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Problem Solving

Il problem solving è un processo di risoluzione dei problemi che richiede una ristrutturazione delle strategie abituali per affrontare situazioni nuove. Storicamente, è stato studiato da diverse prospettive, tra cui la Gestalt e l'Human Information Processing, con contributi significativi da parte di autori come Kohler, Wertheimer e Duncker. Le teorie moderne, come quella di Newell e Simon, si concentrano sulla ricerca di soluzioni attraverso stati intermedi e l'uso di euristiche, evidenziando l'importanza di approcci creativi e flessibili nella risoluzione dei problemi.

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Problem Solving

Il problem solving è un processo di risoluzione dei problemi che richiede una ristrutturazione delle strategie abituali per affrontare situazioni nuove. Storicamente, è stato studiato da diverse prospettive, tra cui la Gestalt e l'Human Information Processing, con contributi significativi da parte di autori come Kohler, Wertheimer e Duncker. Le teorie moderne, come quella di Newell e Simon, si concentrano sulla ricerca di soluzioni attraverso stati intermedi e l'uso di euristiche, evidenziando l'importanza di approcci creativi e flessibili nella risoluzione dei problemi.

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PROLBLEM SOLVING

DEFINIZIONE: Il termine problem solving sta ad indicare un processo di risoluzione dei


problemi, ovvero un processo che mira al raggiungimento di una meta desiderata a partire
da una determinata situazione interna o esterna. Nello studio del processo di soluzione dei
problemi è bene distinguere, però, tra problemi propriamente detti e problemi come
compiti. I problemi propriamente detti sono situazioni in cui non è possibile raggiungere
l’obiettivo desiderato mediante la semplice ricerca e applicazione di regole note, e in cui è
necessaria, invece, una rettifica di queste ultime e una revisione nel modo di guardare la
situazione problematica. Nei problemi come compiti, al contrario, per raggiungere la
soluzione è sufficiente rintracciare e applicare regole e metodi di cui si è già in possesso.
Il problem solving, inoltre, rappresenta, assieme al ragionamento e al decision making,
una delle tre funzioni fondamentali del pensiero. Per pensiero, infatti, si intende un’attività
distintiva della specie umana data da un insieme di processi mentali che consentono di
elaborare le informazioni provenienti dal mondo esterno, metterle in relazione tra loro e
con le conoscenze che già si possiedono, al fine di risolvere problemi, inferire nuove
informazioni e prendere decisioni.

PANORAMICA STORICA:
Il problem solving, così come le altre funzioni del pensiero, è stato studiato da diverse
prospettive teoriche. Gli psicologi della Gestaltfurono i primi a realizzare esperimenti
rigorosi e sistematici a riguardo, e in pochi anni la risoluzione dei problemi divenne una
delle aree di ricerca più importanti di questa corrente della psicologia.
Tale costrutto è stato indagato anche in campo comportamentista mediante l’analisi
delle risposte comportamentali, visibili e quantificabili. I comportamentisti, in particolare,
ritenevano che la soluzione delle situazioni problematiche avvenisse grazie ad un
accumulo di esperienza, cioè in seguito a reiterati tentativi casuali che vengono corretti
con l’osservazione dei risultati, o grazie alla semplice ripetizione di risposte che si sono in
precedenza rivelate efficaci.
Altro ambito ad essersi dedicato approfonditamente a questa area della ricerca è lo
Human Information Processing, in cui i ricercatori si sono soffermati sull’analisi
minuziosa del modo in cui l’individuo attinge al patrimonio delle conoscenze in suo
possesso per risolvere una situazione problematica e dei singoli passaggi che portano alla
scoperta della soluzione.
TEORIA APPROFONDITA:
Tra gli apporti più rilevanti nello studio del problem solving figurano gli studi di Kohler,
Wertheimer e Duncker, noti esponenti della Gestalt.Tra il 1913 e il 1920, Kohlercondusse
degli esperimenti durante i quali poneva degli scimpanzè di fronte a un problema pratico
da risolvere e ne osservava il comportamento. In uno di questi studi, ad esempio, poneva
degli scimpanzè in una gabbia, fuori della quale, a distanza non direttamente
raggiungibile, si trovava della frutta. Nella gabbia o nei suoi dintorni, inoltre, erano presenti
due canne, ognuna delle quali di una lunghezza non sufficiente per prendere la frutta.
Kohler osservò che inizialmente gli scimpanzè provavano a raggiungere il cibo utilizzando
una canna per volta, ma non ottenendo successo finivano presto con il rinunciare. Dopo
un certo intervallo di tempo durante il quale gli animali esploravano la gabbia, però, essi
modificavano improvvisamente il loro comportamento: afferravano le due canne, le
infilavano una nell’altra e riuscivano ad avvicinare così il cibo, senza difficoltà.
Sulla base dei suoi esperimenti, Kohler introdusse il concetto di insight, affermando che, di
fronte a problemi nuovi, con i quali le strategie abitualmente usate e acquisite con
l’esperienza si rivelano inutili, si può giungere improvvisamente (come una sorta di
illuminazione) ad una loro soluzione, quando avviene una ristrutturazione radicalmente
nuova della situazione problematica, o più precisamente quando affiora un’immagine
mentale del tutto nuova dei rapporti esistenti tra gli elementi del contesto e riconosciuto a
questi ultimi un nuovo significato funzionale. Il modo in cui Kohler giunse a queste
conclusioni, tuttavia, fu soggetto a critiche. Le condizioni di lavoro dei suoi esperimenti non
assicuravano, infatti, che gli scimpanzé si trovassero realmente per la prima volta di fronte
a oggetti simili a quelli proposti come strumenti. Gli scimpanzè, cresciuti in libertà,
potevano aver già manipolato in precedenza determinati oggetti (come i bastoni) e tale
manipolazione avrebbe potuto favorire la scoperta di caratteristiche funzionali alla
risoluzione dei problemi posti dallo stesso Kohler.
Il lavoro di Kohler è stato approfondito da altri importanti esponenti della Gestalt:
Wertheimer e Duncker. Wertheimer ritenevache la soluzione di alcuni problemi fosse
facilitata dall’adozione di un Pensiero Produttivo, caratterizzato da una
riformulazione/ristrutturazione creativa ed originale dei dati di un problema, e ben diverso
da un pensiero di tipo riproduttivo (o cieco), basato sulla ripetizione di strategie già
adoperate e verificate come efficaci nel passato.Nell’opera “Il pensiero produttivo”,
Wertheimer ha anche descritto le fasi che caratterizzano il pensiero produttivo:
(a) fase di preparazione in cui il problema viene formulato e vengono fatti i primi tentativi
per risolverlo.
(b) fase di incubazione in cui il problema viene messo da parte per dedicarsi ad altre
attività
(c) fase di insight in cui la soluzione del problema viene in mente come un’illuminazione
improvvisa
(d) fase finale in cui ci si accerta che la soluzione trovata funzioni effettivamente.
Duncker, invece, propose la distinzione trapensiero di tipo sintetico e pensiero analitico. Il
pensiero analitico consiste nel frammentare il problema in vari elementi, nel cogliere i
particolari e nel trarre conclusioni da premesse già date; il pensiero sintetico, al contrario,
nell’avere una visione d’insieme del problema, nel connetterne in modo originale e creativo
gli elementi, e nel trarre nuove conclusioni.
Duncker ha introdotto, inoltre, il concetto di fissità funzionale, un atteggiamento
checonsiste nell’incapacità del soggetto di vedere in uno o più elementi del campo
problematico funzioni diverse da quella alle quali è abituato, e che ostacola la risoluzione
di certi problemi.
Un esempio di fissità funzionale è fornito dall’esperimento di Duncker del “Problema della
Candela” (1930), in cui i partecipanti avevano il compito di attaccare una candela al muro
al di sopra di un tavolo e di accendere la candela facendo in modo che la cera non
cadesse sul tavolo. Per svolgere questo compito i partecipanti potevano servirsi soltanto di
una candela, una bustina di fiammiferi e una scatola contenente delle puntine. La
soluzione consisteva nel fissare con della cera la candela alla scatola, in modo tale che
questa fungesse da poggia candela, e nell’attaccare la scatola alla parete con le puntine.
I soggetti sottoposti all’esperimento inizialmente non riuscivano a risolvere il problema
perché erano “fissati” sulla funzione della scatola a cui erano abituati, quella di contenere
le puntine, e questo impediva loro di considerare la scatola secondo una diversa funzione.
Dopo che le puntine venivano tolte dalla scatola e disposte sul tavolo accanto alla scatola
vuota, le persone avevano invece un’intuizione improvvisa e riuscivano a considerare una
nuova funzione della scatola, cioè di sostegno per la candela, anziché come contenitore
delle puntine.
Il merito più grande che può essere riconosciuto agli autori sopra citati è quello di aver
evidenziato come, di fronte a determinate circostanze problematiche in cui non si rivelano
efficaci strategie note e dimostratesi utili in passato, è possibile giungere ugualmente ad
una soluzione mediante l’adozione di un pensiero non meccanico, basato su una
ristrutturazione globale, flessibile, originale e creativa della situazione problematica. Essi
hanno dunque dimostrato che il problem solving che si basa esclusivamente su
esperienze pregresse non è sempre garanzia di successo. Nonostante ciò, l’approccio
della Gestalt non sembra prestare attenzione all’influenza che fattori individuali e sociali
possono avere sui processi di pensiero; al contempo, le teorie elaborate all’interno di
questo ambito di ricerca risultano eccessivamente vaghe, non specificando in maniera
dettagliata i passaggi che conducono alla soluzione di un problema.

SECONDA TEORIA APPROFONDITA:


Un importante passo avanti nella comprensione del percorso che conduce una persona
verso la risoluzione di un problema è stato compiuto, nell’ambito dello HIP, da Newell e
Simon che, sulla base dei resoconti verbali forniti dalle persone mentre si apprestavano a
risolvere problemi e mediante simulazioni al computer (come il programma per computer
GPS-“General Problem Solver” applicato al rompicapo della Torre di Hanoi), hanno
elaboratola cosiddettaTEORIA DELLO SPAZIO PROBLEMATICO (1972),ancora oggi
principale riferimento delle attuali teorie sul problem solving.
I due autori concepiscono il problem solving come un’attività di ricerca. Essi ritengono che
ogni problema sia composto da uno stato iniziale, da uno stato finale da raggiungere (la
soluzione) e da tanti diversi stati intermedi. Per poter raggiungere la soluzione, dunque, la
persona deve passare per degli stati intermedi. Nel passaggio da ciascuno stato
intermedio al successivopuò scegliere tra numerosi percorsi alternativi. L’insieme di tutti gli
stati intermedi che separano lo stato iniziale da quello finale, e di tutti i possibili percorsi
percorribili per arrivare alla soluzione rappresentano lo SPAZIO DEL PROBLEMA. Per
transitare da uno stato intermedio all’altro, inoltre, la persona ricorre all’applicazione di
OPERATORI MENTALI(che specificano le mosse consentite e quelle non consentite). Per
spostarsi in modo efficiente da uno stato all’altro, cioè per scegliere la mossa che, ad ogni
stato, gli consente di avvicinarsi il più possibile allo stato finale, le persone usano
generalmente delle euristiche. Le euristiche sono strategie approssimate che non guidano
l’azione in sé ma la sequenza di azioni da compiere. A differenza degli algoritmi, che sono
serie di regole esplicite che, seguite in modo sistematico, portano definitivamente alla
soluzione del problema, le euristiche non garantiscono di arrivare alla soluzione, ma se
hanno successo implicano un risparmio di tempo e fatica.L’euristica più comunemente
usata è l’analisi mezzi-fini, per cui il problema viene scomposto in sotto-problemi, ci si
pone degli obiettivi intermedi e di selezionano gli operatori che permettano di raggiungere
queste sotto-mete.
Quanto esposto è ben evidenziato dall’esperimento del problema della Torre di Hanoi
compiuto dai due autori. Tale problema si componeva di tre pioli; nel primo erano infilati tre
dischi in ordine di diametro decrescente; l’obiettivo del soggetto era di trasportare i dischi
dal primo al terzo piolo mettendoli nello stesso ordine in cui erano disposti nel primo piolo;
le regole date al soggetto erano di poter spostare un disco alla volta, che il disco più
grande non venisse messo sopra il disco più piccolo e che il problema dovesse essere
risolto con un numero minore di mosse possibile (massimo 7 mosse)
Norman e Simon hanno dato un importante contributo cercando di delineare le
caratteristiche del percorso che conduce l’individuo alla soluzione di un problema. Vanno
però evidenziate le criticità di tale lavoro. Newell e Simon elaborarono la loro teoria
basandosi su simulazioni al computer e proponendo ai soggetti dei loro esperimenti
problemi ben definiti, ovvero problemi in cui gli operatori, lo stato iniziale e quello finale
erano ben specificati, e che per tale morivo potevano essere risolti facilmente mediante
euristiche generali, senza che fosse necessaria una vasta conoscenza del problema.I
problemi presentati da Newell e Simon, dunque, permettevano una loro chiara e completa
rappresentazione da parte dei soggetti sperimentali.Nella realtà quotidiana, tuttavia, le
persone generalmente si trovano a dover risolvere problemi mal definiti, cioè problemi di
cui, ad esempio, non conoscono lo stato finale erispetto al quale non hanno delle regole
prestabilite da seguire;nella realtà quotidiana, quindi, le persone spesso non possono
formarsi una rappresentazione chiara e completa dei problemi, per cui spesso non è
sufficiente il ricorso ad euristiche generali.
Sulla base di ciò, dunque, è possibile affermare che la teoria dello spazio del problema
risulta maggiormente applicabile a problemi ben definiti, piuttosto che a quelli mal definiti.

STRUMENTI:
I metodi di indagine adottati nello studio del problem solving si rifanno principalmente ad
esperimenti e all’osservazione sistematica del comportamento.
Esistono però anche numerosi strumenti psicometrici relativi al problem solving. Tra questi
figurano, ad esempio:
1) Test del pensiero creativo di Torrance: utilizzato per individuare e misurare le
capacità creative sia negli adulti che nei bambini. Non indaga, come fanno i test
d’intelligenza, la capacità di dare la risposta “giusta”, ma quella, per certi versi
opposta, di fornire molte risposte (Fluidità), non scontate (Originalità), traendo
spunto da elementi diversi (Flessibilità), e fornendo un buon grado di dettaglio
(Elaborazione).
2) Test Torre di Londra: misura le capacità di mettere in atto processi di decisione
strategica e di pianificare soluzioni efficaci tese alla risoluzione di un compito. Il test
della Torre di Londra è un problema a difficoltà graduale che richiede al soggetto di
muovere delle palline forate, poste in una certa configurazione su una particolare
struttura fino a raggiungere una nuova configurazione. A tale scopo è necessario
adottare opportune strategie. In particolare sono richieste tre operazioni: (a)
formulare un piano generale, (b) identificare sotto-mete ed organizzarle entro una
sequenza di movimenti, (c) conservare le sotto-mete e il piano generale nella
memoria di lavoro.
3) Il Problem Solving Inventory (PSI) di Hepper: è uno strumento autovalutativo
composto da 35 items che valutano: l’autoefficacia della persona nell’affrontare le
attività di problem solving, la tendenza generale della persona ad affrontare o
evitare le attività di problem-solving e il grado in cui una persona ritiene di poter
controllare le proprie emozioni e reazioni durante la risoluzione dei problemi.
4) La Wechsler Adult Intelligence Scale – Fourth Edition (WAIS-IV): Questo test si
compone di 15 subtest, 10 fondamentali e 5 supplementari, e offre una valutazione
complessiva delle capacità cognitive di soggetti di età compresa tra i 16 e i 90 anni,
fornendo anche informazioni circa le strategie di problem solving di una persona.

AMBITI APPLICATIVI:
Le conoscenze accumulate nel tempo rispetto al costrutto del problem solving hanno
trovato applicazione in numerosi contesti. Uno di questi è l’ambito clinico. Qui, ad
esempio, la competenza nel valutare le capacità di ragionamento, di problem solving, di
giudizio e presa di decisione si rivela importante per poter diagnosticare o escludere alcuni
quadri clinici come nel caso della disabilità intellettiva. Per poter diagnosticare una
disabilità intellettiva, infatti, deve essere presente un deficit delle funzioni intellettive, che
appunto comprende principalmente le abilità di ragionamento, problem-solving,
pianificazione. Nel caso di soggetti con disabilità intellettiva, in particolare, si può, inoltre,
far ricorso a percorsi di sostegno e training volti ad un potenziamento delle abilità
intellettive limitate e carenti, e che possono basarsi sia sul diretto allenamento di tali abilità
deficitarie che su un incremento del funzionamento adattivo (il miglioramento del
funzionamento adattivo può infatti compensare la presenza di deficit intellettivi). Per il
potenziamento delle abilità di problem solving, in particolare, può essere utile insegnare al
paziente a scomporre i problemi in sotto-mete più semplici da raggiungere, e stimolare
l’apprendimento di strategie euristiche per arrivare alla meta finale.
Altri ambiti applicativi sono quello scolastico e organizzativo. Gli studi sul pensiero
suggeriscono l’importanza di valorizzare negli alunni e nei lavoratori un pensiero flessibile
e creativo nella risoluzione dei problemi, anziché incoraggiare l’adozione di un pensiero
meccanico basato sull’applicazione rigida e passiva di vecchie strategie. A tal proposito,
sia nel contesto scolastico che in quello organizzativo possono essere adottate delle
tecniche ideate appositamente per favorire il pensiero produttivo-divergente e quindi la
risoluzione di circostanze problematiche; una delle più note è il brainstorming (tempesta
cerebrale), che consiste in discussioni di gruppo guidate da un animatore, durante le quali
si cerca di far emergere più punti di vista rispetto ad un problema e più idee possibili circa
la sua risoluzione.
In ambito scolastico, inoltre, sono stati proposti diversi programmi finalizzati proprio a
sviluppare negli studenti la capacità di affrontare creativamente i problemi (come l'Inquiry
Training e l’Inquiry learning space), ma anche programmi volti all’insegnamento di
strategie euristiche specifiche che possono rivelarsi utili per la risoluzione di situazioni
problematiche (come nel caso del Patterns Problem Solving Course).

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