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Torniamo ai reati culturalmente orientati per capire come si muove il nostro ordinamento e
soprattutto come dobbiamo pensare a questi reati culturalmente orientati nell'ambito della domanda
più strettamente giuridica e penalistica.
Il problema è quello di capire come apprezzare sul piano giuridico, e in particolare sul piano penale,
determinate condotte, che nel nostro ordinamento integrano una fattispecie penalmente rilevante, se
a commettere questa fattispecie penalmente rilevante sia un soggetto che è stato spinto a quel reato
dalla convinzione profonda, di appartenenza alla propria identità culturale, di stare commettendo un
fatto del tutto legittimo e del tutto consentito nel proprio ordinamento di origine. Come abbiamo
detto, nel nostro ordinamento si deve cominciare a pensare su più piani per poter risolvere questa
complessità di problemi. Innanzitutto bisogna distinguere tra quelle che sono le istanze
comunitaristiche, che devono essere funzionali alla tutela della persona e che cessano di poter dare
spiegazioni anche dal pdv della spinta motivazionale nel momento in cui questi reati sono
legittimati non per tutelare la persona ma per perpetrare l'identità culturale fine a se stessa (cioè
laddove ci si spinga, per la perpetrazione di quella cultura di origine, anche a realizzare delle
violazioni che attengono a quelli che noi riteniamo essere i diritti universali dell'individuo).
Nel nostro ordinamento non ci sono spazi de iure codito per poter apprezzare il momento della
motivazione. Le indagini criminologiche mostrano che, a parità di condizioni, non possa non
prendersi in considerazione il fatto che il soggetto ha realizzato quel reato spinto da un motivo che
non è per es. quello dell'odio o della vendetta o del semplice istinto di sopraffazione, ma è qualcosa
di diverso e di più profondo. Le indagini criminologiche mostrano che questa diversità di
motivazione deve filtrare attraverso la valutazione del giudice. Il problema è in che modo il giudice
può apprezzare questa diversità di motivazione per la commissione di un reato.
A tutt'oggi non c'è nessuna disposizione penale capace di poter individuare la specificità di queste
ipotesi criminose. Il nostro legislatore ha abdicato alla possibilità, in questo momento storico, di
prevedere delle singole cause scusanti, delle singole cause esimenti, delle singole cause di non
punibilità. Non c'è nel nostro ordinamento la traccia della necessità che queste spinte motivazionali
debbano essere decifrate alla luce di una ragione diversa, non c'è nessun ambito giuridico
riconosciuto a questa ipotesi. Anzi, si potrebbe dire di più: nel nostro ordinamento c'è qualcosa di
uguale e contrario perché, se c'è stato un intervento del nostro legislatore penale, è stato nel rendere
penalmente rilevanti delle fattispecie connotate di specificità culturale, ma in senso punitivo e non
in senso di esclusione della responsabilità.
Si fa riferimento all'introduzione di qualche anno fa del reato di infibulazione. Prima della
fattispecie dell'infibulazione non è che quel comportamento non fosse reato: rientrava nelle lesioni
(gravi o gravissime, a seconda che avesse o meno determinato un indebolimento permanente del
modo della riproduzione) ed era sanzionata in maniera specifica e anche significativa. Il legislatore
italiano ha detto che, se la finalità per cui questa lesione è avvenuta è una finalità religiosa, si deve
punire di più: infatti il reato di infibulazione prevede una fattispecie dei limiti edittali più alta
rispetto alla originaria fattispecie di lesioni gravi. Quindi è evidente che il legislatore ha voluto
prendere le distanze dalla possibilità di attuare, attraverso la spinta motivazionale, delle corsie
preferenziali in senso di attenuazione della responsabilità, anche con scelte non sempre condivisibili
(perché a questo punto ci si potrebbe chiedere perché, a parità di lesione, debba esserci una pena più
alta se la finalità ha alle spalle una matrice religiosa piuttosto che un'altra spinta motivazionale).
Quello che vogliamo segnalare in questo contesto è il fatto che il nostro legislatore non ha previsto
nessuna ipotesi de iure condito che possa far apprezzare la necessità di far filtrare le istanze
religiose o culturali all'interno della valutazione. Se c'è stato un intervento è in senso repressivo: il
legislatore ha detto “se ledete dei diritti che per noi stato di appartenenza, cioè stato italiano, sono
inviolabili, io vi punisco e tendenzialmente vi punisco di più perché è una norma, detta norma
simbolica, che dovrebbe avere un effetto di deterrenza riferito a quei soggetti che, pur entrando nel
nostro ordinamento, non si fanno carico di conformarsi con la tavola di valori che è proposta dallo
stato di appartenenza”.
La presa di posizione del nostro ordinamento, più o meno discutibile, è il fatto di aver attuato un
incremento sanzionatorio. Ma è chiaro che il nostro ordinamento mette al centro la necessità che i
diritti inviolabili debbano rimanere saldamente ancorati ai valori propri della nostra Carta
costituzionale e non c'è nessuna spinta motivazionale capace di attenuarne il disvalore. Poi, quando
andremo a analizzare la giurisprudenza, vedremo in che modo questo disvalore viene decantato: non
è che il fatto che il legislatore non lo prenda in considerazione permette di toglierlo dal panorama di
valutazione del giudice, tant'è che esiste un processo motivazionale che è autonomo, particolare e
distinto da quello di altri reati e questo processo motivazionale alla fine entra senza dubbio nella
valutazione. Questo è il piano giuridico astratto del nostro legislatore. Poi vedremo quale è il piano
concreto di attuazione, cosa ci dicono le indagini criminologiche sul campo di come e in che termini
questi processi motivazionali religiosi o culturali entrino nell'ambito della valutazione del fatto.
De iure condendo quale potrebbe essere la prospettiva del giurista (tenendo conto di quello che ci
dicono le indagini criminologiche sulla necessità che sussista una tutela della persona filtrata
attraverso la sua identità di origine, e quindi tenendo conto anche delle sue specificità)?
Dal pdv astratto anche qui ci sono dei paletti da mettere. Se è vero che l'universalismo si pone come
limite e come fondamento della tutela della persona vuol dire, per ragionare in categorie
penalistiche, che l'universalismo si pone all'interno della categoria della meritevolezza della pena:
laddove noi ci chiediamo “è giusta la pena?” lì intervengono le istanze universalistiche, cioè lì
interviene l'idea che i diritti inviolabili siano limite e fondamento di questa istanza multiculturale.
Quindi non è possibile intravedere delle cause di esclusione della pena all'interno delle categorie
della meritevolezza della pena. Non è possibile pensare, nemmeno de iure condendo, che il
processo motivazionale caratterizzato da un'identità religiosa o culturale possa entrare all'interno di
una categoria scusante: non potremmo leggere nel nostro ordinamento che la causa religiosa o
cultuale determina la non punibilità del soggetto per mancanza di rimprovero. Questo non è
possibile. Perché non è possibile? Come sappiamo, le scusanti stabiliscono il rimprovero e il
rimprovero è la terza categoria in cui si costruisce il reato. Il reato si costruisce attraverso le
categorie della tipicità, che dà luogo a una valutazione sull'offesa, del giudizio di antigiuridicità, che
dà luogo a una valutazione di liceità o illiceità del fatto rispetto all'intero ordinamento, e della
valutazione della colpevolezza, in cui si valuta il rimprovero del soggetto: le scusanti stanno
all'interno del rimprovero. Quindi non è possibile che un'ipotesi di scusante si faccia carico di
traghettare l'istanza religiosa all'interno della propria categoria: ciò perché la scusante prende in
considerazione non solo il processo motivazionale, ma anche la finalità in cui il soggetto si
prospetta; in questo caso la finalità non è a tutela di un bene giuridico riconosciuto dall'ordinamento
e quindi non interviene nell'ambito di quelle che sono le categorie della meritevolezza della pena.
Visto che non rientra nella meritevolezza, è possibile quindi escludere qualsiasi possibile filtro
dell'istanza culturale all'interno del nostro ordinamento? Forse no. Forse c'è un'altra categoria
capace di recepire queste pulsioni che vengono dal mondo della realtà. Questa categoria è la
categoria deontologicamente più duttile a recepirla: quella della non punibilità. Si tratta della
categoria del reato che è la più capace di recepire le istanze del nuovo, le istanze che vengono dal
comunitarismo: ciò perché la non punibilità è una categoria magmatica in cui possono rientrare
valutazioni che attengono non al piano del giusto o dello sbagliato rispetto alla pena, ma al piano
del bisogno della pena. Nell'ambito della non punibilità il legislatore non si chiede cosa è giusto o
non è giusto punire, non si chiede se quella sanzione è meritata: il legislatore si chiede se la pena è
conveniente, se punire ha un senso rispetto alle istanze di prevenzione generale e speciale. C'è un
bisogno della pena? È utile punire? Questa è la domanda della causa di non punibilità. Quando il
legislatore chiama in causa la categoria della non punibilità si pone sempre il problema della
funzione della pena: si pone il problema se quella sanzione, che è meritata dal soggetto perché ha
posto in essere un fatto tipico e antigiuridico e colpevole, è utile. E' utile punire il soggetto? Può
essere che valutazioni politico-criminali dicano di no. Basti pensare alle ipotesi dell'indulto,
dell'amnistia. Tutte le cause di non punibilità sono cause che portano con sé l'idea che il legislatore
si pone in una dimensione politica-criminale in cui si dice che quel soggetto si è meritato quella
sanzione ma che è inutile punirlo e quindi, anche se ha commesso un fatto tipico antigiuridico e
colpevole, decide di non punirlo. Il legislatore non lo punisce perché ritiene che quella sanzione è
disfunzionale, non raggiunge nessuno degli obiettivi di prevenzione generale o speciale e quindi
quella pena è inutile da comminare in concreto. E allora sicuramente l'ambito della punibilità
meglio di altri recepisce questa istanza. Se il soggetto viola determinati diritti inviolabili, il nostro
legislatore è categorico nel riconoscere che quel soggetto ha posto in essere un fatto rimproverabile:
dopo di che segue un altro grado di valutazione, cioè si valuta se quella pena comminata nei
confronti di quel soggetto che ha commesso un fatto culturalmente orientato è utile al soggetto e
all'ordinamento.
Si fa l'es. di una possibile causa di non punibilità. Si dice che bisogna distinguere.
Un conto è il caso di un padre di famiglia con un certo tipo di bagaglio culturale: nello Stato in cui
si trovano in quel momento, diverso da quello di origine, la moglie partorisce una bambina, che
rimane in quello Stato per pochissimi mesi perché poi è destinata a tornare nel suo paese di origine.
In questo caso, la spinta motivazionale del soggetto a realizzare il reato di infibulazione è altissima:
il padre sa benissimo che o si adegua a quegli standard richiesti dalla propria cultura di origine
oppure quella bambina sarà rifiutata dal suo contesto sociale, non sarà accettata, sarà ghettizzata,
non potrà mai più fare una vita normale per il suo paese di origine. Quindi queste ipotesi potranno
essere trattate in maniera diversa e più articolata, prendendo in considerazione in maniera
significativa il processo motivazionale: il processo motivazionale in questo caso fa il peso specifico
di diversità tra un soggetto che commette una lesione gravissima spinto da un istinto di
prevaricazione rispetto al padre che compie quell'atto di lesioni personali spinto dalla necessità di
dare alla figlia una vita tranquilla e normale nel suo contesto di origine.
Altra cosa, molto diversa, è il caso in cui si tratti di una persona che è perfettamente integrata nel
tessuto sociale dello Stato ospitante (che è destinata a fare la scuola in Italia e a vivere in Italia) e
subisce l'infibulazione in età più avanzata. E' molto più traumatico: l'infibulazione sarà un marchio
che la renderà diversa dal contesto in cui sarà destinata a svolgere la sua esistenza. Quindi quanto
detto per l'altra ipotesi in questo caso non vale.
Quindi i casi sono diversi: nel caso in cui si tratti di un soggetto destinato a far tornare la figlia nel
proprio paese di origine vi è la necessità di adeguare la sanzione in maniera più blanda, se non
addirittura di escludere la punibilità; diversa è l'ipotesi in cui si tratti di una persona assolutamente
integrata nel tessuto sociale dello Stato ospitante, in cui la figlia dovrà rimanere.
La non punibilità potrebbe essere il canale attraverso il quale il nostro legislatore potrebbe far
filtrare alcune particolari e tipizzate istanze che provengono dal mondo del comunitarismo, proprio
per far apprezzare il momento della spinta motivazionale culturale che è diverso da quello che può
avvenire per la commissione di altri tipi di reato. Questo de iure condendo.
Sicuramente nella complessità, nel marasma e nella grande difficoltà di trovare delle risposte
convincenti abbiamo dei punti saldi di riferimento. Anzitutto il fatto che il comunitarismo e l'istanza
di identità culturale non possono entrare all'interno della meritevolezza della pena: questo è
sicuramente un dato che può essere ritenuto un elemento di partenza di valutazione da parte del
legislatore futuro. Viceversa, se si dovesse cominciare a pensare a strutturare un'ipotesi in cui le
identità culturali debbano essere in qualche modo prese in considerazione, la non punibilità
potrebbe essere il luogo in cui questa non punibilità in cui ci si domanda sull'utilità e sulla necessità
della pena venga in effetti apprezzata in una specificità di contesto particolare. Questo è il dato
generale e astratto, le categorie in cui noi ci dobbiamo muovere come giuristi.
Ma sappiamo, come criminologi, che è la realtà quella che è la spinta empirica che deve essere
valutata per riuscire a fare questo passaggio, in maniera particolarmente incisiva, tra quello che è il
dato empirico e quello che deve essere il dato normativo. E il dato empirico cosa ci racconta?
Innanzitutto, proviamo ad attuare una classificazione dei vari paesi in cui questo ambito del
multiculturalismo viene a declinarsi. Perché è vero che la realtà finisce per plasmare il dato
normativo, ma è anche vero che il dato normativo condiziona la realtà: quindi vediamo come
avvengono questi doppi condizionamenti. E questo è un altro angolo della prospettiva di lettura che
vi sottopongo volentieri perché mette proprio in evidenza come il dato empirico realistico
sostanziale si dipana all'interno delle categorie giuridiche in altri paesi e quale è il trend che può
essere veramente un minimo comune denominatore.
• AMERICA
Il problema del multiculturalismo nasce in America. Questo perché in America c'è stata la più
grande ondata di immigrazione, ma anche per la grande capacità dell'America di recepire le istanze
che venivano da mondi diversi e di rendere compatibili questi mondi di provenienza molto diversi
tra di loro. Questo fino a un certo punto: perché poi anche negli Stati Uniti d'America si comincia a
vedere come le identità culturali e religiose di determinati gruppi siano sì necessari da recepire per
una reale e pacifica convivenza, ma come l'ordinamento giudiziario alla fine si ritrovi a dover
giudicare e risolvere degli episodi particolarmente drammatici in cui la incomunicabilità di contesti
culturali alternativi viene ad essere evidenziata, e soprattutto questi contesti mettono a dura prova la
tenuta del sistema penale dello stato di appartenenza.
Questi episodi in cui si mette in evidenza la difficoltà di interazione avvengono essenzialmente alla
fine degli anni 80.
In questi episodi si mette in evidenza come queste violazioni, che hanno come retroterra una visione
culturale diversa, chiedono al dir. penale, in questo caso al dir. penale americano, di dire la sua sulla
necessità, una volta accertata la responsabilità di questi soggetti nel fatto commesso, di prevedere
una vera e propria esclusione della responsabilità da parte di questi soggetti piuttosto che una
semplice diminuzione della pena.
- Un caso paradigmatico della fine degli anni 80 è quello di una giovane donna giapponese che, una
volta scoperto il tradimento del marito, decide di andare nella spiaggia di Santa Monica (Los
Angeles) e di immergersi nelle acque dell'Oceano Pacifico insieme ai suoi figli per attuare la pratica
del suicidio collettivo familiare. Grazie all'intervento dei soccorsi la donna riuscì a salvarsi, mentre i
bambini rimasero uccisi. Rispetto a questo fatto il titolo di imputazione era quello di omicidio nei
confronti dei due minori. All'inizio del processo furono raccolte più di 4.000 firme di giapponesi
che abitavano nella zona di Los Angeles, dirette al procuratore che si occupava della causa, che
invocavano la necessità che in questi casi venisse applicato il dir. giapponese. Infatti, in questi casi
il dir. giapponese prevedeva una disposizione molto particolare. Dato il rapporto molto stretto che si
vive all'interno della famiglia in Giappone, soprattutto tra genitori e figli, quando c'è un'onta
familiare che non lascia la possibilità a uno dei membri della famiglia di vivere una vita armoniosa
e decorosa, si attua il suicidio familiare (perché la strada del suicidio è l'unica strada percorribile dal
soggetto che si vede attraversato dall'onta della lesione della propria dignità), che viene realizzato
attraverso la possibilità di intravedere una attenuazione della pena, tale da far sì che il soggetto non
vada in detenzione: si dice che, se in questi casi qualcuno sopravvive, la pena è quella di essere
sopravvissuto e quindi non c'è bisogno di nessun altro intervento dal pdv dello Stato. In questo caso
era avvenuto esattamente questo: si trattava di una donna giapponese che era arrivata a Los Angeles
da pochissimi mesi e che, nel momento in cui aveva scoperto il tradimento, aveva visto aggredita la
sua dignità e aveva ritenuto che per lei non ci fosse nessun'altra prospettiva (anche perché viveva in
un contesto che era imbevuto di quella cultura di origine: viveva da persone che avevano quella
cultura propria del Giappone e non aveva altri riferimenti culturali diversi).
Il dir. penale americano si è trovato a doversi scontrare con la necessità di far intervenire all'interno
del processo delle categorie con cui non era solito approcciarsi (negli anni 80 il motivo culturale
non era visto come qualcosa che potesse essere preso in considerazione dal giudice penale).
La Corte avvertì di essere in presenza di una situazione di grande particolarità: la Corte ebbe la
percezione della necessità che questo fatto doveva essere trattato in maniera peculiare, in maniera
diversa dal modo in cui si poteva trattava un'altra ipotesi di omicidio che fosse sottoposta alla sua
valutazione. D'altra parte però non c'era nessuna disposizione che permettesse al motivo
dell'identità culturale di entrare all'interno di questa valutazione.
E allora ecco la scappatoia che, come abbiamo detto, avviene sempre quando ci sono delle esigenze
sostanzialistiche che premono per essere valutate alla luce di un legislatore che viceversa non è
stato ancora in grado di recepirla dal pdv normativo. Infatti queste esigenze non è che, per il solo
fatto di non essere state prese in considerazione in via generale e astratta, rimangono fuori dalle aule
giudiziarie: esse entrano cmq nelle aule giudiziarie. Il problema è che ci entrano attraverso dei
percorsi che non sono quelli assistiti dal princ. di legalità e quindi attraverso altri percorsi che
spesso non sono confacenti col dir. penale, che permette in qualche modo di rispondere al princ. per
es. di uguaglianza. In questo caso quale è la categoria che è stata aggredita e snaturata da quella che
è la sua funzione normale? In questo caso la Corte ha ritenuto di dover attuare, nei confronti della
donna giapponese che aveva ucciso i propri figli, la categoria della insanity. L'insanity è la
mancanza della capacità di intendere e di volere. Nella sent. della Corte si diceva che il motivo
culturale era talmente forte e condizionante che aveva eliminato da parte del soggetto qualsiasi
possibilità di rendersi capace di potersi adeguare ad uno standard di comportamento diverso da
quello che l'eredità culturale del suo paese di origine le proponeva: non avendo la possibilità di
attuare un comportamento diverso da quello della propria identità culturale, mostrava in questo
essere succube della propria identità culturale di origine una incapacità di intendere e di volere. É
evidente che non è questa la categoria di riferimento: il fatto di adottare un percorso che è proprio di
un'identità culturale non significa che il soggetto sia incapace di rendersi conto del disvalore di
quello che sta commettendo. Ma la Corte si era trovata di fronte alla necessità di dover prendere in
considerazione un'ipotesi così particolare e peculiare, in cui sentiva la necessità di differenziare la
sua valutazione tra la normale ipotesi di omicidio e un omicidio avvenuto nei confronti di un
soggetto che aveva attuato questo percorso perché era l'unico che la propria mente, forgiata per
l'identità culturale, gli proponeva davanti come percorribile e capace di avere una sorta di catarsi
per quella che era stata la lesione che aveva subito. La Corte quindi, prevedendo la riduzione
dell'imputabilità, aveva individuato una riduzione drastica della pena: ed in effetti si era arrivati a
una mancanza di detenzione nei confronti della donna.
→ Quindi nel 1^ caso ciò che viene in considerazione è il momento della insanity, quindi della
diminuita capacità di intendere e di volere.
- Nel 1987 nello Stato di New York c'era stato un altro caso che aveva scosso le coscienze collettive
dell'America e aveva messo sotto scacco la tenuta del sistema penale. Si trattava di un immigrato
cinese che aveva preso a martellate la propria moglie, la quale aveva confessato una relazione
extraconiugale. Il soggetto era stato ritenuto responsabile del reato di omicidio. L'imputato si era
difeso dicendo che il delitto era stato commesso a seguito di forti e insopprimibili pressioni culturali
provenienti dal proprio gruppo di appartenenza, che aveva messo in evidenza come per lui fosse
assolutamente inaccettabile e improponibile la possibilità di non lavare questa onta che lo aveva
attraversato: siccome si trattava di un soggetto che si trovava lì da pochissimo tempo, e che quindi
era ancora imbevuto della propria cultura di origine, l'unico modo per potersi affrancare da questa
onta e reinserirsi nel modello sociale di riferimento, che era quello dei soggetti che appartenevano
alla sua cultura, era quello dell'uccisione della donna.
Anche in questo caso, in maniera molto criticabile, la Corte aveva ritenuto necessario prendere in
considerazione il motivo culturale come metro di valutazione del reato di omicidio, come se questo
reato potesse apparire meno grave per il fatto che il soggetto si era sentito in qualche modo costretto
a commetterlo dai suoi condizionamenti culturali.
Questo è un es. molto eclatante, che mette in evidenza la necessità del sistema penale di dover
prendere in mano una situazione molto complessa. Perché se è chiaro che il motivo culturale deve
poter essere apprezzato, è meno chiaro in quale modo possa essere apprezzato. Se non c'è nessuna
norma giuridica generale e astratta che ci dice quale è il percorso attraverso il quale quella identità
culturale può andare ad incidere nella valutazione di tipi di reato tutto può essere: cioè può essere
che una Corte, come per es. quella americana, decreti che in quel caso il soggetto debba essere
accusato non di omicidio di primo grado ma di secondo grado e, dando seguito a tutte le attenuanti
del caso, non si faccia nemmeno un anno di galera. Quindi questo è uno dei tanti esempi, che
abbiamo imparato a studiare attraverso questo corso, di come le istanze che provengono dalla realtà,
se non vengono filtrate da un percorso precostituito dal legislatore, finiscono per determinare delle
ricadute sul sistema sempre negative, anche quando tendono a recepire dei valori che sono
considerati degni di tutela all'interno della nostra percezione sociale. Perché il problema è che il dir.
penale non può affrancarsi dalla sua vocazione ad essere inquadrato in un percorso di regole
formali, perché è l'unico modo che abbiamo per garantire che il dir. penale (che riguarda la possibile
libertà del soggetto da una parte e la tutela dei valori dall'altra perché, come sappiamo, il dir. penale
è entrambe le cose, cioè è controllo sociale e tutela dell'imputato) possa essere effettivamente
giusto. E questi esempi ne sono ancora una volta, come abbiamo già visto in altri ambiti, una
esemplificazione significativa: è chiaro che, nel momento in cui l'ambito della pressione
motivazionale entra come grimaldello attraverso il quale il giudice può recepire delle istanze di
provenienza di culture diverse, poi tutto è possibile. E' evidente che si sta parlando di un sistema
americano in cui le categorie giuridiche e anche il dir. penale sono molto più labili rispetto al nostro
principio di legalità dei paesi europei, ma cmq si è arrivati non nel 1902 ma nel 1987 a ritenere non
responsabile un soggetto che aveva ucciso un'altra persona perché l'aveva tradito. E' evidente che
non ci può essere nessun collegamento tra quella che è la valutazione del processo motivazionale
per l'identità culturale con quelli che sono i beni giuridici inviolabili che abbiamo detto essere il
limite entro il quale l'identità culturale deve essere filtrata. Ma non c'era nessun riferimento
legislativo che permettesse di porre un limite alla necessità di dover prendere cmq in considerazione
quella che era una specificità di quel reato.
→ Quindi nel 2^ caso ciò che viene in considerazione è un'attenuazione della responsabilità nei
confronti del soggetto per l'identità culturale che lo ha portato a commettere il reato.
- Infine, nel 1985 si ha un altro es. paradigmatico di come l'identità culturale entri a gamba tesa nel
sistema penale ma non essendo codificata va ad incidere nei punti deboli del sistema e viene ad
agire come grimaldello con delle categorie che sono destinate a regolare altre ipotesi (come quella
della incapacità o quella c.d. esimenti del dir. penale). Il caso riguardava di un cittadino laotiano che
era stato accusato di violenza sessuale e di rapimento a danno della fidanzata. Si trattava di un
fidanzamento voluto e supportato dalle famiglie di entrambi i ragazzi. Questo giovane ragazzo,
maggiorenne ma ventenne, si era recato nel college dove la ragazza studiava ed aveva attuato quella
che era la pratica propria della sua identità di appartenenza: questa pratica permetteva di rapire la
fidanzata, con quale si erano intrattenuti dei rapporti epistolari per un certo periodo di tempo, di
consumare un rapporto sessuale con lei, successivamente al quale il ragazzo era legittimato a
chiederle la mano. Nella popolazione laotiano questa era una delle pratiche molto diffuse, uno dei
modi attraverso i quali si arrivava alla celebrazione del matrimonio. Il ragazzo, dopo aver attuato
questa pratica, si era vista arrivare una denuncia per violenza sessuale: la donna non voleva saperne
della pratica laotiana e il suo rifiuto non era quello tipico della pratica ma era un effettivo rifiuto ad
avere un rapporto con il ragazzo con cui non voleva nessun tipo di legame.
Alla Corte federale americana arriva questa ipotesi di rapimento e violenza sessuale nei confronti
del ragazzo. Il ragazzo si difese dicendo che era di fronte a un errore sul fatto: aveva pensato che il
dissenso della propria ragazza fosse il dissenso che si inseriva all'interno di quella pratica di
fidanzamento che era propria della loro cultura di origine e quindi non aveva pensato che potesse
essere stato un atto attuato con violenza.
La Corte ritiene sussistente questa argomentazione. Ritiene che il soggetto abbia agito in buona fede
e che ci sia stato un errore sul fatto. L'unica fattispecie che viene riconosciuta è quella di sequestro e
non la violenza sessuale: l'imputato fu condannato solo a 90 giorni di reclusione per il reato di
sequestro.
Ancora una volta l'identità culturale entra come valutazione di una categoria completamente
diversa, quella dell'errore, con cui non ha molto a che vedere se non tirando la situazione un po'
fuori dai suoi confini di legalità. La Corte dice che c'è stato un errore sul fatto perché il soggetto si è
erroneamente supposto un consenso che viceversa non c'è: il ragazzo vuole un fatto diverso da
quello che ha realizzato, cioè avere un rapporto sessuale con un soggetto consenziente, e invece
attua un rapporto sessuale con un soggetto che non manifesta il consenso; quindi si dovrebbe avere
un errore sul fatto e quindi il reato non si realizza. In realtà, in questi casi è una forzatura ritenere
che l'identità culturale abbia fatto percepire al soggetto un errore sul fatto. Non di tratta di un errore
sul fatto, semmai è un errore sul divieto. Non è che il soggetto voleva un fatto diverso da quello che
ha realizzato perché cmq voleva un rapporto sessuale con un soggetto che aveva mostrato di non
dare il proprio consenso: voleva esattamente quel fatto. Ma riteneva che quel fatto per la propria
identità culturale fosse un fatto lecito. Non essendoci questa categoria di riferimento, a quel punto
doveva essere ritenuto responsabile. Ma, incidendo l'identità culturale sul percorso argomentativo di
valutazione del fatto, la Corte americana a quel punto poteva dire che il soggetto, avendo errato sul
fatto, non è responsabile. Quindi l'identità culturale in questo caso specifico entra come criterio,
come parametro di riferimento dell'errore sul fatto.
Quello che abbiamo chiaro è che la Corte americana, il mondo giuridico penale americano, ha
chiaro che l'identità culturale diventa un elemento che in qualche modo deve essere valutato. Ma
non si sa come realizzare questa valutazione in maniera corretta. E quindi, siccome sono le prime
ipotesi in cui si comincia a realizzare questo conflitto tra ciò che è ammesso dalla cultura di origine
e ciò che è vietato dallo Stato americano, si naviga a vista: in alcuni casi l'identità culturale entra
come parametro della capacità di intendere e di volere, in altri come esimente, in altri ancora come
errore sul fatto.
- L'ultima ipotesi che che ci dà l'idea di come in quegli anni lo Stato americano fosse uno dei primi
a dover risolvere questi conflitti di identità culturale ci viene dal caso di un soggetto di origine
italiana, in particolare di origine siciliana. Questo soggetto, padre di famiglia, era un immigrato
siciliano che da alcuni anni viveva in America. Nel 1997 (solo 20 anni fa!) fu incriminato perché i
figli ne sporsero denuncia: i bambini e la moglie venivano maltrattati da questo soggetto che
quando tornava a casa usava metodi violenti nei loro confronti (con le mani o usando la cinghia dei
pantaloni), determinando ecchimosi e traumi, che venivano riportati anche da referti medici perché
era una vicenda che si dipanava in un periodo piuttosto consistente.
L'imputato si difese dicendo che quei metodi, che sicuramente alcune volte erano stati
particolarmente cruenti e violenti, facevano parte del suo ius corrigendi, facevano parte
dell'esercizio della sua patria potestà, perché così aveva fatto suo padre con lui e così faceva lui con
i suoi figli. Quindi la violazione di quei diritti, che venivano perpetrati attraverso maltrattamenti,
non era altro che l'esplicazione dell'esercizio di una propria identità culturale: la sua identità
culturale di uomo siciliano imponeva di utilizzare quei metodi autoritari e violenti nei confronti dei
propri figli. L'identità culturale quindi filtra attraverso la categoria di una causa di giustificazione
che è l'esercizio di un dir. (in questo caso lo ius corrigendi) e permette quindi all'imputato di
chiedere la sua assoluzione perché ciò che ha fatto è assistito da una causa di liceità del suo
comportamento, una causa di giustificazione che viene ad essere letta e decifrata all'interno di
quella che è la categoria delle cause di giustificazione. Quindi la sua provenienza, la sua identità
culturale, la sua identità di origine permettono di arricchire di un contenuto particolare il dir. della
patria potestà: determinano per lui la necessità di esercitare la patria potestà nell'unico modo in cui
era stato abituato, nell'unico modo che quindi faceva parte del suo background di riferimento, che
non poteva essere percepito in modo diverso.
La Corte americana dà ragione all'imputato. Ritiene che i maltrattamenti siano sì esistiti, perché
esistono i referti medici e le prove di un'effettiva vessazione nei confronti dei figli, quindi esiste un
fatto tipico di reato, un fatto offensivo. Ma questo fatto, oltre ad essere offensivo, è anche lecito: è
lecito perché è assistito da una causa di giustificazione, che permette di rendere conforme all'intero
ordinamento la verificazione di alcuni fatti se assistiti da quell'esercizio di un diritto, che è proprio
dello ius corrigendi, che viene arricchito del momento dell'identità culturale. Nella sent. si legge che
è chiaro che quella che per il popolo americano è un'identità culturale di riferimento che si discosta
da certi canoni non può essere presa e ritenuta valida per tutte le persone perché ci sono alcune
persone che fanno parte di un'identità culturale diversa alle quali deve essere data la possibilità di
potersi esplicare nelle sue modalità. Quindi il soggetto viene ritenuto non punibile per mancanza di
illiceità della sua condotta.
Questo derivava dal fatto che erano le prime volte che le identità culturali venivano ad essere filtrate
attraverso le categorie penalistiche.
Adesso, per poter dimostrare che c'è un'identità culturale, è necessario un percorso diverso: è
necessario che qualcuno spieghi quale è l'identità culturale (se così fosse stato già nel 1997
qualcuno avrebbe potuto dire alla Corte americana che quella di prendere a bastonate i figli per
poterli educare non era proprio la nostra identità culturale!). L'identità culturale deve essere provata
nel processo: ci sono dei criminologi che mettono in evidenza se e fino a che punto quel
comportamento non sia utilizzato semplicemente per giustificare gli scompensi caratteriali dei
soggetti ma sia veramente attinente a quella identità culturale che condiziona quella condotta. Per
fare questo ci si deve anzitutto porre un tema oggettivo: bisogna vedere se veramente tutti i soggetti
che fanno parte di quell'identità culturale in quella situazione sarebbero stati indotti a comportarsi in
quel modo perché l'identità culturale effettivamente imponeva quel tipo di pratica. Per es. nel caso
del soggetto siciliano è evidente che non sarebbe stato possibile fare ricorso all'identità culturale. E'
necessaria la prova oggettiva che quell'identità culturale determina effettivamente quel tipo di
condotta e che gli appartenenti a quell'identità culturale si sarebbero comportati nello stesso modo.
Quindi è richiesto un parametro oggettivo, che non c'entra niente con l'aspetto di come poi quel
singolo soggetto filtra quel condizionamento culturale. Perché ci sia il condizionamento culturale,
quindi perché ci sia un possibile appello all'identità culturale, è necessario provare all'interno del
processo che esiste una pratica sociale di quel tipo e che chiunque facente parte di quell'identità
culturale avrebbe reagito in quella modalità. Si vuole evitare che la dimensione culturale venga
invocata per avallare un proprio modo di vivere o una propria concezione di vita o una particolare
ideologia o un particolare modo di intendere la religione. E' necessaria questa prova oggettiva.
Ma questi erano i primi passi in cui l'identità culturale cercava accoglimento in una società
multiraziale, come quella statunitente. E quindi la Corte americana cercava una sorta di
compromesso tra quello che era il vissuto del soggetto che era legato a determinate peculiarità e
quello che era il sistema penale. E questo compromesso evidentemente è stato un compromesso
molto lacerante perché cmq ha attraversato l'intero dir. penale perché passa dalla capacità di
intendere e di volere alle cause esimenti all'errore sul fatto fino a entrare addirittura nella
valutazione delle cause di giustificazione.
Quindi da un lato è evidente che c'è questa esigenza di farsi carico delle minoranze e dall'altro lato
però questo farsi carico delle minoranze, delle identità culturali e particolari, deve essere filtrato
dalle categorie penalistiche. E questo passaggio in quegli anni non c'è stato: non c'è stato perché
erano i primi anni in cui c'era questo contagio. D'altra parte, spesso si trattava di soggetti che si
trovavano in quel paese ma che non avevano ancora avuto la possibilità di recepire pienamente
quella nuova dimensione, quelle regole imposte dallo Stato.
Questo è l'inizio del dibattito tra sistema penale e identità culturali, che viene dall'America.
• STATI EUROPEI
Vediamo adesso come gli Stati europei si stanno comportando in riferimento a quelle che sono le
sollecitazioni sempre più numerose delle identità culturali.
Anzitutto, quello che vi voglio proporre come angolo di lettura è il fatto di vedere come si comporta
la giurisprudenza, e quindi quali sono le indagini criminologiche sul campo, rispetto al prisma delle
varie concezioni di Stati e quindi del diverso modo di percepire il momento culturale: perché è
chiaro che accogliere un modello multiculturale o accogliere un modello su base comunitarista o
accogliere un modello culturale su base universalistica determina una differenza sul sistema
normativo e quindi ci si deve chiedere in che modo questa diversità normativa influenza la realtà
che poi viene recepita dalle indagini criminologiche.
È un modello che potremmo dire strettamente legato a una concezione multiculturale che si fonda
sull'identità comunitarista.
E' uno degli Stati in cui originariamente (e fino a qualche mese fa forse) si poteva dire che si era
veramente realizzata l'idea di una integrazione tra modelli culturali: perché questa integrazione era
avvenuta su base economica moltissimo tempo fa e quindi era abituata a una stratificazione dei
modelli culturali da moltissimi decenni, in cui i soggetti che provenivano da paesi e da mondi
diversi si erano ormai stabilizzati e avevano messo delle solide radici tanto da essere da più
generazioni nello stato inglese e di poter avere accesso a tutti gli ambiti sociali.
Questo è il panorama, in cui da una parte si ha un'identità culturale molto spiccata e diversificata ma
dall'altra vi è un grande riferimento a quella che è la necessità (proprio perché le necessità culturali
sono molte) di prendere in considerazione quelli che sono i processi motivazionali che provengono
da soggetti che appartengono a dei mondi diversi a quello dello stato di appartenenza. Questo è il
modello di riferimento, un modello come quello inglese multiculturale che si fonda essenzialmente
su un'idea comunitarista, cioè sulla necessità di prendere in considerazione in maniera precipua e
molto rilevante quelle che sono le identità culturali dei soggetti appartenenti allo Stato e che vivono
nello stato inglese.
A fronte di questa concezione dello stato e a questo criterio generale e astratto di risoluzione del
conflitto tra le identità culturali e il dir. penale, che è quello basato su un'istanza comunitarista,
vediamo cosa accade nella giurisprudenza e quale è atteggiamento che la giurisprudenza di fatto ha
nei confronti di uno Stato che ha questo approccio di fondo nei confronti delle identità culturali
diverse da quella appartenente allo Stato inglese.
- Uno degli es. che vi voglio proporre per decifrare questo atteggiamento della Corte inglese nei
confronti di questo problema è un caso dell'inizio del 2000 di tre immigrati musulmani fratelli che
avevano sequestrato per due giorni una ragazza (per uno di loro la figlia, per gli altri la nipote) nel
tentativo di persuaderla ad interrompere la sua relazione con un giovane che non era musulmano.
La Corte assolve i tre musulmani. In questo caso si ha un es. di come la Corte abbia sentito la
necessità di valorizzare l'identità culturale di appartenenza del soggetto per poter meglio decifrare
quella che era la reale portata offensiva del fatto che aveva davanti. Si diceva che un conto era un
soggetto che prende una persona e la sequestra per tre giorni per una finalità che può essere di
estorsione piuttosto che di minaccia; un conto è questa dimensione in cui avviene questo sequestro
che è impregnato di quella identità culturale che fa parte di quella comunità. La Corte ha ritenuto
che i tre soggetti musulmani non dovessero essere perseguiti, quindi c'era una sorta di assoluzione
condizionata.
Sempre in quegli, tra il 2000 e il 2002, ci sono state altre due ipotesi molto significative che sono
avvenute in Inghilterra.
- Nel 2000 è stato giudicato il caso di un soggetto musulmano di origine pakistana. Il soggetto era
emigrato in Inghilterra dal 1965 e il fatto di cui stiamo parlando avviene nel 2002, quindi era un
soggetto che era arrivato in quello Stato e aveva assimilato quella cultura da molto tempo. Questo
soggetto aveva ucciso la propria figlia perché l'aveva trovata nella camera da letto con un ragazzo
che non era musulmano. L'imputato si difese dicendo che aveva ucciso la figlia, anche sotto gli
occhi dell'altra persona, perché era stato provocato da questa condotta: aveva realizzato questo fatto
così cruento e grave perché era stato provocato dalla condotta della figlia e dell'altro ragazzo, che
erano andati oltre i confini della tolleranza e della possibile accettazione di un tale atto, avevano
osato infrangere le regole proprie della sua famiglia. L'imputato riteneva che non fosse possibile il
sesso fuori dal matrimonio, soprattutto con un soggetto non musulmano. Questo fatto non avrebbe
più permesso alla ragazza di vivere una vita dignitosa. Quindi aveva invocato l'esimente della
provocazione (in Inghilterra la provocazione è considerata una causa esimente).
La giuria lo aveva riconosciuto colpevole del reato più grave, quello di omicidio di primo grado.
Quindi non aveva riconosciuto nessuna forma di esimente nei confronti del soggetto e lo aveva
condannato all'ergastolo. In questo caso, a fronte di un reato così grave e lontano da quello che è il
panorama culturale di riferimento dello Stato ospitante e avendo violato quelli che sono i beni
imprescindibili della persona, nonostante questo reato fosse stato chiaramente condotto per
adempiere a una propria identità culturale, si era ritenuto che questa esimente culturale non dovesse
essere presa in considerazione e non dovesse essere presa in considerazione in nessuna sua
declinazione, né come circostanza attenuante né come esimente né in nessun altro modo: l'esimente
culturale non era proprio entrata nella valutazione della Corte.
- Sempre in quegli anni una giovane donna viene strangolata dal fratello pakistano perché si era
rifiutata di abortire: era incinta di un soggetto non musulmano col quale aveva avuto una relazione
extraconiugale. Anche in questo caso viene invocata l'esimente culturale perché l'imputato si era
difeso dicendo che c'era stata una condotta di provocazione nei confronti da parte della donna
perché aveva intrapreso una strada che l'avrebbe portata lontana da quella che poteva essere una vita
decorosa e accettata all'interno della propria comunità di origine.
E' evidente che l'adesione di un paese al modello muticulturalista non implica affatto, né in sede
legislativa né in sede giurisprudenziale, un indefettibile riconoscimento all'identità culturale e alla
differenza culturale. Dall'inizio del 2000 è evidente che la giurisprudenza ha attuato la necessità di
determinare una differenziazione:
– da un lato ci sono i reati che sono considerati molto gravi perché attentano ai beni inviolabili
dell'individuo, nei confronti dei quali non c'è nessuna tolleranza per quanto riguarda il
motivo culturale: il motivo che ha portato il soggetto a determinare un reato così grave non
rientra all'interno dei parametri di valutazione del fatto;
– dall'altro lato ci sono i reati che hanno un minore impatto di gravità: si ritiene che,
nonostante si tratti sempre di beni primari, per fatti meno densi di disvalore sul piano della
lesione ai beni inviolabili si possa far rientrare l'esimente culturale (es. ciò è accaduto nel
caso di sequestro di persona: sulla carta è sicuramente uno dei reati gravi perché comprime
il bene primario dell'individuo, ma il fatto che sia durato per poco tempo e l'identità
culturale che ha portato quei soggetti a realizzare quel fatto fanno sì che l'esimente culturale
sia considerata).
E' evidente che in un paese come quello inglese, che vive e che si è costruito nel modello
multiculturale proprio della valorizzazione dell'identità culturale del paese di origine e che fa filtrare
le istanze culturali in maniera significativa in tutta la sua articolazione sociale, in tutta la sua
articolazione comunitaria e quindi a tutti i livelli, anche legislativi, per quanto riguarda il diritto
penale pone un freno abbastanza netto. Il fatto di aderire a un modello multiculturale non ha portato
la giurisprudenza a interpretare i fatti commessi in base alla propria identità culturale con quell'idea
comunitarista che è alla base dell'impianto originario dello stato inglese. In quell'ambito in realtà si
è cominciato a distinguere quelli che sono i diritti inviolabili e nei confronti dei quali il processo
motivazionale dell'identità culturale non viene assolutamente a poter incidere minimamente
nell'ambito della valutazione della gravità di quello che è stato commesso.
E questo vale nell'idea di voler assimilare il più possibile gli immigrati favorendo l'emancipazione
dei singoli all'originario nucleo di appartenenza. La scommessa della Francia era di cercare di
assimilare gli immigrati, mettendoli di fronte a quelli che sono i diritti che loro hanno: per poter
arrivare ad essere garantiti in quei diritti si dovevano però spogliare della propria identità culturale
di origine, perché solo spogliandosi della loro identità culturale di origine potevano attuare quella
emancipazione che permette ai soggetti di essere considerati nella loro neutra uguaglianza. Quello
che per la Francia era importante era garantire l'omogeneità culturale dello Stato nel suo insieme.
Solo garantendo questa omogeneità culturale forte dello Stato francese si permetteva di arrivare a
una vera e propria garanzia per gli immigrati di essere rispettati, non tanto nella loro identità
culturale quanto nella loro possibilità di essere rispettati al loro interno: per poter essere rispettati
dovevano però spogliarsi della loro identità di origine.
Lo Stato francese fa parte di quell'idea del multiculturalismo e della integrazione culturale che ha
come paradigma astratto di riferimento l'universalismo.
Uno degli es. più eclatanti è la necessità che l'entità religiosa non venga esposta in nessun posto
pubblico. Oppure il divieto del chador: è uno degli es. propri di questa visione universalistica
propria della Francia, per cui se tu ti presenti in un posto pubblico, e quindi fai parte della comunità
pubblica francese, non puoi coprirti integralmente perché è necessario che ti si possa riconoscere;
questo a prescindere dalla tua identità di riferimento: se fai parte della comunità., questa comunità ti
chiede di spogliarti di determinati aspetti o di determinate usanze che contrastano contro quelli che
sono i principi di riconoscimento e di sicurezza propri del paese ospitante.
Per es. nel 2011 è stata introdotta la legge che vieta di indossare il velo islamico integrale, il c.d.
burka, che mette solo le fessure degli occhi e impedisce il riconoscimento dell'identità della
persona. Al di là delle grandi discussioni teoriche, effettivamente è stata più una norma simbolica
che una norma capace di avere una rispondenza pratica: è una norma che ha avuto una grande
valenza teorica. Perché in alcuni luoghi non puoi entrare se hai il burka, ma nel contesto poi di poter
circolare liberamente per le strade è molto più complesso perché la norma che vieta il burka non è
accompagnata dalla possibilità di esercitare una forza fisica nei confronti del soggetto che lo
indossa. Quindi chi si trova ad attuare la legge si trova di fronte all'impossibilità di attuare una
forma di coercizione.
A fronte di questo Stato, che ha come baricentro un'istanza universalistica e su quella gioca la sua
commessa, ci si chiede come è recepita la commissione di reati da parte di soggetti che hanno
un'identità culturale diversa. Se noi seguiamo il modello universalistico, dovremmo dire che, nel
conflitto tra ciò che è consentito dall'identità culturale particolare e ciò che è vietato dallo Stato di
appartenenza in cui si trova il soggetto, il modello universalistico dice che deve prevalere e deve
essere data rilevanza solo a ciò che è vietato dallo Stato ospitante: nell'ambito del conflitto l'identità
culturale non deve prevalere, ma deve prevalere l'istanza universalistica, cioè l'istanza che protegge
i diritti universali e non quella che protegge i diritti particolari.
In questa visione dobbiamo chiederci poi quale è il reale portato della giurisprudenza all'interno di
quello Stato. Perché se poi noi andiamo a vedere quali sono i reati culturalmente motivati, ci
accorgiamo che in effetti la posizione della giurisprudenza francese anche in questo contesto
universalistico è molto diversa da quello che ci potremmo attendere.