enduring Freedom. Il reggimento si stabilì a Khost a 300 chilometri a sud-est di Kabul, a rimpiazzo del contingente americano che aveva appena lasciato in consegna l'area[97]. Il reggimento è parte della brigata Taurinense, la prima ad arrivare a Kabul con 400 uomini con il compito di proteggere le vie d'accesso allo scalo aereo cittadino[98].

A partire dal 20 aprile 2010, fino all'ottobre dello stesso anno,[99] la Taurinense ha sostituito la Brigata meccanizzata "Sassari" alla testa del Regional Command West di Herat, il comando NATO responsabile della parte ovest dell'Afghanistan, e ha schierato progressivamente tutti i suoi reparti: i reggimenti di fanteria alpina (il di Cuneo guidato dal colonnello Massimo Biagini, il di Pinerolo agli ordini del colonnello Giulio Lucia e il 9º dell'Aquila sotto il comando del colonnello Franco Federici), i genieri del 32º reggimento di stanza a Torino e comandati dal tenente colonnello Luca Bajata e anche il 1º reggimento artiglieria da montagna di Fossano agli ordini del colonnello Emmanuele Aresu. Quest'ultimo reparto è stato impiegato soprattutto in supporto del Provincial Reconstruction Team di Herat, una struttura militare impegnata nella ricostruzione civile di quella provincia.[100]

In seguito altri reggimenti di alpini, anche non appartenenti alla Taurinense, hanno prestato servizio in Afghanistan, tra cui il 5º Reggimento alpini, il 7º Reggimento alpini e l'8º Reggimento alpini. Il 3º Reggimento alpini è stato in Afghanistan dal 3 settembre 2002 al 18 gennaio 2003[101], ritornandovi poi al comando del colonnello Lucio Gatti e rientrando in Italia, dopo sei mesi di attività, il 19 maggio 2009. In questi sei mesi sono state addestrate le forze di sicurezza afghane e, nelle valli a sud di Kabul, si sono completate due scuole, costruita da zero una struttura per la riunione dei consigli tribali e attrezzati alcuni villaggi con materiale didattico per l'istruzione e utensili per l'agricoltura, oltre che con medicinali e vestiario; grazie inoltre ai fondi raccolti direttamente in Piemonte tra la popolazione o forniti dalle amministrazioni pubbliche della regione, è stato possibile ripristinare 15 km di canali di irrigazione affiancati da altrettanti pozzi per rendere disponibile ai villaggi acqua potabile.[102][103] Il 7º Reggimento alpini, al comando del colonnello Paolo Sfarra e insieme al 2º Reggimento genio guastatori e al 232º Reggimento trasmissioni, è rientrato in Italia nel febbraio 2011, dopo aver pattugliato e organizzato basi avanzate nei distretti di Bakwa, Gulistan e Purchaman, luoghi dove è stata ricostruita una scuola femminile, pavimentata una piazza e un bazar, restaurata una moschea e una clinica medica, e costruiti pozzi per l'acqua.[104]

Fin dai primi mesi di missione in Afghanistan gli alpini hanno subito diverse perdite dovute a ordigni improvvisati e mine terrestri dirette ai convogli con cui le forze militari si spostano nel territorio.[105] Sul piano operativo, gli alpini hanno anche contribuito a rafforzare il controllo del territorio, affiancando le truppe afghane del 207º corpo nell'attacco alle roccaforti talebane.[100]

Il 4 aprile 2011 la brigata Julia è stata rilevata dalla Brigata paracadutisti "Folgore", sancendo la fine delle operazioni degli alpini in Afghanistan[106] che hanno lasciato sul campo sette soldati morti (cinque vittime di mine artigianali e due uccisi in scontri a fuoco)[105]. Gli ultimi reparti della Julia sono stati rimpatriati il 29 aprile 2011[107].

Organica

Struttura di comando del COMALP.

Le truppe alpine sono una specialità pluriarma, in quanto riuniscono reparti appartenenti alle varie armi e corpi dell'Esercito: fanteria, artiglieria, genio, trasmissioni, trasporti e materiali, corpi logistici. Quasi tutti i reparti alpini fanno capo al Comando truppe alpine (COMALP), un comando a livello Corpo d'Armata (erede del 4º Corpo d'Armata Alpino) con sede a Bolzano.

Dal COMALP dipendono:

  • due brigate alpine: la "Taurinense" con il comando a Torino ed i reparti in Piemonte e Abruzzo e la "Julia" con il comando a Udine ed i reparti in Trentino-Alto Adige, Veneto e Friuli. Le due brigate hanno struttura analoga, disponendo ciascuna di un reparto comando e supporti tattici, tre reggimenti di fanteria alpina, un reggimento di artiglieria da montagna ed un reggimento del genio[108]. La "Taurinense" è stata una delle prime unità dell'Esercito su base volontaria ed ha maturato una pluriennale esperienza nelle missioni internazionali. La "Julia" è invece l'unità dove sono più vive le tradizioni alpine, essendo stata alimentata (come la disciolta "Tridentina") prevalentemente da leva e poi VFA affiancati ai VFB. Con il passaggio al reclutamento solo volontario la differenza è pressoché scomparsa[95]. Queste unità rappresentano una delle migliori realtà dell'Esercito Italiano: le brigate "Julia" e "Taurinense" sono unità di proiezione, vale a dire rapidamente schierabili e disponibili per ogni test o impiego operativo internazionale ed hanno partecipato in primo piano con i propri reggimenti alle principali operazioni all'estero delle forze armate italiane, dall'Albania alla Bosnia, dal Kosovo all'Afghanistan[95].
  • il Centro addestramento alpino di Aosta: erede della scuola militare alpina è l'istituto preposto all'addestramento in campo sci-alpinistico dei quadri delle truppe alpine, nonché del personale di altre armi e forze armate italiane o straniere. Svolge inoltre attività agonistica di alto livello con il proprio reparto di atleti. Il centro ha alle dipendenze il 6º Reggimento Alpini, di stanza a Brunico e San Candido, che gestisce con proprio personale le aree addestrative della val Pusteria dove si addestrano reparti operativi ed istituti di formazione militare[109].
  • i supporti, notevolmente ridimensionati rispetto al passato, al 2011 sono costituiti dal reparto comando a Bolzano, che assicura il supporto logistico al COMALP; dal 4º Reggimento alpini paracadutisti, unità d'élite delle truppe alpine utilizzata per operazioni speciali.

Vi sono infine tre reggimenti di supporto (uno di artiglieria, uno delle trasmissioni e uno logistico), un tempo inquadrati in grandi unità alpine ma ora posti alle dipendenze di altri comandi. Questi reparti rimangono comunque truppe alpine a tutti gli effetti, tanto che conservano fisionomia, nome, tradizioni e soprattutto il cappello alpino.

Le unità

Stemma Comando Truppe Alpine Comando truppe alpine (Bolzano[110])
Reparto Sede Unità dipendenti
Stemma Divisione Tridentina Divisione alpina "Tridentina" Bressanone
  • Stemma Re.Co.Su.Tat. Tridentina Reparto comando e supporti tattici "Tridentina", (Bolzano)
Stemma Brigata Taurinense Brigata alpina "Taurinense" Torino
Stemma Brigata Julia.jpg Brigata alpina "Julia" Udine
Stemma Centro di Addestramento Alpino Centro addestramento alpino Aosta
Stemma 4º Reggimento Alpini 4º Reggimento alpini paracadutisti Montorio Veronese

Unità alpine inquadrate in altri comandi[95]

2º Reggimento artiglieria terrestre "Vicenza"

2º Reggimento trasmissioni

24º Reggimento di manovra alpino "Dolomiti"

La divisa

La divisa alpina era inizialmente degli stessi colori dell'esercito piemontese: giubba turchina e pantaloni bianchi, cosa che non consentiva certo una buona mimetizzazione in ambiente montano. La questione fu dibattuta tra 1904 e 1906 su sollecitazione del presidente della sezione di Milano del Club Alpino Italiano, Luigi Brioschi. Nell'aprile 1906, per un esperimento pratico, furono scelti gli alpini del battaglione "Morbegno" del 5º Reggimento, di stanza a Bergamo. L'esperimento fu un successo, e nacque così il "plotone grigio", composto di 40 uomini della 45ª compagnia del "Morbegno", che fece la sua prima comparsa ufficiale a Tirano[111].

Il cappello

Il tipico cappello degli Alpini (nel caso specifico di un soldato, in ferma prefissata, appartenente alla truppa del genio guastatori, riconoscibile dalla nappina amaranto, dal tipo e dal colore del fregio)

Il cappello è l'elemento più rappresentativo degli alpini. È composto da molti elementi atti a rappresentare il grado, il battaglione, il reggimento e la specialità di appartenenza. Il cappello ultima versione fu introdotto nel 1910.

Il 25 marzo 1873 venne adottato invece dello chepì di fanteria un cappello proprio di feltro nero di forma tronco conica (alla "calabrese") a falda larga; frontalmente aveva come fregio una stella a cinque punte, di metallo bianco, con il numero della compagnia. Sul lato sinistro, semicoperta dalla fascia di cuoio, vi era una coccarda tricolore nel cui centro era posto un bottoncino bianco con croce scanalata. Un gallone rosso a V rovesciata guarniva il cappello dallo stesso lato della coccarda e sotto questa era infilata una penna nera di corvo. Per gli ufficiali il cappello era lo stesso, però la penna era d'aquila[112].

Il 1º gennaio 1875, i comandanti di reparto assunsero la denominazione di Comandanti di battaglione e non portarono più il cappello alla calabrese che distingueva gli appartenenti alle compagnie alpine, ma indossarono il copricapo del distretto nel quale s'insediavano non avendo un ufficio proprio[112]. Nel 1880 invece della stella a cinque punte fu adottato un nuovo fregio ugualmente di metallo bianco: un'aquila "al volo abbassato" sormontante una cornetta contenente il numero di battaglione. La cornetta era posta sopra un trofeo di fucili incrociati con baionetta innestata, una scure e una piccozza. Il tutto circondato da una corona di foglie di alloro e quercia[112].

Nei primi mesi della prima guerra mondiale l'esercito italiano adottò l'elmetto "Adrian" ma gli alpini e i bersaglieri non lo vollero perché non riuscivano a collocarci sopra il distintivo, penna e piuma, e in un secondo momento lo scartarono completamente[112].

La penna

Lunga circa 25–30 cm, è portata sul lato sinistro del cappello, leggermente inclinata all'indietro, di corvo, nera, per la truppa, di aquila, marrone, per i sottufficiali e gli ufficiali inferiori e di oca bianca per gli ufficiali superiori e generali[113].

La nappina

La nappina, presente sulla sinistra del cappello, è il dischetto, a forma semi-ovoidale, nel quale viene infilata la penna. Per i gradi di sergente maggiore, sergente, graduato e militare di truppa, tale dischetto è formato di lana colorata su un'anima in legno[114]. Per gli ufficiali inferiori e superiori, la nappina è in metallo dorato e, nei reparti del Piemonte e della Valle d'Aosta, porta al centro la croce sabauda[114]. Dal grado di generale di brigata in poi, il materiale utilizzato è invece il metallo argentato.

In origine il colore della nappina distingueva i battaglioni all'interno dei vari reggimenti, per cui il 1º battaglione di ciascun reggimento aveva nappina bianca, il 2° rossa, il 3° verde e, qualora vi fosse un 4º battaglione, azzurra. I colori erano quelli della bandiera italiana, più l'azzurro di casa Savoia. In seguito si aggiunsero altre nappine con colori, numeri e sigle specifiche per le diverse specialità e i vari reparti.

Le nappine utilizzate nel corso degli anni sono le seguenti:

Fanteria alpina[114]

  • verde: 2º Rgt. Alpini (Btg. Saluzzo), 6º Rgt. Alpini (Btg. Bassano)
  • bianca: 4º Rgt. Alpini (Btg. Ivrea), 5º Rgt. Alpini (Btg. Morbegno), 7º Rgt. Alpini (Btg. Feltre) , 8° Rgt Alpini (Btg. Gemona), Centro Addestramento Alpino (Btg. Aosta)
  • rossa: 8º Rgt. Alpini (Btg. Tolmezzo), Scuola Ufficiali Aosta
  • azzurra: 3º Rgt. Alpini (Btg. Susa), 9º Rgt. Alpini (Btg. L'Aquila), Centro Addestramento Alpino (escluso Btg. Aosta), personale fuori corpo
  • azzurra, dischetto nero, "R" bianca: supporti reggimentali (CCSL reggimentali)
  • azzurra, dischetto nero, "B" bianca: Reparto Comando e trasmissioni di Brigata alpina (Taurinense e Julia)
  • azzurra, dischetto nero, "CA" bianca: Reparto Comando e compagnia alpini paracadutisti del 4º Corpo d'Armata alpino
  • azzurra, dischetto centrale nero e lettere "c/c" in bianco: Compagnia controcarri di Brigata alpina

Artiglieria da montagna[114]

  • verde, ovale nero, nr. giallo: batterie da montagna (il nr. corrisponde al nr. della batteria)
  • verde, ovale nero, "CG" giallo: Comandi di Gruppi di artiglieria da montagna (Batterie Comando e servizi)
  • verde, ovale nero senza sigle: personale fuori corpo

Genio, trasmissioni, servizi[114]

  • amaranto: genio (2º e 32º Rgt. genio guastatori) e trasmissioni (2º Rgt. Trasm.)
  • viola: Battaglione Logistico di Brigata alpina

I marescialli, gli ufficiali inferiori e superiori portano la nappina in metallo dorato. Gli ufficiali generali portano la nappina in metallo argentato.

Il fregio

Viene portato sulla parte frontale del cappello e contraddistingue la specialità d'appartenenza[115]
  • ufficiali generali: aquila con serto di alloro e scudetto con la sigla RI al centro
  • alpini: aquila, cornetta, fucili incrociati
  • artiglieria da montagna: aquila, cornetta, cannoni incrociati
  • genio pionieri: aquila, cornetta, asce incrociate
  • genio guastatori: aquila, cornetta, gladio, granata infuocata e asce incrociate
  • trasmissioni: aquila, cornetta, antenna, saette e asce incrociate
  • trasporti e materiali: aquila e ingranaggio alato''
  • sanità (ufficiali medici): aquila, stella a cinque punte con croce rossa, bastoni di Esculapio incrociati
  • sanità (sottufficiali e truppa): aquila, stella a cinque punte con croce rossa
  • amministrazione e commissariato: aquila, corona turrita, tondino viola e serto di alloro
  • corpo ingegneri: aquila, corona turrita, ruota dentata e serto di alloro
La fattura del fregio cambia in base al grado[115]
  • filo metallico dorato o plastica dorata per ufficiali, sottufficiali, e militari di truppa in servizio permanente.
  • plastica nera per la truppa a ferma prefissata.

I distintivi di grado

Sul cappello alpino i gradi sono portati sul lato sinistro, in corrispondenza della penna e della nappina, sotto forma di galloni:

Le mostrine

Le mostrine utilizzate dagli Alpini, divise secondo le diverse specialità:

L'alpino e il mulo

File:Grecia-AlpinoeMulo.JPG
Il mulo e l'alpino, in Grecia

È durato 130 anni il sodalizio tra gli alpini e i muli ma i muli furono arruolati ancor prima degli alpini, perché già dal 1831 nell'esercito del Regno sardo vennero costituite le prime batterie da montagna dotate di cannoni smontabili per il cui trasporto furono impiegati 36 muli[116]. Il loro scopo era quello di alleggerire il soldato dai peso che altrimenti avrebbe dovuto portare a spalla, e con il trascorrere del tempo l'importanza dei quadrupedi crebbe sempre di più[116].

Ma il legame tra l'alpino e il mulo si consolidò durante la Grande Guerra[116] dove divenne fondamentale per trasportare le armi e rifornire i reparti logistici in alta montagna. In breve tempo l'alpino e il mulo divennero nell'immaginario collettivo un binomio inscindibile, ed assieme agli alpini, i muli patirono la fame e il freddo durante le due guerre mondiali dove furono impegnati su tutti i fronti dove vennero utilizzate forze italiane. Anche nella seconda guerra mondiale il mulo fu protagonista se si pensa al suo impiego sul fronte greco e russo, basti pensare che il Corpo d'armata alpino partito per la steppa russa aveva in dotazione ben 4800 muli che ebbero un ruolo fondamentale soprattutto durante la ritirata in Russia[116].

«Durante il ripiegamento avevamo centinaia di slitte trainate da muli, che soffrivano con noi e non avevano da mangiare che qualche sterpaglia che spuntava dalla neve. Povere bestie, erano coperte di ghiaccio, e, rammento, la presenza di quegli animali era qualcosa di rassicurante per tutti. Infatti mentre camminavamo giorno e notte cercavamo sempre di stare vicino ad un mulo, così ognuno di questi animali aveva sempre attorno un gruppo di dieci o quindici soldati. [...] Una volta un conducente rimase ferito da una scheggia che gli fratturò la gamba ed io che ero ufficiale medico tentai di prestargli qualche cura, quando ad un certo punto il suo mulo gli si avvicinò e infilò il muso tra la terra e la nuca del ferito, in modo da sostenerlo, riscaldarlo, confortarlo. Una scena che non dimenticherò mai.»

Dal dopoguerra, per effetto della motorizzazione di praticamente tutti i reparti, è cominciato il declino nell'uso del mulo e negli ultimi anni di servizio i muli in dotazione in tutto l'esercito erano appena 700[116]. Il 7 settembre 1993 presso la caserma D'Angelo di Belluno, vennero venduti all'asta per ordine del Ministero della Difesa, gli ultimi 24 muli in forza agli alpini[117].

Una rappresentazione di cosa fu il connubio tra l'alpino e il mulo è visibile presso il museo storico degli Alpini a Trento, dove si trova un piccolo "museo del mulo". Questo raccoglie materiale da maniscalco ed equipaggiamento relativo all'inseparabile compagno delle truppe alpine.

Il motto

Il motto "Di qui non si passa"[118] fu coniato dal generale Luigi Pelloux, primo ispettore generale degli alpini, che nell'ottobre 1888, in occasione di un banchetto ufficiale per la visita a Roma dell'imperatore di Germania[119], concluse un discorso sugli alpini dicendo:

«essi simboleggiano quasi, all'estrema frontiera, alle porte d'Italia, un baluardo sul cui fronte sta scritto "Di qui non si passa"[119]»

La preghiera dell'alpino

La preghiera, nella sua forma originale, fu scritta dal colonnello Gennaro Sora, allora comandante del battaglione Edolo, a Malga Pader, in Val Venosta, proprio per la sua unità (era l'alpino che partecipò alla spedizione del generale Umberto Nobile nelle isole Svalbard al Polo Nord)[120].

Questa prima versione conteneva degli espliciti riferimenti al Duce e al Re, che col tempo furono cancellati. Il vicario generale Monsignor Giuseppe Trossi il 21 ottobre 1949 comunicò il testo rivisto e adattato della preghiera,[121] aggiungendo lo specifico riferimento alla Madonna degli Alpini. Questa preghiera doveva essere quindi recitata in sostituzione della Preghiera del Soldato al termine di ogni Santa Messa di precetto[120].

Nuovamente nel 1972 il cappellano militare capo del Servizio di Assistenza Spirituale del 4º Corpo D'armata Alpino, Monsignor Pietro Parisio, previa autorizzazione del suo generale comandante il Monsignor Franco Parisio, ottenne dall'Arcivescovo Ordinario Militare, Monsignor Mario Schierano, alcune nuove piccole modifiche alla preghiera, in modo da adattarla nel modo migliore agli Alpini delle nuove generazioni. Il testo venne ulteriormente e leggermente modificato ed infine definitivamente approvato il 15 dicembre 1985[120].

Attorno alla metà degli anni '90, il presidente dell'ANA Leonardo Caprioli ottenne dal CDN la possibilità che la preghiera possa essere recitata nella sua forma del 1949 quando siano presenti soltanto soci iscritti all'ANA, o nella sua forma del 1985, alla presenza di reparti alpini alle armi[122].

L'inno degli alpini

L'Inno degli Alpini, ovvero il Trentatré - Valore Alpino è un inno che deve il proprio nome perché era il 33º pezzo nel repertorio delle fanfare alpine dei primi reparti. Trae inoltre ispirazione da un inno francese: Les Fiers Alpins, testo scritto da D'Estel, con la musica di Travè[122].

«Dai fidi tetti del villaggio i bravi alpini son partiti,
mostran la forza ed il coraggio della lor salda gioventù.

Son dell'Alpe i bei cadetti, nella robusta giovinezza
dai loro baldi e forti petti spira un'indomita fierezza.

Oh valore alpin! Difendi sempre la frontiera!
E là sul confin tien sempre alta la bandiera.

Sentinella all'erta per il suol nostro italiano
dove amor sorride e più benigno irradia il sol.
Là tra le selve ed i burroni, là tra le nebbie fredde e il gelo,
piantan con forza i lor picconi le vie rendon più brevi.
E quando il sole brucia e scaldale cime e le profondità,
il fiero Alpino scruta e guarda, pronto a dare il "Chi va là?"

Oh valore alpin!...[123][124]»

Note

  1. ^ come lo erano per il Regio Esercito.
  2. ^ a b La nascita degli Alpini, su glialpini.com. URL consultato il 2 dicembre 2010.
  3. ^ a b c G. Oliva, p. 14.
  4. ^ a b G. Oliva, p. 17.
  5. ^ a b c G. Oliva, p. 18.
  6. ^ a b c d G. Morandi, p. 11.
  7. ^ a b c G. Oliva, p. 19.
  8. ^ a b G. Oliva, p. 23.
  9. ^ G. Oliva, p. 24.
  10. ^ a b G. Oliva, p. 28.
  11. ^ G. Oliva, p. 25.
  12. ^ a b c Storia degli Alpini, www.esercito.difesa.it, su esercito.difesa.it. URL consultato il 3 dicembre 2010.
  13. ^ G. Oliva, p. 33.
  14. ^ G. Morandi, p. 12.
  15. ^ a b c d G. Oliva, p. 34.
  16. ^ Portando la forza mobilitabile in caso di guerra a circa 45.000 uomini - vedi: G. Oliva, p. 34.
  17. ^ a b G. Oliva, p. 35.
  18. ^ G. Oliva, pp. 35-37.
  19. ^ a b c G. Oliva, p. 37.
  20. ^ a b c d G. Morandi, p. 20.
  21. ^ Il primo sbarcò a Massaua nel marzo 1887, nell'ambito del corpo di spedizione costituito dopo l'episodio di Dogali, forte di 467 uomini. Subito dopo lo sbarco il battaglione si trasferì a Moncullo dove rimase fino al 6 maggio e dopo diversi spostamenti fu rimbarcato a Napoli il 22 aprile 1888 con 445 alpini, tredici in meno stroncati dalle malattie tropicali - vedi: G. Oliva, p. 52.
  22. ^ a b G. Oliva, p. 53.
  23. ^ a b c G. Morandi, p. 22.
  24. ^ G. Oliva, p. 81.
  25. ^ G. Oliva, p. 82.
  26. ^ a b c G. Oliva, p. 84.
  27. ^ a b c d G. Oliva, p. 85.
  28. ^ G. Oliva, p. 86.
  29. ^ G. Oliva, pp. 87-88.
  30. ^ G. Oliva, p. 88.
  31. ^ a b c G. Oliva, p. 90.
  32. ^ Il timore che i tedeschi occupassero la Libia per controbilanciare le vicine conquiste francesi in Marocco e le pressioni delle grandi banche di credito interessate ai profitti derivanti da una guerra, fecero orientare la classe dirigente italiana a favore di una impresa coloniale che sarebbe dovuta essere una "rapida passeggiata militare" - vedi: G. Morandi, p. 30.
  33. ^ a b c d G. Oliva, p. 91.
  34. ^ a b c d e G. Morandi, p. 29.
  35. ^ G. Morandi, p. 34.
  36. ^ Anche combattendo in condizioni estreme come sul gruppo Ortles-Cevedale in Alta Valtellina, dove si svolse la battaglia più alta sul San Matteo a 3.678 m.s.l.m..
  37. ^ G. Morandi, p. 33.
  38. ^ a b G. Oliva, p. 105.
  39. ^ a b G. Oliva, p. 114.
  40. ^ La squadra era formata oltre che dal Sora, al centro della foto, dagli alpini, a partire da sinistra, caporali Giulio Bich, Silvio Pedrotti, Beniamino Pelissier, sergenti maggiori Giovanni Gualdi, Giuseppe Sandrini, Angelo Casari, Giulio Deriad e Giulio Guidoz..
  41. ^ G. Morandi, p. 68.
  42. ^ G. Morandi, p. 69.
  43. ^ G. Oliva, p. 146.
  44. ^ a b c La storia dell'Associazione Nazionale Alpini, su ana.it. URL consultato il 3 dicembre 2010.
  45. ^ G. Morandi, p. 48.
  46. ^ a b G. Oliva, p. 147.
  47. ^ a b c d Storia della Guardia alla Frontiera, su vecio.it. URL consultato il 3 dicembre 2010.
  48. ^ G. Oliva, p. 154.
  49. ^ Ca.STA
  50. ^ a b G. Oliva, p. 158.
  51. ^ G. Morandi, p. 74.
  52. ^ Il cappello degli alpini su glialpini.com, su glialpini.com. URL consultato il 7 maggio 2011.
  53. ^ Anche se unità Alpine parteciparono anche alla guerra civile spagnola, vestendo l'uniforme del Tercio de Extranjeros.
  54. ^ G. Oliva, p. 163.
  55. ^ Il Vecio - scheda, su vecio.it. URL consultato il 5 maggio 2011..
  56. ^ G. Morandi, p. 75.
  57. ^ G. Morandi, p. 80.
  58. ^ G. Morandi, p. 81.
  59. ^ G. Morandi, p. 82.
  60. ^ G. Morandi, p. 83.
  61. ^ G. Oliva, p. 170.
  62. ^ a b c G. Oliva, p. 171.
  63. ^ G. Oliva, p. 175.
  64. ^ G. Oliva, p. 178.
  65. ^ della quale faceva parte il cappellano militare Secondo Pollo, il beato degli alpini
  66. ^ G. Oliva, p. 181
  67. ^ G. Oliva, p. 186
  68. ^ G. Oliva, p. 184.
  69. ^ G. Oliva, p. 190.
  70. ^ I battaglioni alpini erano:Morbegno, Tirano, Edolo, Vestone, Verona, Val Chiese, Tolmezzo, Gemona, Cividale, Vicenza, L'Aquila, Val Cismon, Ceva, Pieve di Teco, Mondovì, Borgo San Dalmazzo, Dronero, Saluzzo. Mentre quelli d'artiglieria erano: Bergamo, Vicenza, Val Camonica, Conegliano, Udine, Val Piave, Pinerolo, Mondovì, Val Po. - vedi:G. Oliva, p. 196.
  71. ^ a b G. Oliva, p. 196.
  72. ^ a b c G. Oliva, p. 197.
  73. ^ a b G. Oliva, p. 200.
  74. ^ G. Oliva, p. 202.
  75. ^ G. Oliva, p. 204.
  76. ^ G. Scotoni, p. 576.
  77. ^ a b G. Oliva, p. 214.
  78. ^ G. Morandi, p. 150.
  79. ^ a b G. Morandi, p. 151.
  80. ^ a b G. Morandi, p. 152.
  81. ^ Roggero Roberto, Le verità militari e politiche della guerra di liberazione in Italia, Greco & Greco, 2006, p. 720, ISBN 88-7980-417-0. da google libri pp. 309-312.
  82. ^ a b c G. Oliva, p. 215.
  83. ^ Storia dell'SMALP 1934-1948, su smalp.it. URL consultato il 3 dicembre 2010..
  84. ^ Storia degli alpini dal sito della scuola militare alpina di Aosta, paragrafo "Il dopoguerra", su smalp.it. URL consultato il 3 dicembre 2010.
  85. ^ a b Di Mauro, p. 230.
  86. ^ Di Mauro, p. 235
  87. ^ G. Morandi, pp. 161-163-164.
  88. ^ a b G. Oliva, p. 227.
  89. ^ G. Oliva, pp. 228-229.
  90. ^ G. Oliva, p. 236.
  91. ^ a b c d G. Oliva, p. 237.
  92. ^ Libano 1 e Libano 2 su esercito.difesa.it, su esercito.difesa.it. URL consultato il 12 maggio 2011.
  93. ^ Di Mauro, pp. 233-234
  94. ^ Missione "OSCE/KVM - Kosovo" su esercito.difesa.it, su esercito.difesa.it. URL consultato il 12 maggio 2011.
  95. ^ a b c d e Storia delle Truppe Alpine su truppealpine.eu, su truppealpine.eu. URL consultato il 27 marzo 2011.
  96. ^ Di Mauro, p. 236
  97. ^ G. Morandi, pp. 169.
  98. ^ G. Morandi, pp. 170.
  99. ^ Per ventisei settimane
  100. ^ a b Gianandrea Gaiani, Afghanistan: con gli alpini arrivano i rinforzi, in panorama.it, 26 marzo 2010. URL consultato il 16 maggio 2011.
  101. ^ 3° Reggimento Alpini, in vecio.it. URL consultato il 23 aprile 2011.
  102. ^ Tornato il 3º Alpini dall'Afghanistan, in anaminerbe.it. URL consultato il 7 maggio 2011.
  103. ^ Afghanistan: rientro a Pinerolo per il 3º Reggimento alpini "taurinense", in nsd.it. URL consultato il 21 aprile 2011.
  104. ^ Conclusa la missione del 7º in Afghanistan, in ana.it. URL consultato il 6 maggio 2011.
  105. ^ a b Afghanistan, gli alpini tornano a casa, in Corriere delle Alpi. URL consultato il 20 aprile 2011..
  106. ^ Afghanistan. Cambio di guardia per il Contingente italiano, in difesa.it. URL consultato il 18 aprile 2011.
  107. ^ Alpini della Julia, missione compiuta, in ana.it. URL consultato il 6 maggio 2011.
  108. ^ La "Taurinense" è formato anche da un reggimento di cavalleria non alpino, il Reggimento "Nizza Cavalleria" - vedi: Brigata alpina "Taurinense" su anadomodossola.it, su anadomodossola.it. URL consultato il 27 marzo 2011.
  109. ^ Centro Addestramento Alpino su esercito.difesa.it, su esercito.difesa.it. URL consultato il 27 marzo 2011.
  110. ^ I dati riportato nella tabella sono tratti da: Comando truppe alpine su www.esercito.difesa.it, su esercito.difesa.it. URL consultato il 6 dicembre 2010. e da Storia delle Truppe Alpine su truppealpine.eu, su truppealpine.eu. URL consultato il 27 marzo 2011.
  111. ^ "Berretto al posto del cappello? Mai! Così fu vinta la guerra della penna" - Eco di Bergamo 22-02-2011, su ecodibergamo.it. URL consultato il 21 marzo 2011.
  112. ^ a b c d Il cappello alpino, dal sito della SMALP di Aosta, su smalp155.org. URL consultato il 3 dicembre 2010.
  113. ^ Penna e cappello alpino, su dittaspada.it. URL consultato il 3 maggio 2011.
  114. ^ a b c d e La Nappina, dal sito della SMALP di Aosta, su smalp155.org. URL consultato il 6 aprile 2011.
  115. ^ a b Il fregio sul cappello, dal sito SMALP di Aosta, su smalp155.org. URL consultato il 3 dicembre 2010.
  116. ^ a b c d e G. Morandi, p. 187.
  117. ^ "e' gara per " salvare " i muli alpini all' asta" - archivio storico Corriere della Sera, su archiviostorico.corriere.it. URL consultato il 21 marzo 2011.
  118. ^ Il motto degli alpini, dal sito della SMALP di Aosta, su smalp155.org. URL consultato il 26 marzo 2011.
  119. ^ a b G. Oliva, p. 58.
  120. ^ a b c Storia della preghiera dell'Alpino, ANA di Roncegno, su anaroncegno.com. URL consultato il 3 dicembre 2010.
  121. ^ Preghiera dell'Alpino, su atma-o-jibon.org. URL consultato il 27 marzo 2011.
  122. ^ a b Fanfara Montenero, su fanfaramontenero.org. URL consultato il 27 aprile 2011.
  123. ^ Inno degli Alpini, dal sito ufficiale dell' ANA, su ana.it. URL consultato l'11 aprile 2011.
  124. ^ Versione audio dell'Inno (WAV), su smalp155.org. URL consultato il 3 dicembre 2010.

Bibliografia

  • Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio, Milano, Mursia, 1963, p. 438.
  • Giulio Bedeschi, Il Natale degli Alpini, Milano, Mursia, p. 162.
  • Filippo Bonfant, Alpini...sempre, Milano, Musumeci, 1984, p. 256, ISBN 88-7032-176-2.
  • Franco Brunello, Le parole degli alpini, Milano, Rossato, 1987, p. 272, ISBN 88-8130-022-2.
  • Enrico Camanni, La guerra di Joseph, Torino, Cda&Vivalda, 2004, ISBN 88-7808-137-X.
  • Alfio Caruso, Tutti i vivi all'assalto, Milano, Longanesi, 2003, p. 392, ISBN 978-88502-091-25.
  • Carlo Chiavazza, Scritto sulla neve, Reggio Emilia, Città armoniosa, 1980, p. 127, ISBN 88-7001-106-2.
  • Vincio Delleani, Non vogliamo encomi: cronache del 30º battaglione guastatori nella campagna di Russia, 1942-1943, Milano, Mursia, 1996, p. 203, ISBN 88-425-2115-9.
  • Germano De Zolt, Gli alpini da AbbaGarima a Nikoljewka, Feltre, Panfilo Castaldi, 1958, p. 233, ISBN non esistente.
  • Nicola Di Mauro, ...quel cappello che onora, Milano, RCS Quotidiani, 2011, ISSN 2039-7577.
  • Emilio Fadella, Storia delle truppe alpine: 1872-1972, Milano, Cavalotti Landoni, 1972.
  • Irnerio Forni, Alpini garibaldini. Ricordi di un medico nel Montenegro dopo l'8 settembre, Milano, Mursia, 1992, p. 208, ISBN 88-425-1155-2.
  • Carlo Emilio Gadda, Giornale di guerra e di prigionia, Milano, Garzanti, 2002.
  • Dario Iovino Gavino, Le glorie delle truppe alpine nel centenario della fondazione, Chieti, Teate, 1972.
  • Giorgio Gazza, Urla di vittoria nella steppa: fronte russo 1943, gli alpini del Val Chiese a Scheljakino, Malajewka w Arnautowo, Milano, Mursia, 1996, p. 134, ISBN 88-425-2103-5.
  • Celestino Margonari, Alpini, una famiglia, Trento, Manfrini, 1983, p. 608, ISBN 88-7024-215-3.
  • Giovanni Morandi, Alpini, dalle Alpi all'Afghanistan, Bologna, Poligrafici editoriali, 2003.
  • Gianni Oliva, Storia degli alpini, Milano, Mondadori, 2010, ISBN 978-88-04-48660-2.
  • Giuseppe Paris, Alpini. Canti e immagini, Missaglia, Bellavite, 1992, p. 240, ISBN 88-86832-02-8.
  • Arrigo Petacco, L'Armata scomparsa, Milano, Mondadori, 1998.
  • Paolo Prosperio, Le battaglie degli alpini: dalle origini alla campagna di Russia, Varesina editrice, 1972, p. 207.
  • Nuto Revelli, La strada del davai, Torino, Einaudi, 1980, p. 601.
  • Mario Rizza, I nostri Battaglioni alpini, Manfrini, Calliano (Trento), 1987.
  • Mario Rizza, Le Truppe Alpine e l’Associazione Nazionale Alpini nel terzo millennio, Granzella, Genova, 2001.
  • Mario Rizza, 4º Corpo d’Armata alpino: storia dei reparti di una Grande Unità alpina, Tipografia Alto Adige, Bolzano, 1992.
  • Mario Rizza, Reggimenti delle Truppe Alpine (tre tomi), La Rosa, Crescentino, 1997.
  • Giorgio Scotoni, L'Armata Rossa e la disfatta italiana (1942-43), Trento, Casa editrice Panorama, 2007, ISBN 978-88-7389-049-2.
  • Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve, Ritorno sul Don, Torino, Einaudi, 1991, ISBN 88-80617-73-4.
  • Luciano Viazzi, 1940-1943 i diavoli bianchi: gli sciatori nella seconda guerra mondiale: Storia del Battaglione Monte Cervino, Milano, Arcana, 1984, p. 303, ISBN 88-85008-61-5.
  • Luciano Viazzi, Gli Alpini, 1872-1945, Ciarrapico, 1978, p. 301.

Voci correlate

Altri progetti

Collegamenti esterni

Wikimedaglia
Wikimedaglia
Questa è una voce in vetrina, identificata come una delle migliori voci prodotte dalla comunità.
È stata riconosciuta come tale il giorno 19 maggio 2011 — vai alla segnalazione.
Naturalmente sono ben accetti suggerimenti e modifiche che migliorino ulteriormente il lavoro svolto.

Segnalazioni  ·  Criteri di ammissione  ·  Voci in vetrina in altre lingue  ·  Voci in vetrina in altre lingue senza equivalente su it.wiki