Sign 'O' The Times Management
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SIGN 'O' THE TIMES MANAGEMENT
SIGN 'O' THE TIMES è il titolo di un fantastico album del noto musicista Prince che realizzò insieme ai suoi Musicisti dei
Revolution nel lontano 1987. Questo stesso titolo è stato utilizzato per il nostro corso perché vogliamo mettere in
evidenza che esso contiene una miscellanea, un insieme di raccolte di tesi, esperienze, concettualizzazioni e pratiche
che producono nuovi paradigmi, una nuova visione diversa e nuovo modo di fare le cose che mutano e cambiano nel
tempo, infatti, anche il management si è evoluto e modificato segnando una nuova era anche in questo campo.
“Sign ‘o’ the times” è un disco caotico: un doppio album multicolore allora quasi indefinibile. Un disco che si disse
confuso, come il periodo in cui è stato concepito, ma a suo modo la migliore espressione di un genio assoluto della
musica che in quel 1987 ne definiva le linee di quel caos che sarebbe stato presente non solo nella musica ma in
seguito anche nelle rinnovate scoperte scientifiche in fisica. A dimostrazione della teoria del caos universale, della
relatività che pone una forza armonica a reggere l’universo, una matrice originaria che è la base di ogni altra forza o
legge fisica.
Per tal motivo “Sign ‘o’ the times” ci sembra rappresenti a pieno titolo il preludio di una nuova era che sarebbe iniziata
con un nuovo millennio che nella musica e non solo iniziava a definirsi e a concettualizzarsi ma in molte delle altre sfere
e attività umane della scienza delle religioni, delle tecniche, delle economie, delle società, delle civiltà, dei territori, delle
risorse, entro cui solo una nuova visione indefinibile seppure dalle infinite modalità di espressione accompagnerà ogni
manifestazione umana in quella che viene detta la nuova era del terzo millennio.
Il nostro scopo non è qui quello di dedicare un testo alla musica Rock, ne di voler individuare le linee di una nuova
filosofia esistenziale, ma semplicemente agganciare il titolo “Sign ‘o’ the times” a quella che noi crediamo possa essere
una nuova visione ben sperimentata del management. Sperimentata in teorie empiriche ed in esperienze sul campo,
proprio come Prince che ha scritto, prodotto e suonato nella sua musica, a cui chiediamo il suo bene placido a poter
anche noi utilizzare il titolo“ Sign ‘o’ the times”, per quella che vuol essere una semplicissima miscellanea di raccolte di
scritti, teorie, esperienze di chi ha provato, sperimentato e cercando di definire una nuova metodologia gestionale tratta
da alcune delle infinite cose dell’economia, infinite perché infiniti sono i bisogni dell’uomo in ogni era.
L’etimologia della parola economia ci suggerisce una generica ma efficace semplificazione in un originario e pratico
significato “governo delle cose” mentre il management o la gestione rappresenta quell’ insieme di modalità attraverso le
quali governare le cose, per tal motivo è necessario che la conoscenza sia uno dei principali canali di trasmissione del
sapere, di tempo in tempo per poter giungere al saper fare. Per cui, pensiamo che solo attraverso la conoscenza che è
un processo generazionale possiamo giungere al processo di trasmissione del sapere.
Convinti di ciò, piuttosto che ammantarci della falsa modestia, preferiamo etichettarci presuntuosi e con onore e
orgoglio proponiamo e mettiamo a conoscenza, qui di seguito, le tante verità che la nuova era ha svelato esser state
nascoste, non ascoltate, non applicate dai chi nei tempi trascorsi a vario titolo e in vari modi tra il pubblico ed il privato
si sia occupato del governo delle cose.
Il dramma maggiore, non è certo quello di esser additati come presuntuosi ma il sapere che molte se non tutte le cose
che riguardano un buon andamento di quel “governo delle cose” erano state già dette prima di questa nuova era,
scritte ma non attuate ed impedite di esser fatte in passato.
Non sentendoci presuntuosi o utopistici, crediamo e speriamo che tali metodologie, pratiche ed esperienze nel governo
delle cose qui raccolte e rappresentate in questa miscellanea vengano adottate, in quanto, ancora ad oggi stentano ad
esser comprese ed attuate.
Gaetano La Tella
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1. Il primo si basa sul significato originario del termine, cioè di un insieme di pensiero e azione finalizzato a
superare e sconfiggere un avversario. Strategòs era il capo di un esercito (ma il termine venne anche
usato nella Grecia antica per indicare i membri del governo della città).
Da questa origine deriva la concezione della strategia come strategia competitiva, che ha caratterizzato
e caratterizza ancora gran parte della letteratura manageriale. Si fa strategia per sconfiggere i
concorrenti. Si studia il “quadro competitivo” per acquisire una posizione di predominio nel mercato.
Negli anni più recenti qualcuno ha parlato di coopetition, di competizione-cooperazione. Si è capito che
la strategia di una azienda non sempre porta ai migliori risultati quando essa si oppone frontalmente ai
concorrenti, ma che esiste la possibilità di stabilire alleanze diverse, addirittura con gli stessi concorrenti,
per ottenere migliori risultati. La strategia, da un gioco a somma zero, come fin ora è stata intesa ed
usata (la forma classica, che vede contrapposti un vincitore e uno sconfitto), si trasforma in un gioco a
somma positiva, che può risolversi in un vantaggio di più giocatori anche se tra loro avversari. Abbiamo
parlato di gioco: e in effetti questa concezione della strategia è stata razionalizzata attraverso gli
algoritmi della teoria dei giochi. I giochi di strategia applicati al computer si basano su questa
concezione.
2. Un secondo modo di intendere la strategia fa riferimento non tanto ad un avversario da battere, a una
competizione dalla quale si cerca di uscire vincenti, quanto a un obiettivo da conseguire. Da questo
secondo punto di vista, la strategia si presenta come un complesso di pensiero e azione orientato al
conseguimento di finalità di grande respiro piuttosto che ad obiettivi immediati.
I due modi di pensare la strategia sono molto diversi, e tuttavia non necessariamente contrapposti. Se una
azienda vuole raggiungere un obiettivo operando in un contesto di mercato, necessariamente dovrà
competere con dei concorrenti. Si può tuttavia rilevare che mentre nel primo modo d’intendere la strategia
la competizione assume il ruolo primario, nel secondo è il conseguimento dell’obiettivo ad assumere il ruolo
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centrale. Nel primo modo, la competizione a volte arriva al punto di far dimenticare l’obiettivo pur di battere
l’avversario, in un gioco estenuante, spesso molto poco strategico, per tutti e due i contendenti. Nel secondo
modo, l’ideale per i contendenti sarebbe quello di poter conseguire ciascuno i propri obiettivi senza colpo
ferire. Rosabeth Moss Kanter ha immaginato il sistema di mercato come una permanente olimpiade. Dietro
questa concezione, evidentemente ideale, sta una aspirazione analoga a quella che dovrebbe sottostare al
ruolo della politica e dello sport: l’aspirazione che la competizione economica serva prima di tutto a produrre
ricchezza per tutti, così come la politica dovrebbe puntare al bene della polis prima che alla conquista del
potere, e lo sport dovrebbe costituire una forma di competizione leale capace di sostituire con una
simulazione i conflitti cruenti.
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clamorosi fallimenti. Il colpo di grazia venne dalla crisi del petrolio del 1973. In Italia, negli anni
sessanta/settanta, i documenti di pianificazione pluriennale venivano pittorescamente definiti “libri dei
sogni”. Il fallimento della pianificazione ebbe riflessi rilevanti sul comportamento delle aziende. Gli staff
dedicati alla pianificazione e controllo vennero decimati. Spesso si passò da un estremo all’altro: se la
pianificazione strategica non serve più, si ragionava, allora significa che fare strategia è inutile. Occorre
invece, si cominciò a pensare, acquisire una grande capacità di adattamento all’ambiente sempre più vario e
in continua evoluzione. Si osservava poi che, mentre le grandi aziende, spesso altamente burocratizzate,
mostravano una scarsa capacità di adattamento alla complessità del contesto, le piccole mostravano una
grande capacità di reazione, di sopravvivenza e sviluppo.
In contesti come quello italiano, dominato dalle piccole aziende, alla fine degli anni ‘70 queste ultime si
rivelarono capaci di sostenere l’economia del Paese nonostante lo sfascio delle grandi imprese pubbliche e
private. Lo slogan “piccolo è bello”, inventato da Ernst F. Schumacher con riferimento ad una economia
sostenibile, divenne uno slogan anche per le imprese. Gli assunti che stavano dietro a questa seconda
concezione erano radicalmente opposti a quelli della pianificazione strategica:
1. L’ambiente esterno, il comportamento dei mercati e dei consumatori vanno considerati come variabili
indipendenti rispetto ai comportamenti dell’impresa.
2. Previsioni e scenari sono inaffidabili e, quindi, non funzionali alla gestione aziendale.
3. Pertanto, la pianificazione strategica (intesa come sinonimo della strategia) è inutile. Conta solo la
gestione operativa, il cui compito è quello di adattarsi con la massima flessibilità e velocità possibili alle
variazioni dell’ambiente e dei mercati. Il management deve assumere un comportamento contingentista.
Ma l’atteggiamento puramente reattivo porta inevitabilmente le aziende a subire gli eventi, rinunciando ad
anticiparli. In sostanza, le porta ad essere costantemente in affannoso inseguimento dei cambiamenti
dell’ambiente e del mercato, dissipando energie e risorse. Questo atteggiamento, in un contesto sempre più
competitivo e che premia i più capaci di innovazione, di essere “più avanti” degli altri, si rivela per le aziende
che lo adottano oggettivamente perdente. Non si può fare a meno della strategia, del tentativo di anticipare
gli eventi. È in corrispondenza con questa evoluzione che si comincia a parlare di strategic management,
come di un superamento dello strategic planning. Nella gestione strategica, i tre momenti a) della
concezione della strategia, b) dell’impiego delle risorse aziendali e c) del confronto con l’ambiente e il
mercato, vengono considerati come tra loro interdipendenti. La strategia consiste nella loro gestione
congiunta e dinamica.
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Negli ultimi tempi, la crescente complessità e dinamica degli eventi non solo economici e l’accelerazione
dell’innovazione tecnologica ha ulteriormente messo in crisi le concezioni tradizionali della strategia. Non
solo si è preso atto dell’affermazione di Hamel, secondo cui “la pianificazione strategica non è strategica”,
ma tutto il processo di formulazione e di realizzazione della strategia è apparso sempre più impalpabile e
sfuggente. Recentemente un grande manager, Arie de Geus, che nella sua lunga carriera è stato sempre
all’avanguardia nella sperimentazione di tutte le forme del governo strategico dell’impresa, ha fatto una
affermazione piuttosto sconcertante: citando un verso del poeta Antonio Machado: “La vita è un percorso
che si traccia nell’andare”. Egli ha dichiarato: “Per me, questo verso esprime la lezione più profonda sulla
pianificazione e sulla strategia che io abbia mai appreso. Quando vi guardate indietro, voi vedete
chiaramente il percorso che vi ha portato dove siete. È un percorso che voi stessi avete creato. Ma quando
guardate avanti, non vedete altro che terra inesplorata”. Questo commento farebbe pensare a una rinuncia
ad anticipare il futuro, a un atteggiamento fatalistico. In realtà, Arie de Geus vuole semplicemente dire che
prevedere è oggettivamente impossibile, ma che ciò non esime dall’esplorare il futuro: anzi, la costruzione di
scenari diviene essenziale per una azienda che voglia anticipare gli eventi. La strategia diventa così un
processo di apprendimento (prima) e decisionale (poi) continuo, immerso in un “brodo di cultura”, costituito
dalle conoscenze acquisite e dalle ipotesi sul futuro, che accrescono le possibilità per le decisioni strategiche
di andare nella giusta direzione. Il fattore apprendimento (si badi, apprendimento, non semplicemente
conoscenza) è l’elemento in più che si viene ad aggiungere alla previsione e alla progettazione dell’azione: è
l’apprendimento che si produce sviluppando e raffinando le ipotesi sul futuro che conduce a definire azioni
strategiche via via più mirate ed efficaci.
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L’impegno all’apprendimento continuo porta la strategia al di fuori dei circoli ristretti degli specialisti, la
trasforma in uno stile di management, in una disciplina che ha ripercussioni su tutti gli aspetti della gestione
aziendale. Anche se la decisione strategica resta una responsabilità de vertice aziendale, in realtà il processo
di apprendimento deve coinvolgere tutti i soggetti significativi dell’azienda, ognuno in base al suo ruolo, alle
sue competenze e alla sua esperienza. Si parla di learning organisation (organizzazione che apprende) per
descrivere questo mainstream (corrente principale) di cui i top manager decisori sono i “collettori” finali.
Nessuno di essi è il più importante, il punto di partenza, anche se nelle diverse epoche il peso di ciascuno
dei tre rispetto a quello degli altri è sembrato cambiare. Oggi vi è una diffusa raccomandazione a dare molta
importanza all’ambiente, e al protagonista più importante dell’ambiente di un’azienda: il cliente. Ma nella
prassi aziendale, l’aspetto delle risorse che compongono l’organizzazione ha forse oggi il sopravvento: molte
consulenze puntano sulla revisione dei processi interni dell’azienda, spesso al solo scopo di ridurre i costi,
nonostante il fatto che la rete globale spinga sempre più ad affrontare i rapporti tra l’azienda e il suo
esterno. D’altra parte, il crescente impulso che l’innovazione tecnologica imprime sull’offerta al mercato
porta a un rilancio di quella componente della visione che è rappresentata dalla creatività imprenditoriale.
Tutti e tre gli elementi fondamentali della strategia ricevono una sorta di shock da quella che viene chiamata
un po’ troppo genericamente New Economy. Dopo la fine dell’illusione degli anni duemila che i cicli
economici fossero spariti e che fosse possibile contare su uno sviluppo continuo (uno dei significati attribuiti
inizialmente al termine New Economy), vi sono diversi aspetti che possono determinare profondi
cambiamenti nell’economia.
In particolare:
La “esplosione dell’interconnessione”, determinata dagli effetti, che pervadono ogni attività umana, dello
sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ITC). Da questo punto di vista si
dovrebbe parlare, più che di new economy, di net-economy;
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Gli effetti emergenti dello sviluppo di altre tecnologie che toccano i fondamenti della vita: le
biotecnologie e le nuove tecnologie energetiche;
La nascita spontanea di un sistema economico/ finanziario globale, che mette in mora la capacità degli
uomini di imprimergli regole e istituzioni adeguate (cioè necessariamente diverse da quelle tradizionali
dei vecchi stati nazionali);
Il ruolo delle aziende, dalle più piccole alle multinazionali, che tende sempre più a trascendere quello
strettamente economico (l’azienda “economica” è un’astrazione come l’homo oeconomicus, che non ha
nulla a che fare con l’azienda “vivente”, dice Arie de Geus), e a dover assumere responsabilità
autonome, “istituzionali”, nei confronti del proprio ambiente (naturale od umano, che per molti versi
sono la stessa cosa).
A - L’esplosione dell’interconnessione
La crescita esponenziale delle potenzialità di elaborazione e di trasmissione di informazioni, consentita dallo
sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ITC), tende a dare a chiunque la
possibilità di comunicare (e condividere) qualunque cosa con chiunque altro. Porta inoltre alla creazione di
una vasta area di business intangibili (elaborazione e trasmissione di numeri, parole, immagini, suoni)
indipendente dai tradizionali business dei beni e dei servizi, e a stabilire nuovi rapporti tra le due aree (si
pensi, ad esempio, all’affrancamento del business della prenotazione dei posti da quello del trasporto
aereo). Questa separazione tra i business dell’informazione e i business dei beni e servizi è la causa
principale della “decostruzione” in atto dei settori economici, dei mercati e delle aziende stesse. Essa porta
alle estreme conseguenze i processi peraltro già in atto da tempo di disarticolazione delle “catene del
valore”, di cui i distretti produttivi, la divisione di grandi aziende in molte unità strategiche d’affari (SBU), il
moltiplicarsi di sistemi d’imprese (come, ma non solo, i franchising), la diffusione dell’outsourcing, la
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creazione di sistemi di alleanze, sono stati espressione negli ultimi anni. Alla concezione tradizionale della
strategia competitiva, basata sulla linearità della catena del valore di ogni azienda o filiera di aziende e sulla
loro competizione all’interno di settori e mercati considerati come dati, si sostituisce una concezione del
sistema o della rete del valore sempre più complessa, cioè varia e variabile, e dai confini più indefiniti. Il
“valore” non si forma più nelle singole fasi successive di un processo produttivo lineare, ma nello scambio e
collaborazione di più protagonisti (anche se al centro della strategia resta sempre la “congiunzione” tra
l’inventiva dell’imprenditore e le esigenze del cliente). Per chi si occupa di strategie aziendali, capi azienda o
manager o consulenti, tutto ciò significa che non è più possibile dare per scontato qualsiasi “concetto” o
struttura preesistente di business. Governo dell’impresa, visione e identità futura dell’azienda, scenari da
realizzare, beni e servizi offerti, basi di clienti, processi produttivi e distributivi, sistemi di alleanze, formule
imprenditoriali, tutto deve formare oggetto di riflessione approfondita per fare meglio ciò che sappiamo fare,
per apprendere ciò che è necessario, per instaurare con i clienti un permanente dialogo costruttivo, per
accrescere, come dice Normann, “la densità” del business, cioè per trarre dalle risorse il massimo di
opportunità economiche. Il passaggio dalla catena del valore al sistema del valore non riguarda quindi solo
l’organizzazione, ma proprio tutti gli elementi della strategia aziendale. L’innovazione di mercato, definita già
negli anni venti del secolo scorso da Schumpeter come “distruzione creativa” e come compito inalienabile
dell’imprenditore, è forse il concetto più persistente della strategia, anche e soprattutto nel contesto della
New Economy.
Responsabilità dell’azienda
La globalizzazione ha, tra i suoi effetti, una sorta di “rivoluzione istituzionale” che vede gli stati nazione
cedere il passo rispetto a un più complesso sistema di poteri, nel quale le imprese giocano un ruolo non più
mediato dagli interessi nazionali (come ai tempi della Compagnia delle Indie), ma sono chiamate a
rispondere direttamente dei propri comportamenti. Le aziende non sono più una realtà puramente
economica, affrancata da altre responsabilità rispetto al contesto socio-culturale in cui operano, né una zona
franca dove sono consentiti comportamenti incompatibili con un sistema di convivenza civile. Questo
processo di necessaria “democratizzazione” delle imprese non è causato soltanto dai sempre più evidenti
effetti perversi dello sviluppo economico sull’ambiente, per cui crescono i vincoli per uno “sviluppo
compatibile”. Né è solo l’effetto delle pressioni di movimenti globali (il “popolo di Seattle”, o del G7 di
Genova) che mettono a nudo gli effetti regressivi sui diritti dei lavoratori, dei consumatori e più in generale
dei diritti umani e sul benessere generale, del liberismo senza regole prodotto dalla globalizzazione. A nostro
parere è anche frutto autonomo dei principi, delle motivazioni, delle visioni non esclusivamente economico-
finanziarie che animano i leader più lungimiranti delle aziende, piccole o grandi che siano. I codici di
condotta sulla “corporate governance”, così come i “credo” che molte aziende si danno per rendere espliciti i
principi che dichiarano di voler rispettare e imporre alla propria azienda, con riferimento alla propria
organizzazione e ai propri prodotti, non sono soltanto, come sostiene Naomi Klein, l’autrice di “No Logo”,
espedienti di relazioni esterne. Sono un segnale, prima inesistente, di una crescente consapevolezza delle
imprese che le possibilità di creazione di ricchezza e quindi di profitti, in un mondo globalizzato ed evoluto,
dipenderanno sempre più da un contesto di rispetto dei diritti e di fiducia diffusa, oggi certamente
fortemente carente.
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dialettica con il suo ambiente. A questo punto, che dire? Ogni sostenitore di una delle tesi qui
sommariamente presentate esibisce argomentazioni robuste per sostenere la sua opinione. Per quanto ci
riguarda, noi riteniamo che l’azienda esista soprattutto per creare valore per il cliente. A nostro parere, la
creazione di valore per il cliente consente la creazione di valore per tutti gli altri stakeholder, a partire dai
proprietari. Certo, il discorso non è così semplice, sia perché strettamente connesso con la creazione di
valore c’è il problema della sua distribuzione (in primo luogo tra cliente, proprietari e lavoratori. E che dire
delle aziende che riescono a soddisfare il cliente sfruttando il lavoro dei bambini del terzo mondo?), sia
perché vi è spesso un contrasto tra la (supposta) creazione di valore nel breve termine e la creazione di
valore nel lungo termine. Nel breve termine, spesso gli interessi dei diversi stakeholder appaiono in radicale
contrasto tra loro: in particolare gli interessi degli azionisti con quelli dei clienti, dei dipendenti, dei manager.
Ma è stato dimostrato che, nel medio/lungo termine, un comportamento di tutti i protagonisti, a partire dal
capo azienda, che abbia come obiettivo la sopravvivenza e l’evoluzione dell’azienda attraverso la creazione
di un valore superiore per clienti, può consentire a tutti i suoi stakeholder di conseguire risultati superiori a
quelli conseguiti dalle altre aziende. E infatti, la fedeltà del cliente può essere ottenuta solo attraverso una
maggiore produttività consolidata nel tempo, che consente all’azienda contemporaneamente di offrirgli di
più o di meglio (o tutti e due) a parità di costi, e nello stesso tempo di guadagnare di più e di mantenere un
vantaggio competitivo. Vi sono, certamente, situazioni nelle quali il valore, ammesso che sia effettivamente
prodotto o non ridotto, viene incamerato in misura esorbitante da alcuni stakeholder a danno degli altri e
della sopravvivenza dell’azienda. Vi sono addirittura situazioni di sopravvivenza e sviluppo nel lungo termine
di organizzazioni che prosperano a danno dell’ambiente in cui operano (mafie, società finanziarie
speculative, ecc.). Queste organizzazioni hanno natura e comportamenti simili a quelli dei parassiti. Ma
evidentemente, anche se sopravvivono e si sviluppano, non dovrebbero essere considerate come aziende, in
quanto non producono reale valore per il cliente. Il riferimento al valore per il cliente dovrebbe consentire di
distinguere le vere aziende da altre organizzazioni che hanno altra natura e altri obiettivi. Certo, il concetto
di valore per il cliente crea qualche problema di non facile soluzione. Dato che si tratta di un valore
soggettivo espresso dal cliente stesso, si potrebbe dire che anche la droga, anche un’arma costituisce un
valore a cui l’azienda deve adeguarsi. Noi possiamo dire solo che quando si parla di valori si dovrebbe
intendere qualcosa di positivo, di costruttivo e non distruttivo. Richard Normann parla del valore per il
cliente come di qualcosa che o lo allevia di un compito gravoso, o lo “mobilita” consentendogli di realizzare
meglio i suoi progetti. Il famoso storico dell’arte John Ruskin, considerato tra i pensatori che ha
maggiormente influenzato la classe dirigente anglosassone, riteneva che la vera ricchezza (cioè il valore), sia
a livello individuale che nazionale, fosse costituita dalla “qualità della vita”. Recentemente, il premio Nobel
per l’economia Amartya Sen ha affermato che lo sviluppo economico dovrebbe proporsi come obiettivo
quello di offrire agli individui una “libertà sostanziale, cioè la capacità di scegliersi una vita cui (a ragion
veduta) ciascuno di essi dà valore”. È chiaro che quell’“a ragion veduta” è determinante, perché distingue
tra valori “ragionevoli” (cioè positivi, per sé e per gli altri) e valori “irragionevoli”, cioè distruttivi (droga,
armi, ecc., in relazione al loro impiego). Questa definizione di Sen può benissimo porsi come discriminante
per una azienda che voglia fare del suo obiettivo qualificante la creazione di valore per il cliente.
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L’esplorazione di queste aree deve essere considerata come strumentale per la strategia, che è sempre in
atto. Non deve cioè involversi in un continuo sguardo sul passato (con il rischio di far diventare l’azienda
come la biblica statua di sale), e tanto meno avere come obiettivo la formulazione di un cosiddetto piano
strategico.
INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
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Richard Normann: “Le condizioni di sviluppo dell’impresa”, Etas Libri, 1979 (ed. or. “Management for growth”, John Wiley &
Sons, 1977).
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(tratto da “The rise and fall of strategic planning”, Free Press & Prentice Hall Int, 1994)
Henry Mintzberg: “Crafting strategy”, HBR, July-August 1987)
Michael E. Porter: “Il vantaggio competitivo”, Ed. Comunità, 1987. (Ed. orig.: “Competitive advantage”, The Free Press,
1985).
Adam M. Brandemburger and Barry J. Nalebuff:“Co-opetition”, Currency Doubleday, 1996.
Gary Hamel and C.K. Prahalad: “Ripensare il futuro”, Il Sole 24 Ore 1997 (ed. or. “Competing for the future”, Harvard
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Arie de Geus: “L’azienda del futuro”, Franco Angeli 1999 (ed. orig. “The living company”, HBS Press, 1997).
Richard Normann: “Reframing business”, John Wiley
& Sons, 2001
Gary Hamel: “Leader della rivoluzione”, Il Sole 24Ore, 2001 (ed. or. “Leading the revolution”, HBS Press, 2000).
R. Moss Kanter: “E-volve”, HBS Press, 2001.
Russell L. Ackoff: “The Democratic Corporation”, Oxford University Press, 1994
Frederick F. Reichheld: “Il fattore fedeltà”, Il Sole 24 Ore, 1997 (ed. or. “The loyalty effect ”, HBS Press
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cinque o dieci anni. Il nostro target reale era il microcosmo dei nostri decision makers: se non fossimo stati
in grado di influire sui modelli mentali, sulla visione della realtà dei nostri decision maker “critici”, i nostri
scenari sarebbero stati come acqua corrente sulla pietra. Si trattava di un compito molto più difficile della
semplice produzione di uno scenario ben confezionato”. Oggi crediamo che non esista più questa netta
distinzione funzionale tra pianificatori (categoria quasi estinta) o scenaristi da una parte, e decision-maker-
manager dall’altra. Ma il problema di come integrare il pensiero strategico con l’azione strategica è più che
mai attuale. E’ il problema di qualsiasi imprenditore, di una grande o di una piccola azienda, che egli risolve
comunque, come è stato detto, “unendo pensiero e azione in un solo gesto” (J. Hillman). Questo gesto può
avere risultati straordinari, ma anche effetti molto negativi. E il metodo degli scenari può rivelarsi decisivo
per realizzare la prima alternativa. Ma dobbiamo prima avere le idee chiare su che cosa intendiamo con la
parola “scenario”.
Nell’immaginare il nostro futuro o le conseguenze delle nostre decisioni/azioni influisce sia l’ipervalutazione
delle cose che noi sappiamo di sapere (SICUMERA) sia l’enfatizzazione delle cose che sappiamo di non
sapere (INCERTEZZA, TIMORE DI SBAGLIARE). Nel corso della storia si sono verificati incredibili errori di
previsione di tipo binario, nel senso che gli eventi si sono indirizzati in direzioni radicalmente opposte a
quelle immaginate. L’elenco che vi mostriamo in figura, tratto da Paul J.K. Schoemaker (1995) che a sua
volta lo ha ripreso da una precedente pubblicazione, ci consente di sorridere (ovviamente a posteriori) su
alcuni macroscopici errori di previsione da parte di personaggi da cui si sarebbero dovute attendere certezze
per il futuro.
Di esempi come questi potrebbero esserne citati molti altri. E’ facile capire che, senza un continuo tracking
proattivo degli eventi, il rischio di impegnare il business in direzioni strategiche sbagliate, e quindi molto
costose, diventa alto (si pensi alla fine dei dirigibili dei tempi di Lord Kelvin il quale, nonostante la sua
posizione prestigiosa nella comunità scientifica, si distinse per le previsioni errate). Chiunque cerchi di
esprimere giudizi e valutazioni su quello che accade o che può accadere nel futuro è esposto ad una serie di
bias o illusioni cognitive che lo inducono sistematicamente in errore senza che egli ne sia immediatamente
consapevole. Uno di questi possibili bias è l’illusione di sapere. E’ una illusione che spesso caratterizza
proprio persone dotate di capacità di leadership e di decisione, che tuttavia, proprio per la loro sicurezza, a
volte ascoltano poco. Uno degli errori più frequenti nel formulare previsioni è la sottovalutazione o la
sopravvalutazione dei cambiamenti. Basta riflettere su ciò che sta accadendo, quanto ai tempi di
trasferimento e dispiegamento delle nuove tecnologie digitali in mercati che siano economicamente redditizi,
per capire quanto questo problema sia rilevante, e di quali conseguenze economiche sia portatore. Un
esempio di questi bias (pregiudizi) è lo sviluppo, molto più lento del previsto, della diffusione del B2C, e dei
proventi pubblicitari provenienti da Internet. Un altro esempio macroscopico è costituito dalle vicende che
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hanno portato grandi gruppi a investire cifre enormi per l’UMTS, i cui ritorni appaiono molto più dilazionati e
aleatori del previsto. Un esempio opposto è dato dalla fulminea diffusione dell’uso del telefono cellulare, le
cui previsioni per l’Italia erano inizialmente stimate intorno ai due-tre milioni di utenti, contro i cinquanta
milioni attuali. Un altro bias frequente, anch’esso collegato all’illusione di sapere, è una osservazione della
realtà viziata dal bisogno di sicurezza: quest’ultimo, infatti, porta a cercare conferme o a rifiutare smentite
delle proprie convinzioni.
Inoltre, occorre tener sempre presente il fatto che siamo soggetti a tunnel cognitivi, trappole innate nel
nostro sistema cognitivo che “risucchiano” i nostri ragionamenti più intuitivi.
Essi sono il risultato di un particolare inconscio che, a differenza di quello messo in luce da Freud, non
coinvolge la sfera emotiva del nostro essere ma, sempre a nostra insaputa, la nostra sfera cognitiva, cioè
l’universo dei ragionamenti, dei giudizi e delle scelte tra diverse opportunità, delle ponderazioni tra ciò che è
ritenuto più o meno probabile. Sono meccanismi psichici, strutturati nella nostra mente, che agiscono sui
singoli, a loro insaputa, ma che hanno spesso effetti tangibili e indesiderati sulle collettività. Infine bisogna
fare i conti con i nostri insidiosi modelli mentali che noi ci creiamo con un meccanismo “culturale”,
generalizzando esperienze soggettive e circoscritte. I modelli mentali sono immagini, assunti e storie che ci
portiamo dentro la nostra mente su noi stessi, sugli altri, sulle istituzioni e su ogni aspetto della realtà. Come
lo spesso vetro di una finestra incornicia e distorce sottilmente la nostra visione, i modelli mentali
determinano ciò che noi vediamo. Gli esseri umani non possono vivere, “navigare” nella complessità del loro
mondo senza mappe mentali cognitive. E tutte queste mappe mentali, per definizione, sono per definizione
imprecise. Quando veniamo a contatto con un nuovo elemento della realtà (un fatto nuovo, una nuova
notizia, una nuova persona, un nuovo luogo, un nuovo compito, ecc.) la nostra mente cerca di trovare
nell’esperienza passata (sia diretta, cioè cose che abbiamo provato e vissuto noi in prima persona; sia
indiretta, cioè cose che abbiamo conosciuto indirettamente attraverso letture, immagini di video, racconti di
altre persone), altre situazioni simili. Se ci sembrerà di trovare qualche esperienza simile, adotteremo con la
nuova i modelli di comprensione/spiegazione/ azione che abbiamo già usato. Questa nostra abilità cognitiva
di “riciclare” modelli mentali di esperienza è molto utile ed economica: non siamo costretti a ricominciare da
capo ogni volta o a fare tutte le volte una esperienza diretta. Tuttavia, può essere un grave handicap
nell’affrontare situazioni realmente nuove, dove è necessario riformulare i nostri modelli interpretativi. Il
processo di elaborazione dei modelli mentali è stato brillantemente illustrato da Chris Argyris (un teorico
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dell’organizzazione nonché grande consulente aziendale) con la metafora della scala dell’inferenza. La nostra
mente funziona automaticamente in modo sintetico-intuitivo: noi tendiamo a sintetizzare le nostre
impressioni sui fatti e gli eventi con i quali veniamo in contatto. Ci basta poco per capire tutto il resto, come
negli indovinelli. Se io dico “Tanto va la gatta al lardo che…” tutti sanno concludere, come Roger Rabbit:
“…che ci lascia lo zampino!”, senza dover ascoltare la fine della filastrocca. Ed è così un po’ per tutto.
Vediamo per la prima volta una persona e dal suo modo di fare cerchiamo di capire che tipo è. Un amico ci
accenna a non ben precisati problemi in famiglia, e noi concludiamo che si sta separando dalla moglie.
Questo procedimento, appunto sintetico e intuitivo allo stesso tempo (arriviamo in estrema sintesi alle
conclusioni e, spesso, senza doversi pensare intenzionalmente) si chiama inferenza. Molte volte ci
azzecchiamo. Altre volte sbagliamo alla grande.
L’inferenza per essere plausibile deve essere basata su una solida base di riferimenti, ma se noi non li
abbiamo e ci fidiamo del nostro intuito compiamo quello che si dice un salto d’inferenza. E non tutte le volte
che sbagliamo siamo disponibili ad accettare i nostri errori di valutazione e di inferenza. La scala d’inferenza
è un percorso mentale molto comune, tutto implicito, nel quale l’astrazione dai fatti reali cresce velocemente
senza che noi ce ne accorgiamo.
Il modello della scala d’inferenza spiega appunto i salti d’inferenza che portano a creare ed usare modelli
mentali ingannevoli. Addirittura, alcune volte usiamo altri salti d’inferenza per giustificare i nostri errori. Ad
esempio un’azienda sbaglia una proposta commerciale, il lancio di un nuovo prodotto: nessuno lo compra. Si
giustifica il fallimento accampando ragioni esterne come “l’impreparazione del mercato” o “l’incompetenza
dei clienti”. “I nostri prodotti sono avanti di dieci anni e i nostri clienti non li possono capire…”. Questo
meccanismo di copertura delle conseguenze dei salti d’inferenza si dice cerchio riflesso.
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Le differenze tra modelli mentali spiega perché due persone possono osservare lo stesso evento e
descriverlo differentemente: essi prestano attenzione a dettagli differenti e li interpretano secondo modelli
mentali diversi. I modelli mentali inoltre determinano il modo in cui noi agiamo. Per esempio, se pensiamo
che le persone siano fondamentalmente affidabili, ci rivolgiamo ad un nostro nuovo conoscente con maggior
sicurezza e spontaneità di chi pensa che non ci si possa fidare delle persone. Poiché i modelli mentali sono
normalmente taciti, al di sotto della nostra coscienza, non sono di soliti esaminati e messi alla prova. Infatti,
il meccanismo di selezione ed applicazione dei modelli è velocissimo ed automatico: noi non dobbiamo
decidere o scegliere, la nostra mente fa tutto da sola. Perciò i modelli mentali rimangono, generalmente,
invisibili a meno che non li andiamo intenzionalmente ad esaminare. Un obiettivo della processo di sviluppo
degli scenari appunto è portare alla superficie i modelli mentali, per esplorarli e parlarne senza reticenze, per
permetterci di vedere la struttura della lastra di vetro della finestra, vederne l’impatto nella nostra vita, e
trovare il modo di riplasmare il vetro creando nuovi modelli mentali che siano più funzionali nel nostro
mondo. Perché, attenzione, non si può fare a meno dei modelli mentali, ma noi possiamo cercare di avere
modelli più funzionali. “Il futuro ha le sue radici nel nostro passato”, ma se valutiamo le azioni che abbiamo
compiuto e le loro conseguenze in modo distorto, recidiamo queste radici e il futuro ci sembrerà un caos
contingente.
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SIGN 'O' THE TIMES MANAGEMENT
Bisogna tenere presente, inoltre, che i modelli mentali e i bias cognitivi possono essere anche “collettivi”,
coinvolgere anche gruppi di persone, aziende, eccetera, come espressione radicale (cioè che sta alla base,
in profondità) della cultura e del modo di pensare e vedere le cose di quella particolare comunità. Pensiamo,
ad esempio, cosa può succedere quando un’azienda ha una cultura da leader di mercato, la supponenza del
not invented here (non inventato qui), e non si accorge che un’altra azienda le sta portando via il mercato
(ricordiamo ad esempio la vicenda che vide protagonista la Xerox nei confronti dei fabbricanti di
fotocopiatrici giapponesi). I difetti di conoscenza, i bias cognitivi, i tunnel e i modelli mentali deprimono la
nostra capacità di previsione e costituiscono una delle ragioni non secondarie per sviluppare gli scenari.
Tutte queste illusioni cognitive possono essere portate alla luce e risolte soltanto attraverso un processo
razionale e collettivo. Razionale perché ci porta ad un livello cognitivo “contro-intuitivo” più plausibile,
collettivo perché il dialogo tra persone con diverse idee, competenze e punti di osservazione, sviluppa una
conoscenza più articolata e solida. Quindi è importante che gli scenari non siano affidati a una sola persona
ma ad un gruppo opportunamente assortito, e soprattutto che questa persona o gruppo pensino e agiscano
come un sistema aperto agli apporti esterni: cioè, in sintesi, dialoghino tra loro e con altri. Infatti, solo
l’apertura verso l’esterno e la dialettica che questa determina, possono incidere la scorza di queste carenze
o bias conoscitivi. A questo punto e in questo contesto può aver senso parlare di scenari, del perché farli, di
quando sono opportuni o necessari, di come farli.
opinione o quando si ritiene necessario favorire l’affermarsi di un linguaggio comune in azienda. Infine, last
but not least, occorre valutare il livello di knowledge management presente nell’ambiente competitivo di cui
l’azienda si trova a far parte. Se questo ambiente è fortemente orientato all’innovazione e a una prospettiva
strategica, come è il caso di molte aziende della new economy, allora l’azienda è praticamente obbligata a
dedicare i massimi sforzi nella esplorazione del futuro.
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Un primo problema del metodo degli scenari consiste nel definire quanti scenari alternativi convenga
costruire. E’ evidente che, data varietà e la variabilità dell’ambiente, si potrebbe costruire un numero
infinito di scenari. Ma ciò sarebbe impossibile, specie tenendo conto dei limiti della mente umana. “La prova
di una intelligenza superiore, diceva lo scrittore Francis Scott Fitzgerald, sta nella capacità
di ospitare nella propria mente due idee in conflitto tra loro, conservando tuttavia la capacita’ di ragionare”.
Se si pensa alla grande intelligenza ed esclusività di questo autore, il fatto che egli ritengastraordinario
riuscire a pensare due cose opposte senza perdersi, fa capire come gestire contemporaneamente più scenari
sia arduo per molti di noi. Non a caso si suggerisce normalmente di formulare due scenari, uno che esplori il
da farsi in un contesto molto negativo, e un altro riferito a una prospettiva molto positiva. A questo punto
proviamo a descrivere una procedura, suggerita da P.J.K. Schoemaker, per formulare uno scenario. Anche
per una piccola azienda, che non abbia la possibilità di usare metodologie sofisticate, lo schema seguente
costituisce una check list di ciò che occorre tener presente per una pratica scenaristica consapevole:
1 - Definire i confini temporali e spaziali.
2 - Identificare i principali attori.
3 - Identificare le tendenze (i trend) principali.
4 - Identificare i maggiori fattori d’incertezza.
5 - Costruire prime ipotesi drasticamente alternative.
6 - Verificarne coerenza e plausibilità.
7 - Sviluppare scenari conoscitivi.
8 - Identificare le esigenze di ulteriori ricerche.
9 - Sviluppare eventuali modelli quantitativi.
10 - Passare dagli scenari conoscitivi agli scenari decisionali (vedi figura 6).
Occorre in primo luogo definire i confini temporali e spaziali. Anche se i confini del business sono
oggi quanto mai mutevoli, è necessario decidere qual è e quale si vuole che sia in futuro l’“ambiente
rilevante” per l’azienda, nel quale essa possa svolgere un ruolo attivo. E, in effetti, una seconda cosa da fare
è l’individuazione dei personaggi, cioè degli stakeholder dell’azienda: i clienti prima di tutto, è quindi i
collaboratori, i fornitori, le istituzioni, eccetera, cioè tutti coloro che sono coinvolti in qualche modo
dall’azione dell’azienda. Occorre quindi individuare quali sono le tendenze più significative: l’esistenza di
storie, o serie statistiche, più o meno lunghe consente di effettuare inferenze sul futuro. Quando le serie
storiche sono troppo brevi o erratiche, come avviene attualmente nei riflessi economici delle applicazioni
delle ICT, è chiaro che la affidabilità dei trend diminuisce notevolmente. Insieme ai trend, occorre
identificare i principali fattori di incertezza, cioè quegli eventi che possono accadere o meno, con effetti più o
meno rilevanti per l’azienda, ma che “non hanno storia”. A questo punto ci sono gli elementi per tentare di
costruire uno scenario, o meglio due scenari drasticamente alternativi, la scena di una “commedia” e quella
di una “tragedia” (con l’intento, comunque, di farne la base di storie che puntino ambedue al lieto fine!).
Queste “bozze” vanno sottoposte a un lavorio critico, per renderle coerenti e plausibili. Man mano che gli
scenari prenderanno forma, le successive ipotesi spingeranno a effettuare ulteriori ricerche, ed
eventualmente a costruire modelli quantitativi capaci di costituire simulazioni credibili dello scenario, e quindi
di consentire ulteriori verifiche di coerenza, e di misurazione degli effetti delle variazioni di determinati
parametri.
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L’ultima fase (ma in realtà parallela a tutto il processo) è quella del passaggio dagli scenari conoscitivi, o se
si vuole dello scenario building, agli scenari decisionali, ovvero allo scenario planning. Questi ultimi sono i
veri scenari, nel senso che tendono a rispondere non solo alla domanda: “Che cosa avverrà”, bensì alla
domanda: “Se avverrà questo, noi cosa faremo?”.
5 - Conclusioni
Noi crediamo che la ragione per cui il metodo degli scenari non è ancora molto usato risieda
nell’insufficiente apprendimento, nonostante gli anni trascorsi, della lezione di Wack del 1985: che il
problema del coinvolgimento del “il microcosmo” dei decisori aziendali nella “invenzione” degli scenari è
molto più importante di quello, prevalentemente tecnico, della loro costruzione. Parafrasando Kees van der
Heijeden, possiamo dire che gli scenari sono uno strumento per migliorare la nostra percezione. Gli scenari
funzionano dentro un’idea di strategia come un processo continuo. Questa è la logica conseguenza dell’aver
accettato ed incluso nel nostro modo di pensare ciò che è sconosciuto e incerto e di aver abbandonato l’idea
che esista “la strategia ottimale”. Le decisioni strategiche non sono prese una volta per tutte ma devono
essere costantemente riviste e messe alla prova. Quello che ci sembra la soluzione migliore oggi, domani
potrebbe apparirci come decisamente imperfetta. Per un costruttore di scenari la conseguenza dell’azione è
imprevedibile. Il suo obiettivo non è quindi una previsione ma immaginare quelle che potrebbero essere le
conseguenze. Se l’imprenditore o i dirigenti sono coscienti del valore delle conoscenze e dell’apprendimento
per stare sul mercato oggi e in futuro, allora sarà in un certo senso naturale per loro impegnarsi nella
costruzione continua di “storie del futuro”, cioè di scenari (naturale in un certo senso, perché in realtà
questa costruzione richiede molto metodo e molta disciplina).
Si può pensare alla costruzione di scenari come a un processo di formazione permanente. Un momento di
applicazione disciplinare, sistematica e incrementale, finalizzata al potenziamento delle capacità di previsione
e di ideazione dell’azienda. Ma anche un momento di “distrazione programmata”, attraverso la costituzione
di un team di vertice impegnato sistematicamente in una prassi continua di esplorazione del futuro e di
progettazione simulata, eventualmente con l’aiuto di un consulente esterno che operi come facilitatore
ovvero, come è stato scritto, come “oggetto transizionale” per realizzare il giusto mix di pensiero e azione. Il
lavoro di questa squadra non dovrebbe consistere nel prendere decisioni strategiche, bensì nel creare una
sorta di “brodo di coltura”, di humus, di contesto scientifico-culturale capace di accrescere la validità delle
decisioni strategiche, che spesso debbono essere adottate rapidamente senza che vi sia il tempo per
indagini ulteriori sulla realtà. Questa potrebbe essere la pratica dello scenario planning (se proprio vogliamo
ancora usare questa vecchia dizione) per il futuro.
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INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
D. Kahneman, P. Slovic, A, Tversky, “Judgement under uncertainty: heuristics and biases”, Cambridge University Press,
1982.
Pierre Wack: “Scenarios: uncharted waters ahead”, Harvard Business Review, spt-oct.1985, pag. 84.
Arie de Geus: “Planning as Learning”, Harvard Business Review, march-april 1988.
Philip N. Johnson-Laird: “Modelli mentali”, il Mulino, 1988.
Chris Argyris: “Overcoming Organizational Defense”, Allyn and Bacon, 1990.
Rino Rumiati: “Giudizio e decisione”, il Mulino, 1990.
Massimo Piattelli Palmarini: “L’illusione di sapere”, A. Mondadori, 1993.
Henry Mintzberg: “The Rise and Fall of Strategic Planning”, Prentice Hall, 1994.
Gary Hamel: “Strategy as Revolution”, july-august 1996.
Paul jJ.H. Schoemaker: “Scenario Planning: a Tool for Strategic Thinking”, Sloan Management Review, winter 1995.
Peter Schwartz: “The Art of the Long View”, Currency Doubleday, 1991-1996.
G. Fredric Bolling, “The Art of Forecasting”, Gower, 1996.
Kees van der Hejden: “Scenarios: the Art of Strategic Conversation”,Wiley, 1996-1998.
Arie de Geus: “L’azienda del futuro”, Franco Angeli, 1999. (ed.or.1997), pag. 62.
Kees van der Heijeden, “Scenarios, Strategy and the Strategy Process”, Global Business Network.
Gill Ringland: “Scenario Planning”,Wiley, 1998.
Philip Evans, Thomas S. Wurster: “Bit Bang”, Il Sole 24 Ore, 2000 (ed. Or. 2000).
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Capitolo 3: Tre vie per una strategia viva: sintesi, leva, disciplina
La gestione strategica richiede una visione d’insieme, “olistica” della realtà aziendale, degli scenari possibili e
delle finalità non immediate. Ma le decisioni strategiche vanno spesso adottate rapidamente, senza che ci
sia molto tempo per svolgere tante analisi dettagliate. Come riuscire a tener conto di tutto (o del più
possibile) senza disperdersi, per poi concentrarsi sulle cose da fare? Come riuscire a vedere e provvedere ai
singoli alberi della selva aziendale, ma nello stesso tempo vedere e provvedere al bosco nel suo insieme e
alla sua crescita rigogliosa? Un metodo molto usato è quello che viene sintetizzato nella sigla “SWOT”, e che
è basato sull’esame complessivo dei punti di forza (Strenghts) e dei punti di debolezza (Weeknesses)
dell’azienda, e contemporaneamente delle opportunità (Opportunities) e delle minacce (Threats) che si
prospettano nel suo futuro. Ma occorre anche rendersi conto che nessuna strategia può essere realizzata
senza pensare, oltre che al medio-lungo termine, al qui-ed-ora. Perché la strategia non è qualcosa da fare
dopo, è qualcosa che va fatto in ogni momento. Allora è necessario individuare le “leve” su cui agire subito e
di volta in volta per avanzare verso la visione del futuro. Ma il cerchio non si chiude veramente se non con
un impegno particolare, una “disciplina” capace di dare forza e continuità al comportamento strategico.
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Prima di scendere nel dettaglio, conviene però soffermarsi sui “punti di forza e di debolezza”, per distinguere
due modi diversi di vederli, che conviene non confondere: a loro volta, essi possono esser guardati
dall’esterno o dall’interno all’azienda. Nel modo esterno, noi guardiamo ai punti di forza e di debolezza
nell’ottica del cliente. Al cliente non interessano le attività attraverso le quali noi realizziamo il nostro
prodotto o servizio: a lui interessa che la nostra offerta risponda alle sue esigenze. Dobbiamo quindi
metterci prima di tutto nei panni del cliente, e giudicare i nostri punti di forza e di debolezza dal suo punto
di vista. Spesso fare ciò è tutt’altro che facile, specialmente per le aziende che non sono sufficientemente
orientate al cliente. Quando si diviene consapevoli dei possibili bias, o deformazioni, della nostra valutazione
di ciò che offriamo rispetto al giudizio del cliente, si può ricorrere a diversi metodi o strumenti per
correggerli, come, ad esempio, ai focus group. In questo caso si costituisce un gruppo di clienti il più
possibile rappresentativi, e li si lascia liberi di elencare pregi e difetti dei nostri prodotti, di cosa vorrebbero
di più o di diverso, e di cosa non gradiscono. Le sorprese in genere non mancano. Ma i pregi e i difetti che i
clienti avvertono nella nostra offerta dipendono evidentemente dal nostro modo di operare all’interno
dell’azienda, da quelle attività che, secondo Porter, sono la vera base del vantaggio (o dello svantaggio)
competitivo. Dobbiamo quindi guardare ai nostri punti di forza e di debolezza anche dall’interno. Potremmo
supporre che da questo punto di vista, le nostre capacità di valutazione siano molto superiori rispetto a
quando dobbiamo metterci nei panni del cliente. Ma non è così: se non abbiamo una chiara visione delle
esigenze del cliente, non avremo neanche una chiara visione di cosa funziona e di cosa non funziona nella
gestione della nostra azienda. Allora, lo schema precedente si trasforma nel seguente:
In una prima fase, il capo azienda può impegnare il gruppo dirigente dell’azienda a elencare, per ognuno dei
sei quadranti, tutti i fattori che possono venire in mente, usando un metodo di brain storming orientato
(cioè, elencando opportunità, minacce, eccetera, così come vengono quasi istintivamente in mente
pensando alla situazione e alle prospettive dell’azienda).
Già in questa fase, nonostante la varietà dei fattori elencati, in realtà saremo già orientati alla sintesi, più
che all’analisi: si tratta infatti di sintetizzare tutte le indicazioni emerse nel corso dell’esame della nostra
visione sulla realtà e il futuro dell’azienda, del suo governo, dei suoi scenari possibili, della sua offerta, dei
suoi clienti, della sua organizzazione, dei suoi “numeri”. Tuttavia, essendo l’elenco delle possibili
opportunità, delle possibili minacce, dei punti di forza e di debolezza presumibilmente molto alto, data
l’oggettiva complessità di una azienda anche piccola, e ampiamente eccedente le risorse disponibili,
dovremo necessariamente stabilire delle graduatorie d’importanza, da compiere questa volta secondo criteri
drasticamente selettivi. Diceva infatti il grande cibernetico Stafford Beer: “Il mare è un sistema che si regola
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da sé”, e noi possiamo solo interferire su questo sistema. E Michael Porter aggiunge che “la strategia
consiste nel compiere scelte alternative (trade-off) per competere. L’essenza della strategia sta nella scelta
di che cosa non fare”.
Per questo suggeriamo di cercare di capire quali sono le opportunità e le minacce, i punti di forza e di
debolezza che maggiormente ci entusiasmano o ci turbano in questa fase della vita della nostra azienda. E
su di essi concentrare nel breve termine i nostri sforzi.
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sono compresenti. Un esempio divertente di quest’ultimo caso lo si può trovare in uno dei tanti piccoli
elettrodomestici - robot per preparare i cibi offerti dal mercato: questi marchingegni non solo consentono di
svolgere le attività culinarie tradizionali (sminuzzare, tritare, miscelare, frullare, impastare,
eccetera),“sgravando” il /la cliente di un lavoro lento e faticoso, ma anche, con l’aiuto di un ricettario (un
“codice scritto” che integra il “codice materiale” in cui consiste il robot), di “mobilitarlo” nel realizzare o
addirittura inventare manicaretti di successo con gli ospiti (i clienti del cliente). Come si vede, l’orientamento
al cliente è fondamentale per poter potenziare la propria capacità di leva nel senso di Normann e Ramirez. E
questa può esser una prima indicazione per l’azienda e i suoi vertici che sono alla ricerca delle leve su cui
agire nel breve termine per dare un nuovo impulso all’azienda.
Quest’ultimo requisito è forse il più importante: proprio perché il pensiero sistemico non è merce corrente (è
facile ottenere consensi sulla riduzione delle tasse, senza spiegarne le conseguenze non immediate!), esso
comporta una “disciplina” e una condivisione.
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SIGN 'O' THE TIMES MANAGEMENT
“Se solo avessimo più risorse!”. Dietro questo paravento così diffuso tra i manager, si nasconde spesso “un
eccessivo numero di priorità, una insufficiente tensione strategica, un pensiero troppo poco creativo su
come far lievitare e risorse”.
Ogni processo è limitato da uno specifico collo di bottiglia che, di conseguenza, definisce in quella fase la
capacità e la velocità del processo (una catena è forte quanto il più debole dei suoi anelli). Una volta
rimosso un collo di bottiglia il processo si allinea ad un livello superiore di performance ed avrà un altro collo
di bottiglia da rimuovere se lo si vuole ulteriormente ottimizzare. Questo richiede la capacità di focalizzarsi
sull’anello più debole della catena che spesso, al contrario, è il più negletto e vituperato (si preferisce invece
sottolineare, orgogliosamente, i punti di forza), per sostenerlo e, possibilmente, irrobustirlo. Attraverso i suoi
romanzi. Goldratt incita i manager a fare un passo indietro e a esaminare dove sono i colli di bottiglia, a
capire perché funzionano così e a trovare la soluzione più elegante per risolverli. La soluzione che rimuove il
collo di bottiglia è specifica e circoscritta come, appunto, un’azione leva, e non sempre richiede grandi
risorse o l’impiego di tecnologie sofisticate. La soluzione può anche non essere l’eliminazione fisica del collo
di bottiglia o il suo “allargamento”: può essere trovata attraverso la mobilitazione e il corretto impiego delle
risorse che stanno intorno al costraint. Talvolta è l’emergere di una nuova logica, un modo diverso di vedere
le cose e di gestirle che può rimuovere il vincolo e accelerare il processo bloccato. Ma se non si comprende
l’esistenza e il funzionamento del collo di bottiglia le altre soluzioni potrebbero rivelarsi ininfluenti o,
addirittura, disastrose, amplificando gli effetti del vincolo. In ogni caso la comprensione e l’eliminazione di
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un vincolo richiede una capacità di visione sistemica e olistica del processo e del sistema di cui il processo è
parte dinamica. Un approccio troppo settoriale “nasconde” il costraint e la sua soluzione. Non a caso la
ricerca dei colli di bottiglia e della loro soluzione non è un lavoro da tecnici, da specialisti ma è il compito
giusto per un team di vertice che può più facilmente avere gli strumenti per un approccio globale.
Purché si capiscano alcune cose. La prima, che i giochi nei quali a un giocatore che vince ne corrisponde un
altro che perde (giochi a somma zero, o win-lose) sono forse i più noti ma sono anche un caso particolare.
In realtà, possono svolgersi e si svolgono normalmente, non solo in un mercato, giochi a somma superiore a
zero, nei quali tutti o molti vincono qualcosa (giochi win - win). Sono i giochi in cui si crea valore, si “allarga
la torta”, nei quali l’inevitabile competizione per ottenere una fetta maggiore è facilitata dall’aver contribuito
tutti a creare una torta più grande. La seconda cosa, è che spesso i giochi win-lose diventano giochi lose-
lose, in cui alla fine perdono tutti o ciò che viene perduto e molto di più di ciò che viene vinto (vedi le
battaglie sui prezzi, o le economie dove incombe la criminalità). La terza, è che oltre ai giocatori di cui si
tiene normalmente conto, e cioè la nostra azienda, i suoi clienti, i suoi fornitori (che comprendono anche il
personale e i finanziatori), i suoi concorrenti, c’è una quinta categoria importantissima: i “complementori”,
cioè i giocatori il cui successo è legato al nostro (si pensi solo ai produttori di hardware e a quelli di
software).
Soprattutto la considerazione di quest’ultimo tipo di giocatori ha portato gli autori ad adottare il termine co-
opetition, per dire che la strategia non è solo competizione, ma anche e forse prima di tutto collaborazione.
“Il business consiste nel cooperare quando si tratta di creare una torta e nel competere quando si tratta di
dividersela”. Ciò premesso (e non ci sembra poco), gli autori vedono la strategia secondo una concezione
che potremo definire machiavelliana in senso proprio, cioè come un gioco di potere: “Ciò che potete
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ottenere dipende dal vostro potere e dal potere degli altri che accampano pretese concorrenti sulla torta”. E
“il potere - vostro e degli altri - è determinato dalla struttura del gioco”.
Ora, come sappiamo tutti vivendo nell’epoca della globalizzazione, le regole che presiedono al gioco
del mercato sono molto - e certamente troppo - generali, a differenza di quelle che regolano gli scacchi, il
bridge o anche certi giochi elettronici. Infatti, le norme che regolano la concorrenza, le norme antitrust, la
legislazione finanziaria lasciano grandi possibilità di scelte strategiche. Anche in un futuro in cui queste
regole fossero più rigorose, per prevenire vicende come quelle della Enron, per evitare conflitti di interessi,
per dare un quadro normativo adeguato alla globalizzazione finanziaria, il gioco del mercato darà sempre
molte possibilità di giocare in modo diverso, di fare del gioco qualcosa di imprevedibile come nel paese delle
meraviglie di Alice. “Perché cambiare il gioco?” si chiedono retoricamente gli autori. Perché il successo della
strategia “deriva dalla capacità di dare nuova forma al gioco a cui si partecipa - dal creare il gioco che si
vuole, e non prendere quello che si trova”. E’ il classico concetto di innovazione tradotto in termini di teoria
dei giochi. Ed è qui che entra in campo l’uso di determinate leve. Per cambiare il gioco, è possibile agire su
cinque leve diverse:
Il valore aggiunto: è il valore di ciò che la nostra azienda è in grado di dare al mercato, che aggiunge
qualcosa a ciò che altri già danno: è la capacità innovativa, la valorizzazione delle risorse, il contributo
imprenditoriale.
I giocatori: è possibile cambiarne il numero e le caratteristiche.
Le regole: anche molti criteri che presiedono agli scambi possono essere cambiati, senza ledere la
correttezza delle relazioni.
Le tattiche: dipendono dalle percezioni. Capire non solo come noi vediamo il business, ma anche come lo
vedono gli altri giocatori, quali aspettative hanno, significa poter realizzare risultati più soddisfacenti per noi,
e spesso anche per gli altri.
Il campo: non esistono più mercati, settori, comparti predeterminati. Cambiare il campo di gioco
può essere determinante per il successo della propria strategia. Dal rapido excursus precedente, abbiamo
constatato che esistono molti modi di intendere quell’effetto leva grazie al quale riuscire a “fare di più con
meno”. Anche qui è però necessaria una sintesi. Questa può essere ottenuta a due condizioni:
Che si sia consapevoli che l’adozione di qualsiasi leva comporta tre momenti: un momento di osservazione,
uno di ipotesi –intuizione - creatività, e uno di verifica fattuale. L’idea stessa di leva, come enunciata da
Archimede, partì dall’osservazione, per passare poi ad una intuizione e a una teorizzazione: e tutto questo
portò all’invenzione della prima tra le macchine semplici, alla prima innovazione della storia dell’uomo dopo
la clava.
Che l’effetto leva individuato venga tradotto in un progetto. Ed è questo l’argomento del paragrafo
seguente.
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Se il progetto è strategico, tutta l’azienda deve essere coinvolta in esso, sapere che la sua realizzazione
condiziona il futuro di tutti. Tuttavia, ognuno in azienda deve continuare a presidiare le attività che gli sono
affidate. Pertanto, anche un progetto strategico è di norma affidato a un team, con tutte le caratteristiche di
un vero team: numero di componenti limitato, competenze complementari, obiettivo comune, mutua
affidabilità, obiettivo determinato da conseguire entro un tempo determinato, impegno a fare in presa
diretta più che a far fare. E’ la squadra di punta, quella per la quale tutti fanno il tifo e per il successo della
quale tutti devono dare il proprio contributo, pur continuando a svolgere le proprie incombenze quotidiane,
facendo la guardia al famoso bidone di benzina.
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La sostanza
La strategia è di per sé un processo incessante, nel quale pensiero e azione sono strettamente
interconnessi. Essa però non è un processo spontaneo, non si manifesta come una esigenza primaria, come
il mangiare o il dormire, l’andare a caccia alla ricerca di cibo o il proteggersi dalle intemperie, come facevano
già i nostri progenitori, e come noi stessi facciamo attualmente recandoci ogni giorno al lavoro (o, per usare
il linguaggio aziendale, dedicandoci alla “gestione operativa”) e ritornando la sera a casa. La strategia fa
parte di quelle attività dell’uomo non spontanee, spesso controintuitive, di livello superiore che egli si
impone quando scopre che la sua sopravvivenza e il suo sviluppo in senso lato (fisico, culturale, sociale)
dipendono dalla capacità di imporsi degli obiettivi ambiziosi e delle regole. “Fatti non foste a viver come
bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”, dice Ulisse ai suoi vecchi compagni, che oggi definiremmo
pensionati, per stimolarli ad intraprendere un’ultima avventura.
Ora, gli uomini liberi che non vogliono “viver come bruti”, sono soliti scegliere liberamente di sottostare a
una religione (da religo, cioè lego) o, se laici, a un imperativo categorico, un comando a cui volontariamente
e coscientemente si sottomettono. Lo yoga ha la stessa radice del nostro “giogo”. Persino chi si pone
l’obiettivo di migliorare le proprie condizioni fisiche e il proprio aspetto esteriore, si sottopone a duri esercizi
in vista di una maggiore fitness, cioè di un migliore equilibrio, purtroppo per lo più solo fisico e di immagine.
La strategia risponde a finalità e regole analoghe. Come ha messo ben in luce Peter Senge, la strategia
impone una “disciplina”, anzi un sistema di discipline, che l’azienda stessa si dà sotto una leadership. E,
guarda caso (ma certamente non è un caso), anche la parola “disciplina” ha una etimologia interessante per
noi che stiamo parlando di strategia e di apprendimento. Essa infatti deriva dal latino “discere”, che vuol dire
apprendere. Essa non è quindi, come comunemente si ritiene, un comportamento cieco e remissivo. Al
contrario, è un atto di volontà consapevole. La disciplina comporta quindi prima di tutto un atto morale, una
scelta di “obbedienza” a un sistema di principi e di valori. Senza di questo, non può esserci strategia nel
senso da noi inteso, collegato cioè con la creazione di valore in senso lato. Certo, possono ben esistere
strategie non collegate con quest’ultimo fine. Gran parte delle strategie militari, le strategie politiche ispirate
esclusivamente alla conquista del potere o quelle economiche finalizzate alla conservazione o alla creazione
di un monopolio o alla appropriazione di risorse altrui, così come le strategie della criminalità organizzata,
sono strategie a tutti gli effetti, anche se non rientrano nel nostro discorso. Questo non significa che esse
non vadano studiate, sia come potenziali e parziali strumenti di successo, sia perché i confini tra i due tipi di
strategie a volte sono labili (ad esempio, una azienda che compete sul mercato può giungere per suo merito
a una situazione di monopolio anche senza adottare pratiche lesive della concorrenza; una fabbrica di armi
può avere la sua legittimazione; e così via. A questo punto la questione passa nelle mani di autorità
antitrust, o di controllo degli armamenti, e così via. Il problema dei fondamenti etici della strategia è
diventato di particolare attualità con il ruolo sempre più autonomo e influente che le aziende tendono ad
assumere con la globalizzazione, cioè con un quadro istituzionale nel quale le regole di convivenza imposte
dagli stati-nazione tradizionali si rivelano sempre più inadeguate, e l’appello alla responsabilità sociale dei
diversi attori, e tra questi in particolare le aziende, si fa sempre più pressante. Quando sentiamo parlare di
“responsabilità sociale dell’azienda” (ormai CRS, Corporate Social Responsibility) noi siamo piuttosto
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sospettosi. Ci viene sempre in mente una strip di Charlie Brown, nella quale il famoso bambino di Schultz
dichiara di amare l’umanità, ma di essere infastidito dalla gente che lo circonda. Fuor di metafora, a noi
sembra che se l’azienda fa il suo mestiere primario, che è quello di produrre valore per il cliente, è quanto
meno sulla buona strada. Certamente oggi all’azienda si chiede molto di più: non solo il valore per il cliente,
ma anche il valore per i propri dipendenti, per l’ambiente, per tutti gli stakeholder dell’azienda. L’obiettivo di
chi sostiene la CRS consiste nel far comprendere ad imprenditori, manager, finanziatori che l’assunzione di
una responsabilità sociale da parte dell’impresa, testimoniata dall’adesione a determinati codici di
comportamento adottati volontariamente o fissati da qualche autorità, non pone necessariamente l’azienda
in condizioni di svantaggio rispetto ai concorrenti. Al contrario, a causa dell’avvento di un “consumatore
esigente” sempre più attento ai comportamenti responsabili dell’azienda, può collocare l’azienda in un area
di mercato in crescita e addirittura diventare un fattore di vantaggio competitivo. Noi condividiamo questa
“campagna” e le iniziative che ne derivano, in quanto capaci di favorire la diffusione della fiducia e della
lealtà nei mercati, rendendoli più simili a una piazza comunale, o a un’olimpiade, come proponeva Rosabeth
Moss Kanter, e meno simili a una giungla, come spesso sono. Riteniamo anche che questo orientamento
contribuisca a una più apprezzabile creazione di valore per gli uomini come produttori e come consumatori.
Riteniamo tuttavia che le scelte di valore e di principio che presiedono alla strategia aziendale “vengano
prima”, cioè precedano l’adesione a regole scritte, siano frutto di una disciplina interna indipendente dalle
norme imposte, possano indurre l’azienda a scelte (ad esempio il rifiuto di avere a che fare con il business
del tabacco, o di operare in mercati nei quali la corruzione è la regola) che possono anche implicare la
rinuncia a più “facili guadagni”. Tali scelte di valore non debbono appartenere alla sola sfera privata, della
coscienza individuale. Per il loro impatto sulle decisioni e sulle azioni, esse hanno una natura pubblica e
debbono essere, dentro l’azienda, oggetto di dialogo tra i soggetti del team di vertice e, in questo modo,
devono informare la strategia.
La forma
Una disciplina, per consolidarsi, comporta anche delle formalizzazioni, e addirittura dei riti. Come tutte le
formalizzazioni e tutti i riti, anche quelli destinati a facilitare e a rafforzare l’esercizio della strategia sono
continuamente esposti a involuzioni degenerative, a superfetazioni (burocratizzazione), strumentalizzazioni
(incoerenze tra il dire e il fare) e soprattutto a diventare fini a se stessi. Ma da essi non si può prescindere.
E’ essenziale che la strategia sia accompagnata quindi da un quadro consapevole di forme, di riti, di
strumenti non solo funzionali, ma dotati di significato visibile. Si tratta di rendere adeguatamente visibile la
strategia, con coerenza tra forma e sostanza, in un delicato equilibrio tra sottovalutazione e retorica. Per
quanto più specificamente riguarda le prassi necessarie per alimentare sistematicamente la gestione
strategica, noi siamo soliti far riferimento a una regola, che consideriamo tuttora aurea, enunciata
nell’introduzione di uno dei testi più in voga ai tempi in cui vigeva la vituperata pianificazione strategica. Nel
loro manuale sugli “Strategic Planning Systems”, Peter Lorange e Richard F. Vancil avvertivano: “Un sistema
di pianificazione efficiente non è affatto un sistema; è un tentativo di organizzare il processo attraverso il
quale i manager lavorano insieme per affrontare i temi strategici… A nostro parere, l’aspetto critico di un
sistema di pianificazione strategica è il programma degli incontri, non i documenti da presentare a questi
incontri. Un calendario ben progettato specifica quando gli incontri debbono svolgersi, chi deve esserci, quali
sono gli argomenti in agenda, quanto tempo dovrà passare fino al prossimo incontro. Tra un incontro e
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l’altro, molto lavoro dovrà essere fatto, ma tentare di strutturare come questo lavoro dovrà essere fatto è
molto meno importante del garantire che la giusta combinazione di persone venga riunita al momento
giusto per discutere sugli argomenti giusti… L’obiettivo non è quello di costruire un sistema di pianificazione
più esteso e migliore, bensì quello di realizzarne uno così efficace da essere, alla fine, quasi invisibile”.
Già allora (siamo negli anni settanta) questi autori si ponevano il problema dell’utilizzo di strumenti analitici,
di modelli basati sull’uso del computer, delle “storie dell’orrore” già allora sperimentate con l’uso utopico di
questi modelli. Ma la prospettiva di poter conciliare la sofisticazione degli strumenti con la loro praticità era
già segnata.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Robert W. Bradford, Peter J. Duncan, Brian Tarcy: “Simplified Strategic Planning”, Chandler House,
1999.
Richard Normann, R. Ramirez: “Le strategie interattive d’impresa”, Etas Libri, 1995 (ed. orig. 1994).
Peter M. Senge, “La quinta disciplina”, Sperling & Kupfer, 1992 (ed. orig. 1990).
Gary Hamel, C.K. Prahalad,. “Alla conquista del futuro”, il Sole 24 Ore, 1996 (ed. orig. 1994).
Elyahu M. Goldratt: “L’obiettivo”, Il Sole 24 Ore, 1993.
A.M. Brandenburger, B.J. Nalebuff: “Co-Opetition”, Currency Doubleday, 1996.
Michael Hammer, “Oltre il reengineering”, Baldini & Castoldi, 1998 (ed. orig. 1996).
Peter Lorange, Richard F. Vancil: “Strategic Planning Systems”, Prentice-Hall, 1977.
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Ci sembra un buon consiglio, sia per sfuggire ai limiti e agli schematismi insiti nelle metafore che
riconducono a oggetti inanimati o organici, sia per essere consapevoli che ogni azienda, ogni strategia,
si traduce in una organizzazione specifica da cui a sua volta dipende. “Structure, systems and processes
need to be strategy-specific”, ha affermato Porter in un suo, come sempre lucido, scritto dal titolo “What is
Strategy”.
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Per organizzare, a nostro parere occorre tener presenti tre aspetti fondamentali e interdipendenti: La visione
(la leadership), l’apprendimento organizzativo e la rete (le alleanze).
Nel nostro approccio strategico la visione, insieme ai principi e alla missione che una azienda riesce a
chiarire e a condividere diffusamente, costituisce il primo, potentissimo strumento organizzativo, che rende
inutili buona parte delle norme che regolano qualsiasi struttura, in particolare quelle di derivazione
gerarchico - autoritaria. Il conseguimento della visione condivisa fa parte, secondo Senge, dell’insieme di
discipline che consentono l’apprendimento organizzativo e la costruzione di una organizzazione che
apprende (learning organisation). L’apprendimento dell’organizzazione è legato alla strategia aziendale in
termini di condizionamento reciproco: non c’è strategia senza apprendimento, ma non c’è neanche
apprendimento senza una strategia. La learning organisation è comunque un fatto strategico. Per costruire
realmente una learning organisation è necessaria una chiara determinazione dei vertici aziendali sia nei
confronti della proprietà sia della base dei collaboratori. Verso la proprietà, perché la learning organisation in
azione è un processo di riorientamento strategico che richiede tempo, che ha una curva di sviluppo
inizialmente poco apprezzabile, anche se in seguito cresce molto velocemente. Verso la base dei
collaboratori, perché per essere realizzata essa richiede un grande coinvolgimento che può essere ottenuto
soltanto attraverso un chiaro e diretto impegno del vertice. È il team di vertice la prima learning organisation
dentro l’organizzazione. Se il top management non è abituato a lavorare come un team e tende soltanto a
far lavorare, sarà difficile che una organizzazione diventi una organizzazione capace di apprendere. Al
contrario, la base dei collaboratori, quando verifica un’effettiva determinazione del top management a
coinvolgere tutti nel processo di apprendimento continuo, segue con entusiasmo perché intravede la
possibile convergenza tra visione personale e visione aziendale. L’organizzazione che apprende è una
costruzione complessa che ha delle regole precise. È una disciplina, anzi, come dice Peter Senge, un insieme
di discipline. Bisogna sottolineare il duplice aspetto di studio e pratica di queste discipline. Una disciplina non
è solamente un “argomento di studio”, è un corpo di tecniche, fondato su un’implicita teoria o visione del
mondo che deve essere appresa e soprattutto praticata per essere padroneggiata. Qualsiasi disciplina
presuppone un investimento di interesse prolungato nel tempo per poter essere appresa e dominata.
Secondo Senge, una prima disciplina è appunto quella della visione condivisa. Senza una visione condivisa,
diventa molto più difficile porre in atto tutti gli interventi organizzativi analitici che possano far fronte alla
complessità insita in una azienda. La visione condivisa si regge soprattutto su un comportamento coerente
dei vertici dell’azienda, che deve conciliare la realtà e gli obiettivi, la tensione emotiva e la tensione creativa.
È, di fatto, un modo di realizzare praticamente la leadership. Soprattutto i manager leader ma anche tutti
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coloro che sono chiamati a partecipare alla costruzione dell’organizzazione capace di apprendere,
dovrebbero praticare la disciplina della padronanza personale (la seconda delle discipline) ovvero essere
capaci di individuare per se stessi e per la propria organizzazione obiettivi e risorse realistici e sfidanti nel
contempo. La condivisione e lo sviluppo della visione richiede inoltre un coinvolgimento dei collaboratori
come attori, come elementi attivi, per confrontare e gestire i diversi modelli mentali (le idiosincrasie, gli
stereotipi, i pregiudizi ma anche le mappe, le spiegazioni, le storie, le ipotesi e le congetture) presenti
nell’azienda e integrare le visioni personali con quella comune dell’azienda: è questa, dei modelli mentali, la
terza disciplina. Questo consente di trasformare l’apprendimento individuale in apprendimento di gruppo,
che è la quarta disciplina. Alla base di tutto (la quinta disciplina, secondo Senge), è il pensiero sistemico,
cioè “l’arte di vedere contemporaneamente la foresta e gli alberi”, gli effetti immediati e quelli lontani delle
nostre azioni. Ovvero, la visione olistica, unitaria e sistemica della propria azienda nel suo divenire. Oggi
molti parlano di knowledge management come della funzione più importante per assicurare il successo
dell’azienda nell’attuale quadro competitivo. Noi consideriamo il knowledge come un elemento, per quanto
importante, dell’apprendimento. Potremmo dire che la conoscenza è l’elemento essenziale del management,
mentre l’apprendimento è necessario per il governo dell’azienda, di cui il management fa parte. La questione
in gioco con la learning organisation non è la diffusione della conoscenza in sé e per sé, o anche la
conoscenza finalizzata a un risultato specifico (know how). Attraverso l’apprendimento partecipato da tutta
l’organizzazione si ha la possibilità di considerare e gestire l’azienda come un tutto unico (olisticamente) e
come un sistema (permette di vedere l’azienda dinamicamente, cogliendo le sottili relazioni di
complementarità e interazione tra le singole parti dell’azienda). Si è inoltre in grado di cogliere la struttura di
base dell’azienda e del suo ambiente, prevedendone il comportamento, e si può intervenire agendo con
effetti leva sulla struttura del sistema azienda-ambiente, evitando i comportamenti reattivi o adattativi, cioè
passivi e non creativi. L’apprendimento dell’organizzazione è, infine, neghentropico, cioè contrasta i processi
involutivi sempre in atto in una organizzazione e permette di controllare la complessità con un numero
relativamente limitato di leve, facendo di più con meno. Al centro del processo di apprendimento diffuso
attraverso l’organizzazione ci sono le relazioni, le catene di fatti e di scambi (quelli che definiamo processi)
che producono il valore e il suo sviluppo: il valore per il cliente, da cui derivano il valore per l’azionista, per i
collaboratori, per il management, per gli altri aventi causa con l’azienda (gli stakeholder). L’organizzazione
capace di apprendere è coerente con la “rivoluzione copernicana” in atto nell’economia aziendale, che
sposta dal profitto al valore il centro del sistema aziendale(26), e che risolve l’apparente contraddizione tra il
valore per l’azionista e il valore per il cliente come obiettivi aziendali.
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di ogni sistema deve essere adeguata alla complessità del suo ambiente. Evidentemente, la “complicazione
incrementale” delle grandi strutture burocratiche, pubbliche o private, si è rivelata sempre più incapace di
conseguire il livello di variabilità necessaria a fronteggiare l’ambiente. L’osservazione della maggiore capacità
di sopravvivenza e di successo delle piccole imprese suggerì alle grandi aziende, negli ultimi anni del secolo
scorso, di distruggere le loro strutture piramidali, di divenire più “piatte” e “leggere”, e soprattutto di
articolarsi in numerose unità minori, dotate di crescenti margini di autonomia. L’autonomia diffusa, insieme
al fare maggiore affidamento nelle capacità proprie delle menti degli uomini, era la risposta di variabilità
“necessaria” alla complessità dell’ambiente.
Sul piano operativo, è quindi importante articolare l’organizzazione in unità minori dotate di una loro
autonomia, trasformare la propria azienda in un sistema reticolare. Quanto più si riesce a realizzare questa
autonomia diffusa all’interno di una visione dialogata e condivisa, tanto più l’organizzazione agisce senza
attriti e senza la necessità di interventi gerarchici, cioè “meccanicistici”. Se la grande azienda deve
trasformarsi in una impresa a rete, la piccola azienda deve divenire parte attiva di un sistema a rete. Dal
punto di vista di una piccola azienda, questo significa che essa deve farsi soggetto attivo di alleanze e di
costruzione di visioni condivise che implicano quella propria della piccola azienda, ma anche una visione più
ampia che interessi un insieme di soggetti diversi. Sia per le grandi aziende che per le piccole imprese,
diventa importante lavorare “per team”, o squadre. Ci sono molte definizioni di “team” e pensiamo che, a
questo proposito, si debba essere molto precisi. Prima di tutto un gruppo di persone che stabilmente lavora
insieme e nello stesso posto non è un team! Possono avere lo stesso capo, i loro compiti sono coordinati e
lavorano in permanenza a stretto contatto ma non sono ancora un team!
La difficoltà nel comprendere realmente la realtà dei team è dovuta, in parte, al fatto che i termini team e
teamwork sono abusati e applicati a sproposito. Per noi un team è rappresentato da un piccolo gruppo di
persone con skill complementari che è determinato a raggiungere uno scopo sentito come appartenente a
tutti, un set di obiettivi attraverso un approccio elaborato in comune. In base a questi elementi condivisi i
membri del gruppo si riconoscono e si rispettano reciprocamente. Teamwork è il risultato del riconoscimento
e della determinazione verso gli obiettivi comuni a tutti i membri. Jon R. Katzenbach and Douglas K. Smith,
sulla base di una approfondita ricerca sul campo, hanno definito una chiara differenziazione tra team e
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gruppi di lavoro. Secondo questi ricercatori un team è caratterizzato da un forte impegno (commitment)
comune mentre in un gruppo può non essere così forte. Un team realizza molti lavori in comune, mentre i
membri di un gruppo tendono a lavorare più indipendentemente. Inoltre i membri di un gruppo fanno
riferimento ad un leader “forte”, mentre il team ha più ruoli di leader al suo interno. Il team leader
incoraggia confronti aperti, orientati al problem solving e alla condivisione di esperienze e saperi. Mentre un
leader di gruppo è più orientato a gestire riunioni circoscritte ed efficientemente focalizzate su di una
ristretta agenda. Nel team c’è rispetto e riconoscimento (accountability) sia a livello individuale sia a livello
reciproco, mentre in un gruppo c’è più enfasi su un rispetto a livello individuale. Il team discute, prende
decisioni e poi realizza un concreto lavoro comune. Mentre un gruppo discute, decide e delega la
realizzazione a qualcuno all’interno del gruppo o all’esterno. Naturalmente il problema di come integrare le
attività delle singole unità diviene a questo punto più complesso. Saranno ancora necessarie delle regole
comuni. Ma difficilmente, o solo in parte, queste potranno ritrovarsi nella vecchia logica gerarchica del
“command and control”. Si dovrà puntare maggiormente sull’informazione, sulla comunicazione, sulla
condivisione, sul consenso. Anche in questo caso dall’apprendimento diffuso nell’organizzazione possono
venire le soluzioni migliori, quelle fatte “su misura” per la singola realtà aziendale. Di nuovo, soltanto una
determinazione strategica del vertice aziendale può promuovere ed incoraggiare un profondo e genuino
processo di apprendimento e di leadership diffuso nell’organizzazione.
valore per il cliente, mentre l’intero insieme delle attività come sistema può. Così, interpretare l’azienda
attraverso i processi significa che i soggetti coinvolti devono guardare l’azienda come un sistema e poter
apprendere, gli uni dagli altri senza barriere, come questo sistema funziona. Molti degli insuccessi di
iniziative di lean organisation o di total quality ci sembrano in realtà legati all’incapacità di sviluppare e,
soprattutto, gestire un reale processo di apprendimento diffuso tra tutta la comunità dei soggetti che
lavorano in azienda. Lo scopo di questa dinamica di apprendimento è migliorare la capacità di soddisfare i
bisogni dei clienti, facendo business adottando il punto di vista del cliente. Da Porter in poi, si è diffusa la
consapevolezza che è opportuno interpretare l’azienda come una catena del valore, piuttosto che come un
organigramma statico. Questa concezione aiuta molto a capire quali sono e come si collegano tra loro le
diverse attività che caratterizzano la produzione (fisica o intangibile) dell’azienda, per individuare quelle che
formano le competenze distintive dell’azienda e quelle non strategiche. E’ tuttavia importante essere
consapevoli che qualsiasi catena del valore intesa come processo unidirezionale è una semplificazione di un
sistema di scambi a rete che si svolgono all’interno dell’azienda e con il suo esterno. Questa consapevolezza
è particolarmente importante con riferimento ai processi di destrutturazione (unbundling) e di
autonomizzazione dei processi formativi e comunicativi rispetto ai processi produttivi fisici, che l’avvento di
Internet ha determinato sulle imprese. I flussi di creazione del valore sono sempre più complessi e
multidirezionali, spesso non espressi o solo parzialmente espressi in prezzi espliciti, in quanto frutto di
baratti o di compensazioni tra scambi di valore. Le riconfigurazioni aziendali (rebundling) capaci di dar luogo
a nuove idee imprenditoriali danno luogo a sistemi di creazione del valore, piuttosto che a semplicistiche
catene del valore. Purché si sia consapevoli di questo contesto, il concetto di catena del valore ha ancora
una utilità pratica notevole. Non a caso, i servizi che vengono offerti oggi da parte delle società di sistemi
software alle imprese, per trasformarle in e-business, si basano molto sulla catena del valore e la rete del
valore.
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dell’ambiente, attraverso la loro personale capacità di apprendere efficacemente. Ma questo non è più
sufficiente. Aiutare gli altri ad apprendere “profondamente”, attraverso la creazione di forme e dinamiche
organizzative adeguate, diventa un elemento strategico della leadership in un’era di fortissima competizione
e in ambienti turbolenti. Un organizzazione che apprende è strutturata per favorire la creazione,
l’acquisizione, la diffusione di saperi e la trasformazione dei comportamenti in relazione alle nuove
conoscenze. Per coltivare l’organizzazione che apprende i leader devono agire essi stessi come modelli di
apprendimento, impegnarsi in azioni e nella elaborazione di strutture che facilitino l’apprendimento
organizzativo. Le pratiche organizzative che possono favorire l’apprendimento organizzativo sono
principalmente quelle basate sul teamwork, la leadership diffusa e la costruzione di visioni condivise.
Incoraggiare i tecnici a gestire le attività nelle quali sono coinvolti e coinvolgere i manager in attività
tecniche. Costruire team sulla base dei flussi reali e dei processi: conferire loro il controllo dei medesimi
processi. Mantenere le strutture organizzative piatte e informali. Permettere ai team di organizzarsi e
riorganizzarsi frequentemente per meglio affrontare i loro compiti e migliorare le loro prestazioni. Frequenti
rotazioni nei compiti e nei ruoli o tra line e staff incoraggiano apprendimento e facilitano la comunicazione.
Retribuzioni in funzioni degli skill acquisiti (che per definizione sono in relazione con l’apprendimento). I
manager e imprenditori devono spendere un tempo considerevole ad agire come mentori, facilitatori di
sessioni di confronto e dialogo tra i membri del loro team o del loro gruppo. In queste sessioni i membri
possono affrontare i problemi, condividere esperienze, lavorare per il miglioramento dei processi e degli
output. Attraverso questi momenti di confronto i manager possono alimentare la fiducia e la motivazione dei
collaboratori nei loro confronti e nei confronti dell’azienda. In queste occasioni i manager e i capi azienda
possono apprendere molte cose riguardo i reali problemi dell’azienda ma anche sulle opportunità che si
possono profilare. In questo modo possono incrementare la loro capacità di fare strategia. Purtroppo ci
tocca costatare che gli stili di leadership più diffusi tra i capi azienda non vanno in questa direzione. Molti ci
paiono, alla fine, prigionieri di formule e di schemi relazionali (“qui comando io”, “divide et impera”, “il
bastone e la carota”, “ognuno ha il suo prezzo”, Teoria X, ecc.) che fanno riferimento ad una cultura
dell’autorità più che dell’autorevolezza, del comando più che della leadership.
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strategica unitaria finisce per trasformarsi in una “corsa dei topi” competitiva che porta a una “frontiera della
produttività” in cui tutte le aziende si scoprono più o meno uguali, prive di quegli elementi distintivi che
determinano il vantaggio competitivo, e quindi con risultati economici sempre più deludenti. Perfino alcune
metodologie che, se strategicamente orientate, costituiscono potenti strumenti di successo, possono nella
pratica rivelarsi deludenti. “La ricerca della produttività, della qualità, della velocità ha generato un grande
numero di strumenti e tecniche gestionali: il total quality management, il benchmarking, la time - based
competition, l’outsourcing, il partnering, il reengineering, il change management. Anche se i risultati
operativi sono stati spesso eccezionali, molte aziende sono state frustrate dalla loro incapacità di tradurre
questi miglioramenti in una profittabilità sostenibile. Passo dopo passo, quasi impercettibilmente, gli
strumenti gestionali hanno preso il posto della strategia. Quanto più i manager premono per migliorare
l’azienda su tutti i fronti, tanto più si allontanano da una reale posizione competitiva”. Questo significa forse
che le attività aziendali, e le politiche, i metodi, le tecnologie, le pratiche che tendono a portarle verso livelli
sempre più progrediti e sofisticati, non sono strategicamente rilevanti? Evidentemente no, e l’ultimo che
potrebbe affermarlo è proprio Porter, che basa la sua concezione strategica proprio sulle attività aziendali. Il
fatto è che esse vanno sempre orientate a costituire un sistema unitario avente come obiettivo un
posizionamento unico e sostenibile dell’azienda. “Considerare la strategia in termini di sistema di attività
chiarisce perché la struttura organizzativa, i sistemi e i processi debbono essere specifici per ogni strategia.
In cambio, il rendere l’organizzazione “su misura” della strategia rende più conseguibili le complementarietà
e contribuisce alla sostenibilità”.
Forse la visione di Porter può apparire un po’ statica, rispetto a quelle di altri studiosi di strategia che, come
ad esempio Normann, danno molta importanza al cambiamento e alla crescita, alla necessità di trascendere
il sistema aziendale per tener conto di un sistema a rete più ampio, alla esigenza per l’azienda, specialmente
con l’avvento delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, di essere pronta a destrutturare
(unbundling) e ristrutturare (rebundling) le proprie attività.
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Noi non vediamo una reale incompatibilità tra le due concezioni, che costituiscono ambedue poli di
riferimento essenziali per chi vuole gestire e modificare l’organizzazione della propria azienda. D’altra parte
la gestione strategica del sistema di attività che compongono l’organizzazione di una azienda fanno pur
sempre capo alle risorse umane. Per questo, a nostro parere, è proprio l’apprendimento diffuso in tutta
l’organizzazione che permette all’azienda di rendere la sua organizzazione e le sue scelte manageriali (che
comprendono il ricorso ad attività, politiche, metodi, tecnologie, pratiche sempre più progredite e
sofisticate), “su misura” della sua strategia segnando il Tempo del suo Management.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Chris Argyris, Donald A. Schoen: Apprendimento organizzativo, Guerini e Ass., 1998 (ed. or. 1996).
W. Edwards Deming: Out of the crisis, Cambridge University Press 1988
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Peter M. Senge: La quinta disciplina, Sperling & Kupfer, 1992 (ed. or. 1990)
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Richard Normann: Ridisegnare l’impresa, Etas Libri, 2002 (ed. or. 2001)
Michael E. Porter: What is strategy?, Harvard Business Review, november-december 1996.
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