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A Zacinto

Il sonetto 'A Zacinto' di Ugo Foscolo esprime la nostalgia per la sua terra natale, Zacinto, e il dolore dell'esilio, evidenziando la sacralità del luogo e il legame affettivo del poeta con esso. La struttura del sonetto, caratterizzata da enjambement e una violazione dello schema metrico, riflette il flusso emotivo del poeta, mentre il tema della sepoltura illacrimata sottolinea la sua condizione di esule. Composto tra il 1802 e il 1803, il sonetto è stato pubblicato postumo con il titolo attuale, che non era presente durante la vita dell'autore.
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A Zacinto

Il sonetto 'A Zacinto' di Ugo Foscolo esprime la nostalgia per la sua terra natale, Zacinto, e il dolore dell'esilio, evidenziando la sacralità del luogo e il legame affettivo del poeta con esso. La struttura del sonetto, caratterizzata da enjambement e una violazione dello schema metrico, riflette il flusso emotivo del poeta, mentre il tema della sepoltura illacrimata sottolinea la sua condizione di esule. Composto tra il 1802 e il 1803, il sonetto è stato pubblicato postumo con il titolo attuale, che non era presente durante la vita dell'autore.
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Né più mai toccherò le sacre sponde

ove il mio corpo fanciulletto giacque,


Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde


col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque

cantò fatali, ed il diverso esiglio


per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,


o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.

A Zacinto fu composto dal ventiquattrenne Ugo Foscolo tra l'ottobre del 1802 e l'aprile del
1803, periodo fitto di impegni militari, spostamenti e delusioni amorose, per poi essere
stampato a Milano presso l'editore Destefanis insieme a diversi altri componimenti in una
raccolta intitolata Poesie di Ugo Foscolo. In agosto i testi conobbero una ristampa con
l'editore meneghino Agnello Nobile, accresciuti del sonetto In morte del fratello Giovanni.
Finché il Foscolo visse, il sonetto - al pari degli altri - non ebbe mai il titolo divenuto
canonico, ma era conosciuto semplicemente con l'intera locuzione del primo verso, senza
un titolo specifico. Fu Francesco Silvio Orlandini, nell'edizione postuma curata per Le
Monnier nel 1848, ad assegnare un nome alla poesia, da cui il titolo vulgato, non
d'autore, A Zacinto.
Ugo Foscolo fu per tutta la sua vita legato a Zacinto (l'odierna Zante), la sua isola natale,
da un saldissimo vincolo affettivo; basterà il ricordo della «chiara e selvosa Zacinto» per
suscitare in lui una rievocazione delle lontane e serene terre natie e una riflessione sui
motivi dell'esilio, della morte e della classicità.

Zacinto come appariva nel 1882, più di mezzo secolo dopo la morte del poeta.

Il sonetto inizia con una triplice negazione, «né più mai», con cui Foscolo ribadisce
l'impossibilità del ritorno a Zacinto, portandoci ex abrupto al centro di una riflessione
lungamente protrattasi; Giuseppe De Robertis colse rapidamente l'efficacia di
quest'attacco, evidenziando che «pare che il poeta, cominciando, continui un discorso fatto
tra sé e sé, e dia sfogo a una commozione già piena». Oggetto delle elucubrazioni del
poeta già nel primo verso sono le sponde di Zacinto, definite sacre: si tratta di un aggettivo
tipicamente foscoliano volto a sottolineare la sacralità del luogo, che è stato partecipe sia
della nascita di Venere che del Foscolo stesso (d'altronde, già in All'amica risanata, ai vv.
91-92, il nativo aer è definito «sacro»). La fanciullezza del Foscolo trascorsa a Zacinto è
annunciata nel secondo verso, con l'espressione il mio corpo fanciulletto giacque, che
rievoca l'isola come grembo materno in grado di «cullare» il poeta; secondo altre
interpretazioni, tuttavia, la locuzione è meno circoscritta, e giocando sull'ambiguità del
verbo «giacere» intende effettivamente rinviare ad una situazione di morte.
I versi successivi s'impongono con l'introduzione della figura di Ulisse, già celebrata
da Dante nell'Inferno, dove l'eroe omerico è costretto a scontare la propria pena eterna per
non aver riconosciuto la finitezza della ragione umana. Siccome, come narrato
da Esiodo nella Teogonia, nel mare di Zacinto nacque la dea Venere, fonte di amore e di
vita (come attestato dall'epiteto greco philommeidés, «amante del sorriso», cui fa
riferimento il primo sorriso foscoliano), l'irresistibile fascino di quell'isola fu celebrato
da Omero, il mitico cantore delle avventure di Ulisse. In effetti, l'isola del Foscolo nella
poesia omerica è citata varie volte: una nell'Iliade (canto II, vv. 631-637) e cinque
nell'Odissea (Odissea, I, vv. 245-247; Odissea, IX, vv. 22-24; Odissea, XVI, vv. 122-125 e
vv. 247-250; Odissea XIX, vv. 130-133), dove spesso è qualificata
dall'epiteto selvosa. Ebbene, in questa parte del poema la nostalgia foscoliana della patria
perduta si intreccia con la vita raminga di Ulisse; quest'ultimo, dopo il concludersi
della guerra di Troia, ha sì peregrinato per volere del fato nelle acque fatali
del Mediterraneo, ma comunque è riuscito a fare ritorno nella sospirata patria. Si tratta
dell'incarnazione dell'eroe classico: Ulisse, infatti, pur essendo «bello di fama e di
sventura» (ovvero, il suo fascino è dovuto proprio alle sventure virilmente sopportate), ha
concluso felicemente le proprie peregrinazioni. È romantico, al contrario, l'esilio del
Foscolo, che continuerà senza sosta il proprio vagabondare sino a morire lontano dalla
terra natale.
La vita tempestosa del poeta e, soprattutto, la sua infelice condizione di esule sono ribadite
nella quarta e conclusiva strofa. Foscolo profetizza la durata eterna del proprio esilio: alla
natia Zacinto, infatti, non resterà altro che questa poesia, in quanto egli sarà costretto a
essere sepolto in terra straniera, lontano dalla patria, in un sepolcro che non verrà mai
bagnato dalle lacrime delle persone care. A noi non è un semplice plurale maiestatico,
bensì assurge a simbolo di tutti coloro condannati a un esilio perpetuo: Foscolo, in questo
modo, rivolge il suo disperato appello a quelle persone che, come lui, sono destinate ad
un'«illacrimata sepoltura». Quest'ultima locuzione, in particolare, è talmente potente e
dolorante da essersi guadagnata le lodi di Francesco De Sanctis, che ha affermato:
«questo illacrimata è pieno di lacrime».

A Zacinto risponde alla forma metrica del sonetto. Il testo si compone di quattordici versi,
tutti endecasillabi, ripartiti in quattro strofe: le prime due sono quartine a rima alternata
(ABAB, ABAB), mentre le successive sono terzine a rima invertita (CDE, CED).
Ciò che colpisce in A Zacinto è la non concordanza tra il periodo sintattico e il periodo
metrico, caratteristica inusuale per un sonetto. Questa violazione dello schema ritmico si
concretizza con l'abbondante uso di enjambement e con la catena di congiungimenti
sintattici (ove, che, e, onde, di colui che, per cui), che conferiscono al ritmo del
componimento gli attributi di un flusso appassionato e ininterrotto. La struttura del sonetto,
in questo modo, è sostenuta da due periodi sintattici assai disuguali: il primo è composto
da undici versi (che si dilatano sino ad occupare tre strofe) e presenta un ritmo dinamico,
agitatamente intenso, mentre il secondo è di soli tre versi che condensano un notevole
smorzamento della tensione emotiva e ha un carattere perentorio, quasi lapidario.
Peculiarità del sonetto, infine, è la sua struttura circolare. I primi e gli ultimi versi, infatti,
sono legati tra di loro grazie all'utilizzo del tempo futuro, contrapposto ai passati delle strofe
centrali, legati quasi a una dimensione mitica (toccherò, v. 1; avrai, v. 12); ma diversi altri
elementi concorrono alla formazione della circolarità della struttura, tra cui la ripetizione
della vocazione (Zacinto mia, v. 3; o materna mia terra, v. 13), l'attacco affidato ad una
negazione (Ne più mai, v. 1; non altro che, v. 12), ed il cambio del pronome, dall'«io» con
cui si apre il componimento al «Tu» che introduce l'ultima strofa.

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