Parte Storica
Parte Storica
Le società contemporanee del mondo occidentale hanno debiti importanti nei confronti
degli eventi storici e culturali maturati nei secoli XVII e XVIII in Inghilterra, America e
Francia. In quel periodo entrarono in con itto due mondi, due culture politiche: quella
dell’Antico Regime e quella della Rivoluzione liberale. In quel periodo si veri carono tre
rivoluzioni: la Gloriosa Rivoluzione Inglese del 1688 da cui nacque il Bill of Rights del
1689; la Rivoluzione Americana del 1775 da cui nacque la Dichiarazione d’Indipendenza
del 1776 e la Costituzione Federale del 1787 e la Rivoluzione Francese del 1789 da cui
nacque la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 e la Costituzione del
1791. Si trattò di un rivolgimento di importanza sociale nel quale idee e progetti diversi si
sostennero tra i due lati dell’oceano Atlantico e con ovvi esiti costituzionali diversi dovuti
alle di erenti culture e tradizioni ma tutti basati sulla forza distruttrice delle strutture
d’origine feudale. Per arrivare però alle Rivoluzioni è doveroso conoscere i caratteri del
periodo che precedette questo stravolgimento della società. Tale periodo era de nito
Antico Regime.
Il termine Antico Regime fu coniato da Alexis de Tocqueville ed era un impasto di
assolutismo e feudalesimo perché il potere assoluto del sovrano cercava di sopra are i
tanti poteri e privilegi particolari d’origine feudale: della nobiltà, del clero, delle città, dei
ceti e delle professioni. Questi a loro volta resistevano ai tentativi di uni cazione
monarchica del regno.
Al potere del re si contrapponeva in e etti una miriade di contropoteri di derivazione
feudale che la monarchia assoluta non era ancora riuscita a scon ggere: molti corpi
intermedi distinti per condizione sociale (gli “Stati” di quell’epoca, cioè la nobiltà, il clero e
il Terzo Stato), per professione (le corporazioni) e per territorio. Ciascuno aveva una
propria organizzazione, una propria cultura e un proprio stile di vita. Dunque la società di
quel tempo era il risultato di strati cazioni sociali, ciascuna delle quali formava un “ceto”.
La monarchia, nonostante venne de nita assoluta, non raggiunse mai una forza
su ciente imporsi; il monarca era un personaggio bivalente perché doveva ora allearsi
con la borghesia per scon ggere la nobiltà, ora con la nobiltà per scon ggere la
borghesia e per ingraziarsi gli uni e gli altri distribuiva favori a tutti. Il potere del re aveva
dunque dei limiti, ma a questi non corrispondevano diritti dei singoli, ma privilegi dei corpi
sociali in cui i singoli erano inseriti. I singoli godevano di uno Status corrispondente alla
loro collocazione nella struttura sociale. Era lo Status che faceva da scudo e chi non lo
aveva era soggetto all’arbitrio altrui.
La struttura feudale della società di traduceva così in un particolarismo giuridico poiché le
leggi generali si scontravano con le norme e consuetudini sociali e locali. Vi erano poi i
cosiddetti privilegi nobiliari, “corvée”, cioè l’obbligo per i contadini di destinare un certo
numero di giornate di lavoro ai nobili del posto. La società era perciò cristallizzata poiché
non vi era la possibilità di cambiare il proprio status di appartenenza, con l’eccezione
della Chiesa dove ci fu n dall’inizio la possibilità di intraprendere la “carriera
ecclesiastica”. Per no la cultura era divisa. Era dunque una tipica società chiusa, la cui
rappresentazione politica complessiva si poteva contemplare quando il re convocava gli
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Stati generali, cioè l’assemblea dei ceti che rispecchiava la struttura del regno. La
convocazione era saltuaria e dipendeva dalla volontà del re dare sfogo alle richieste
particolari dei sudditi nei c.d. cahiers de doleance e chiedere loro sacri ci nanziari per
fronteggiare il dissesto dei conti pubblici e sostenere la magni cenza della vita di corte. In
cambio vi era la concessione di nuovi privilegi o la conferma di quelli antichi. Questo stato
di cose non era sostenibile a lungo, essendo contrario alle esigenze derivanti dallo
sviluppo economico. Al cambiamento erano interessati sia il re, per poter aumentare le
entrate dello Stato attraverso la tassazione, sia gli imprenditori borghesi per a rancarsi
dalle vessazioni dei signori locali. In economia fu attuata la politica detta mercantilismo,
che mirava all’aumento della ricchezza pubblica, a una bilancia dei pagamenti attivi per
rendere forte lo Stato. Soprattutto grazie a Jean-Batiste Colbert (ministro dell’economia)
si operò per la modernizzazione dell’apparato produttivo, incoraggiando le attività private
importanti per lo stato e difendendole dalla concorrenza estera per mezzo di barriere
doganali (protezionismo). Era l’inizio dell’economia moderna, rivolta alla produzione
intensiva di beni per lo scambio, anziché alla produzione di beni necessari per
l’autoconsumo. Questa trasformazione del sistema economico indebolì progressivamente
i ceti meno intraprendenti quali la nobiltà e il clero, ra orzando così il Terzo stato e creò
vasti ambiti di circolazione delle merci, i mercati, ponendo con ciò le premesse storiche
concrete per l’abbattimento della società dei ceti e degli Status. In politica la monarchia
tentò di dare al regno una struttura centralizzata e più compatta; questa politica è
all’origine dello Stato moderno, una politica iniziata al tempo dell’assolutismo regio e
portata a compimento dalla rivoluzione francese. L’obiettivo era lo Stato nazionale
accentrato dipendente da un’unica volontà sovrana che si irradia ovunque da un centro
(la capitale) alla periferia, attraverso una rami cazione di funzionari. In questo periodo
nacque la burocrazia e i funzionari assunsero poco alla volta un proprio status legale. La
burocrazia, così come oggi, rappresentava il volto dello Stato nel rapporto con i cittadini.
Le nuove esigenze economiche e politiche trovarono la loro sistemazione ideologica nella
loso a razionalistica dell’Illuminismo. I “lumi della ragione” mostravano con evidenza
l’assurdità delle cristallizzazioni sociali dell’Antico Regime. La nuova società esigeva
uguaglianza davanti alla legge, mobilità sociale e possibilità per ogni individuo di cercare
la propria strada nella vita e come condizione di tutto ciò diritto a un governo basato sulla
volontà dei cittadini. Ne risultò un completo rovesciamento dei fondamenti costituzionali
della vita politica. Nell’antico regime i fondamenti si pensava di trovarli in cielo, nella
volontà divina. L’illuminismo li vedeva sulla terra. Fu proprio la Rivoluzione Francese del
1789 che portò a compimento questo percorso storico, cioè la vittoria dello Stato
moderno sui residui feudali.
La rivoluzione apparì, a chi la sapeva guardare in profondità, come il compimento
dell’assolutismo perché, come questo, si proponeva di (e a di erenza di questo riuscì)
realizzare pienamente lo Stato sovrano, cioè lo stato non condizionato da gruppi sociali
indipendenti. Lo stato sovrano è quello che si denomina Stato Moderno.
La forza sociale che svolse il compito storico di scon ggere i residui della società feudale
fu il Terzo Stato, cioè la borghesia, interessata alla propria promozione politica ed
espansione economica. L’abate Sieyes fu colui che diede voce a questo progetto politico
sottolineando che no ad allora il Terzo stato era stato nulla ed era giunto il momento che
diventasse qualcosa. In realtà il Terzo stato era già qualcosa poiché era rappresentato agli
Stati generali, ma essendo diventato l’ossatura economica e culturale di quell’epoca,
esigeva di poter esercitare politicamente, cioè attraverso il Governo dello Stato. Il terzo
Stato poneva la sua candidatura non per divenire qualcosa, ma per diventare tutto. La
cultura dell’Illuminismo diede a tale classe la forza e l’unità per agire contro una società
che aveva perso ogni giusti cazione ed era divenuta agli occhi di tutti illegittima ed
arbitraria e la Rivoluzione fu il mezzo per portare a compimento tale progetto e
distruggere la società chiusa e frammentaria dell’Antico Regime.
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La prima e fondamentale a ermazione della Rivoluzione è che la società non è l’insieme
dei ceti, ma è l’insieme degli individui, uno per uno, “atomisticamente” considerati, i quali
vivono in associazione sotto una legge comune, uguale per tutti. I gruppi privilegiati non
possono far parte della nazione e della società proprio a causa del loro vivere secondo
una legge di favore. Nasce anche il concetto di “cittadino” (concetto sconosciuto
nell’antico regime). I cittadini sono gli individui che appartengono a una società in cui
domina la legge uguale per tutti. Perciò il carattere fondamentale della cittadinanza è
l’uguaglianza di fronte alla legge: i cittadini costituiscono la nazione, non in virtù di ciò che
li distingue ma in virtù di ciò che li accomuna. Quanto detto mostra l’ambiguità del
concetto rivoluzionario di nazione. Da un lato esso illumina il singolo individuo come
personaggio principale della scena politica e sociale, ma dall’altro sottolinea il vincolo di
soggezione che accomuna tutti gli individui in una superiore totalità, la nazione, regolata
da una legge suprema, un concetto in cui convivono due aspetti, uno individualistico e
uno organistico. Identi candosi con la nazione, il Terzo stato propose se stesso come
classe egemone per distruggere i corpi sociali antagonisti e l’assunzione della posizione
centrale avvenne attribuendo alla nazione il carattere della sovranità che al tempo della
monarchia assoluta spettava al re. La proclamazione della sovranità nazionale realizzo
una rivoluzione rispetto alle concezioni della monarchia assoluta. Il monarca assoluto era
tale per diritto divino e rispondeva alle sue azioni davanti a Dio e all’autorità che lo
rappresenta in Terra cioè la Chiesa. Da qui la commistione tra trono e altare che aveva
caratterizzato l’antico Regime. La sovranità nazionale rovesciò questa impostazione,
fondando ogni potere politico sulla nazione sovrana ed espellendo l’autorità religiosa
dagli a ari dello Stato. La religione divenne questione privata dei singoli. In questa
sostituzione consiste la secolarizzazione della politica che trova ora il suo fondamento
nella volontà degli uomini e non in quella presunta di Dio e in quella e ettiva del Papa. Si
apriva in questo modo la strada per l’estremizzazione autoritaria della sovranità nazionale,
alla quale vennero attribuiti gli stessi caratteri che aveva il sovrano nell’Antico regime,
ovvero l’onnipotenza e l’infallibilità.
La distruzione delle gerarchie sociali proprie del feudalesimo e la proclamazione della
nazione sovrana furono le premesse di un’innovazione rivoluzionaria: l’accentramento di
ogni potere politico nell’assemblea elettiva che incondizionatamente rappresentava la
nazione. La rivoluzione, infatti, isolò la politica dalla società e la rese onnipotente perché
la concentrò in un solo luogo, liberandola da ogni ostacolo. Al contempo però diede alla
politica un’organizzazione razionale, riconoscendo ai cittadini la possibilità di strutturarla
come meglio avessero creduto e di indirizzarla ai loro scopi. Il passaggio dagli Stati
Generali all’Assemblea Nazionale portò a compimento il progetto di distruzione dei ceti e
dei corpi intermedi che avevano in passato frenato il potere assolutistico. Questo
passaggio rivoluzionario fu compiuto formalmente l’8 gennaio 1790 con le dichiarazioni di
nullità dei mandati imperativi che legavano i singoli deputati degli Stati generali alle
istruzioni particolari ricevute dai loro elettori poiché essi erano contrari alla natura
dell’assemblea legislativa. L’Assemblea di Parigi si trasformò così in un Parlamento
moderno con il compito di rappresentare unitariamente la nazione francese.
L’onnipotenza del parlamento era il ri esso dell’onnipotenza della Nazione. La società
francese venne così assoggetta al nuovo potere politico. L’Assemblea Nazionale non era
però un’assemblea democratica, ma rappresentativa.
Democrazia diverso da Rappresentanza.
La democrazia come potere del popolo richiede identità tra governanti e governati;
la rappresentanza si basa invece sulla separazione degli uni dagli altri. Il
rappresentante è colui che si sostituisce e parla in nome di un altro e con i suoi atti
lo obbliga come se fosse lui stesso a compierli; la democrazia è invece decisione
del popolo che riguarda se stesso, si può dir e che è un regime basato sull’identità.
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La democrazia può essere diretta o indiretta a seconda che sia il popolo sesso o i
portavoce a legiferare. Il regime rappresentativo presuppone al contrario che si consideri
il popolo incapace di gestire i propri interessi e si pone quindi la necessità di qualcuno
che agisca al suo posto. Il funzionamento del regime rappresentativo richiede che vi sia
un gruppo di persone (classe politica) che si dedichi a tempo pieno alla politica. Tra i
personaggi di spicco del tempo vi erano coloro che erano a favore di questo regime come
Montesquieu e Sieyes e altri contrari come Rousseau che propugnava la democrazia
indiretta. In particolare si riteneva che il popolo non avesse tempo da dedicare alla
democrazia perché unicamente impegno nelle attività produttiva; la democrazia era
possibile solo quando gli uomini potevano contare sugli schiavi come ad Atene. Per
questo occorreva un gruppo di uomini politici che, in una sorta di divisione del lavoro, si
occupasse della gestione dello Stato e che permettesse agli altri di dedicarsi agli a ari
che producono ricchezza della nazione. La separazione del lavoro politico da quello
economico era vista dunque come una manifestazione della progressiva specializzazione
dei compiti che la nuova civiltà europea, orientata alla produzione intensiva di beni per il
consumo e lo scambio, richiedeva con evidenza.
L’assemblea dei rappresentanti agiva in nome della nazione. La volontà dell’assemblea
era concepita come espressione della volontà generale che non conosce di erenze tra i
suoi destinatari. Dalla rivoluzione francese in poi, la legge non è più l’accordo particolare
tra un principe e le diverse categorie di suoi sudditi, ma un comando assoluto che viene
da una volontà sovrana e non ha di fronte a sé contraenti, ma sottoposti obbligati a
osservarla. Nella legge, insomma, si esprime la concentrazione illimitata del potere
politico. Disponendo di così alto potere il legislatore rivoluzionario potè compiere ciò che
il monarca dell’Ancien Regime aveva iniziato a realizzare, ovvero l’uni cazione giuridica
dello Stato. Da qui deriva il carattere generale della gente che pone tutti i cittadini tutti
sullo stesso piano; infatti la legge generale coincide con l’uguaglianza di tutti i cittadini di
fronte alla legge. E’ importante notare che questo principio che appare come una
conquista della civiltà moderna presuppone da un lato un potere politico non
condizionato e dall’altro un insieme indi erenziato di destinatari, trattati in ugual modo.
Dunque il principio dell’uguaglianza giuridica è bivalente: da un lato esso può tradursi in
uguaglianza nella pari libertà, cioè in una società aperta, oppure dall’altro in uguaglianza
nella pari soggezione a un potere incontrastato e perciò chiuso. L’uguaglianza è dunque
premessa non solo di libertà per tutti, ma anche di massi cazione sotto un potere
tirannico. Qui sorge il nocciolo della critica alla Rivoluzione che considera l’uguaglianza la
premessa del dispotismo di massa.
La libertà comporta per i singoli la possibilità di gestire i propri interessi attraverso patti
reciproci, cioè contratti. La società individualistica è una società basata sui contratti.
Attraverso i contratti si rende possibile non solo la libera circolazione delle merci e quindi
la creazione del mercato, fondamento della libertà economica, ma anche la
determinazione delle posizioni sociali, che però, a di erenza degli Status, ora era
revocabili. L’insieme dei rapporti tra i singoli che si scambiano promesse contrattuali
costituisce la c.d. società civile, il risultato di rapporti orizzontali che si costituiscono
facendo uso della libertà che spetta ai singoli e dai quali è esclusa l’autorità del Stato.
Nasce ora dunque la distinzione tra diritto privato e diritto pubblico. A questo punto però
occorre fare una precisazione: l’uguaglianza di cui si parla ora era unicamente da un
punto di vista giuridico e di conseguenza considerava uguali situazioni e persone molto
diverse tra loro (es. ricchi e poveri) e così facendo giusti cava indirettamente la
sopra azione sociale dei più forti sui più deboli. Poiché trattare situazioni diverse in modo
uguale è ingiustizia, il pensiero socialista considererà la nozione rivoluzionaria di libertà
formale come lo strumento di giusti cazione delle prepotenze sociali e richiederà allo
Stato di non restare estraneo di fronte alle disuguaglianze, ma di intervenire per cercare di
correggere tale squilibrio e di tutelare i deboli.
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Il rapporto tra lo Stato e la società civile fu impostato dalla Rivoluzione limitando lo Stato
e garantendo i diritti individuali. I diritti furono concepiti come dotazioni naturali derivanti
dalla natura stessa degli uomini e non come creazioni dello Stato. Il dovere primo dello
Stato era dunque garantire tali diritti. Questa concezione fu il contributo più evidente della
loso a illuministica che concepiva la fondazione della società a partire dagli individui e
dai loro diritti e non viceversa. Lo strumento per realizzare tale concezione era la
Costituzione, intesa come garanzia contro gli abusi del potere. L’intento primario della
Costituzione è di stabilire una linea di difesa dell’autonomia della società dall’intervento
dello Stato. Ma prima di tutto è signi cativa l’idea stessa di Costituzione, documento
scritto, approvato dai rappresentati dei cittadini. La costituzione in un certo senso
dichiara le regole del gioco politico. La costituzione così intesa era una novità
dell’illuminismo; nei secoli precedenti non vi era stato nulla di simile. La “costituzione”
dell’Antico regime non era un testo giuridico scritto, ma una condizione materiale
condizionata dall’equilibrio delle forze storicamente determinate. Con la rivoluzione la
parola costituzione cambia signi cato: è un progetto razionale, chiaro, scritto in un
documenti conoscibile da tutti che deve servire a moderare lo scontro tra le forze. Lo
stato dunque è solo u mezzo e non un ne in sé stesso. La politica era così sottoposta ai
diritti naturali e alla costituzione che li proclama. Per la prima volta nella storia il potere
viene sottoposto a una regola giuridica, la Costituzione. In passato valeva la “Rex facit
legem”, la dottrina della Rivoluzione liberale rovescia la formula in “Lex facit regem”. Il
potere politico è dunque posto sotto il diritto e la sua legittimità dipende da fatto che
rispetti i limiti stabiliti giuridicamente. La preoccupazione è di evitare il potere arbitrario.
Ciò corrisponde alle aspettative di quello che si denomina Stato di diritto. Gli organi dello
Stato erano dunque sottoposti alla legge, ad eccezione del legislatore che poteva
cambiare a piacere la legge. Si trattava dunque di una realizzazione parziale perché non
eliminava completamente i pericoli per la libertà dei cittadini. Ma nel clima culturale della
Rivoluzione, l’Assemblea nazionale era l’organo amico dei cittadini perché rappresentava
la volontà generale e non si pensava minimamente alla possibilità che il suo potere
potesse trasformarsi in oppressione.
Il documento che sancì i diritti naturali era la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino del 26 agosto 1789. Era un proclama rivolto a tutta l’umanità, contro ogni genere
di arbitrio e oppressione. E’ sotto la sua in uenza che nel diritto costituzionale degli Stati
europei è stata accolta la nozione di diritti fondamentali dell’uomo (basti pensare al “gli
uomini nascono e restano liberi e uguali nei loro diritti” ripresa dalle Nazioni Unite il 10
dicembre 1948). Lo scopo di ogni società politica è la conservazione dei diritti naturali e
imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la
resistenza all’oppressione. La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non danneggia
gli altri; conformemente a questa visione lo Stato deve limitarsi a garantire l’esercizio della
libertà, astenendosi da ogni intervento a fare di questo o quel cittadino. La proprietà poi
era concepita in funzione della libertà, ne era una condizione. Si riteneva infatti che
l’individuo che dovesse dipendere per lo soddisfacimento dei suoi bisogni materiali ad
altri non avrebbe avuto l’autonomia su ciente a dare sostanza alla libertà. Nei secoli
successivi questo rapporto si invertirà e la proprietà verra usata per sottomettere altri
individui (prole e lavoratori).
Nel corso del XIX secolo i socialisti combatteranno l’astrattezza di queste proclamazioni
in nome di un ideale di giustizia concreta e sostenendo che gli uomini nascono schiavi e
l’obiettivo da raggiungere è la loro liberazione.
La garanzia della libertà sarebbe stata vana se il potere di governo fosse stato
concentrato in un unico organo dello Stato. Dunque la costituzione doveva prevedere una
forma di governo basata sulla separazione dei poteri. La teorizzazione della separazione
dei poteri è di Montesquieu. Egli la enuncia a proposito di quello che chiama il governo
temperato, cioè il contrario di governo assoluto. Il governo temperato aborriva sia il
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dispotismo dei sovrani assoluti, sia l’estremismo che si manifesta nelle assemblee sciolte
da ogni limite e freno (fase giacobina della Rivoluzione). Attraverso la separazione dei
poteri, la sovranità si articola in tre parti: il potere di fare le leggi, legislativo, il potere di
eseguirle, esecutivo, e il potere di applicarle nei giudizi, giudiziario. La separazione
tuttavia condurrebbe rapidamente alla lotta tra i poteri e alla ne all’anarchia se non vi
fosse un principio uni catore: indipendenti sì l’uno dall’altro, ma coordinati tra loro.
Questo principio uni catore era la legge. In un certo senso si comprende allora come, pur
entro la separazione dei poteri, vi sia la supremazia del potere legislativo, ma non nel
senso che l’organo legislativo possa dominare gli altri organi, bensì nel senso della
preminenza della legge sugli atti esecutivi e giurisdizionali. Era questo il principio di
legalità, un principio che troverà la sua massima espressione nel XIX secolo, attraverso la
creazione di apposite procedure di controllo sulla legalità. La supremazia della legge su
tutti gli altri atti dello Stato signi cava però che il legislatore a sua volta non incontrava
alcun limite giuridico. L’antica sovranità regia, con la Rivoluzione, si era trasferita così
nelle aule dell’Assemblea Nazionale. Era una contraddizione poiché si aspirava a un
regime politico moderato, ma vi era la presenza di un potere di legislazione assoluto.
Nacque questa contraddizione perché nel 1789 il ne non era quello di garantire un
assetto politico e sociale già esistente, in cui i diritti avessero già trovato il loro posto e la
loro garanzia, ma rovesciare l’assetto sociale dell’Antico Regime. La legge non poteva
esprime equilibrio, ma doveva concentrare potenza. Il legislatore rivoluzionario non
poteva che essere un legislatore onnipotente e quindi, per i nemici della rivoluzione,
anche opprimente, capace di riscrivere da capo tutte le norme del vivere civile. Si spiega
così l’apparente paradosso della Francia, paese dei diritti dell’uomo e del cittadino, ma
anche dell’onnipotenza del legislatore. Fino a quando non si fosse compiuta l’opera di
rinnovamento della società nel senso dei diritti dell’uomo, il legislatore doveva dominare
con la sua forza incontrastata. Da questo punto di vista occorre distinguere la tradizione
francese da quella americana, iniziata proprio nel medesimo periodo con un’altra
rivoluzione costituzionale.
Rivoluzione Americana
L’Italia non ha vissuto un’esperienza analoga a quella delle rivoluzioni liberali. L’in uenza
però è stata notevole, ma indiretta, mediata dalle conquiste napoleoniche, dalla
divulgazione dei principi rivoluzionari a opera degli illuministi italiani e dall’azione politica
dei gruppi progressisti che si richiamavano ai “principi dell’89”. L’a ermazione di questi
principi avvenne in modo graduale attraverso compromessi con l’Antico Regime. La
cosiddetta “rivoluzione liberale” in Italia fu una vicenda complessa, protrattasi per vari
decenni, nel corso dei periodi detti della Restaurazione e del Risorgimento. In Italia non vi
fu un evento storico determinante che abbia segnato la ne del vecchio e l’inizio del
nuovo, bensì l’intreccio tra innovazione e tradizione fu il carattere più evidente della storia
sociale e politica nel corso dell’Ottocento. In Italia il ripristino degli antichi regimi sotto i
sovrani legittimi e delle gerarchie sociali tradizionali (nobiltà, clero e corporazioni), dopo la
ventata napoleonica, aveva cancellato le istituzioni rivoluzionarie ispirate ai principi della
sovranità nazionale e delle libertà individuali. I sovrani della Restaurazione tennero conto,
avvalendosene per i propri ni, della centralizzazione del potere politico che era stata la
grande realizzazione della Rivoluzione francese. Non fu possibile però cancellare le nuove
esigenze economiche e sociali che in Italia covavano ora sotto la cenere. Esse erano
radicate nella parte più viva della cultura di allora ed erano destinate a ria acciarsi in moti
insurrezionali. La restaurazione reazionaria si aprì così poco per volta alla restaurazione
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liberale. Si realizzò il c.d. Stato di Polizia (ove polizia signi cava - da polis - “buon
governo dello Stato”). La “restaurazione liberale” fu lo Stato di polizia con in più il
riconoscimento alla borghesia della possibilità di in uire sulla politica accanto al sovrano.
Anche l’atto più signi cativo di questo periodo, la concessione dello Statuto Albertino
(insieme alle altre costituzioni piemontesi che ebbero vita breve) fu solo una riforma
interna alla monarchia restaurata, a favore della borghesia. Fu un evento molto meno
rivoluzionario di quanto spesso si dice. Fu un impasto, un compromesso tra il vecchio e il
nuovo e solo progressivamente il nuovo prevalse sul vecchio. L’assenza di una rivoluzione
liberale nel nostro paese è uno degli aspetti ai quali gli storici sono propensi ad attribuire
un grande signi cato, nella comprensione dei caratteri della nostra società. Lo Statuto
Albertino venne concesso il 4 marzo 1848. Si trattava di una Carta costituzionale
unilateralmente concessa (dal francese octroyée ovvero ottriata) dal sovrano ai sudditi.
Nell’origine unilaterale dello Statuto sta un’essenziale di erenza rispetto alla Costituzione
rivoluzionaria elaborata in Francia dall’Assemblea Nazionale. Lo statuto era espressione
di un potere sovrano che resta nelle mani de re: la Costituzione francese proveniva invece
da un nuovo sovrano - l’Assemblea - che aveva spodestato quello vecchio. Lo Statuto
non fece nascere un nuovo regime politico, poiché non vi fu la sostituzione del sovrano:
espresse solo la sua volontà di autolimitare il proprio potere, senza metterne in gioco il
fondamento. Lo Statuto infatti venne concesso da un Re che fu indotto dalle condizioni
storiche che erano venute a determinarsi in tutta Europa nel corso del 1848, anno dei
grandi movimenti sociali in cui per la prima volta si accendono moti rivoluzionari in nome
del socialismo. Essi si svilupparono dalle penose condizioni delle masse operaie che
l’organizzazione capitalistica (con lo sfruttamento intensivo della manodopera,
l’introduzione delle macchine e la disoccupazione crescente) rendeva progressivamente
peggiori. Fu proprio del 1848 il Manifesto del Partito comunista di Karl Marx e Friedrich
Engels: si puntava a un sovvertimento del sistema sociale attraverso l’abolizione della
proprietà privata e la presa di potere da parte del popolo. La grande paura di un generale
sconvolgimento sociale che avrebbe travolto le gerarchie tradizionali saldò
occasionalmente in un unico patto difensivo i vecchi ceti dominanti e la classe emergente
(borghesia). Per queste ragioni, lo Statuto fu in Piemonte il patto difensivo di queste forze.
Tuttavia le forze dell’Antico Regime dovettero cedere molto alla forza innovatrice
(borghesia) per il timore di perdere tutto. Lo Statuto fu il superamento delle forme
assolutistiche e l’instaurazione di una monarchia costituzionale isolò le tendenze più
radicali. Lo Statuto riuscì così a legare alle nuove istituzioni i conservatori illuminati e gli
innovatori moderati.
Lo Statuto di Carlo Alberto assomigliava ed era ispirato alle carte venute alla luce durante
la restaurazione liberale, come quelle francesi del 1814/1830 e quella belga del 1831. Più
che di una semplice copiatura si trattava del prodotto di un movimento storico-politico di
dimensione europea: il liberalismo moderato, che aveva assunto posizioni precise su due
aspetti fondamentali: i diritti dei cittadini e l’organizzazione dei poteri costituzionali. La
proclamazione dei diritti era ispirata, con molta moderazione, alla Dichiarazione dell’89.
Lo Statuto a ermava l’uguaglianza di fronte alla legge e la parità di accesso alle cariche
pubbliche; proteggeva la libertà individuale e vietava gli arresti e i processi arbitrari;
vietava le violazioni della libertà di domicilio; proclamava la libertà di stampa, il diritto di
riunione, il diritto di associazione e il diritto di proprietà dichiarandolo inviolabile, pur
prevedendo l’espropriazione dietro indennità, nel caso di pubblico interesse dichiarato
dalla legge. Lo Statuto si esprimeva in modo meno deciso in materia di libertà religiosa,
anche se rispetto alle persecuzioni del passato contro le minoranze rappresentava un
progresso. La religione cattolica era proclamata la sola religione dello Stato. Gli altri culti
erano semplicemente tollerati. In tutte queste libertà vi era però il costante rinvio alla
legge come strumento per limitare i diritti apparentemente riconosciuti a tutti. Ciò
corrispondeva a una visione classista dei diritti costituzionali, perché la legge non era la
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volontà di tutti ma di una ristretta oligarchia in cui la borghesia esercitava un ruolo
egemone. Perciò la garanzia dei diritti non valeva ugualmente per tutti ma solo per coloro
che disponevano del potere di legiferare in materia. Per questi la legge era una garanzia,
per gli altri una potenziale minaccia. I diritti dell’89 erano proclamati in astratto, per tutta
l’umanità: le carte liberali dell’Ottocento erano invece la proclamazione dei diritti della
vincente borghesia. Si temeva infatti che i diritti riconosciuti incondizionatamente
potessero agevolare la sovversione sociale e l’instaurazione del regime democratico. Il
riconoscimento dei diritti era così subordinato alla difesa della società liberale e delle sue
gerarchie sociali. Lo Statuto parlava il linguaggio di una società aperta, ma si permetteva
che una società chiusa si a ermasse tra le sue piaghe. La società che ne sarebbe
derivata era a due strati: era aperta per coloro che appartenevano alle classi dominanti
che avevano accesso allo stato e partecipavano alla legislazione, mentre chiusa per le
classi subalterne, prive del diritto di voto e quindi escluse dallo Stato. Come sostenevano
i critici di questo tipo di costituzioni “si dava con una mano - lo Statuto - ciò che con
l’altra - la legge - ci si preparava a togliere”.
L’organizzazione del potere prevista dallo Statuto corrispondeva allo schema della
monarchia costituzionale o rappresentativa come esprimeva l’articolo 2. Con
l’espressione monarchia costituzionale non si intendeva qualunque governo monarchico
avente una Costituzione, ma il governo vagheggiato dai liberali moderati. Esso consisteva
nell’introduzione, accanto ai principi tradizionali dell’Antico Regime (monarchia e
aristocrazia), di un terzo principio, cioè la rappresentanza elettiva della borghesia. Per
questo motivo le monarchie costituzionali si dissero anche monarchie rappresentative. Il
punto di riferimento della Restaurazione liberale fu il sistema di governo inglese con il Bill
of Rights del 1689. Questo testo fondamentale della storia inglese rappresentava il patto
tra il Parlamento e il nuovo sovrano, Guglielmo d’Orange, chiamato al trono dal
Parlamento stesso e aveva dovuto promettere, come condizione, di rispettarne tutte le
clausole. Tra queste vi era il divieto per il sovrano di sospendere le leggi e la loro
esecuzione e di dispensare della loro osservanza. Con queste semplici proposizioni, una
grande rivoluzione costituzionale era realizzata: il re veniva a essere collocato anch’egli
sotto la legge. La legge, a sua volta, era il prodotto dell’accordo dei tre massimi organi
politici: il re, la camera dei Lord e dei Comuni. Il regime inglese, sul continente europeo,
era considerato dai suoi ammiratori come Montesquieu, Cavour e Massimo d’Azeglio,
come il solo che potesse assicurare un regime libero e moderato allo stesso tempo, a
di erenza di quello francese dove un solo organo (Assemblea nazionale) aveva
monopolizzato tutto il potere legislativo. Lo Statuto Albertino dunque si fondava
sull’esempio inglese, ovvero su tre principi monarchico, aristocratico e democratico, ai
quali corrispondevano i tre organi: il re, il Senato e la Camera dei Deputati. Fra questi tre
organi era suddivisa la massima autorità politica, quella di fare le leggi. Ciò non ha a che
vedere con il principio della tripartizione e separazione dei poteri, principio che comporta
che funzioni diverse siano attribuite a organi diversi. Lo Statuto prevedeva non la
separazione, ma la compartecipazione dei massimi organi della Costituzione, ciascuno
dei quali era rappresentativo di una parte della società del tempo. Erano escluse peraltro
le grandi masse popolari che non avevano diritto di voto; ragione per cui il sistema di
governo statutario non era democratico ma oligarchico e censitario. Si trattava dunque di
un governo misto, dove in mancanza del consenso di uno dei tre organi non vi era legge
possibile. In questo modo le diverse componenti della società avevano il potere di veto
sulle altre. La teoria del governo misto presuppone una concezione moderata della
politica, che mira alla stabilità e all’equilibrio. Malgrado questo schema tripartito, la
monarchia costituzionale funzionò come regime dualistico. Il senato, organo di nomina
regia, era infatti espressione di certi ormai in declino. Il dualismo Re-camera elettiva fu la
manifestazione dell’opposizione tra l’assolutismo, impersonato dal re e il liberalismo,
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impersonato dai deputati delle camere. Il governo costituzionale dell’Ottocento si basò
dunque sul re e sulla Camera.
Nella camera dei Deputati, formata elettivamente, si realizzava il principio democratico. Il
su ragio universale veniva considerato un pericoloso portatore di tendenze rivoluzionarie
incompatibili coni carattere moderato dello Statuto. Le condizioni dell’elettorato attivo
consistevano nel saper leggere e nel pagare una certa imposta sul reddito (40 lire). Il
primo requisito veniva giusti cato sostenendo che la partecipazione alla vita dello Stato
non era adatta a coloro che erano privi di cultura e quindi non facevano parte
dell’opinione pubblica. Il secondo era giusti cato dal fatto che i nullatenenti non avevano
nulla da difendere. Lo stato si confermava così come a are dei proprietari e dei produttori
di reddito. Inoltre, dal voto erano escluse le donne perché si pensava avessero espresso il
parere dei parroci o dei mariti. Si comprende così il carattere fortemente oligarchico di
quel sistema. Nei decenni successivi furono attuate varie riforme elettorali, con l’intento di
allargare il su ragio e coinvolgere nello Stato strati sociali via via più vasti. La riforma
elettore del 1912 ad opera di Giolitti introdusse il su ragio universale maschile e ciò
segnò l’avvento del cosiddetto Stato pluriclasse.
Nello Stato liberale non esistettero partiti politici nel senso attuale. La destra e la sinistra
erano semplici aggregazioni parlamentari di deputati che rappresentavano esigenze e
presentavano programmi a ni, le quali operavano al momento delle elezioni come
comitati elettorali e poi servivano a coordinare il voto dei parlamentari alla camera dei
deputati. Non avevano dietro di sè alcun apparato stabile e organizzato. Al più i deputati
come singoli avevano i loro clienti (clientelismo) e qualche volta si manifestò quello che si
disse partito governativo (=partito che per vincere le elezioni mobilitava il governo
distribuendo favori e corrompendo). La camera dei Deputati era dunque composta di
singole persone, più o meno illustri, elette in quanto tali e non in quanto espressione di
organizzazioni politiche. Inoltre, non esistendo veri e propri partiti, i singoli parlamentari
potevano facilmente passare da uno schieramento all’altro (trasformismo).
La monarchia costituzionale era continuamente esposta al rischio di dissoluzione qualora
fossero sorti contrasti insanabili. Questa formula politica (dualismo) esigeva la
collaborazione tra le due parti, il re e la Camera, ma la parte politicamente più in uente
avrebbe potuto prendere il sopravvento. Ciò accadde nelle prime applicazioni dello
Statuto quando la Camera assunse il ruolo decisivo e il re si adeguò. Gli elementi decisivi
di questa evoluzione sono stati:
• La con gurazione del potere esecutivo come espressione della maggioranza
parlamentare = secondo lo Statuto spettava al re il potere di nominare e revocare i
ministri, ma già a partire dagli anni 50 questi avevano bisogno della ducia della camera
che divenne così il centro propulsore della vita politica e il governo divenne espressione
della Camera. Attraverso questa evoluzione in senso parlamentare dello Statuto si riuscì
a neutralizzare le forze reazionarie che erano ora obbligate a giocarsela in Parlamento.
• L’estromissione del re dalla funzione legislativa = la volontà parlamentare non poteva
divenire legge senza la “sanzione” del re, ovvero senza il suo consenso. Ma ben presto
il potere del re si sottomise a quello della camera.
Il re non si ridusse però a ricoprire un ruolo puramente formale, non mancò infatti di far
sentire il proprio peso quando erano in gioco interessi vitali della monarchia. Fu quindi
una sorta di potere di riserva per supplire alle di coltà di funzionamento della camera e
per difendere lo Stato e lo statuto dagli eccessi delle tendenze radicali. Questa funzione
di riserva fu manifestata nel 1849 quando la maggioranza assunse un atteggiamento
contrario al re che aveva rmato la pace con l’Austria. Secondo il re Vittorio Emanuele II la
guerra era un suicidio, perciò invio un proclama alle camere (Proclama di Moncalieri) con
il quale dispose il loro scioglimento.
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Nello Statuto, come in tutte le carte costituzionali dell’Ottocento, era contenuta
un’ambiguità fondamentale, ovvero a chi dovesse attribuirsi il potere politico ultimo. Ci
furono varie interpretazioni:
- Il re nel momento in cui concedeva sovranamente lo statuto ria ermava la propria
sovranità.
- Lo statuto attribuiva il potere politico massimo ai tre organi di vertice: la Corona, il
Senato e la Camera. In un certo senso allora la sovranità attribuita a un solo organo
elevato al di sopra di tutti era stata abolita.
- La terza interpretazione fu avanzata da Cavour due giorni dopo la concessione dello
Statuto. Egli sostenne che il re era legato allo Statuto dal suo carattere irrevocabile e
perpetuo, ma d’altro canto al Parlamento e al re insieme era consentito qualsiasi
potere, anche quello di modi carlo attraverso il loro accordo espresso in legge. Questa
concezione sottintendeva una visione contrattuale dello Statuto, come patto tra il re e
la nazione. Questa concezione indicava la via di un equilibrio non statico, ma aperto
alle esigenze dell’innovazione politica.
La ripartizione della sovranità tra la rappresentanza parlamentare e il re signi cava che il
loro accordo, realizzato nella legge, poteva tutto. Con una legge si poteva quindi per no
contraddire e modi care lo statuto. In ciò consisteva la sua essibilità, carattere comune
alle costituzioni dell’Ottocento. Lo stato dell’Ottocento non era lo stato della supremazia
della Costituzione, ma lo stato della supremazia della legge. Tale ragione risiede nel
carattere monoclasse dello stato liberale, nel quale l’egemonia era detenuta dalla
borghesia e le altre componenti sociali o erano in declino o escluse. In questa situazione,
una concezione dello Statuto come Costituzione rigida non aveva senso. Il regime liberale
oligarchico era interessato a disporre di tutti gli strumenti legislativi necessari per
mantenere l’ordine sociale, potenzialmente minacciato dalle masse popolari, e una
Costituzione rigida avrebbe impedito la possibilità di limitare i diritti fondamentali. La
legge poteva quindi comprimere le libertà, poteva addirittura sospendere lo Statuto in
situazioni di emergenza. La Costituzione essibile era insomma il ri esso di una società
non democratica, in cui esisteva una divisione profonda tra dominanti e dominati. Lo
Statuto era così la carta di un’oligarchia e non di tutto il popolo.
Il XIX secolo è il periodo storico caratterizzato da una classe di uomini che a ermava la
propria potenza attraverso il predominio economico. Il mercato era il luogo ideale di tale
competizione, luogo delle contrattazioni, degli scambi e della formazione dei prezzi sulla
base della legge della domanda e dell’o erta. Il compito dello stato liberale era garantire
le condizioni di questa competizione, cioè garantire la libertà del mercato. Per questa
ragione lo Stato dell’Ottocento era de nito uno Stato-Gendarme (guardiano notturno). In
questo contesto, centrale era il diritto di proprietà. Tuttavia, la proprietà dell’Ottocento
non era più quella cui pensavano gli illuministi del secolo precedente. Per i rivoluzionari la
proprietà era al servizio della libertà, mentre per la borghesia liberale era al servizio del
potere. Per i primi la proprietà era un diritto di tutti, per i secondi era la posta che i più
abili sapevano conquistare. L’individualismo e l’egoismo del nuovo sistema economico
liberarono notevoli energie che l’economia dell’Antico regime aveva tenuto ferme. Lo
stato liberale eliminava i vincoli all’iniziativa economica dei privati.
È in questo periodo che parliamo per la prima volta di liberismo e di liberalismo. Il
liberalismo è una dottrina politica che difende la libertà degli uomini. Il liberismo è la
dottrina della libertà economica dei proprietari e dell’astensione dello Stato da misure
correttive, redistributive tali da alterare la libertà del mercato. Si tratta di due teorie diverse
che la borghesia liberale del XIX secolo ha confuso, riducendo il liberalismo a liberismo,
sostenendo che la libertà si identi ca con la libertà economica. Ciò portò alla miseria
delle grandi masse popolari, estromesse dalla vita civile. Il liberismo fu dunque la causa
della questione sociale che dalla metà del secolo in poi minacciò la stabilità del regime
politico liberale. Il problema politico che l’Ottocento ha lasciato in eredità al XX secolo è
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stato la composizione di quella grande divisione sociale. I tentativi di venire a capo della
contrapposizione sociale furono compiuti seguendo due direzioni.
La prima è quella di un’evoluzione in senso democratico del regime liberale, cioè nel
tentativo di superare la tensione attraverso l’avvicinamento delle parti, l’apertura dello
Stato a tutti.
La seconda è stata di tipo autoritario. Essa mirava a contenere le tensioni attraverso la
repressione delle forze sociali in strutture e ruoli rigidamente ssati.
L’uni cazione politica della penisola avvenne estendendo a tutta l’Italia l’organizzazione
costituzionale e amministrativa del Piemonte. Per poter sottoporre a controllo regioni e
popolazioni diversissime tra loro, questa stabilì alleanze con i notabili locali che erano
stati mantenuti al loro posto e che collaborarono con i piemontesi per garantire i loro
antichi privilegi contri le classi popolari. L’impasto tra piemontesismo e notabilato locale
fu una delle cause della decadenza della vita politica. Il Parlamento cessò
progressivamente di essere il luogo di espressione. Gli a aristi abbondavano, il Governo
se ne assicurava il consenso e l’appoggio con la corruzione. Il sistema parlamentare si
trasformò in un regime e il Governo invece di essere tutore dei diritti dei cittadini
diventava strumento per a ermare interessi di parte.
Le tensioni sociali che si veri carono alla ne dell’Ottocento avrebbero potuto forse
essere a rontate democraticamente in un Parlamento davvero rappresentativo di tutti gli
strati sociali, ma così non fu: anche l’allargamento del su ragio che si ebbe nel corso del
XIX secolo non arrivò a inserire le masse popolari nel Parlamento. Tra la ne
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento lo stato parlamentare fu soppiantati da un sistema
che faceva perno sull’esecutivo e sui suoi apparati. Il governo sostituì il parlamento nel
tentare di integrare i diversi gruppi e l’esecutivo, essendo espressione di gruppi ristretti e
cioè la borghesia e la burocrazia, non poteva che adottare una politica autoritaria e
repressiva nei confronti degli stati popolari. Si trattava dunque di un’involuzione
autoritaria gestita dalle classi dirigenti liberali che si dimostrarono così disposte a
contraddire il loro liberalismo pur di non dover ridimensionare il potere acquisito,
aprendosi alla democrazia.
L’ultima parte del XIX secolo non fu l’epoca dei diritti individuali, ma del potere dello
Stato. Fu questo il tempo dello Stato-potenza, sia sul piano dei rapporti internazionali che
su quello della politica interna. Dietro questo Stato vi erano gruppi di dirigenti che
avevano bisogno di ordine interno e di espansione nelle zone del mondo più facilmente
assoggettabili agli interessi delle nazioni industrializzate. Al colonialismo dei privati dei
secoli precedenti si sostituisce in quest’epoca l’imperialismo o meglio il colonialismo di
Stato. Lo stato viene ora assolutizzato e viene concepito come una persona giuridica
nella quale si inseriscono tutte le articolazioni politiche in cui la società si esprime. Questo
mutamento si manifesta nella corrispondente trasformazione dei diritti individuali.
Secondo l’attuale costituzione i diritti sono concepiti com patrimonio dei singoli che
l’autorità doveva solo riconoscere, in quanto innati della persona. Il regime autoritario di
ne secolo a erma invece che ogni diritto è creato dallo Stato e prima di esso non vi è
nulla. I diritti naturali sono così soppiantati dai diritti positivi.
Prevalenza dell’esecutivo, assolutizzazione dello stato come organismo onnicomprensivo
e a evolimento dei diritti sono tre elementi di grande importanza che con uiranno nella
costruzione dello Stato fascista.
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