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Il documento è un'introduzione ai biocarburanti, esplorando le fonti di energia, la differenza tra energie rinnovabili e non rinnovabili, e i problemi legati ai combustibili fossili. Viene discusso il potere della fotosintesi e vari tipi di biocarburanti, come etanolo e biodiesel. Il libro è destinato a un pubblico giovane e mira a educare sui temi energetici e ambientali.

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Biofuels David Armentrout Patricia Armentrout

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Biofuel
David and Patricia Armentrout
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Library of Congress Cataloging-in-Publication Data

Armentrout, David, 1962-


Biofuels / David and Patricia Armentrout.
p. cm. -- (Let's explore global energy)
ISBN 978-1-60472-321-2
1. Biomass energy--Juvenile literature. I. Armentrout, Patricia, 1960- II.
Title.
TP339.A76 2009

662'.88--dc22

2008025133

Printed in the USA


CG/CG

www.rourkepublishing.com – [email protected]
Post Office Box 3328, Vero Beach, FL 32964

1-800-394-7055
2
Table of Contents
Chapter 1 Energy 4
Chapter 2 Energy Sources 8
Chapter 3 Renewable vs Nonrenewable 10
Chapter 4 The Problem with Fossil Fuels 12
Chapter 5 Back to the Future 18
Chapter 6 Biomass 22
Chapter 7 The Power of Photosynthesis 24
Chapter 8 Biofuels 26
Chapter 9 Ethanol Fuel 28
Chapter 10 Corn Ethanol 30
Chapter 11 Sugarcane Ethanol 32
Chapter 12 Energy Crops 34
Chapter 13 Biodiesel 36
Chapter 14 Biogas 40
Chapter 15 Biopower 42
Chapter 16 The Energy Puzzle 44
Glossary 46
Index 48

3
CHAPTER ONE

Energy

We all use it. In fact, we use it every day. It


powers our machines, heats our buildings, and lights
our homes. Without it, transportation in our modern
world would be nearly impossible. What is it? You
probably already guessed that it is energy. Energy
powers our lives. Energy is the ability to do work,
and we use it to produce everything we have.

Finding enough
energy to meet the
demands of an energy
hungry world is one of
the biggest challenges
facing us today.

4
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responsabile, non poteva credersi autentica, e deputando oratori a
Gaeta per convincere Pio IX a ritornare in Roma. Naturalmente le
deputazioni non vennero ricevute al confine napoletano: invece
Cavaignac, dispotico presidente della repubblica francese, dopo le
giornate di giugno, annunciò l'invio di tre fregate francesi nel porto
di Civitavecchia per assicurare il pontefice. Il governo provvisorio,
protestando contro questa minaccia, adoperò per supremo
argomento non avere Pio IX nell'immacolata grandezza dell'animo
proprio invocato contro la patria intervento armato straniero e non
essere mai per invocarlo; ma poco dopo il pontefice, rifiutando ogni
componimento, mandava invece da Gaeta un appello a tutte le
potenze cattoliche per farsi rimettere in trono.
I costituzionali di Roma, troppo simili ai moderati milanesi delle
cinque giornate, per orrore dell'imminente rivoluzione, non volevano
a nessun costo recedere dalle speranze di rappattumamento con
Gaeta, e nominavano un'altra commissione di governo con questo
precipuo incarico. Mentre nel popolo cresceva il fermento
rivoluzionario, nei governanti si cristallizzava rapidamente la fede nel
costituzionalismo del pontefice, malgrado la sua fuga e le violenti
proteste. I circoli fremevano; i ricchi clericali fuggivano come sotto la
tempesta; una incomprensibile incertezza sconvolgeva tutti gli spiriti.
Era impossibile non precipitare a governo radicalmente democratico,
e nullameno non se ne aveva il coraggio. Scarso nelle masse il
sentimento liberale; quasi nullo il repubblicano; pochi ma unanimi, i
forestieri italiani attirati in Roma dall'istinto storico del grande
avvenimento mestavano dovunque, arringando ed oprando,
persuadendo e minacciando; solo il principe di Canino per vanità
tribunizia parlava alto di costituente; solo il Mamiani, antecessore e
successore del Rossi, resisteva apertamente, domandando
l'espulsione come per stranieri di De Boni, di Ciceruacchio e di
Maestri, energici capi-parte repubblicani, e proponendo la
convocazione di un'assemblea italiana per compilare il patto federale
di tutti i singoli stati.
Un'onda di piazza superò quest'ultima trincea di costituzionali,
travolgendo il ministero. Quindi il 20 dicembre 1848 la Giunta
suprema di stato proclamò la Costituente Romana, sottomettendone
immediatamente la legge ai Consigli, che non osarono nè accettarla
nè respingerla: la legge importava che l'assemblea rappresentasse
con pieni poteri lo stato romano e vi desse compiuto, regolare e
stabile ordinamento; che le elezioni si facessero per suffragio
universale diretto: elettori tutti i cittadini di ventun anni, eleggibili
tutti gli altri di venticinque, duecento i deputati.
Questo schema arditamente democratico cadde come una bomba sul
timido parlamento già tanto assottigliato dalle renunzie dei più timidi
deputati, onde la Giunta ne chiuse la sessione, ordinando la
convocazione della Costituente per decreto.
Ma neanche questo decreto schiettamente rivoluzionario bastò a
guarire il governo provvisorio presieduto da monsignor Muzzarelli
dalle equivoche speranze di un componimento col papa: le pratiche
diplomatiche proseguirono con Gaeta, mentre con arbitrio assennato
ed intrepido si affrettavano le abolizioni dei fedecommessi e delle
disposizioni fiduciarie, si riformava la procedura civile, si regolava la
navigazione dei fiumi e delle coste marittime, si sopprimeva la tassa
del macinato e finalmente, quasi ad accenno di regime giacobino,
s'instituiva una commissione militare senz'appello pei delitti contro
l'ordine pubblico. Solo all'esercito, che avrebbe dovuto essere la
prima cura in quella difficile ora di guerra coll'Austria vittoriosa ed
invadente, non si pensava affatto: appena appena s'inscrissero 1330
reclute. Al decreto invocante la Costituente le provincie si scossero e
tutti i legati ecclesiastici o laici vi si dimisero: i costituzionali si
ritirarono sdegnosi, i rivoluzionari si levarono, i sanfedisti occulti
spiarono con perfida attesa la catastrofe.
La Corte pontificia di Gaeta sembrò disinteressarsi da ogni
questione, abbandonando il partito costituzionale e scagliando la
scomunica contro elettori ed eletti, mentre a Roma un gretto
municipalismo aiutato dallo Sterbini mirava inutilmente a contrastare
l'espansione e il significato della proclamata costituente. Infatti il suo
carattere era al tempo stesso giobertiano e montanelliano, giacchè
alcuni deputati dovevano sedervi come nazionali ed altri come
romani, questi costituire un governo nell'antico stato pontificio, quelli
combinare un assetto federale italiano. La fisima della dieta come
carattere essenziale nella rivoluzione vi persisteva, ma l'inconscio
sentimento unitario di Roma capitale d'Italia ne santificava l'assurda
momentanea impossibilità. Se l'accordo federale non era riuscito tra i
principi, fra questi e le repubbliche e coll'Europa già disposta a
ricondurre sul trono il pontefice diventava addirittura paradossale:
nullameno le pratiche seguivano attivamente, contrastandosi nelle
intenzioni e nei disegni del Gioberti e del Montanelli.
A Gaeta invece s'arrabattava il lavoro delle diplomazie: il Borbone
badava abilmente a conservare il papa, traendo dalla sua ospitalità
una specie di assolutoria alle infamie commesse; il Piemonte offriva
Nizza e la propria mediazione per riconciliarlo con Roma; Cavaignac,
per amicarsi il partito cattolico francese nell'imminente elezione
presidenziale, moltiplicava le promesse, invitando Pio IX in Francia;
la Spagna gli aveva già esibito le isole Baleari e tutta se stessa. Poi il
Piemonte, trascinato dall'inesorabile duplicità del proprio giuoco,
domandava al papa di presidiare Roma in nome suo con truppe
sarde, stipulando simultaneamente col governo provvisorio di potere
militarmente occupare le provincie romane per le necessità
dell'imminente seconda guerra coll'Austria, e più tardi, pregato
d'alleanza da questo, la negava per riguardo al pontefice;
finalmente, ributtato dalla diplomazia papale, dichiarava caso di
guerra il minacciato intervento spagnolo in favore del papa. Ultima la
Prussia proponeva come accordo fra l'Austria e la Francia, che quella
occupasse il nord e questa il sud dello stato pontificio.
Fra questa temperie si tennero le elezioni e il giorno 5 febbraio 1849
s'adunò nel palazzo della Cancelleria la Costituente.

La seconda campagna
piemontese.

I primi esperimenti repubblicani dovevano quindi coincidere


coll'ultima guerra regia, senza ottenere migliore risultato.
Mentre duravano in tutti i gabinetti politici d'Europa le trattative di
una mediazione tra l'Austria e il Piemonte e quella tirava
astutamente in lungo per assodarsi all'interno contro i pericoli della
rivoluzione e della Dieta di Francoforte, a Torino ministero,
parlamento e popolo farneticavano d'entusiasmo rivoluzionario e di
reazione dinastica. Migliaia e migliaia di rifuggiti vi si agitavano nella
febbre della rivincita; i repubblicani accusavano violentemente il re, i
regi svillaneggiavano la democrazia sfiduciata e sfiduciante, i giornali
palleggiavano accuse e denunzie contro tutto e su tutti. Vero è che
alla guerra il Piemonte era stato insufficiente meno ancora per
difetto di ordini militari che per sincerità di sentimenti e per
contraddizione di propositi; che i lombardi dopo gli eroismi delle
cinque giornate erano cessati dall'opera; che a Venezia si era stati
altrettanto fiacchi alla battaglia che incerti nella politica; che i ducati
avevano fatto quasi da spettatori; che la Toscana aveva levato
appena due reggimenti; che il papa e il Borbone avevano ritirato i
propri. Ai delirii della fede patriottica erano naturalmente succeduti i
fanatismi dell'incredulità pessimista: il passato di Carlo Alberto
pareva spiegazione a tutti i suoi ultimi tradimenti immaginari, mentre
spiegava fin troppo i tradimenti veri: le speranze di aiuti europei
dileguando, invece d'irrobustire il patriottismo col senso tragico del
pericolo, scassinavano tutti i disegni e prolungavano
ignominiosamente ogni querimonia.
Le ultime proposte franco-inglesi di mediazione, importando la
remissione del Lombardo-Veneto all'Austria, invelenivano egualmente
le cupidigie conquistatrici dei costituzionali piemontesi e i sentimenti
italiani dei democratici. Nella tempesta parlamentare i ministeri
passavano come fantasmi: quello obliquo del Casati soccombette
all'altro del Perrone, cui successe il Gioberti. Si voleva la riscossa
malgrado le tetre confessioni di Dabormida, già ministro della
guerra, sullo stato dell'esercito. Il ministero avrebbe voluto
prepararla convenientemente; Brofferio invece coi più caldi la
chiedeva subitanea, inspirata, condotta «da ardimento, ardimento,
ardimento». La Lombardia calpestata e taglieggiata strillava, i ducati
parevano scrollarsi impazienti. Genova arditamente rivoluzionaria e
malata di antico odio municipale al Piemonte minacciava d'insorgere;
il congresso di Bruxelles, ultimo tentativo di componimento
diplomatico, non dava risultati: l'Italia si credeva con ingenua
vanteria ancora integra di forze e salda di propositi. Certo che in
quello di riprendere le ostilità si sarebbe dovuto profittare delle
nuove crisi interne dell'Austria, tagliando corto ai raggiri e alle
procrastinazioni colle quali essa mirava ad assonnare l'Italia; ma la
guerra avrebbe così dovuto essere popolare e nazionale, e il
Piemonte monarchico non poteva per necessità di egoismo
consentirvi.
Per prendere fiato, il ministero sciolse la Camera, che in quella
esacerbazione degli spiriti ritornò con numero preponderante di
impazienti contro i moderati. Intanto le costituenti di Firenze e di
Roma, cacciando il granduca e il pontefice, crescevano autorità alla
parte democratica, mentre il loro urto col Piemonte, condannato a
non vivere e a non progredire che costituzionalmente, diventava
sempre più inevitabile, e la scissione dei principii politici vietava
anche più dolorosamente gli accordi necessari ad un ultimo sforzo di
guerra nazionale. All'apertura del parlamento ministero e re
parlarono audacemente di rivincita, ma l'ora propizia era già
trascorsa. L'Austria, opponendo i Magiari agli Slavi e questi a quelli, li
aveva entrambi soverchiati: Vienna aveva richiamato l'imperatore;
Praga cedeva; la corte, promettendo una costituente, ammansiva i
rivoluzionari; le individualità autonome dell'impero resistendo al
moto unitario della Dieta di Francoforte, davano buon giuoco alla
politica austriaca; la Prussia, abbandonando la Dieta, lasciava
timidamente cadere l'idea unitaria piuttosto annebbiata che rivelata
dalle troppe discussioni. Se i disastri al rompere della guerra avevano
quindi dato spirito alle potenze per insultare l'Austria, i nuovi
successi di questa persuadevano invece a sostenerla: tutte le
rivoluzioni nazionali soccombevano alla medesima fatalità, tutte le
democrazie si appalesavano del pari insufficienti.
Le pretese del Piemonte sul Lombardo-Veneto non sembravano
perciò alle diplomazie che ridicole bravate di un vinto senza gloria, e
l'unità italiana un sogno di poeti guasto da corruttele di rivoluzionari
e da violenza di banditi. La reazione monarchica vincitrice in tutta
Europa si riuniva ora intorno al papato abbattuto dalla repubblica
romana, per rialzarlo, facendo della ripristinazione di Pio IX come il
proprio epilogo trionfale. Infatti Gioberti stesso, capo di un ministero
allora democratico, sbigottito dall'accordo di tutte le potenze ad
intervenire nella questione romana, precipitava alla più assurda delle
decisioni, insistendo presso il pontefice e il granduca Leopoldo per
rimetterli in trono con armi piemontesi. Sarebbe stata la guerra civile
della monarchia contro la democrazia, del Piemonte contro l'Italia, e
questo all'indomani del congresso federativo. Il papa ricusò, il
parlamento urlò al fratricidio. Gioberti caduto dal ministero dovette
esulare, per difendersi invano in un ultimo libro sul Rinnovamento
civile, eloquente imbroglio di filosofia e di politica, apologia infelice e
suprema contraddizione di un grande spirito, cui la sventura
dell'esilio nobilmente sofferto ridiede l'onorabilità perduta nei troppi
mutamenti di opinione e nelle teatrali vanità della vita.
Intanto la necessità della guerra stringeva il nuovo ministero Colli. Si
era lasciato con incredibile negligenza esausto l'erario; quindi si
bandiva la leva in massa degli emigranti lombardi senza osare di
estenderla a quelli dei ducati, perchè, soggetti allo statuto,
avrebbero dovuto sopportarla per legge, e la legge mancava:
miserabile pedanteria di procedura costituzionale! Non si ardiva per
sospetti di rivoluzione mobilitare la guardia nazionale: nessuna
fortificazione difendeva ancora i passi del Ticino. Era e doveva essere
la seconda fase della guerra regia. Le diplomazie tenevano il broncio;
l'Italia invece vi era concorde di sentimento, ma senza quella eroica
disperazione che avrebbe potuto fare il miracolo di una vittoria. La
politica ambigua aveva isolato il Piemonte: principi e repubbliche
diffidavano egualmente delle sue intenzioni e della sua capacità:
Lorenzo Valerio, spedito a Firenze e a Roma per chiedere concorso
d'armati e di danaro, vi ottenne festose accoglienze, ma scarsi aiuti;
anche questi, tardi invocati, non poterono muoversi che troppo tardi,
quando già la guerra era sciaguratamente perduta.
A generalissimo Carlo Alberto nominava il polacco Chrzanowski,
ignoto ai soldati e all'Italia, più inetto degli inetti che doveva
comandare. Così un soldato straniero doveva in questa seconda
guerra regia vincere per l'Italia, mentre il popolo piemontese vi
rimarrebbe tranquillo spettatore secondo il monito supremo di Carlo
Alberto, e il resto del popolo d Italia era pregato di aiutare il re.
Quindi la guerra intimata dal Piemonte si accende alla frontiera.
Schwarzenberg, ministro d'Austria, ne rigetta la responsabilità su
Carlo Alberto, Radetzki con senile ed ammirabile iattanza grida al
proprio esercito: — a Torino! — e, sguarnendo tutto il Lombardo-
Veneto troppo paralizzato dal terrore per pensare a insorgere, si
precipita all'offesa. L'esercito piemontese, disperso sopra una
lunghissima linea da Parma a Novara coll'ostinato errore della
campagna antecedente, presenta poca resistenza: Venezia tardi
avvisata non può circuire il nemico, avvicinandosi ad un'ala sarda: a
Roma il proclama di guerra giunge prima di colui che dovrebbe
portarlo. Poi Lamarmora, occupando la Lunigiana senza avvertirne il
governo toscano, è da questo trattato come nemico e con
inconcepibile insania minacciato di una insurrezione a Genova: Carlo
Alberto spintosi a cavallo oltre il Ticino, poichè nessuno risponde alla
sua chiamata, deve retrocedere. Ma Radetzky la mattina dello stesso
giorno (20 marzo 1849), nel quale spirava l'armistizio, passa il
Gravellone lasciato indifeso da Ramorino con inesplicabile
disobbedienza punita poi come tradimento, coglie i piemontesi a
Mortara, li batte, e due giorni dopo li prostra a Novara. La guerra è
finita: Chrzanowski vi si è mostrato ridicolo nella sconfitta, Carlo
Alberto quasi magnanimo coll'abdicare sul campo la corona al figlio
Vittorio Emanuele.
Questi, inaugurando così tragicamente il proprio regno, potè
nullameno salvarlo ed assicurarsi l'avvenire col mantener fede allo
statuto contro tutte le minacce del vecchio maresciallo: ma i patti
imposti dal vincitore furono umilianti: occupazione di 20,000 soldati
austriaci sul Po, la Sesia ed il Ticino durante l'armistizio; scioglimento
dei corpi volontari, richiamo della flotta dall'Adriatico, ordine del
nuovo re ai soldati piemontesi, che fossero in Venezia, di rimpatriare
sotto pena d'essere esclusi da ogni capitolazione.
Era l'ignominia d'un ultimo tradimento imposto contro la grande città
un'altra volta tradita.
E Vittorio Emanuele dovette consentirvi, sebbene la sua corona non
corresse pericolo, come si disse più tardi per scusare il patto infame.
Infatti per quanto grande la vittoria dell'Austria e misero lo stato del
Piemonte e rovinante la condizione d'Italia, una conquista che
portasse nella Savoia i confini dell'impero austriaco era
assolutamente impossibile. La Francia sola sarebbe bastata ad
arrestare l'Austria sulla via di Torino, mentre il Borbone ed il papa
stesso avrebbero protestato per non perdere ogni loro ultima
autonomia, e Russia, Prussia, Inghilterra si sarebbero tosto
accordate alla difesa delle Alpi.
Questa ragionevole persuasione rafforzò lo sdegno dei liberali, che
all'annunzio della rotta, dell'abdicazione e dall'armistizio,
rovesciarono il ministero, farneticando di resistenza ad oltranza. Ma
la guerra regia era fatalmente conchiusa. L'esasperazione delle
fantasie offese in tutti gli atti da immaginari tradimenti, le proposte
disperate, i rimpianti eroici, gli sfoghi irrefrenabili, non esprimevano
più che l'ultima crisi d'un periodo esaurito nei fatti e rinnovantesi
nelle coscienze. Così Genova insorta a guerra civile, assaltando il
proprio arsenale e gridando un governo provvisorio di Liguria, per
difendersi contro i piemontesi accorsi prontamente col generale
Lamarmora ad assediarla; quindi costretta dopo inutili invocazioni ai
volontari lombardi di subire le sevizie efferate dei vincitori, non è più
che una tragedia medioevale nel gran dramma moderno, una
demenza republicana di altri secoli nel prologo republicano, che
Roma solamente ha potuto rendere ragionevole. Brescia, che resiste
eroicamente alla selvaggia ferocia di Haynau accorso da Venezia a
bloccarla, e vinta, non doma, muta la guerra in duelli per tutte le
strade e per tutte le case, non è più che l'epilogo della rivoluzione
lombarda cominciata colle Cinque Giornate, della quale salva l'onore
compromesso dall'ultima inazione.
La formula monarchica nella rivoluzione federale del 1848 si è risolta
nello Statuto riaffermato dal giovane re piemontese dopo la rotta di
Novara.
Capitolo Quarto.
Schemi republicani

Firenze.

La rivoluzione federale, unanime nel sentimento dell'indipendenza


nazionale e nell'istinto della libertà statutaria, doveva
necessariamente, dopo tutte le prove fallite del principato, tentare
un più alto esperimento colle republiche, rivelando la formula della
rivoluzione avvenire. Ma se dei regni uno solo aveva resistito allo
Statuto, mantenendolo sotto la doppia violenza d'una invasione
militare e d'una democrazia eslege aiutata dagli equivoci della
insurrezione nazionale, nessuna republica poteva affermarsi
vitalmente nell'immenso tumulto di quella liquidazione del passato. Il
principio democratico, brillando un istante sul Campidoglio nella più
abbagliante purezza, quasi a diradare le tenebre di tutte le antitesi
politiche, era anticipatamente costretto a vanire nella gloria d'un
poema, nel quale il fatto politico rimarrebbe appena come una
trama. Nè la storia, nè La civiltà italiana erano ancora tali da
consentire intera la doppia rivelazione della democrazia e delle
nazionalità.
Un esperimento republicano era nullameno necessario per dissipare
le ultime illusioni della federazione, che nella republica cercava
istintivamente la conciliazione dello stato antico colla democrazia
moderna, e garantire l'originalità del principio democratico
subdolamente assorbito negli statuti dal principato. Così Genova già
fusa col Piemonte, mentre questo stava per fondersi coll'Italia
dandole la propria unità costituzionale, non arriva che ad una inutile
insurrezione, reazionaria nel patriottismo municipale, anarchica nel
processo politico, tragica in quell'ora di sconfitta per tutta la nazione:
Livorno, sollevandosi contro Firenze, riassume tutta l'impazienza
della democrazia costretta dalla propria incapacità a diventare
demagogia: Siena, insorta poco dopo per difendere il granduca
traditore e fuggiasco, soddisfa per l'ultima volta l'antico rancore
municipale, e quindi osteggia simultaneamente Firenze e la
democrazia: Venezia inalbera la secolare bandiera di San Marco, poi
l'abbassa per sostituire il vessillo italiano, finalmente la risolleva
quasi per festeggiare con funebre pompa l'agonia della propria
republica, e chiude per sempre l'epoca della federazione italiana
come era uscita dai comuni e Lorenzo il Magnifico l'aveva
gloriosamente disciplinata nella prima lega italica: Firenze, liberata
dalla monarchia colla fuga del granduca, incerta fra le vanità dei
vecchi ricordi republicani e le tendenze democratiche attuali,
tergiversa colla tradizionale doppiezza procrastinando ogni decisione
per un governo monarchico o republicano, toscano federale o
romano e quindi unitario, finchè l'ora storica passa, e, sorpresa da
una reazione municipale, ricade nel granducato. Roma sola, centro
eterno d'Italia, sente che la prima affermazione dell'epoca nuova non
può venire all'Italia che da essa, e s'affretta con inconscio crescendo
ad abbattere il potere temporale dei papi e a proclamare la
republica: così passato ed avvenire italiano si fondono per la terza
volta nel suo avvenire politico.
In questa gamma Firenze è una penombra, Venezia un tramonto,
Roma un'aurora: Firenze soccombe in un dubbio, Venezia in un
sogno, Roma in una rivelazione. Ciò che Firenze risorta a breve
agonia non ha osato, Venezia lo compie morendo; ciò che l'Italia
insorta ha sentito, Roma lo attua in una republica effimera, ma
profezia di maggiore republica. Venezia rappresenta l'Italia antica,
Firenze l'Italia del momento, Roma l'Italia dell'avvenire: Venezia
risuscita in Manin il suo ultimo doge guerriero. Firenze ripete in
Guerrazzi il suo ultimo priore turbolento, Roma trova in Mazzini il suo
ultimo apostolo.
Ma intanto che le republiche cadono, seppellendo il passato e
squarciando il futuro, il Piemonte si assoda nella stessa bufera che lo
squassa, e salva nella monarchia la forma della non lontana unità
d'Italia.
Dopo i casi di Livorno, nei quali si era fin troppo chiarita la
insufficienza del nuovo governo granducale e che avevano condotto
al potere il Guerrazzi e il Montanelli, la posizione politica della
Toscana rispetto alla rivoluzione italiana toccava il massimo della
crisi. I costituzionali, esauritisi nelle rapide successioni ministeriali,
che dall'energia dittatoria del Ridolfi erano discese all'onesta
condiscendenza del Capponi, stavano come ritirati dall'agone: le loro
tendenze aristocratiche, la loro stessa capacità parlamentare e
sopratutto l'angusto patriottismo, che vedeva l'Italia solamente
attraverso e molto dopo la Toscana, li rendeva inetti alle supreme
manifestazioni di quello stesso moto politico. L'avvenimento del
Guerrazzi, poeta cresciuto nell'ira di tutti i contrasti e mutato da
ultimo in tribuno implacabilmente superbo d'opposizione, significava
apertamente la sconfitta del partito moderato. Infatti il Montanelli,
letterato elegiaco e politico insino allora neo-guelfo, che il ritorno dai
campi cruenti di Curtatone, ove lo si era pianto per morto,
circondava di un'aureola di eroismo, appena chiamato al governo di
Livorno per rappattumarla con Firenze, vi proclamava di proprio capo
una costituente italiana, più larga di quella del Gioberti, poichè
riconosceva al popolo la facoltà di rassettare tutti gli stati secondo
l'interesse generale. Era la prima affermazione toscana nella
rivoluzione, che da oltre un anno affaticava l'Italia. Con essa Firenze
sorpassava politicamente Torino; ma poco chiara nel concetto,
incerta nel processo, proclamata piuttosto da un individuo che da
una regione, questa costituente dell'ultim'ora non poteva discendere
a realtà politica. La Toscana vi si annullava anticipatamente,
sottomettendosi al verdetto di tutta Italia, ma conservando
nell'animo l'egoismo della propria autonomia: il granduca vi si
sentiva perduto, i moderati vi si riconoscevano condannati. Di
rimpatto la demagogia inevitabile in quel sobbollimento di spiriti vi
acquistava importanza: un'amnistia generale veniva proclamata, si
parlava di guerra con più alta ciancia. Il granduca, chiuso
scaltramente in se stesso, lasciava fare e faceva anzi quanto la
nuova scena politica esigeva, non fidando più che in un prossimo
intervento austriaco.
Appoggiato sulla piazza e da questa scosso a ogni minuto, il nuovo
ministero si trovava nell'impossibilità di governare: oscuri demagoghi
s'imponevano ai ministri; esausto il tesoro, nullo l'esercito, confusa
l'opinione, sconvolti ordini e partiti. Guerrazzi s'irrigidiva con superba
fibra di despota minacciando contro i nuovi disordini, ma la
mancanza d'uno scopo politico dava alla sua energia l'odiosità d'una
repressione a favore del granduca, mentre invece s'illanguidiva
nell'illusione di conciliare le tradizioni autoritarie di casa Lorena colla
rivoluzione in una politica ostile all'Austria e diffidente della
rivoluzione. Montanelli scriveva al cospiratore La Cecilia: «Dio ci
guardi da una republica romana». Guerrazzi denunciava le voglie
conquistatrici del Piemonte alla vanità paesana, profetando la servitù
di Toscana se quello crescesse di territorio nella guerra coll'Austria:
Giuseppe Giusti atterrito dal disordine delle piazze riparava nel
rimpianto del passato: solo il Niccolini, inconvertibilmente giacobino,
si manteneva fedele alla rivoluzione, ma, chiuso nell'Accademia come
in una carcere, per sdegno feroce della troppa commedia politica,
ricusava d'uscirne e di ricevervi visitatori. Intanto si procedeva per la
costituente, dichiarandola a suffragio universale: eleggibile
qualunque italiano dai venticinque anni in su, elettore qualunque
cittadino sopra il ventunesimo anno; unica pregiudiziale, si ottenesse
prima la liberazione intera d'Italia. Il granduca aprendo la nuova
Camera (10 gennaio 1849) permise al ministero di presentare in suo
nome al parlamento il disegno di legge per la elezione dei
rappresentanti toscani alla costituente italiana, ma poco dopo
fuggiva a Siena, scusandosi colla scomunica papale lanciata contro
coloro che di qualunque guisa favorissero la costituente. Il ministero
si sconcertò; il popolo adunatosi in piazza della Signoria, come ai
tempi migliori del medioevo, delegò pieni poteri ad un triumvirato
composto di Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni. Senonchè, dichiarata la
decadenza del granduca, bisognava o proclamare la repubblica, o
fondersi con quella di Roma, o darsi al Piemonte: e i triumviri non
osando alcuna decisione, si credettero abili col rimettere alla futura
costituente il problema d'un governo per la Toscana. Intanto
scoppiavano disordini; Siena gridava: viva il duca e morte alla
costituente!; a San Frediano e ad Empoli i contadini eccitati dal clero
si levavano minacciando; mentre il granduca, spaventato dal
tumulto, malgrado i consigli di tutte le diplomazie e la fedeltà del
generale Laugier, ancora alla testa delle truppe e ricusante di
riconoscere il governo provvisorio, fuggiva a Gaeta. Allora Livorno
proclama la republica, Guerrazzi tentenna, poi con teatrali apparati
marcia contro il Laugier, che le truppe abbandonano. La confusione
regna sovrana: al primo triumvirato ne succede un altro di difesa
sempre col Guerrazzi alla testa; non si osa dapprima proclamare la
Costituente italiana: Mazzini ottiene con una predica in piazza un
voto popolare per la fusione della republica toscana con quella
romana, ma all'indomani nessuno più se ne ricorda. Poi il governo
rinfrancato decreta che nello stesso giorno si eleggano i
rappresentanti per l'assemblea legislativa toscana e per la
Costituente italiana da tenersi in Roma. Le difficoltà parlamentari
delle due assemblee investite d'uguali poteri persuadono una
correzione processuale, statuendo che l'assemblea toscana abbia
facoltà per decidere se e con quali condizioni lo stato toscano debba
unirsi a Roma, e per comporre coi deputati romani la Costituente
dell'Italia centrale. Ogni deputato poteva essere investito dei due
mandati.
Intanto il trambusto demagogico peggiorava. La reazione granducale
aiutata dal clero, dai nobili, dai moderati, da tutti, minacciava
apertamente: i democratici poco saldi nel sentimento e sprovvisti
d'una qualunque idea politica, si lasciavano trasportare dalla
tempesta; solo Guerrazzi si mostrava forte, ma piuttosto per alterigia
di volontà che per coscienza. Le elezioni riuscirono scarse di numero:
l'ultima rotta di Carlo Alberto a Novara tarpava le ali all'ultima
speranza; l'Austria ingrossava già alle frontiere; l'assemblea atterrita
ricusava di votare la fusione con Roma. Montanelli, tardi rinsavito,
l'avrebbe voluta almeno per compiacenza di politico, primo
nell'ardimento di proclamare la costituente; ma Guerrazzi invece
resisteva per indomabile vanità di toscano e di letterato contro
Mazzini: l'assemblea, preoccupata già di scagionarsi pel futuro,
concesse a Guerrazzi autorità dittatoria e a Montanelli come
compenso un'ambasceria per Parigi.
Poco dopo con 42 voti contro 24 si respingeva solennemente ogni
disegno di unificazione con Roma, e Guerrazzi cadeva come un
tirannuccio medioevale per una rissa scoppiata fra la sua guardia
pretoriana di livornesi ed alcuni cittadini. Plebe ed aristocrazia, quella
per ignava brutalità, questa per rancore di classe e forse per
un'ultima illusione di salvare così lo statuto, s'accordarono a
rovesciare il dittatore e a risollevare gli stemmi granducali: il
municipio rimasto in potere dei moderati capitanò la reazione,
coprendola coi nomi ancora venerati di Gino Capponi e di Bettino
Ricasoli. Guerrazzi, che aveva già disertato la parte democratica, si
umiliò troppo tardi, troppo vilmente e troppo indarno ai nuovi
vincitori, dai quali fu gettato in carcere per salvarlo dal furore della
canaglia; e forse in parte fu vero.
L'illustre scrittore, riuscito così meschino statista, e che, fanatico
d'impero dittatorio e d'incredulità politica, aveva dato alla insulsa
incertezza della Toscana nella grande crisi italica la pompa della
propria eloquenza, credette scolparsi in una Apologia altrettanto
veemente di passione che sottile di logica curialesca, ma riuscì
invece alla dimostrazione di quanta infermità senile ed infantile
dolorasse allora il pensiero nazionale.
Infatti non egli solo, quantunque rivoluzionario nell'ingegno e nel
carattere, fallava il principio e il modo della rivoluzione, giacchè i suoi
abili avversari parlamentari, richiamando con umile manifesto il
granduca, nella doppia illusione di conservare così lo statuto e di
preservare la patria da una invasione austriaca, furono crudelmente
ingannati. Il granduca sospese a tempo indefinito la costituzione,
dopo averla riconfermata nella risposta all'appello del municipio; e il
generale tedesco D'Aspre, occupate Lucca e Pisa, domata nel sangue
la resistenza di Livorno, entrò vittorioso a Firenze per restarvi a
tutela della dinastia e a terrore dei patriotti sino al 1857.
La rivoluzione toscana era vinta senza aver combattuto, consunta
senza traccia nel passato e senza speranza nell'avvenire: Firenze
ridiventava una prefettura austriaca, bella di arte e di sventura,
calmando nel rancore e nella paura della nuova reazione i propri
dissensi politici.
Gino Capponi, il più nobile fra gl'illusi reazionari, che richiamato il
granduca, si erano poi dimessi al ritorno degli austriaci, aveva
trovato per tutti un motto sublime di eroismo, quando, cieco e
menato a braccio per le vie di Firenze, incontrando a caso uno dei
primi battaglioni tedeschi, esclamava piangendo: «Sia benedetto Dio,
almeno non li veggo!»
La notte del giorno nel quale il popolo di Firenze, adunato in piazza
della Signoria, dichiarando decaduto il granduca, eleggeva al
governo provvisorio Guerrazzi, Montanelli e Mazzoni, la Costituente
romana decretava l'abolizione del papato temporale.

Proclamazione della
republica.

Già al primo annunzio della Costituente le provincie romane si erano


scosse vivamente. Gli ultimi entusiasmi provocati dall'elezione di Pio
IX si mescevano ai nuovi, amalgamando idee ed impressioni nel
popolo ancora troppo diverso e scarso di civiltà per ben
comprendere il significato di un periodo rivoluzionario così
complicato. Per tutta la squallida solitudine dell'Agro, per la Sabina,
per l'alta Umbria, nelle Marche, lungo il litorale adriatico, all'infuori di
qualche città, il popolo viveva ancora nella più supina ignoranza:
tirannia di clero e di signori imprigionava la sua vita; non abitudini
politiche, non intelligenza di governo che permettesse di sentirsi
cittadini; spesso carattere robusto e fazioso, più spesso molle e
servile; perduto nelle memorie ogni ricordo di guerra; tutti i paesi
dislocati e rivali; la religione indiscussa ed indiscutibile come rito,
incompresa ed incomprensibile come ideale; inerte il concetto di
patria, confuso quello di nazione; poca la passione di lotta e la
capacità di sacrificio. Il governo vi era ancora più spregiato che
odiato; la rivoluzione più insubordinazione che ribellione; inetti e
timidi gli aristocratici; i borghesi cupidi, intriganti e conservatori per
tradizione, quantunque esaltati nella ciarla rivoluzionaria e più
ancora nella fisima della conciliazione fra autonomie e nazionalità,
papismo e libertà; il popolo bigotto col clero, prono coll'aristocrazia,
chiassoso coi borghesi, fra se medesimo rissante, facile a
brigantaggio nelle campagne e alle sètte nelle città, non uso all'armi
e abborrente da ogni sacrificio di danaro.
Si era delirato per Pio IX e si delirò per la Costituente; ma se il delirio
prima era in tutti, dopo fu di pochi, e peggiorò in soprusi e feste di
sbracati danzanti intorno all'albero della libertà. Una minoranza
nullameno vi brillava, divisa anch'essa in due campi: i moderati,
incaponiti nel parlamentarismo papale, vedevano ancora nella nuova
rivoluzione un sacrilegio e una anarchia; i rivoluzionari, cresciuti alla
scuola di Mazzini nell'estasi superba della propria utopia, guardavano
già alla terza Roma repubblicana alta sul mondo come la Roma dei
Cesari e dei papi. Fra tutte le provincie pontificie le più generose di
pensiero e di azione erano le Romagne: Bologna capitale vi faceva
da focolare e Ravenna da fucina: nell'una si affinavano le idee,
nell'altra le spade.
Nel primo bollore degli spiriti prodotto dalla guerra all'Austria, si era
creduto all'espulsione dei tedeschi odiati come stranieri e come
gendarmi del governo papale: poi l'allocuzione del 29 aprile,
soffiando su tutte le speranze, ridestò più feroci i vecchi odii. I
costituzionali decaddero, i rivoluzionari dianzi reietti ottennero
favore, il lavorìo delle sètte si moltiplicò, mentre la demenza di
un'idea intelligibile ed irresistibile aggirava tutte le teste,
infiammando tutti i cuori.
Roma, Costituente, Republica diventarono il gran ternario di tutti i
discorsi: non si aveva coscienza della situazione politica, non si
analizzava, non si prevedeva: tornarono le feste pïane e le baldorie
patriottiche fra urli di morte e private vendette. I costituzionali,
abbandonati dal papa, non osavano più contrastare apertamente:
una proposta di certo marchese Ranuzzi bolognese, perchè Bologna
si staccasse da Roma per non seguirla nella ribellione al pontefice,
non ebbe nè voti nè seguaci: l'opposizione dello Sterbini per
mantenere alla rivoluzione un carattere municipalmente romano,
mentre da ogni parte d'Italia già i rivoluzionari accorrevano in Roma,
svanì. La Giunta suprema di governo, nominata dal Parlamento
moribondo ad impedire la rivoluzione, dovette invece sciogliere i
consigli e convocare la Costituente; le rinunzie di tutti i legati e
prolegati nelle provincie, anzichè seminare diffidenze, crebbero il
fermento; le scomuniche del papa si mutarono in sferzate, e i suoi
appelli alle armi straniere in prove decisive di tradimento.
Parecchi ecclesiastici rapiti nell'onda rivoluzionaria ne temperavano il
colore irreligioso, così che non vi fu reazione contro il clero: alcuni
fra essi brillarono di santa poesia come Ugo Bassi; altri si mostrarono
potentemente ciarlatani come Gavazzi; alcuni eroicamente semplici
come don Giovanni Verità. L'inevitabile disordine del momento non
ebbe quindi troppo dolorose conseguenze, malgrado l'insensatezza
del governo che graziava un numero enorme di galeotti. Mentre il
governo provvisorio con generosa prontezza accordava a Carlo
Alberto in trattato segreto di occupare per le necessità della nuova
guerra contro l'Austria le proprie provincie, impegnandosi per tutto il
tempo dell'occupazione a vettovagliare le truppe, quantunque egli
ricusasse ogni riconoscimento politico e seguitasse a trattare
officiosamente col papa sino ad offrirgli di ricondurlo a Roma colle
armi; mentre il Montanelli armeggiava con incredibile fantasticheria
per ottenere che la Costituente romana votasse la presidenza del
granduca Leopoldo, e Mamiani invece sognava quella di Carlo
Alberto, e Manin a nome di Venezia scriveva lettere di condoglianza
al papa, e il Castellani ambasciatore veneto a Roma osteggiava
apertamente il governo provvisorio, tutti i circoli rivoluzionari si
allearono stabilendo a Roma una congregazione centrale, che
divenne naturalmente base e leva del nuovo governo, e fu il primo
grande plebiscito unitario.
Ma in tanto fermento di animi ed inestricabili complicazioni di eventi
politici, l'entusiasmo rivoluzionario non cresceva a vera passione.
Bologna scongiurava il Latour generale degli svizzeri a non
abbandonarla ubbidendo agli ordini del papa, che lo richiamava a
Gaeta per unirlo senza dubbio all'esercito borbonico di invasione, e a
forza di preghiere lo persuadeva: e ciò per timore del popolaccio
sguinzagliatosi nella rilassatezza della polizia. Pareva trionfo
conservare armata in città l'unica milizia francamente ostile: non si
arruolavano volontari, non si mettevano chierici, clericali e moderati
nell'impossibilità di tradire. L'accademia politica proseguiva, giacchè
la proclamazione dell'imminente republica non doveva concludere
che ad una affermazione ideale. La istituzione giacobina della Giunta
di pubblica sicurezza con poteri discrezionali non era che una
imitazione teatrale della grande rivoluzione francese, e non commise
i terribili arbitrii necessari a tutte le vere rivoluzioni. Se le poche leggi
promulgate illegalmente dal governo provvisorio sui fedecommessi,
sulle procedure civili, sul macinato, e l'emissione di tre milioni di
carta monetata, la pubblicazione della legge sui comuni già elaborata
dal Mamiani, le note, i proclami, gli sforzi per accrescere la fede negli
animi e la passione nei cuori sembravano accennare ad un vero
governo rivoluzionario capace di cose maggiori, mentre la vittoria di
Cavaignac per le vie di Parigi sui rivoluzionari e l'altra anche
maggiore su Cavaignac di Luigi Bonaparte, eletto presidente della
republica, toglievano l'ultima speranza di simpatie e di aiuti stranieri,
nullameno le pratiche con Gaeta e col Gioberti per una impossibile
conciliazione col papa, allorchè questi chiamava tutta Europa contro
Roma, e tutta Europa si disponeva ad accorrere, rendevano il
governo provvisorio troppo simile a tutti gli altri governi italiani. La
fisima del papato non gli era ancora passata, la republica imminente
non gli pareva ancora probabile.
Finalmente le elezioni indette dal governo furono fatte dai circoli con
qualche rissa, molto spettacolo di baldorie e moltissime irregolarità:
chierici e clericali vi si astennero, i costituzionali vi andarono
sbandati, la vittoria restò naturalmente ai rivoluzionari. Così
l'immenso loro significato politico nella storia del papato fu piuttosto
espresso che compreso.
Il giorno 5 febbraio l'Assemblea Costituente si adunava nel palazzo
della Cancelleria.
L'assemblea, scarsa di numero, arrivava appena a centoquaranta
rappresentanti; più scarsa d'ingegni e di caratteri, ignorava la
condotta del governo provvisorio, i maneggi diplomatici di Torino e di
Gaeta, temeva dell'Europa, dubitava di se medesima, sentendosi
spinta da una forza arcana ad una meta egualmente misteriosa. La
propaganda mazziniana, per quanto avesse destato dal secolare
letargo i migliori spiriti e soffiato sulle passioni della folla, non era
bastata a schiarire nelle coscienze il troppo significato della parola
republica. Le stesse teoriche di Mazzini, fatalmente amalgamate di
religione e di politica, d'arte e di socialismo, imbrogliavano anche
nelle menti più limpide la possibilità di una republica, alla quale classi
dirette e dirigenti si riconoscevano del pari immature. Nullameno
l'istinto storico urgeva. Dopo il suicidio del papato colla concessione
dello statuto e l'abdicazione del papa colla fuga a Gaeta, e le stragi
del Borbone, i tradimenti di Carlo Alberto, le inutili annessioni della
Lombardia, le incertezze della Toscana e la disperata risoluzione di
Venezia, Roma, eterno centro ideale d'Italia, inevitabile base di ogni
nuovo stato italiano, doveva risolvere il problema del papato sorto
con essa e con essa ancora torreggiante sulla storia, soverchiandolo
colla dichiarazione di un principio più civilmente cattolico. Il papato
era stato l'infrangibile unità e l'incomparabile organo del cattolicismo,
regno sui regni, impero sugli imperi, fonte di tutti i diritti divini: la
republica doveva essere la formula e la forma della democrazia
moderna, proclamata a Roma e da Roma al mondo, più vasta di
tutte le religioni, come supremazia del diritto umano sul diritto
divino, colla sovranità pareggiata dell'individuo e del popolo, colla
libertà del pensiero frenata solo dall'autorità del pensiero. Ma essa
non poteva ancora rivelarsi che come verbo, e quella larva di
governo necessaria alla sua proclamazione avrebbe necessariamente
avuto tutte le evanescenti ed indefinibili mutabilità dei fantasmi.
L'immenso fatto della terza Roma del popolo, secondo la bella frase
di Mazzini, lascierebbe quindi indifferente la Urbe e le provincie,
mentre l'Europa se ne accorgerebbe appena, anche combattendolo,
e la republica romana, rovinando subitamente sulla più vasta rovina
del papato, s'illuminerebbe dei colori dell'aurora ai lampi della parola
di Mazzini e della spada di Garibaldi.
L'assemblea appena radunata dovette necessariamente affrontare il
problema del proprio stato. La fuga del papa e la reazione europea
le facevano intorno un vuoto spaventoso. Si sentiva da tutti che la
causa della rivoluzione italiana era perduta, e che il papa sarebbe
ritornato; nessun ordine o classe di popolo, acclamando la
repubblica, la comprendeva; si diceva che la republica sarebbe
morta, ma non si voleva morire con lei. Nullameno bisognava
proclamarla: ogni accomodamento col papa si era già riconosciuto
impossibile, poi un accomodamento avrebbe non risolto il problema,
ma provato che problema non v'era; i sogni di un Carlo Alberto o di
un Leopoldo re di Roma erano demenze fra le tante del tempo. Il
papato non poteva essere sostituito da alcuna piccola monarchia:
solo un'idea più grande di esso poteva cassarlo dalla storia per fare
poi di Roma la futura capitale d'Italia.
L'Armellini, aprendo la seduta, recitò un discorso, nel quale le idee
superavano fatalmente le parole: era un appello alla democrazia
universale e una dichiarazione superba della nuova sovranità
popolare; la goffaggine inevitabile della teatralità non scemava
l'immenso valore del fatto. L'assemblea, cacciata da quel discorso
mazziniano nel problema di scegliere un governo parve smarrirsi in
insipide arringhe, mentre Garibaldi coll'infallibile intuizione degli eroi
esclamava: «A che perder tempo? Ogni minuto di ritardo è un
delitto; viva la republica!». Ma l'assemblea volle assoggettarne la
grande proclamazione a tutte le pratiche parlamentari: i republicani
vi si mostrarono inetti, i costituzionali sperduti. Mamiani tentò in un
discorso pedantescamente classico di provare l'impossibilità della
republica in quel nuovo furiare della reazione monarchica per tutta
Europa e nell'impreparazione del popolo, per concludere poi
ingenuamente col rimettere la soluzione del problema alla
Costituente federativa italiana, cui la sconfitta della rivoluzione
nazionale aveva già tolto ogni speranza di convocazione; l'Audinot,
succeduto al Minghetti nel comando del gruppo bolognese, si
credette abile cercando procrastinare ogni soluzione con un decreto
che affermasse impossibili tutti i governi non subordinati alla
sovranità popolare. Erano gli ultimi espedienti del costituzionalismo,
l'inconscia estrema ipocrisia dei neo-guelfi contro la nuova
democrazia republicana.
La battaglia si accalorò nella votazione: vinse la repubblica. Il
decreto ne fu redatto dal Filopanti, delirante fantasia di scienziato e
di politico, al quale il ridicolo di troppi libri stampati poi non toglierà
questa unica incomparabile fortuna.
Articolo 1º: Il papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo
temporale dello stato romano.
Articolo 2º: Il pontefice romano avrà tutte le guarentigie necessarie
per l'indipendenza nell'esercizio della sua spirituale potestà.
Articolo 3º: La forma del governo sarà la democrazia pura e
prenderà il nome glorioso della republica romana.
Articolo 4º: La republica romana avrà col resto d'Italia le relazioni,
che esige la nazionalità comune.
Il giorno dopo, la proclamazione si ripeteva con solenne teatralità in
Campidoglio.
Questo decreto rivela il segreto politico della nuova republica. Invece
di affermare superbamente la superiorità dello stato sulla chiesa col
rimettere il cattolicismo nella posizione di tutte le altre religioni, essa
offriva spontaneamente guarentigie al papa detronizzato,
legittimando così le sue diffidenze e quelle di tutta Europa: invece di
proclamare altamente l'unità e la libertà italiana, annunciava che
avrebbe avuto col resto d'Italia le relazioni volute dalla nazionalità
comune. La formula federale sopravviveva dunque nella republica
romana, che come stato era un non senso e come governo una
impossibilità. La sua condanna nella logica della storia derivava dal
suo stesso decreto di fondazione, pel quale l'Italia in faccia a Roma
non era che il resto della nazione, mentre la grandezza della sua
affermazione sta ancora enorme sul papato abbattuto nella
proclamata sovranità popolare.
Dopo questo decreto, la republica deve perire. La sua formula
politica sottomessa all'idea federale, non è meno falsa di quella di
Venezia e di Palermo, di Napoli e di Torino: una republica romana,
mentre l'indipendenza e la libertà d'Italia soccombono sotto l'Austria
e i principi tradiscono i propri statuti, diventa al tempo stesso un
anacronismo e una impossibilità. La sua vita sarà quindi fulgida
come un'ode e sanguinosa come una tragedia, breve e teatrale,
superba di principii e guasta da espedienti.
Colla solita imitazione classica l'assemblea nomina tosto un primo
triumvirato d'italiani, responsabile ed amovibile, Armellini, Montecchi
e Saliceti; un avvocato, un cospiratore, un giurista: quest'ultimo il
migliore. Al ministero rimane presidente monsignor Muzzarelli per
aver votato l'abolizione del papato; Aurelio Saffi è nominato
all'interno, Campello alla guerra, Sterbini ai lavori pubblici. Le
provincie festeggiano con clamorose gazzarre l'avvento della
republica; nell'assemblea qualcuno giacobinizzando vorrebbe
denunciare al popolo i deputati che hanno votato contro la republica,
ma il feroce appello vanisce nella rettorica e timida bonomia dei più;
non si osa mandare commissari nelle provincie secondo l'esempio
della grande Convenzione per sollevarle; appena appena le plebaglie
si permettono qualche sconcezza e i giornali qualche diatriba. Il
governo toscano impantanato nella propria politica autonoma
promette e procrastina la fusione; Haynau, il più atroce fra gli sgherri
austriaci, cogliendo il pretesto di un tumulto, occupa e taglieggia
Ferrara. Nessun governo riconosce la nuova republica: Mamiani alla
testa di un gruppo di costituzionali è uscito dimettendosi
dall'assemblea, l'Audinot rimastovi capitano dei costituzionali
intransigenti vi oppugna con abbastanza abilità parlamentare
qualunque misura rivoluzionaria.
Si vota una legge di adesione alla republica, ma non si osa applicarla
davvero, e primo l'Armellini domanda il permesso di usare
indulgenza cogl'impiegati e coi militi, che si chiariscono ostili alla
republica; si acclama l'incameramento dei beni ecclesiastici, si
riconosce il debito nazionale, si studia qualche temperamento per le
finanze. Queste, naturalmente oberate, presentano poca elasticità;
abbonda la carta moneta, difetta il credito, manca ogni assetto
razionale d'imposta; si emettono un milione e trecentomila scudi, dei
quali novecentomila deve prestare la banca romana e
quattrocentomila sussidiare il commercio. Inetti espedienti finanziari,
che uscivano da più inette discussioni. Poi si ricorse ad un prestito
forzoso di ⅕ sino a ⅔ sulle rendite annuali superiori ai duemila
scudi netti, colpendo così i più ricchi; ma la forma del pagamento a
rate in tanta urgenza di caso rese più che dubbi i pochi vantaggi di
tale prestito. Malgrado l'effervescenza di alcuni circoli politici non si
operava rivoluzionariamente: i giacobini romani si mostravano deboli
di passioni e di idee: cicaleggio e non eloquenza, vapori non sangue
al capo. L'aristocrazia aveva emigrato alla chetichella o stava
nascosta negli ampi palagi; la borghesia, sperduta nel trambusto,
non arrischiava di partecipare ad un potere, che la paura le faceva
riconoscere effimero; il popolo non comprendeva la grandezza ideale
del nuovo principio valutando fin troppo bene le impotenze del
nuovo governo; la plebe usava del rilassamento poliziesco per
prorompere ad assassinii senza carattere e a scenate senza forza.
Quantunque la guerra fra il Piemonte e l'Austria stesse per
ricominciare, e Venezia fosse già assediata, e occupata Ferrara, e il
papa da Gaeta mestasse intrighi e lanciasse allocuzioni sopra
allocuzioni per attirare su Roma una crociata nemica, il fervore
rivoluzionario non cresceva. Il ministero della guerra, incredibilmente
malconcio dalla tradizione prelatizia, non migliorava coi nuovi
reggitori: finalmente poterono entrarvi il Calandrelli e il Mezzacapo,
che raggranellarono un esercito povero di numero e di potenza. Nei
quadri sommava ad oltre 30,000 uomini, ma in fatto ne superava di
poco il terzo, e la maggior parte erano volontari: fra questi più
agguerriti e già celebri i legionarii di Garibaldi.
Non si ardì fare appello all'insurrezione popolare e bandire la leva in
massa, perchè l'indifferenza del popolo era pari alla bonarietà
dell'assemblea.
Per ora tutto procedeva abbastanza regolarmente: gli assassinii, che
funestavano alcune provincie, non erano certo nè più numerosi nè
più efferati che nei tempi gregoriani: poi un conte Laderchi ad Imola
e Felice Orsini ad Ancona li repressero con severa prontezza. I
tribunali, fra quel rimpasto di vecchio e di nuovo, di abolizioni e
d'istituzioni, funzionavano passabilmente, la polizia stessa,
quantunque mal guidata, non si mostrava peggiore della pontificia.
Il carnevale fu al solito grottescamente lieto. Al bizantinismo vaticano
era succeduto il bizantinismo rivoluzionario, al concistoro
l'accademia; la Convenzione francese aveva potuto sconfiggere tutta
l'Europa improvvisando un milione e mezzo di soldati, la republica
romana per primo atto diplomatico pubblicava un manifesto a tutti i
popoli per descrivere se stessa colle frasi dell'evangelio mazziniano,
e non intendeva la risposta della Montagna francese che accennando
ai propri pericoli le diceva come solo coll'energia rivoluzionaria si
salvassero le rivoluzioni. Poi all'occupazione di Ferrara l'assemblea
chiamava tutti i popoli della penisola in armi e protestava del proprio
violato diritto presso tutti i governi come il papa, invece di lanciare
l'esercito alla frontiera, e soccombere piuttosto in una disperata e
gloriosa battaglia.
Ma Roma avendo regalato a Venezia per aiuto nell'assedio centomila
scudi, credeva di aver fatto abbastanza per la guerra.
Di rimpatto il papa protestava da Gaeta contro ogni atto della
repubblica. Fallito il forte ma erroneo divisamento del Gioberti di
mettere il Piemonte alla testa della reazione italica per mantenerle
almeno il carattere nazionale, riconducendo con armi italiane il
granduca in Toscana e Pio IX a Roma, Austria e Francia si
contendevano il sinistro onore e il problematico vantaggio di
rimettere in soglio tutti i principi italiani col servirsi della questione
religiosa come di una inconfutabile argomentazione. La cattolicità
esigeva l'indipendenza del pontefice. A Gaeta era un andirivieni di
diplomatici: il cardinale Antonelli, il più fino dei prelati politici e allora
reggente il segretariato, si destreggiava abilmente fra Austria,
Francia, Spagna, il Piemonte e il Borbone. Oramai la crociata era
decisa. L'elezione di Luigi Bonaparte al seggio presidenziale della
repubblica francese, gettava la Francia in seno alla reazione,
preparando il secondo impero napoleonico come rimedio alle
demenze repubblicane e socialiste. La spedizione contro Roma
doveva essere il prologo: la republica romana precederebbe di poco
quella francese nella tomba.
Quindi Mazzini, costretto a mostrarsi quasi di soppiatto a Milano
durante tutta questa rivoluzione italiana, quantunque ne fosse il
massimo inspiratore e lo spirito più conscio, venne a Roma. La sua
grande ora era discesa sul quadrante della storia: a distanza di
secoli, si ripresentava l'epoca di Cola da Rienzi. Goffredo Mameli,
effimera ed ammirabile figura di poeta, cui la morte sotto le mura di
Roma doveva fra poco troncare sulla bocca fiorente gl'inni e gli urli di
guerra, lo chiamava con un telegramma sublime di concisione:
«Roma republica, venite».
Mazzini traversò fra acclamazioni entusiastiche la Toscana ove
ottenne indarno da un voto popolare la fusione con Roma. Ormai
egli solo rappresentava la rivoluzione. Accolto solennemente a Roma
e nominato deputato vi domina dalla prim'ora l'assemblea, ma nè il
suo ingegno, nè la sua autorità, bastano a radunare l'impossibile
costituente italiana o a fingerla con qualunque altro apparato. Al
nuovo scoppio di guerra fra il Piemonte e l'Austria sostiene con
magnanimo senno il Valerio, legato piemontese a Roma, e associa la
republica a Carlo Alberto, che aveva sdegnato fino allora di
riconoscerla; ma poi la lentezza degli apparecchi militari annulla
decisione e concorso. La guerra piemontese iniziata e compiuta
quasi nel medesimo istante dal meno onorevole dei disastri provoca
l'inutile insurrezione di Genova e la disperata resistenza di Brescia,
lasciando sole nel gran finale Roma e Venezia.
Mazzini, eletto nel nuovo triumvirato con Aurelio Saffi ed Armellini,
fra una mediocrità letteraria e una inezia giuridica, grandeggia: egli
solo è poeta nell'accademia dell'assemblea, che sta per perdere la
voce ai primi fiati della tempesta, ma gli mancano colle tremende
qualità del rivoluzionario le doti anche più difficili dello statista.
Trascinato dalla generosa rettorica del proprio temperamento, si
smarrisce in minimi ed inutili accenni socialistici; destina i locali del
Santo Uffizio ad abitazione di famiglie povere, schizza una legge
agraria per cedere in piccole enfiteusi alcuni beni ecclesiastici a
misere popolazioni rustiche, abroga i voti perpetui religiosi,
diminuisce al solito la tassa del sale, crea duecentocinquantunmila
scudi di boni del tesoro dichiarando con pessimo espediente
infruttiferi quelli creati dal governo pontificio, decreta un aumento di
tassa del 25% su tutti coloro che nel termine di sette giorni non
pagassero la prima rata del prestito forzoso. Ma l'ambiente
superstizioso di Roma gli guasta sentimento poetico e senno politico
al punto di fargli costringere i canonici di S. Pietro a solennizzare la
Pasqua e a benedire col SS. Sacramento il popolo dalla loggia
consueta del papa. Miserabile parodia, che parve profanazione
religiosa, ed era invece degradazione filosofica! Intanto Francia e
Napoli hanno già dichiarato l'intervento, e la republica non ha ancora
stabilito la propria costituzione. Lo schema presentato all'assemblea
(17 aprile 1849) dal deputato Agostini basta solo a rivelare quale
fosse il sentimento rivoluzionario. Principii fondamentali della nuova
costituzione erano la sovranità popolare, l'uguaglianza dei cittadini, il
diritto di tutte le nazionalità e la religione cattolica come religione di
stato. Poi un capitolo di catechismo chiariva i diritti e i doveri di tutti i
cittadini: abolita la confisca e la pena di morte, inviolabili persone e
proprietà, libera stampa e garantito il debito pubblico; il potere
legislativo nell'assemblea, l'esecutivo in una magistratura consolare;
un tribunato a garanzia delle leggi fondamentali della republica, due
consoli biennali responsabili l'uno per l'altro; dodici tribuni
quinquennali, deputati triennali ed assemblea indissolubile. Il popolo
doveva eleggere a tutti questi uffici; ammessa la possibilità della
dittatura per decreto dell'assemblea ma sotto la sorveglianza del
tribunato permanente: i tribuni naturalmente inviolabili, anche per
un anno dopo l'ufficio.
A confronto di quest'assurda miscela di pedanterie classiche, di
inezie storiche e d'impossibilità governative, l'angusto ed
aristocratico statuto del Piemonte diventa un capolavoro.
Ma l'assemblea non ebbe tempo di discuterla. La guerra urgeva. Fin
dal principio della rivoluzione la Francia aveva accennato ad
intervenirvi proclamando il principio della nazionalità e offrendosi a
sostenerlo colla spada, ma sminuendolo poco dopo in combinazioni
diplomatiche e in ricomposizioni arbitrarie di territori con simpatie ed
antipatie egualmente ingiustificabili. Se la sua proclamazione di
rispetto ad ogni nazionalità e del diritto in tutti i popoli a
raggiungerla erano sincere, il movente della sua politica restava
sempre l'antagonismo coll'Austria iniziato da Richelieu: l'Italia era un
campo d'influenza da disputarsi fra Parigi e Vienna. Adolfo Thiers,
storico e statista più importante che grande, sosteneva
nell'assemblea l'impossibilità d'impegnare la Francia in una guerra
coll'Austria a favore dell'Italia la quale, secondo una sua ingiuria
rimasta poi celebre, era una nazione che non si batteva; Odilon
Barrot, capitano nella sinistra repubblicana, spingeva invece ad una
spedizione in Italia per sostenervi la democrazia e scemarvi così la
preponderanza austriaca; Montalembert, supremo direttore
dell'antica destra clericale, domandava con superba eloquenza che la
Francia, primogenita della chiesa, non abbandonasse il papa. E al
Montalembert facevano eco Donoso Cortes in Spagna e lord
Lansdowne in Inghilterra.
Già Cavaignac, vincitore delle giornata di giugno a Parigi, aveva
offerto al pontefice un corpo d'armata: Luigi Bonaparte, succedutogli
alla presidenza, attuò risolutamente quel disegno, mascherandolo
con abile ipocrisia.
Napoleone I nel rialzare il papato aveva ripetuto contro di esso le
pretensioni di Carlomagno: mezzo secolo dopo il nipote doveva
daccapo rifare l'impalcatura del secondo impero sulla base
raddrizzata del papato. La logica delle idee e quella dei fatti ve lo
costringevano con pari violenza.

Caduta della republica


romana.

A Roma la grave minaccia non fu intesa che a mezzo.


Poichè la Francia parlava oscuramente di aiutare al tempo stesso il
pontefice e la republica romana come mirando ad impedire gli
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