Il 0% ha trovato utile questo documento (0 voti)
2 visualizzazioni

Modulo 2

La scienza politica studia la politica come fenomeno complesso, analizzando l'esercizio del potere, il governo della collettività e le dinamiche democratiche. Le politiche pubbliche sono decisioni vincolanti prese da organi rappresentativi in risposta a problemi collettivi, e il processo di policy-making si articola in diverse fasi, dalla definizione dell'agenda alla valutazione dei risultati. Gli attori coinvolti nelle politiche pubbliche includono decisori politici, burocrazie, esperti e media, ognuno con ruoli distinti nel processo decisionale.

Caricato da

fdk2zq6mgz
Copyright
© © All Rights Reserved
Per noi i diritti sui contenuti sono una cosa seria. Se sospetti che questo contenuto sia tuo, rivendicalo qui.
Formati disponibili
Scarica in formato PDF, TXT o leggi online su Scribd
Il 0% ha trovato utile questo documento (0 voti)
2 visualizzazioni

Modulo 2

La scienza politica studia la politica come fenomeno complesso, analizzando l'esercizio del potere, il governo della collettività e le dinamiche democratiche. Le politiche pubbliche sono decisioni vincolanti prese da organi rappresentativi in risposta a problemi collettivi, e il processo di policy-making si articola in diverse fasi, dalla definizione dell'agenda alla valutazione dei risultati. Gli attori coinvolti nelle politiche pubbliche includono decisori politici, burocrazie, esperti e media, ognuno con ruoli distinti nel processo decisionale.

Caricato da

fdk2zq6mgz
Copyright
© © All Rights Reserved
Per noi i diritti sui contenuti sono una cosa seria. Se sospetti che questo contenuto sia tuo, rivendicalo qui.
Formati disponibili
Scarica in formato PDF, TXT o leggi online su Scribd
Sei sulla pagina 1/ 32

SCIENZA DELL’AMMINISTRAZIONE

28 marzo 2019

SCIENZA POLITICA E POLITICHE PUBBLICHE

Cos’è la scienza politica?

È la scienza che studia la politica, ovvero lo studio dei diversi aspetti della “realtà politica” al
fine di giungere a spiegazioni adottando la metodologia propria delle scienze sociali empiriche.

Ma che cos’è la politica? Si tratta di un fenomeno complesso:

❖ Ciò che fanno i politici → coloro che vengono scelti attraverso un contesto democratico
(sono i cittadini a sceglierli) e che fanno parte di un partito

❖ Ha a che fare con l’esercizio del potere → legittimo, esercitato attraverso l’apparato
amministrativo e volto a prendere decisioni pubbliche

❖ Riguarda il governo di una collettività → si compone di tutti i cittadini e tiene presente


le loro istanze (bisogni e problemi), le preferenze (espresse attraverso il voto) e i loro
interessi (espressione legittima di gruppi che sono all’interno della collettività, da cui
non si può prescindere) puntando al bene comune

La democrazia è un regime politico in cui esistono reali garanzie di partecipazione politica dei
cittadini, con la possibilità di esprimere dissenso ed opposizione e con condizioni di
competizione politica. I requisiti minimi sono:

1) suffragio universale maschile e femminile

2) elezioni libere, competitive, ricorrenti e corrette

3) la presenza di più di un partito

4) diverse ed alternative fonti di informazione

FORME DI DEMOCRAZIA:

❖ RAPPRESENTATIVA: è la forma più diffusa nella quale i cittadini partecipano


attraverso i propri rappresentanti eletti e nella quale i partiti svolgono un ruolo di
intermediazione

❖ DIRETTA: i cittadini partecipano direttamente alla decisione pubblica senza


intermediari, come nel caso del referendum

Una definizione di cosa è la politica ci viene data da Maurizio Cotta (politologo italiano):

“Politica come insieme di attività”

❖ svolte da più soggetti (politici, partiti, istituzioni...)

❖ inerenti al governo di una collettività (i cittadini, vari livelli, i loro problemi/interessi,


bene comune)

❖ caratterizzate dall’esercizio di potere (legittimo) e gestione del conflitto (ricomposizione


interessi divergenti)

❖ ma anche da partecipazione e consenso (elezioni)

❖ ad essa compete la responsabilità primaria del controllo della violenza (rispetto della
legge, ordine, tutela)

❖ e della distribuzione di costi e benefici all’interno della collettività (quali decisioni


vengono prese, a beneficio di chi, chiedendo risorse a chi → POLITICHE PUBBLICHE)
= governare significa prendere decisioni che comportano benefici per alcuni e costi per
altri membri della collettività

Sono presenti tre dimensioni della politica:

1) POLITICS: è quella parte della politica che riguarda la sfera del potere, la
dimensione che attiene ai partiti e ai politici, alla competizione partitica, alle elezioni,
all’assunzione di cariche pubbliche, alla ricerca di consenso, alla partecipazione dei
cittadini

2) POLICY: è la politica pubblica ovvero la decisione presa su specifici problemi


collettivi e la sua realizzazione (impatto)

3) POLITY: è ciò che attiene all’organizzazione della collettività politica, ovvero lo


Stato e le sue istituzioni (costituzione, articolazione e distribuzione del potere)

Sono tutte dimensioni collegate tra di loro perché chi vince le elezioni farà politiche pubbliche e
potrà, se ottiene la maggioranza, modificare il funzionamento delle istituzioni pubbliche, ma
vanno tenute distinte a scopo di studio.

ANALISI DELLE POLITICHE PUBBLICHE:

Si tratta di uno specifico approccio disciplinare, oramai consolidato e di successo, della scienza
politica per “scoprire cosa fa il governo, perché lo fa e con quali risultati”. L’oggetto di analisi
è innovativo e si tratta delle “politiche pubbliche” (policy ≠ politics) che fino a quel momento
non erano studiate come un oggetto di analisi perché la tradizione si era concentrata sulla
polity o sulla politics:

❖ l’azione di governo (cosa fanno o non fanno i governi) in relazione ai problemi collettivi

❖ le risposte alle domande che provengono dalla società (non basta che ci sia una legge
perché non è detto che venga attuata)

È una visione processuale della politica, ovvero il processo che dà forma e sostanza all’azione
di governo (dal problema fino al risultato) = policy-making → gli attori, le loro interazioni, le
opzioni decisionali, le decisioni prese, l’attuazione di tali decisioni e gli effetti (risultati)

Nella scienza politica si era affermato il modello di Easton degli anni ’50 che vede il sistema
politico come black box che converte gli input in output (feed-back), il quale introduceva già
una visione processuale della politica. Secondo Easton c’è un sistema politico (organi e attori)
che definisce come black box, cioè non si sa bene cosa succede dentro. La politica, quindi, è di
fatto il flusso di input che entra nella black box ed esce come output: se con l’effetto di
feedback gli output soddisfano i problemi c’è un rafforzamento del sistema politico, altrimenti
si avrà un cambiamento nei soggetti che stanno dentro la black box.
L’analisi delle politiche pubbliche va oltre questo modello perché riflette su come entrano gli
input nel sistema decisionale: per esempio non tutti gli input entrano nel sistema politico e non
si limita a vedere gli output solo in termini di una legge, ma va a vederne i risultati concreti.
Infine, cerca di vedere cosa succede nella black box, quindi come avviene questa
trasformazione da input ad output. Questa analisi indentifica la fase in cui è possibile
scomporre il processo di input - output (cioè di policy making), e sofferma l’attenzione sugli
attori del processo (attori che non sono solo quelli istituzionali: esperti, mass media che sono
fuori dalla black box ma che condizionano come vengono prese le decisioni e quindi entrano
nel policy making…).

Cosa sono le politiche pubbliche?

DEFINIZIONE MINIMA: programma di azione pubblica (obiettivi, linee di intervento, valori),


che si sostanzia in uno o più provvedimenti normativi, decisi da organi rappresentativi, in
risposta ad un problema collettivo → si tratta di una decisione pubblica vincolante per i
cittadini, alla cui adozione e realizzazione concorrono però più attori e non solo quelli
istituzionali.

DEFINIZIONE PIÙ AMPIA: l’insieme delle decisioni e delle azioni poste in essere da un insieme
di soggetti finalizzate, o in qualche modo correlate, alla soluzione di un problema collettivo,
cioè un bisogno o un’opportunità di intervento pubblico → ci sono anche azioni non
direttamente finalizzate a risolvere il problema, ma a sistemare delle procedure per risolverlo
(per questo “correlate”): es. denunciate irregolarità sull’allocazione dei fondi, si blocca il
processo decisionale, i media hanno svolto la loro funzione di denuncia e viene bloccato il
policy-making

La politica pubblica è dunque un corso di azione di governo (programma di intervento),


sviluppato in relazione ad un problema collettivo, che si traduce in una o più decisioni
pubbliche (leggi, norme, atti vincolanti), prese nell’ambito di un processo in cui entrano più
attori (istituzionali e non) che influenzano le decisioni e le azioni poste in essere sul problema.
Gli elementi fondamentali sono:

1) il problema

2) gli attori

3) la decisione

4) il policy-making (processo)

POLICY MAKING: IL CICLO DI VITA DI UNA POLITICA PUBBLICA

Il policy-making viene scomposto in fasi funzionalmente distinte che marcano il ciclo di vita
di una politica pubblica e in ogni fase diversi possono essere gli attori protagonisti:

1) DEFINIZIONE DELL’AGENDA: accesso del problema nell’agenda decisionale →


selezione e rappresentazione del problema. Alcuni problemi si impongono in maniera
forte e immediata nell’agenda decisionale (es. terremoto). In alcuni casi sono i mass
media che fanno pressioni per fare in modo che i problemi vengano inseriti nell’agenda,
mentre in altri casi entrano in gioco le dimensioni soggettive degli attori pubblici.
Questo sottolinea non solo che l’identificazione del problema è importante ma anche la
rappresentazione dei problemi in cui intervengono le dimensioni valoriali degli attori
pubblici. I problemi quindi assumono forme differenti, cioè il modo di percepire un
problema determina le politiche pubbliche da attuare (degrado metropolitano se
percepito come problema di sicurezza attiverò una risposta, se come problema di
inquinamento provvedimento differente)

2) FORMULAZIONE DELLA POLITICA: elaborazione di proposte, analisi delle possibili


soluzioni, confronto fra gli attori → cioè cosa si può fare: entra in gioco anche l’apparato
amministrativo, è importante il contributo degli esperti e si soppesano le diverse
soluzioni prendendo in considerazione anche i costi

3) ADOZIONE DELLA DECISIONE: cosa si è deciso di fare sul problema (approvazione


dell’atto formale, sedi istituzionali della politica)

4) MESSA IN OPERA: attuazione o implementazione della politica pubblica → insieme


delle azioni mediante cui la decisione pubblica viene trasformata concretamente in
output (beni/servizi/regole operative) e risultati; questa fase chiama in causa in primis
le burocrazie

5) VALUTAZIONE: controllo dei risultati e problema degli indicatori (output ≠ outcome/


risultato) → l’output è ciò che si è concretamente fatto per risolvere il problema, è la
traduzione delle decisioni in operazioni concrete, mentre l’outcome è più difficile da
esprimere poiché è l’impatto della politica sul problema, cioè quanto la politica attuata
risolva il problema in modo effettivo: si tratta dei reali effetti sul problema (traffico
limitato che non riduce il tasso delle polveri sottili) → la valutazione è complessa ma è
fondamentale perché assume la funzione di capire se la politica sta avendo successo
(perpetuazione) o sta fallendo (sospensione) o se è necessario un ri-orientamento
(aggiustamento)

La VALUTAZIONE si divide in:

❖ AMMINISTRATIVA: svolta dall’apparato, talvolta da agenzie specializzate, che verte


sulla performance, sull’efficienza ed efficacia dell’intervento; indicatori di output e di
outcome; per rilevare l’impatto della politica pubblica e migliorare i risultati

❖ POLITICA: punta a combattere o sostenere la policy in una logica di consenso/


opposizione valoriale; non è tecnica, non è neutrale; può portare a cambiamenti nei
contenuti per arginare critiche o ritrovare consenso, oppure per prendere distanza dal
governo in carica/ precedente. Esempio: pedonalizzazione del centro storico = politica
efficace ed efficiente ma non porta consenso tra i commercianti per cui quella politica
viene sospesa per avere consenso. Quella politica è sempre partigiana, non è neutrale,
punta a combattere o sostenere la policy in una logica di consenso/opposizione
valoriale. Può portare a cambiamenti nei contenuti per arginare critiche o ritrovare
consenso, oppure per prendere distanza dal governo in carica/precedente

Quali sono gli attori delle politiche pubbliche?

1) Decisori politici eletti (istituzionali): membri del governo e del parlamento (giunte/
consigli) → mandato elettivo, consenso, potere decisionale formale

2) Burocrazie (istituzionali): funzionari/dirigenti amministrativi → potere attuativo,


competenza professionale
3) Rappresentanti di gruppi di interesse → informazioni, consenso, risorse economiche

4) Esperti → conoscenze innovative, idee, ricerca scientifica (la burocrazia non possiede
tali conoscenze e deve rivolgersi a loro)

5) Partiti e movimenti → mobilitazione consenso, attivismo su problemi, tramite fra


cittadini e istituzioni

6) Mass Media → collegamento fra politica e società, informazione, condizionamento


dell’opinione pubblica

GLI ATTORI ISTITUZIONALI

Il GOVERNO è l’organo decisionale più importante delle politiche pubbliche (funzione del
“governare”) ed ha avuto un protagonismo crescente anche in relazione ai parlamenti
(rafforzamento):

❖ governo monocratico o collegiale: struttura dell’esecutivo

❖ governo monocolore o di coalizione: a seconda di quante forze politiche lo sostengono/


compongono

Il PARLAMENTO è l’arena politico-decisionale per eccellenza ed è più o meno frammentato a


seconda del numero di partiti rappresentati: è difficile trovare consenso quando il numero dei
partiti è elevato.

La FORMA DI GOVERNO è il rapporto e il protagonismo del governo verso il parlamento, si


tratta dell’assetto istituzionale che collega il parlamento all’organo esecutivo (governo) e
l’esecutivo al suo vertice:

1) MODELLO PARLAMENTARE: solo l’organo legislativo è elettivo, mentre l’esecutivo


(collegiale) è espressione del parlamento attraverso il procedimento di fiducia → anche
la scelta del vertice dell’esecutivo rinvia alla fiducia parlamentare. È dunque il
Parlamento che legittima il governo → il parlamento e il governo sono strettamente
legati fra loro, il governo rappresenta la maggioranza politica del parlamento e la sua
durata dipende dalla fiducia accordatagli. Nel caso di crisi o sfiducia, il governo deve
dimettersi (si può formare un nuovo esecutivo anche senza ricorrere a nuove elezioni)

2) MODELLO PRESIDENZIALE (a “separazione” dei poteri): sia l’organo legislativo che


l’esecutivo godono di una legittimazione democratica → anche il vertice dell’esecutivo
(presidente, monocratico) è eletto direttamente dai cittadini: è autonomo, sceglie i
propri “ministri” ed esercita il suo mandato separatamente, senza la fiducia del
Parlamento → il governo non è soggetto a condizionamenti politici del parlamento, ha
una vita a sé stante

3) MODELLO NEO-PARLAMENTARE (ibrido): l’elezione diretta del Sindaco o Presidente


della Regione, con potere di nomina e di revoca degli assessori che compongono la
Giunta come nel modello presidenziale; però il Consiglio comunale/regionale mantiene il
potere di sfiduciare il Sindaco/Presidente che, in tal caso, è costretto a dimettersi come
nel modello parlamentare → le dimissioni del Sindaco/Presidente comportano però lo
scioglimento del Consiglio, portando a nuove elezioni (clausola simul stabunt simul
cadent) → elezione diretta del vertice dell’esecutivo ma no piena separatezza (restano
alcuni condizionamenti da parte delle forze politiche consiliari)

I primi due modelli si ritrovano anche a livello sub-nazionale sebbene in forma meno pura →
es. In Italia troviamo quello parlamentare a livello nazionale e quello neoparlamentare, di
ispirazione presidenziale, a livello regionale e comunale (forma ibrida)

A seconda del modello varia la complessità del processo decisionale → organi che devono
decidere insieme o meno, in sintonia politica o meno
Le BUROCRAZIE sono attori di primaria importanza: possono entrare in ogni fase del policy
making, concorrono a selezionare i problemi, elaborano proposte e supportano la decisione
formale, sono spesso valutatori delle politiche (valutazione amministrativa), ma è nella fase di
implementazione che si concentra il loro agire.

L’IMPLEMENTAZIONE (o attuazione) è una fase a lungo trascurata dagli studi sulle politiche
pubbliche: i processi di adozione (decisione formale) hanno ricevuto maggiore attenzione da
parte degli studiosi → resta una fase ambigua e delicata (la più oscura del policy-making) → le
burocrazie, infatti, hanno spesso difficoltà a perseguire gli obiettivi iniziali a causa di limiti nelle
risorse a disposizione, nelle loro capacità ma anche per la pressione dei gruppi di interesse →
se lo scarto è ampio si ha implementation gap o DEFICIT DI ATTUAZIONE (es. TVA) → gli
attori in gioco nella fase di implementazione non sono solo i burocrati/dirigenti amministrativi,
ma anche i gruppi di interesse e pure gli esperti

Es. Fondi europei: ci sono fondi per sostenere politiche di sviluppo e vengono dati a paesi con
regioni in ritardo. Problema dell’Italia che le amministrazioni non riescono a spenderli per
mancata capacità di programmazione delle amministrazioni. Le politiche si potrebbero fare e
non si fanno anche se ci sono già linee di politiche e fondi (42 miliardi di soldi da spendere nel
Sud). Problema: passare dall’agenzia della coesione e dalle amministrazioni regionali, le
piccole regioni sono più in difficoltà

2 aprile 2019

GLI ATTORI NON ISTITUZIONALI

I PARTITI POLITICI sono dentro e fuori le istituzioni: si tratta di associazioni di diritto


privato, con un vertice direttivo (segreterie), basate su libera adesione che puntano ad
acquisire cariche elettive per esercitare potere pubblico → decidere del governo della “cosa
pubblica” secondo i propri sistemi valoriali. Hanno una funzione importante di intermediazione
fra cittadini ed istituzioni (strutturazione della domanda sociale e del voto; socializzazione
politica) → aggregazione delle istanze. Selezionano la classe politica (chi andrà a decidere),
propongono politiche (programmi) e controllano i governanti (opposizione): sono attori
presenti in tutte le fasi del policy-making.

I GRUPPI DI INTERESSE compongono un fenomeno variegato, molto presente nella realtà


politica e nei processi di policy-making: sono attori che esercitano pressioni (lobbying; NB: da
lobby, anticamera/atrio) sui decisori pubblici, mobilitando il consenso intorno alla decisione
(potere di influenza), in difesa di propri interessi. Un gruppo di interesse (o di pressione) è
quindi un insieme di persone organizzato su base volontaria che mobilita risorse per
influenzare le decisioni pubbliche a tutela degli interessi che rappresenta: le risorse possono
essere di consenso, economico-finanziarie, informative, organizzative, di conoscenza (anche
tecnico-specialistica; soluzioni), simbolico-valoriali. Possono essere di due tipi:

❖ SETTORIALI (o concentrati) che difendono gli interessi di una specifica categoria (es.
sindacati, lobby economiche)

❖ PROMOZIONALI (o diffusi) riguardanti interessi ampi e trasversali (es. ambientalisti;


consumatori; volontariato sociale)

Quali relazioni hanno con il sistema politico e con quello amministrativo?

1) LEGITTIME o convenzionali (legalmente consentite se non richieste; cooptazione


formale, incontri, info, consenso)

2) CLIENTELA (cooptazione informale, la burocrazia viene “catturata” dal gruppo che


diviene suo “cliente”)

3) ILLEGITTIME (fuori dalla legalità, corruzione e tangenti)


Gli ESPERTI sono essenziali per l’analisi e la ricerca di soluzioni adeguate in merito a problemi
complessi che richiedono conoscenze tecnico-specialistiche avanzate e/o scientifiche (es.
ambiente, economia) → crescente specialismo policy-making → il rischio nel loro
coinvolgimento è quello di tecnocrazia (il governo potrebbe diventare loro) + scienza non
sempre super partes (dati contrastanti).

I GIORNALISTI sono il tramite fra cittadini e decisori pubblici e svolgono un ruolo di


informazione ma anche di denuncia di problemi → esercitano elevate influenze (es.
richiamando l’attenzione in modo selettivo su un problema rispetto ad un altro) e sono spesso
partigiani, a servizio di interessi o partiti (megafono di altri attori).

TIPI DI POLITICA PUBBLICA

La classificazione più diffusa è basata sul problema che la policy intende risolvere, ovvero il
settore funzionale di intervento pubblico (es. politica sanitaria, politica ambientale): si tratta di
una classificazione molto semplice, che denomina la policy (oggetto di analisi) ma dice poco
sulla sua natura. La tipologia di LOWI, trasversale ai settori, riflette invece sulla natura delle
politiche (prescrivono comportamenti o erogano risorse? A chi si rivolgono?) e si basa su due
variabili:

❖ probabilità di coercizione: le politiche coercitive prescrivono dei comportamenti, se


non si segue il comportamento si va incontro ad una sanzione → ci sono politiche che
prescrivono dei comportamenti e altre no

❖ destinatari della politica: la politica si rivolge all’individuo, ad ampie categorie sociali


o alla collettività

Mettendo insieme queste due variabili si ottengono 4 tipologie:

1) DISTRIBUTIVE: politiche che erogano benefici a destinatari visibili ma NON


comportano un confronto ravvicinato fra coloro che vengono favoriti e quelli che
vengono svantaggiati → hanno un “pagatore invisibile” poiché finanziate dalla fiscalità
generale = no coercizione, bassa conflittualità, appetibilità politica, facile consenso (es.
servizi sociali, aiuti ad imprese)

2) REGOLATIVE: politiche che prescrivono i comportamenti individuali (quali ammissibili/


vietati) o impongono adempimenti → elevato contenuto coercitivo (sanzioni),
conflittuali, più difficile consenso e/o l’accordo fra i decisori (es. politica ambientale)

3) REDISTRIBUTIVE: regolano la distribuzione di risorse o benefici, spostandoli da un


gruppo sociale (penalizzato) ad un altro (beneficiario) dove tanto l’uno quanto l’altro
risultano ben identificabili → implicano un confronto diretto fra le categorie sociali
avvantaggiate e quelle svantaggiate = coercizione ed elevata conflittualità sociale →
mettono a rischio il consenso politico e sono politiche difficili perché manca accordo fra i
decisori (es. riforma fiscale o pensione)

4) COSTITUENTI: creano e disciplinano le istituzioni pubbliche = debole coercizione →


possono richiedere ampie maggioranze decisionali (qualificate) e toccare interessi
partigiani e per questo non sempre sono di facile approvazione (es. riforme
costituzionali o nuova legge elettorale)

Il significato di fondo della tipologia di Lowi è il “policy determines politics” → è la natura delle
politiche (cosa si decide) a determinare il come si decide. Mette in discussione quanto a lungo
sostenuto, ovvero che sia la politics a determinare la policy: il comportamento degli attori
politici non è sempre uguale, ma cambia a seconda del tipo di policy → la tipologia delinea
quattro tipi di arena decisionale (modalità relazionali e decisionali degli attori).

La stessa impostazione (policy → politics) caratterizza la tipologia di WILSON (1980) che


riflette in modo specifico sull’attivazione e sul ruolo dei gruppi di interesse nei processi di
policy-making, considerando però attentamente i benefici e i costi che ogni politica comporta e
l’impatto che questo ha sulla mobilitazione dei gruppi e dei cittadini:

❖ I BENEFICI possono essere diffusi se riguardano l’intera collettività o un’ampia platea


di cittadini, oppure concentrati se invece riguardano gruppi circoscritti

❖ I COSTI pure possono essere diffusi se la politica grava sulla massa indifferenziata di
contribuenti, oppure concentrati se invece gravano su alcune categorie/gruppi
circoscritti

Troviamo una parziale sovrapposizione con quella Lowi, ma verte sul ruolo dei gruppi che si
attivano quando ci sono costi o benefici concentrati (da evitare o per i quali competere)

1) COMPETIZIONE FRA GRUPPI: situazione molto conflittuale (politiche redistributive),


gioco a “somma zero” → ciò che uno vince, l’altro lo perde (costi e benefici concentrati)
e questo porta ad un’elevata mobilitazione dei gruppi (cittadini) in lotta fra loro
(interest groups politics) → gruppi protagonisti della politics, forte condizionamento
dei processi decisionali (es. politiche del lavoro, liberalizzazione farmaci)

2) NO MOBILITAZIONE DEI GRUPPI: poiché la policy è bilanciata nella distribuzione di


costi e benefici non trova gruppi pronti a mobilitarsi → poche pressioni sui politici e se i
politici si attivano (agenda), sono loro i decisori, con decisioni prese a maggioranza
(majoritarian politics): es. raccolta differenziata rifiuti → possono rientrare alcune
politiche costituenti
3) GRUPPI CON ATTEGGIAMENTO CLIENTELARE: gruppi che riescono ad ottenere
benefici particolaristici (risorse) facendo pagare la collettività → politici assoggettati a
pressioni clientelari (client politics) → le politiche distributive possono rientrare qui (es.
aiuti imprese agricole)

4) POLITICI IMPRENDITORI DI POLICY: per difendere un interesse generale (benefici


diffusi) alcuni politici si attivano contro i gruppi svantaggiati che si mobilitano (quelli su
cui gravano i costi – politiche regolative) → successo solo se i politici hanno forte
capacità di attirare consenso e non hanno bisogno dell’appoggio di quei gruppi di
interesse (entrepeneurial politics) → es. legge Lorenzin 2017

POLITICHE PUBBLICHE E DECISIONI

Lo studio dei processi decisionali è centrale nell’analisi delle politiche pubbliche (policy =
decisione presa sul problema), ma è centrale anche nella Scienza dell’Amministrazione: le
PP.AA. formalmente preposte a dare attuazione alle politiche pubbliche. Come visto, nel
processo di attuazione delle politiche le PP.AA operano spesso come decisori a tutti gli effetti,
un ruolo tutt’altro che esecutivo. Inoltre, partecipano alla fase della formulazione delle
politiche, a stretto contatto con i politici. Lo studio dei modelli decisionali è importante sia per
comprendere meglio i processi di policy-making che per riflettere sul ruolo politico delle
burocrazie.

Il modello razionale sempre invocato poco si presta a cogliere la realtà dei processi decisionali
pubblici (dove risulta impraticabile): “percorsi tortuosi e accidentati” in cui gli obiettivi non
sempre sono chiari e le soluzioni spesso incerte (aspetti “irrazionali”). “La democrazia non
abita a Gordio” (Bobbio): la complessità del processo decisionale non può essere negata
(“recisa” come il leggendario “nodo” gordiano di Alessandro Magno), ma va “sciolta”; i “nodi”
sono passaggi cruciali che rinviano alla presenza di attori decisionali diversi con interessi e
informazioni divergenti (pluralismo democratico).

Come studiare le decisioni pubbliche?

La decisione non può prescindere dal processo che va studiato per comprenderne l’esito (la
scelta operata):

❖ se si studia solo l’esito si omettono le non-decisioni, piuttosto frequenti: non si arriva


a decidere ma il processo c’è stato → il PROCESSO DECISIONALE è la sequenza di
azioni che vanno dal momento in cui viene individuato un problema al momento in cui
viene definita la soluzione (o scelta la non-decisione)

❖ il modello decisionale è una costruzione analitica per interpretare la fase di adozione


della decisione

3 aprile 2019

I MODELLI DECISIONALI

Costituiscono la razionalità del processo decisionale che, sebbene non sempre possibile, resta
un valore da conseguire: “agire nel modo migliore possibile rispetto ad un fine” → la qualità del
rapporto mezzi/fini. Esistono quattro modelli decisionali che colgono gradi decrescenti di
“razionalità”: dalla razionalità assoluta a quella casuale, passando per la razionalità limitata e
quella incrementale (a posteriori). Lo schema classificatorio è costruito sulle due dimensioni
essenziali della razionalità:

1) MEZZI: certi o incerti dove la certezza passa per il possesso di informazioni sulle
alternative e relative conseguenze

2) FINI: certi o incerti dove la certezza deriva dal grado di accordo fra i decisori (decisore
unitario o plurimo)
MODELLO DELLA SCELTA RAZIONALE

Processo decisionale secondo la logica della razionalità assoluta: ottimizzazione. Si sviluppa


in 4 fasi:

1) Fissare gli obiettivi (fini/valori) → il soggetto (decisore unitario) identifica il fine che
vuole realizzare, definisce la propria struttura di preferenze → se l’attore è collettivo si
presuppone che il suo agire sia la sommatoria dell’agire individuale (razionalità
universale, homo oeconomicus)

2) Generazione ed esplorazione di tutte le alternative esistenti → il decisore conosce


tutti i mezzi possibili per raggiungere gli obiettivi (massima informazione e conoscenza;
i mezzi sono certi)

3) Valutazione delle conseguenze per ciascuna alternativa → il decisore compie un esame


esaustivo di tutte le conseguenze delle diverse opzioni e processa tutte le informazioni
in contemporanea

4) Presa di una decisione ottimale → il soggetto opera la scelta migliore in assoluto,


quella che secondo il calcolo (costi-benefici) massimizza l’utilità

Viene detta anche razionalità “comprensiva” in quanto presuppone un’indagine completa del
campo decisionale oppure “olimpica” per le capacità attribuite al decisore.

Altri assunti: a) sequenza razionale fini → mezzi; b) struttura delle preferenze stabile

Si tratta di un modello sotteso alla concezione classica dell’organizzazione, dominante nelle


scienze economiche → modello decisionale prescrittivo e desiderabile ma “utopistico”: poggia
su condizioni poco realistiche e fatica ad essere operativo nella realtà → nella realtà del
decision-making pubblico: attori con interessi diversi (decisore plurimo, con obiettivi/valori
discordanti), informazioni mancanti (e/o divergenti), capacità limitate, incertezza ambientale,
struttura delle preferenze variabili → altri modelli decisionali

MODELLO COGNITIVO

Critica al modello della razionalità assoluta attraverso il concetto di razionalità limitata


(bounded rationality, H. SIMON 1947): limiti cognitivi alla razionalità individuale.
L’administrative man contrapposto all’homo oeconomicus: razionalità non “olimpica”. Le
decisioni nella vita reale vengono prese entro numerosi limiti che non consentono di operare la
scelta “ottimale” → logica di fondo: non l’ottimizzazione bensì la soddisfazione (ricerca del
good enough).
I LIMITI della razionalità → il decisore non può operare una scelta ottimale:

❖ non possiede tutte le informazioni sulle alternative possibili, le informazioni arrivano


in sequenza e cambiano nel corso del processo

❖ ha una capacità limitata di analizzare le alternative di scelta e valutarne


simultaneamente le conseguenze in termini di costi e benefici (limiti cognitivi)

❖ ha una struttura delle preferenze che può conoscere variazioni (instabile)

❖ non conosce l’ambiente e non può prevedere tutte le conseguenze delle alternative
(incertezza ambientale)

La decisione scaturisce da un processo in cui emergono vari limiti e fattori di incertezza che
attengono ai mezzi e alla capacità di valutarli, nonché aggiustamenti sulle preferenze; non è
un calcolo secondo i canoni della razionalità assoluta. Il criterio decisionale è la soddisfazione:
ma di cosa? Soluzione soddisfacente non significa accontentarsi né una qualunque: si sceglie
l’alternativa che soddisfa le “premesse” del decisore: PREMESSE DI FATTO e PREMESSE DI
VALORE → premesse soggettive che però cambiano nel corso del processo

Le PREMESSE alla decisione sono i criteri che consentono di valutare le alternative, guidano la
scelta:

❖ DI FATTO: sono le informazioni e le conoscenze, che possono essere verificate/


falsificati empiricamente (attengono ai mezzi)

❖ DI VALORE: sono le preferenze (orientamenti) che guidano la decisione; non


verificabili (attengono ai criteri valoriali con cui si valutano le alternative)

Come si decide? Si sceglie la PRIMA alternativa che soddisfa le premesse, quelle che il decisore
possiede in quel dato momento → il decisore soddisfatto interrompe la ricerca

MODELLI A CONFRONTO:

Sul decisore unitario c’è però differenza: per Simon l’aggregazione delle preferenze
individuali può essere difficile se l’attore è collettivo → no mera “sommatoria” come nel caso
del modello razionale; tuttavia nelle organizzazioni il processo di aggregazione può essere
operato in modo meno problematico intervenendo sulle premesse dell’azione individuale

MODELLO INCREMENTALE

C. Lindblom prosegue la riflessione di Simon, ma osserva che le decisioni pubbliche sono


spesso prese da coalizioni di attori, da un decisore non unitario bensì plurimo: decisori con
premesse diverse che faticano a convergere (es. differenti partiti politici); attori partigiani con
preferenze inconciliabili → faticosa la ricerca di fini comuni/soluzioni condivise. Il pluralismo
democratico delle arene decisionali pubbliche: per decidere si devono ricomporre valori
differenti → logica di COMPROMESSO
Le decisioni sono prese:

❖ attraverso la negoziazione fra coloro che partecipano al processo decisionale posta la


divergenza fra fini/valori → AGGIUSTAMENTO RECIPROCO

❖ si procede sulla base di COMPARAZIONI LIMITATE SUCCESSIVE (aggiustamenti


progressivi): confronto fra gli attori, riduzione delle opzioni possibili (escluse quelle più
conflittuali), circolazione di informazione per cercare di appianare alcune divergenze

❖ si valutano alternative che si discostano di poco dallo status quo, SOLUZIONI


INCREMENTALI (minime), confermando scelte del passato, note nei loro effetti, solo
in parte modificate (piccoli passi)

Con questo modello si abbandona non solo la ricerca di decisioni ottimali ma anche quella di
soluzioni definitive ai problemi e le decisioni non sono nemmeno soddisfacenti (rispetto alle
premesse dei diversi attori) → che decisioni sono? Sono decisioni ACCETTABILI sulla base
dell’aggiustamento prodotto: i decisori aspirano a ciò che è possibile e non a quanto
desiderabile → si scelgono soluzioni minime, di possibile accordo fra attori partigiani. Il
processo è razionale? Solo a posteriori in quanto i fini non si definiscono prima della decisione
(non c’è accordo) bensì ex-post: sono le soluzioni possibili che portano al compromesso sul
fine → l’accordo si cerca e si trova sul mezzo che determina a sua volta il fine (mezzo → fine/
valore)

L’incertezza riguarda gli esiti del processo: non si sa a cosa si approderà, quale compromesso
verrà trovato → solo una volta trovato l’accordo il processo potrà risultare razionale
(definizione del fine a partire dal mezzo scelto, coerenza)

Aspetti positivi del modello:

❖ assicura una partecipazione plurale al processo decisionale (rappresentanza di più


interessi/valori)

❖ riduce il rischio di gravi errori (cambiamenti marginali rispetto all’esistente)

❖ non impedisce, nel lungo periodo, cambiamenti più incisivi (somma di più aggiustamenti
incrementali)

Limiti: no problem-solving, difficile se nuovo problema

MODELLO GARBAGE CAN

March e Olsen definiscono il contesto decisionale come “anarchia organizzata”, tuttavia, ciò che
è caotico può comunque rispondere ad una esigenza funzionale. Elevatissima incertezza: non
solo le limitate capacità degli attori, la mancanza di informazione, l’ambiente o la divergenza
valoriale fra gli attori, ma anche ambiguità dell’intero contesto decisionale in cui il nesso
mezzi-fini scompare → irrazionalità. Logica di fondo: SOPRAVVIVENZA (mantenere in vita il
sistema decisionale) → il sistema riesce a produrre una decisione in risposta ad una situazione
contingente (ma con modalità non razionali).

Esistono quattro componenti variabili del modello:

1) Gli ATTORI (mutevoli): non solo o tanto partigiani con premesse diverse, non hanno
nemmeno le idee chiare sui loro fini (i valori da difendere si definiscono e cambiano nel
processo); inoltre, la loro partecipazione è fluida ed incostante (cambiano nel corso del
processo decisionale che si sviluppa su lunghi tempi) A

2) I PROBLEMI su cui decidere (disordine nell’agenda, no gerarchia): non si sa quali sono


i problemi su cui si vuole decidere (quali i più rilevanti?); molti problemi accumulati nel
tempo, fra loro in competizione (premono per essere risolti) P
3) Le SOLUZIONI (incerte e svincolate dai problemi): non solo non si conoscono tutte le
alternative ai tanti problemi ma ci sono soluzioni preconfezionate (in cerca di problemi,
già pronte) S

4) Le OCCASIONI DI SCELTA (momenti in cui si può/deve decidere): non è nemmeno


chiaro quando si deve decidere (ci sono scadenze, ma forse si può aspettare…). Un
contesto decisionale molto ambiguo e de-strutturato, caotico, irrazionale: superata la
sequenza razionale “problemi → attori → soluzioni → scelte”; quattro flussi che si
sviluppano in parallelo, indipendenti fra loro, che solo il caso (coincidenza temporale)
pone in relazione: dalla loro associazione → decisione O

Come si decide? In modo casuale e contingente, una combinazione a caso fra le quattro
variabili: nell’immagine del modello le O sono “bidoni della spazzatura” in cui A buttano alla
rinfusa P e S: la decisione dipende dall’incontro casuale di P e S. Va inoltre considerato il
fattore tempo per cui le O impongono la decisione (non si può più aspettare) e la conseguente
coincidenza temporale che determina la combinazione casuale dei quattro elementi.

L’importanza del timing: è l’occasione di scelta che si impone a determinare la decisione che
non è frutto né di valutazione razionale né di compromesso (gli A presenti “pescano” P e S nel
cestino) → debole nesso tra problemi e soluzioni: la loro comparsa simultanea (vicinanza
nel “bidone”) determina la combinazione (no approccio problem-solving) → pur
nell’irrazionalità, il sistema riesce a produrre una decisione assicurandosi la sopravvivenza: se
c’è razionalità questa è casuale. L’applicabilità del modello è limitata, ma vari processi
decisionali assumono talvolta la forma di “anarchie organizzate”.
4 aprile 2019

POLITICA E AMMINISTRAZIONE

Il rapporto fra politica e amministrazione è collegato al tema dei processi decisionali: le due
“anime” che compongono la decisione pubblica (formalmente presa dai politici, elaborata e
attuata attraverso gli apparati). Il loro è un rapporto cruciale che si sviluppa fra due autorità →
il vertice politico e quello amministrativo:

❖ VERTICE POLITICO: autorità (legale) che poggia sul mandato elettorale → organi
elettivi, che operano sulla base di orientamenti politici in rappresentanza dei cittadini
(mediazione partitica)

❖ VERTICE AMMINISTRATIVO: autorità (legale) che poggia sulla competenza →


dirigenza amministrativa (alla quale rispondono funzionari e burocrati) selezionata in
base alle capacità (attraverso procedure fissate dalle norme)

Un rapporto che si presume e si auspica sia basato sulla distinzione dei ruoli:

❖ POLITICI → definizione e adozione delle politiche (o decisioni) pubbliche

❖ AMMINISTRATIVI → supporto e attuazione delle politiche (o decisioni) pubbliche

!!! In realtà il rapporto è problematico, tutt’altro che risolto → questo risulta un tema di
cruciale importanza negli studi amministrativi:

❖ connesso al rendimento dei sistemi politici: capacità di operare politiche coerenti alle
domande → apparati qualificati, necessaria buona relazione con politici

❖ falsificata la concezione weberiana (ruolo separato, meramente esecutivo): stretta


interazione dove lo specialismo del policy-making può assoggettare il politico al
burocrate (rischio prospettato da Weber)

❖ se i burocrati operano senza supervisione della politica si pone un problema di controllo


democratico: personale estraneo al circuito elettivo-rappresentativo

Come regolare il rapporto tra politica e amministrazione? Storicamente si sono affermate tre
principali modalità:

1) il principio (o teoria) della SEPARAZIONE (visione classica, weberiana)

2) lo SPOILS SYSTEM (l’altra modalità storica, per molti versi opposta)

3) il principio (o sistema) CONTRATTUALE (riabilita la “separazione” entrata in crisi;


introdotto dalle recenti riforme)

TEORIA DELLA SEPARAZIONE

I primi passi sono rintracciabili nelle riflessioni di Woodrow Wilson (Usa, 1887) che guarda
all’esperienza europea, teoria poi perfezionata in Weber. Vige una visione dicotomica: da una
parte la politica, che rappresenta ed esprime la volontà popolare (approva le leggi); dall’altra
l’amministrazione, un corpo subordinato alla politica, ma da questa separato, reclutato nel
rispetto delle norme, sulla base della competenza, e chiamato ad attuare le leggi. Si basa su
due principi fondamentali (burocrazia weberiana):

1) RUOLO passivo, meramente ESECUTIVO dell’apparato, rapporto gerarchico (politica


sovraordinata)

2) IMPARZIALITA’ AMMINISTRATIVA (politicamente neutrale, reclutamento impersonale /


apolitico dei burocrati)
C’è imparzialità amministrativa: reclutamento impersonale della burocrazia per evitare un
assoggettamento alla politica.

Perché si sviluppa in questo modo?

❖ WEBER: coerenza con lo Stato di liberale (che si sta democratizzando); vertice politico
come unico soggetto decisionale (risponde ai cittadini) mentre l’amministrazione
(costituzionalmente subordinata alla sovranità parlamentare) agisce separatamente
secondo i principi di universalità e uniformità stabiliti dalle leggi (a tutela dei cittadini,
per evitare arbitrio o agire partigiano/favoritismi)

❖ WOODROW WILSON: anche e soprattutto in reazione alle degenerazioni dello spoils


system (modalità “altra”, opposta, di regolazione del rapporto fra politica e
amministrazione), meccanismo già operativo nel sistema americano

SPOILS SYSTEM

Viene introdotto nell’amministrazione americana durante la presidenza Jackson (1829) per


assicurare la lealtà dell’amministrazione al politico di turno e si basa su un rapporto
fiduciario fra organo politico e funzionario/burocrate che viene scelto sulla base dell’afferenza
politica, nominato dall’organo politico → quando il politico si insedia si porta appresso i suoi
funzionari fiduciari che si sostituiscono ai precedenti (sistema delle “spoglie”, da spolium, le
“armature” dei vinti). Si sostiene che anche nel momento in cui l’amministrazione deciderà in
modo discrezionale lo farà comunque in modo conforme alla volontà politica che è quella dei
cittadini. Sono due gli elementi caratterizzanti:

❖ IL POLITICO NOMINA IL DIRIGENTE/funzionario (no reclutamento impersonale, scelta


politica): non c’è separazione; il dirigente non è neutrale, opera come longa manus del
politico; delega di potere decisionale in virtù della lealtà

❖ I vertici dell’amministrazione conoscono RICAMBIO (turn over): la dirigenza/burocrazia


non è un corpo stabile, la permanenza nei ruoli dipende dal mandato del politico (si
decade a fine mandato) e dal grado di soddisfacimento delle richieste (rapporto
fiduciario)

VICENDA STORICA AMERICANA: venne introdotto come forma di controllo politico, ma


anche per compensare la scarsa professionalità del corpo amministrativo dell’epoca,
assicurando la guida forte del politico e l’affidabilità dei burocrati. Tuttavia, arrivò al suo
fallimento e ad una crisi: alimentò fenomeni di corruzione, divenendo un sistema clientelare
portando la sua forma pura ad avere breve durata (1829-1883) → ci fu una lenta evoluzione
in senso meritocratico del sistema USA: reclutamento su base concorsuale/competenza,
molte cariche a tempo indeterminato; per alcuni dirigenti pubblici apicali ancora operativo

DA SPOILS SYSTEM A SEPARAZIONE

WOODROW WILSON: propone di riformulare il rapporto fra politica e amministrazione per


correggere la “corrotta commistione” → prospetta la separazione dalla politica per evitare
l’eccessiva politicizzazione della burocrazia, fermo restando il primato della politica

WEBER: l’idealtipo di burocrazia assicura separazione, competenza e, non ultimo, coerenza con
la teoria democratica (primato del corpo politico-elettivo) → il controllo politico passa per la
sovra-ordinazione gerarchica ma soprattutto per l’assunta conformità a norme universali

CRISI TEORIA DELLA SEPARAZIONE


Sul piano legislativo e valoriale la teoria persiste fino ai giorni nostri mentre sul piano empirico
viene progressivamente falsificata da numerosi studi (analisi delle politiche pubbliche): il
rapporto fra la politica e l’amministrazione emerge in tutta la sua problematicità con l’epocale
trasformazione dello Stato: dallo Stato liberale al Welfare State con avvento della
democrazia di massa ci fu un aumento delle domande e delle pressioni sociali, la dilatazione
del carico funzionale pubblico e cambiano sia la politica che l’amministrazione.

Viene meno l’omogeneità culturale fra vertice politico e vertice amministrativo (comune cultura
nella fase liberale; provenienza da stessa classe sociale) e nascono i partiti di massa (nuovi
gruppi sociali rappresentati, nuovo personale politico) e l’istruzione di massa (personale
amministrativo) → la sintonia e l’affinità culturale non sono più scontate e le nuove funzioni di
intervento (settore sociale ed economico) accrescono la complessità e lo specialismo del
policy-making: sono necessari funzionari esperti, detentori di conoscenze tecnico-specialistiche
e i politici faticano a controllarli, aumentando così il rischio di “dipendenza” → rapporto più
problematico fra politica e amministrazione

CONTRIBUTO DEI POLICY STUDIES

I policy studies portano avanti una ricostruzione del ruolo degli attori nel policy-making al di là
delle loro attribuzioni formali producendo due contributi importanti:

❖ Il concetto di POLICY NETWORK: le interazioni fra gli attori che si attivano intorno al
problema di policy ed entrano nelle diverse fasi del policy-making, le loro influenze sulla
decisione. Sono presenti diverse immagini coniate dalla letteratura in cui le burocrazie
risultano essere attori importanti → IRON TRIANGLES (commissioni parlamentari -
dirigenti amministrativi - gruppi di interesse, specie sindacati) e POLICY
COMMUNITIES (ruolo specialisti, esperti, dentro e fuori le burocrazie)

❖ Gli STUDI SULL’IMPLEMENTAZIONE: indagini accurate sul “deficit di attuazione”


mostrano come gli apparati possano ridefinire i contenuti delle politiche, i cui effetti non
risultano essere quelli attesi; infatti, nella messa in opera, le politiche possono
diventare altro rispetto a quanto formulato (discrezionalità, gruppi di interesse)

Complessivamente cosa emerge dai policy studies?

1) NON C’È SEPARAZIONE netta fra politica e amministrazione, fra formulazione e


implementazione delle politiche → i burocrati partecipano all’elaborazione della
decisione politica e alcune decisioni strategiche (allocazione risorse) vengono prese
nella fase di attuazione

2) RAPPORTI DIRETTI con GRUPPI DI INTERESSE (non sempre mediati dal decisore
politico, ruolo politico-negoziale della burocrazia) e con ESPERTI

I policy studies falsificano la teoria della separazione e i suoi corollari vedendo la burocrazia
come un attore decisionale: un ruolo non solo esecutivo e nemmeno neutrale → il rapporto fra
politica e amministrazione emerge in tutta la sua problematicità e può presentarsi in forme
diverse, da analizzare di volta in volta → vari modelli e prospettive di analisi per interpretarlo e
rilevarlo empiricamente: in letteratura sono presenti due prospettive di analisi.

PROSPETTIVA DUALISTA

In tale prospettiva è possibile separare le due componenti (i loro ruoli sono distinti) ma è da
verificare quale delle due risulta dominante nel caso specifico. La relazione fra politica e
amministrazione viene cioè analizzata come un rapporto di potere fra due attori che
controllano diverse risorse strategiche:

❖ La (classe) POLITICA controlla: la legittimazione alla decisione (mandato elettorale), il


bilancio pubblico (risorse per gli apparati) e le riforme amministrative (attraverso la
legge)
❖ La BUROCRAZIA invece controlla: le conoscenze specialistiche (rapporto con gli
esperti), il rapporto con gli interessi (stabilità) e la possibilità di dare continuità
all’azione di policy

PROSPETTIVA DI POLITICA BUROCRATICA

È difficile distinguere il ruolo dell’una e dell’altra componente essendo presente un’elevata


interconnessione: molti contatti anche informali, interazioni multiple, scambio di ruoli → rischi
di burocratizzazione dell’azione politica o politicizzazione dell’azione burocratica, a seconda di
quale attore invade maggiormente il campo dell’altro

TIPOLOGIA DI PETERS

Cambia le prospettive coniando cinque modelli di relazione disposti lungo un continuum:


dalla prevalenza dei politici sui burocrati alla prevalenza dei burocrati sui politici

1) SUBORDINAZIONE GERARCHICA della burocrazia alla politica: si assume come


possibile la separazione fra decisione ed esecuzione, con un ruolo discrezionale della
burocrazia molto limitato (visione classica, dualista, teoria della separazione)

2) CONSOCIAZIONE: forte coesione fra le due componenti (rapporto paritario); metafora


“vita del villaggio” → una élite omogenea; obiettivi e logiche d’azione comuni; massima
collaborazione e accordo; possibili passaggi di carriera tra incarichi dirigenziali e politici
(ruoli intercambiabili, es. grandes écoles francesi)

3) CONSOCIAZIONE FUNZIONALE: limitata a settori specifici dove risulta importante


una elevata conoscenza tecnico-professionale per ricoprire il ruolo politico; il ministro o
assessore è specialista del settore come il dirigente amministrativo (ruoli simili, no
distinti, parità)

4) COMPETIZIONE: i dirigenti e i politici competono fra loro, sono avversari; temono


prevaricazioni reciproche, sono guardiani uno dell’altro; hanno competenze diverse e
sono distinti (prospettiva dualista, rapporto di potere)

5) GOVERNO DEI BUROCRATI: i dirigenti dominano il processo decisionale, i politici


ratificano le loro decisioni

È difficile trovare un equilibrio fra queste due componenti (politica e amministrazione) in


relazione variabile: strettamente interdipendenti, complementari nel policy-making. Risulta
auspicabile distinguere i ruoli per evitare degenerazioni: un’eccessiva politicizzazione
dell’amministrazione (pressioni improprie) o un’eccessiva burocratizzazione della politica (no
controllo democratico). In questa direzione vanno le riforme amministrative: la riabilitazione
della separazione

IL SISTEMA CONTRATTUALE
Si basa su un contratto ideale (talvolta reale) fra il politico quale committente di politiche
pubbliche e il dirigente quale agente/produttore di politiche pubbliche. In particolare, il
contratto disciplina:

❖ la prestazione politica: definire le strategie, i valori e/o fini ultimi dell’azione di


governo (la commessa)

❖ la prestazione dirigenziale: realizzazione concreta degli obiettivi attraverso la scelta


autonoma e discrezionale dei mezzi

Il rapporto contrattuale integra i due ruoli (che sono distinti) e le relative responsabilità
decisionali:

❖ Responsabilità POLITICA: capacità di formulare linee di indirizzo rispondenti al


mandato elettorale (policy responsiveness) definendo i fini/valori dell’azione

❖ Responsabilità DIRIGENZIALE: capacità di tradurre gli indirizzi di ampio respiro in


progetti operativi (possibili soluzioni) e realizzazioni concrete (obiettivi) → tale
responsabilità implica il rendere conto del proprio operato (accountability) al
committente; i risultati conseguiti sono valutati dal politico; i dirigenti contrattati
possono essere licenziati dalla politica

→ come in ogni rapporto contrattuale, ci sono margini di contrattazione (risorse, fattibilità degli
obiettivi)

Il sistema contrattuale riconosce l’indipendenza dei ruoli ma anche l’interdipendenza delle


decisioni: le decisioni sono complementari e vanno integrate; il “contratto” prospetta modalità
collaborative dove però il dirigente deve fare il dirigente e il politico il politico. Riabilita quindi la
separazione su nuovi corollari:

1) Non più ruolo solo esecutivo: chiaro riconoscimento del RUOLO DECISIONALE,
discrezionale e attivo della burocrazia (i dirigenti sono autonomi, rapporto paritario)

2) La burocrazia si presume ancora neutrale: decide su base PROFESSIONALE, ma


controllata dai politici che valutano il suo operato e a cui risponde

10 aprile 2019

LE RIFORME AMMINISTRATIVE

Politiche di riforma sviluppate in tutte le burocrazie occidentali per rispondere alla crisi della
burocrazia, puntando al miglioramento di questa in risposta alla contemporaneità.

Con l’avvento del welfare state si produce un aumento quantitativo dell’intervento pubblico:
lo stato entra pesantemente nel mercato della produzione dei beni e dei servizi; il big
government si accompagna anche ad un cambiamento qualitativo però, dovuto a cambiamenti
nella struttura sociale e nel mercato del lavoro.

Si impone il superamento della tradizionale burocrazia orientata alla norma, cercando


un’amministrazione di prestazione capace di rispondere a dei bisogni collettivi crescenti sempre
più differenziati (problem-solving). Sono in questo senso necessarie nuove conoscenze,
modalità operative e strutture più flessibili. Oltre al problema nell’efficacia si pone anche il
problema dell’efficienza: dagli anni ’80 si presenta il problema del debito pubblico con crescita
incontrollata della spesa pubblica che ha portato alla necessità di ridurre il debito pubblico e
migliorare l’impiego delle risorse pubbliche.

Inoltre, il contatto delle burocrazie con i gruppi di interesse pubblici e privati va gestito poiché
si pone il problema della capacità relazionale della dirigenza amministrativa (potenziamento
della capacità di dialogo con gli interlocutori esterni con i quali si crea una rete).
Le riforme amministrative nascono negli anni ’80 poiché tutti i Paesi occidentali si trovano ad
affrontare un problema di rendimento. Le finalità sono quattro:

1) Riduzione della spesa pubblica attivando un’inversione di tendenza (snellimento degli


apparati)

2) Forme organizzative più flessibili di orientamento al risultato

3) Chiarire bene le responsabilità ed i ruoli (formula contrattuale) e ripensare al ruolo tra


pubblico e privato (processi di esternalizzazione e privatizzazione)

4) Maggiore capacità di relazionarsi con l’ambiente esterne

Queste finalità ritornano nei due paradigmi di riforma amministrativa: new public management
e teoria della governance.

NEW PUBLIC MANAGEMENT (NPM)

Filosofia di riforma che ha avuto molto successo e che seguiva una modalità di matrice
anglosassone: avvia delle significative trasformazioni all’interno degli apparati amministrativi.
L’idea di fondo è quella di introdurre nel settore pubblico delle logiche di mercato e degli
strumenti gestionali che vengono dal privato cercando di recuperare efficienza ed efficacia
(business administration) → gestire la PA come un’azienda:

1) Gestione più efficiente e parsimoniosa

2) Amministrazioni orientate al risultato

Rappresenta un approccio di rottura, avviando una rivoluzione culturale che viene definita da
conformance (conformità alla norma) a performance.

Si tratta di un proliferare di formule prescrittive e la sua filosofia tiene in considerazione sette


principi:

1) AUTONOMIA PROFESSIONALE E RESPONSABILIZZAZIONE DEI DIRIGENTI


PUBBLICI (managerializzazione): riforma della dirigenza pubblica da alti burocrati a
manager, i quali devono avere autonomia professionale e autonomia decisionale
sebbene siano responsabilizzati al perseguimento dei risultati e alla gestione delle
risorse attribuite: i burocrati vengono valutati sulla base dei loro risultati e della
capacità gestionale. Si crea quindi un rapporto contrattuale tra politica e
amministrazione volto alla ricerca di soluzioni organizzative congruenti e flessibili

2) PARAMETRI PER GUIDARE LA PRESTAZIONE AMMINISTRATIVA: messa a punto


di standard di qualità di servizio che diventano degli indicatori di performance sulla base
dei quali possiamo giudicare la prestazione amministrativa (es. carta dei servizi)

3) VALUTAZIONE DEI RISULTATI: rilevazione dell’output e confronto con obiettivi e


parametri definiti con un orientamento al soddisfacimento dell’utente/cittadino

4) SISTEMI INTERNI DI CONTROLLO: dotare l’amministrazione di strumenti in grado di


controllare la gestione per comprendere quali sono i centri di costo maggiori interni
all’organizzazione per migliorare l’impiego delle risorse

5) STILI AZIENDALI DI GESTIONE DEL PERSONALE: sistemi premianti ed incentivi al


risultato basati sul criterio della meritocrazia

6) CONCORRENZA NEI SERVIZI PUBBLICI: liberalizzazioni, esternalizzazioni,


privatizzazioni (l’attore pubblico tende a ritirarsi lasciando fare al mercato) →
downsizing (riduzione del settore pubblico – sussidiarietà orizzontale, rinvio)
7) DECENTRAMENTO: delle responsabilità (direzione per obiettivi) e territoriale
(trasferire le competenze dagli apparati centrali ai governi locali, le province, le
regioni…) per calare in maniera più specifica le azioni in base al volere dei cittadini

→ PROCESSO DI AZIENDALIZZAZIONE DELLA PA: efficienza, responsabilità, risultato e


valutazione

TEORIA DELLA GOVERNANCE

L’NPM pone un’eccessiva enfasi sull’aziendalizzazione ed in Europa Continentale prende forma


un nuovo approccio che nasce apertamente come critica alla metodologia precedentemente
analizzata.

Quali sono le differenze?

❖ Non ci sono finalità prescrittive, ma nasce su una serie di studi empirici sul
funzionamento e la difficoltà presenti nella governance delle amministrazioni

❖ Focus con il rapporto con l’ambiente esterno (rete di soggetti con cui le
organizzazioni interagiscono) mentre NPM si concentra unicamente sul cittadino: le
PPAA operano in reti complesse; interscambio con interlocutori esterni, pubblici e privati
→ molteplici attori che contribuiscono all’elaborazione e attuazione delle politiche

❖ Il governare si sviluppa attraverso una rete di azioni (governo a rete) → analisi delle
reti attraverso cui prende forma l’azione di governo

Il rapporto con l’ambiente esterno come rapporto strategico con gli stakeholder (=detentori
di una posta in gioco), ovvero coloro che hanno un interesse nel processo decisionale; non ci si
riferisce unicamente ai gruppi di interesse, ma anche alle altre PPAA ed ai cittadini non
organizzati. Sono tutti coloro che hanno un interesse nell’azione di governo e che detengono
delle risorse utili per il policy making, sono i destinatari ma anche i soggetti attivi o attivabili
quando gli interessi sono utili. I cittadini sono gli stakeholder principali in quanto portatori di
orientamenti valoriali e diritti, hanno inoltre delle informazioni sulla collettività: sono capaci di
orientare l’azione di governo. Sono stakeholder anche i gruppi di interesse classici (sindacati,
associazioni economiche, terzo settore…).

Bisogna dialogare con questi attori e coinvolgerli poiché possono portare legittimazione,
consenso, informazioni, soluzioni ai problemi… Vanno visti attraverso una logica strategica
poiché sono delle risorse.

Il coinvolgimento degli stakeholder consente politiche più consensuali (legittimate) e più


incisive sui problemi, con più risorse, soluzioni anche innovative ed un migliore coordinamento.
Il governare attraverso reti, a stretto contatto con una molteplicità di attori (non solo pubblici),
è necessario per operare meglio (mettere in rete le risorse): governance VS government →
una particolare modalità assunta dall’azione del “governare”: governo a rete ma non solo,
anche lo stile → dalla gerarchia alla collaborazione, un ruolo sempre meno dirigista dell’attore
di government e sempre più di attivazione, coordinamento e negoziazione.

Tali riforme vogliono potenziare la capacità di governance delle organizzazioni con un


coinvolgimento del cittadino nella presa delle decisioni pubblico attraverso pratiche che aprono
la strada alla democrazia deliberativa:

❖ dialogo con gli stakeholder, come attivarli e coinvolgerli nelle decisioni, al fine di
reperire più risorse

❖ coordinare i diversi stakeholder nel policy-making mediando gli interessi

❖ gestire i reticoli amministrativi fra PPAA


Es: commissioni con esperti o rappresentanti interessi, conferenze amministrative, focus
group, forme di democrazia deliberativa (o partecipativa)

DEMOCRAZIA DELIBERATIVA/PARTECIPATIVA

In Italia è ancora in via di sviluppo e sperimentazione, punta al coinvolgimento dei cittadini


nella decisione pubblica:

❖ ≠ democrazia rappresentativa (mediata dai partiti)

❖ ≠ democrazia dei cittadini (cittadini al posto dei politici): rischio utopia e populismo;
visione dualistica dello spazio politico, ampio ricorso a sondaggi/votazioni, mera
aggregazione di opinioni, processi decisionali poco strutturati (web), no confronto,
elevato conflitto

La democrazia deliberativa, più che contare le opinioni, fa in modo che queste si formino
attraverso il confronto, senza togliere valore al pluralismo che arricchisce la democrazia anche
quando gli interessi sono divergenti (dialogo e mediazione):

❖ Per riuscire ad avere politiche incisive e consensuali, apre il confronto con tutti coloro su
cui ricadono le conseguenze di una decisione, nel convincimento che il dibattito aperto
possa formare le opinioni e far scaturire migliori contenuti

❖ Si basa su processi strutturati (non solo votazioni on line) per dare ai cittadini
informazioni equilibrate e la possibilità di ascoltare diversi pareri per una deliberazione
attraverso il confronto ed il dialogo (visione dialogica), per un consenso informato

Es. Giurie di cittadini, sondaggi deliberativi → cittadini come stakeholder (strumento di


governance): processi decisionali più mirati, una risposta innovativa alla crisi della democrazia
per integrare e non sostituire la democrazia rappresentativa

CONCLUSIONI

11 aprile

LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE IN ITALIA

1) STRUTTURE: comprendere le evoluzioni della PA a partire dalla conformazione originaria


del modello ministeriale (crescente pluralismo)

2) FUNZIONI: come mutano le attività fondamentali all’interno della PA (passaggio dallo


stato minimo al welfare state con conseguente crisi di quest’ultimo)
3) PERSONALE: evoluzione del pubblico impiego e soprattutto della dirigenza pubblica (chi
sono i burocrati)

4) PROCESSI: il ruolo delle PPAA nei processi decisionali (studi di caso, rinvio)

PERIODIZZAZIONE STORICA

La PA italiana nasce con lo Stato italiano, in questi 150’anni è possibile identificare cinque fasi
marcate da momenti di discontinuità legati ai cambiamenti delle funzioni nella PA che non
sempre rispondono ad i mutamenti politici esterni: dal 1930 al 1970 c’è un’unica grande fase
con una sua continuità (fase dell’espansione) nonostante il periodo storico.

1) 1853 – 1900: fase fondante del modello originario che fa riferimento al nucleo
ministeriale; è il sistema politico amministrativo del Regno di Savoia che
successivamente viene esteso in tutto il regno a partire dal 1861

2) 1900 – 1930: fase liberale di consolidamento dell’apparato dove cominciano ad


apparire le amministrazioni parallele

3) 1930 – 1970: fase dell’espansione (welfare, continuità)

4) 1970 – 1990: fase della mancata riorganizzazione con la nascita delle regioni ordinarie
che replicano il modello ministeriale (opportunità sprecata)

5) 1990 – 2015: fase delle riforme (ancora in corso)

IL MODELLO ORIGINARIO

Con la Riforma Cavour dello Stato Sabaudo del 1853 nascono i ministeri e si forma l’assetto
amministrativo originario successivamente esteso in tutto il Regno unitario: tale riforma è
collegata ad uno dei principi dello Statuto Albertino, il quale prevede la responsabilità da parte
dell’esecutivo davanti al Parlamento. Il ministro diventa infatti un vertice bifronte, poiché deve
guidare l’apparato amministrativo nel settore di cui è competente (ministero) ed è membro del
corpo politico, quindi legato al Parlamento dal rapporto di fiducia.

Elementi caratterizzanti:

❖ UNIFORMITÀ apparati: unico modello di struttura per tutti i ministeri, classica


burocrazia weberiana, lunga catena, al vertice il ministro (guida e controllo politico)

❖ SEGRETARIO GENERALE come interfaccia tra ministro e apparato (vertice


amministrativo, coordinamento struttura)

Nascono quindi i ministeri e la classica burocrazia weberiana: sono tutti organizzati nello
stesso modo e rispondono tutti al ministro, al vertice. Originariamente esisteva anche un
segretario generale vista l’esigenza di avere un coordinamento di vertice: tale figura viene poi
sostituita dai sottosegretari di stato con la riforma Crispi del 1888 (personale politico
parlamentare) rafforzando la funzione del potere politico interna al ministero, sempre in una
logica di controllo politico; questo porta ad una frammentazione del ministero ed alla
mancanza di un coordinamento di vertice.

Erano presenti 7 (+2) ministeri con funzioni minime, prevalentemente di ordine, difesa, fisco
(Esteri, Interno, Finanze, Giustizia, Lavori pubblici, Guerra, Marina Militare) ai quali, con
l’unificazione si aggiunsero le attività produttive (Agricoltura-Industria-Commercio) e la
pubblica istruzione.

Fino alla riforma del 1999 il modello organizzativo rimane inalterato, tuttavia c’è un’espansione
degli apparati in seguito all’ampliamento delle funzioni di intervento statale:

❖ aumento del numero dei ministeri (che arrivano a 23)

❖ proliferare di direzioni generali al loro interno (organizzazione gerarchico-funzionale)


❖ crescita del decentramento burocratico (uffici periferici dei ministeri)

!!! Tale modello organizzativo lo ritroviamo anche in quelle che sono le amministrazioni locali.
FASE LIBERALE: LE AMMINISTRAZIONI PARALLELE

Con la fase liberale comincia una prima espansione delle funzioni amministrative, le quali
richiedono delle competenze tecniche che non si trovano nell’apparato ministeriale tradizionale
(avvio dell’intervento pubblico in economia e nel sociale): viene sollevata la necessità di
allontanarsi dalla burocrazia tradizionale, in quanto troppo rigida, gerarchica, con troppi
controlli. Si cominciano quindi a creare delle strutture parallele rispetto ai ministeri
(pluralismo amministrativo) sia a livello centrale che locale:

❖ AZIENDA AUTONOMA: (nascono nel 1904) farmacie, prime aziende a livello locale, le
ferrovie, le poste, i tabacchi… Sono entità chiamate a vendere dei beni e dei servizi con
una tariffa da parte del cittadino nelle quali occorrono competenze tecniche e maggiore
autonomia organizzativa e di spesa, sebbene il suo vertice sia sempre quello politico e
ciò evidenzia il fatto che non ci sia una netta separatezza (utili per le attività di natura
economica). Sono rimaste a livello locale ma sono state superate a livello nazionale.

❖ ENTE PUBBLICO: è nettamente separato dall’apparato ed ha uno statuto e degli


organi propri di nomina istituzionale organizzativa che conferiscono all’ente una piena
autonomia rispetto all’apparato ministeriale. Maggiore autonomia nella gestione delle
risorse, dei finanziamenti, della spesa… Tale maggiore flessibilità ed eterogeneità
rendono questa formula molto di successo: dagli anni ’30 si avvia un imponente
sviluppo di enti pubblici tutti finanziati dallo stato per assolvere varie funzioni; la
distinzione principale è tra gli enti pubblici economici (evoluzione delle aziende
autonome, come le ferrovie, che producono beni e servizi a pagamento spesso in
regime di monopolio) ed enti pubblici non economici (previdenza sociale, sport,
turismo… si intrecciano con l’apparato tradizionale mantenendo una propria separatezza
anche nel vertice).

Gli enti pubblici conoscono una grande espansione nella fase fascista (anni ’30) poiché
venivano sostenuti un grande dirigismo ed interventismo del pubblico volto allo sviluppo: in
questa fase ci sono anche gli effetti della crisi del ’29 a causa della quale è necessario
sostenere il settore industriale. In questa fase nascono l’IMI (Istituto Immobiliare Italiano) e
l’IRI (Istituto per la riconversione industriale) con lo scopo di sostenere le iniziative aziendali e
di soccorrere le industrie in crisi (motore dello sviluppo economico italiano): i salvataggi danno
vita al sistema delle partecipazioni statali, con la penetrazione sempre più invadente dello
Stato nel sistema economico. Attraverso questa dinamica si va a sostenere lo sviluppo
economico e ad ampliare enormemente il settore pubblico.

Viene costruito il sistema previdenziale e quello assistenziale con l’INPS e l’INAIL (pilastri del
welfare italiano).

Il fascismo abbraccia un’ideologia corporativa, ovvero riconosce l’intervento del pubblico


nella sfera economica.

VERSO LE RIFORME

Con la costituzione repubblicana (1948) si concepisce l’apparato pubblico solo con


riferimento alla forma tradizionale ignorando il fenomeno che si stava creando e che comunque
continua a svilupparsi. L’entizzazione, infatti, prosegue con la nascita di importanti enti
economici: INA-casa (1949), Cassa per il mezzogiorno (1950), ENI (1953), ENEL (1963).

C’è una crescita e ed un proliferare di strutture ed enti anche a scopo di consenso politico:
dagli anni ’80 si avvia il dibattito sulle riforme che porteranno a riorganizzazioni ma anche alla
comparsa di nuove forme organizzative (più flessibili) per rispondere a nuovi problemi.
A partire dagli anni ’90 le riforme sviluppano nuove forme:

❖ AUTORITÀ INDIPENDENTI (authorities): organismi tecnico-specialistici (elevata


expertise), indipendenti (organi di vertice – Presidente e commissari – scelti dalle più
alte cariche istituzionali, equidistanti da politica e amministrazione), garanti a tutela di
interessi pubblici ritenuti sensibili (meritevoli di un’attenzione speciale), con funzioni di
regolazione e vigilanza; elevata flessibilità. Es. ANTITRUST (garante per la concorrenza/
mercato); AEEG (energia elettrica e gas – servizi essenziali liberalizzati); AGCOM (sulle
comunicazioni, a tutela pluralismo); GARANTE per la PRIVACY (dati personali cittadini);
ANAC (vigilanza contro la corruzione)

❖ AGENZIE AMMINISTRATIVE: disciplinate dalla riforma dei ministeri (1999); create


per assolvere compiti tecnici, significativa flessibilità ed orientamento al risultato,
(dipendenza da Ministro/Presidente regione che nomina il DG con ampie responsabilità -
NPM)

❖ SOCIETÀ PER AZIONI (di capitale pubblico), disciplinata dal diritto privato, molto
flessibile e autonoma, orientata al mercato; vertice (AD o CDA) scelto da azionisti (se è
il governo, nomina); decollerà con le PRIVATIZZAZIONI degli anni Novanta (tutti gli enti
pubblici economici nazionali diventano S.p.A; diffusione anche a livello locale,
trasformazione delle aziende municipalizzate)

1990-2015: un’intensa stagione di riforme amministrative, di cui si parlava da tempo →


profonda e ampia revisione degli assetti organizzativi e del generale sistema della PA. Sono
presenti tre principali linee di riforma delle strutture: privatizzazione, riorganizzazione degli
apparati centrali e decentramento territoriale.

PRIVATIZZAZIONE

Si tratta di un fenomeno complesso ed articolato che spinge all’arretramento dello stato


dalla società (sussidiarietà orizzontale), ad un ripensamento del suo ruolo con la dismissione
di attività non essenziali per la funzione pubblica:

❖ ABOLIZIONE del Ministero delle PARTECIPAZIONI STATALI (1993) → da Stato


produttore a Stato regolatore → cessione integrale di imprese e banche (da pubbliche a
private)

❖ ESTERNALIZZAZIONE di servizi o funzioni che possono essere meglio svolti dal


mercato o terzo settore (non-profit) ***
❖ LIBERALIZZAZIONI: apertura a concorrenza ed operatori privati in settori di
precedente a monopolio pubblico (public utilities)

*** Dilemma “make or buy” (erogazione servizi):

❖ make → produzione attraverso l’apparato pubblico (magari con forme nuove, non
tradizionali, es. agenzie)

❖ buy → acquisto da operatori terzi (rapporto contrattuale, mix pubblico-privato):


organizzazioni private, spesso non profit, che operano per conto della PA, esercitando le
sue funzioni

Nell’insieme con le esternalizzazioni cambiano gli operatori da pubblici a privati: lo Stato lascia
spazio e/o cede funzioni a soggetti privati, per recuperare efficienza/efficacia (migliorare le
prestazioni, snellire gli apparati, contenere i costi, ridurre le tariffe), ridefinendo il proprio ruolo
→ PARTNERSHIP PUBBLICO-PRIVATO

La privatizzazione spinge inoltre alla modifica della forma giuridica di alcuni soggetti
pubblici quali aziende autonome o enti economici per recuperare flessibilità e capitale →
trasformazione in società per azioni (dal 1992 ENI, Poste, FF.SS, ENEL, ANAS, ecc., moltissime
public utilities a livello locale):

❖ SpA come forma dominante nell’economia pubblica → gestione privatistica → SETTORE


PUBBLICO ALLARGATO: sfumano i confini pubblico/privato

❖ apertura limitata all’azionariato privato: vincoli giuridici per la preservazione della


proprietà pubblica, non vera privatizzazione sul piano della proprietà, azionista di
maggioranza o esclusivo è pubblico (Ministero Economia e Finanze)

Infine, i suoi ultimi due obiettivi sono l’NPM, ovvero mutuare i modelli organizzativi e gli
strumenti gestionali del settore privato, applicandoli alle pubbliche amministrazioni (che
restano soggetti pubblici) + le tante riforme all’insegna del NPM (es. dirigenza). Per concludere
abbiamo le questioni legate al pubblico impiego: la privatizzazione si estende anche alla
gestione del personale e soprattutto alla regolazione del rapporto di lavoro → dalla
legificazione del passato (regolazione attraverso legge) alla contrattualizzazione (regolazione
attraverso contratto) con crescente equiparazione pubblico-privato.

APPARATI CENTRALI

❖ Riforma dei Ministeri e della Presidenza del Consiglio (d.lgs 300 e 303 del 1999) →
verso modello dipartimentale

❖ introduzione e disciplina delle agenzie amministrative + grande sviluppo delle autorità


indipendenti (amministrazioni parallele)

DECENTRAMENTO TERRITORIALE

❖ l. 142/1990: ripensamento del rapporto centro-periferia all’insegna di una maggiore


autonomia locale

❖ l. 59/1997 (riforma Bassanini) e l.c. 3/2001: le c.d. riforme federaliste

Il decentramento è un fenomeno proprio dello Stato Unitario, che ebbe una forte espansione
nel XX secolo → Stati decentrati e Stati regionali. Si tratta del trasferimento di poteri e
competenze dal centro alla periferia → distribuzione di risorse di governo sul territorio
(autoritative, amministrative e fiscali). È un processo top-down (deliberato dal centro e
trasmesso alla periferia) e reversibile. Ne esistono tre tipologie:

1) DECONCENTRAZIONE

2) DECENTRAMENTO POLITICO-AMMINISTRATIVO
3) DEVOLUZIONE

16 aprile

DECONCENTRAZIONE

Dislocazione di compiti e responsabilità dai ministeri ai loro uffici periferici per sgravare
l’apparato centrale e avvicinare le funzioni ai cittadini: le amministrazioni periferiche diventano
diramazioni operative dell’amministrazione centrale ed esercitano competenze che restano di
titolarità statale, tendenzialmente mono-settoriali → LOGICA ESECUTIVA (braccia operative
del centro). Il rapporto (centro-periferia) è di tipo gerarchico e la burocrazia centrale è
l’interlocutore prevalente (dipendenza, scambi limitati con il territorio, no rappresentanza):
tendono a replicare il modello ministeriale (ne sono un’estensione) → uniformità su territorio
nazionale

Quali sono le strutture deconcentrate?

❖ MINISTERO DELL’INTERO: prefetture, questure, VV.FF

❖ MINISTERO DELLA GIUSTIZIA: tribunali, uffici giudiziari vari, giudici di pace, archivi,
istituzioni carcerarie (diverse forme)

❖ MINISTERO DELLA DIFESA: Arma dei carabinieri

❖ MINISTERO DELLE FINANZE: Agenzie fiscali (delle entrate, delle dogane, del demanio);
GdF

❖ MINISTERO DELLO SVILUPPO: Ispettorati territoriali (regionali)

❖ MINISTERO DELL’AGRICOLTURA: Ispettorati provinciali

❖ MINISTERO DEL LAVORO: Direzioni prov. del lavoro (ispettorati)

❖ MINISTERO DELL’ISTRUZIONE: Uffici scolastici regionali e provinciali (ex


provveditorati); NB: Scuole e Università oggi autonomie funzionali

❖ MINISTERO DEI TRASPORTI: motorizzazioni, provveditorati opere pubbliche, capitanerie


di porto

❖ MINISTERO DEI BENI CULTURALI: soprintendenze

❖ MINISTERO DELLA SALUTE: alcuni uffici periferici → SSN

DECENTRAMENTO POLITICO E AMMINISTRATIVO

Attribuzione di competenze a governi periferici (in primis Comuni), con apparati propri (no
dipendenza gerarchica da burocrazia centrale), guidati da organi elettivi, dotati di autonomia
politico-amministrativa: potere di indirizzo politico, ovvero esercizio di funzioni nel rispetto
delle preferenze espresse dai cittadini, con competenze proprie a detrimento di quelle statali e
diversi gradi di autonomia finanziaria

→ LOGICA TERRITORIALE: rappresentanza politica e amministrazione generale del territorio


con autonomia statutaria e organizzativa → possibili modelli innovativi, più limitata interazione
con le burocrazie centrali e reti con altre amministrazioni di governo del territorio

Quali sono gli enti di governo periferico?

GOVERNI LOCALI (decentramento politico-amministrativo):

❖ ENTI TRADIZIONALI: Comuni e Province (riformate)


❖ NUOVI ENTI: Comunità Montane (anni ’70, riformate); Unioni dei Comuni (in crescita);
associazioni intercomunali (meno diffuse); città metropolitane (novità); Comuni unici
(novità)

REGIONI (devoluzione):

❖ RSS, a statuto speciale (NB: province autonome TN, BZ)

❖ RSO, a statuto ordinario

DEVOLUZIONE

Cessione definitiva, costituzionalmente garantita, del potere indipendente di legiferare e


regolare: le regioni autonome hanno uno status differenziato → hanno potere legislativo e
viene perciò incrinato il centralismo statale. LOGICA AUTONOMISTA: possibilità di politiche
proprie diverse da quelle nazionali (autogoverno) e debole assoggettamento al centro
(garanzie costituzionali, minore reversibilità).

Stato regionale (oltre lo Stato unitario decentrato): autonomia legislativa, amministrativa,


organizzativa, in parte fiscale; rapporto più paritario con il centro, ibrido, somiglianze con lo
Stato federale → l’altro modello storico di Stato, nato in opposizione allo Stato unitario (USA
1787): le Regioni hanno infatti un’autonomia legislativa simile rispetto alle unità territoriali di
uno Stato federale.

❖ poteri meno garantiti: manca la rappresentanza dei territori nel parlamento nazionale
(Senato), dunque resta la reversibilità (le Regioni non partecipano al processo
decisionale centrale e nemmeno alle riforme costituzionali)

❖ prevalenza di competenze concorrenti e condivise, poche competenze esclusive

❖ minore potere fiscale (debole federalismo fiscale) e scarso potere di ordinamento locale
(governi locali)

❖ apparati centrali più ampi e ramificati per le più numerose competenze statali

IL CASO ITALIANO

In Italia sono presenti tutti e tre i tipi di decentramento, con un’articolazione verticale (oltre
che orizzontale) del sistema amministrativo. Le riforme (dagli anni ’90) hanno potenziato il
decentramento politico-amministrativo con numerosi cambiamenti a livello locale: maggiore
autonomia ai governi locali, ma anche riordino territoriale (unioni di comuni, riforma delle
province, città metropolitane). Hanno poi rafforzato il regionalismo italiano in una prospettiva
federale: riforme importanti (Titolo V della Cost., federalismo amministrativo e fiscale). C’è
stato inoltre un recente abbandono della visione federalista (perdita di consenso) ma con la
ripresa dell’autonomismo (differenziato).

Il rafforzamento dei governi locali unito a quello delle Regioni ha reso più diffuso l’ASSETTO
MULTILIVELLO delle politiche pubbliche → quasi sempre coinvolgono governi e
amministrazioni di diverso livello (normativa nazionale + competenze regionali e locali). Tale
assetto multilivello diviene più articolato con il consolidamento del livello europeo: molte
politiche pubbliche seguono oggi direttive e normative dell’UE (e beneficiano di fondi europei)
→ es. politiche di sviluppo locale (fondi strutturali europei); programma Garanzia Giovani

Le FUNZIONI AMMINISTRATIVE sono l’insieme delle attività svolte dalle PPAA: difficile
classificarle poiché si tratta di un universo ampio ed eterogeneo, enormemente dilatato nel
tempo in risposta all’aumento delle istanze sociali. Si possono identificare in due gruppi:

❖ ATTIVITÀ DI OUTPUT (per cittadini) politiche pubbliche (beni, servizi, regolazione –


NB: Lowi)
❖ ATTIVITÀ DI SUPPORTO (per realizzare gli output) strumentali (acquisizione/
gestione risorse, incluse RU) e ausiliarie (consulenza, mediazione, coordinamento reti)

Le attività di output possono essere ricondotte ad almeno quattro macro-aree di intervento


pubblico:

1) FUNZIONI D’ORDINE: nucleo originario persistente (ordine pubblico, giustizia, difesa,


fisco; evoluzioni)

2) ATTIVITÀ ECONOMICHE: grandi cambiamenti → da espansione a contrazione, da


statizzazione a privatizzazioni; decentramento (es. public utilities, sviluppo)

3) POLITICHE SOCIALI (welfare): enorme espansione e ampio decentramento (sanità,


assistenza, previdenza, scuola; nuove politiche: immigrazione, inclusione, ecc.)

4) GOVERNO DEL TERRITORIO: espansione e decentramento (ambiente, urbanistica,


opere pubbliche, beni culturali, ecc.)

Le attività di supporto sono state potenziate nel tempo per sostenere l’espansione di quelle
di output (rendimento amministrativo) attraverso le riforme (NPM e teoria della governance):

❖ ridefinizione del rapporto fra politica e amministrazione e nuova gestione RU (riforme


dirigenza e pubblico impiego-NPM)

❖ vigilanza specialistica e iper-qualificata per interessi pubblici sensibili (authorities)

❖ rapporto con ambiente (teoria della governance): mediazione con i gruppi di interesse,
rapporto con stakeholder + rapporto con esperti (policy communities); gestione dei
reticoli (operare in rete con altre PPAA)

IL PUBBLICO IMPIEGO

So parla di “elefantiasi burocratica” sin dai primi del 1900 → aumento a tratti imponente, ma
critica non del tutto fondata. Per quanto riguarda i dipendenti statali in senso stretto (incluso
scuola, corpi militari e aziende autonome):

❖ 1859-1914: da 65.000 a 287.000

❖ 1923-1943: da 540.000 a 1.380.000

❖ 1951-2009: da 1.091.000 a 1.836.581

!!! Si tratta di dati parziali, se si aggiungono gli altri comparti del pubblico impiego (es. sanità,
enti locali) il dato attuale quasi raddoppia arrivando a 3.311.582
Nel corso del ventennio 1990-2010 l’aumento dei dipendenti pubblici è stato modesto (circa il
3,6%; NB: escluso il settore pubblico allargato - SpA): 1/3 dei dipendenti pubblici appartiene
al settore scolastico (in crescita, anche Università cresce) e quasi la metà NON appartiene
all’amministrazione statale (gli altri comparti, ovvero amministrazioni variamente autonome).
Il personale dei ministeri rappresenta una parte esigua dei dipendenti pubblici (circa 8%), però
con magistrati, prefetti, diplomatici, forze armate e corpi polizia arriva al 22%. L’Italia risulta
essere in linea con altri paesi (dati OCSE): i pubblici dipendenti sono il 14,8% del totale
occupati (Francia 20%; GB 19%; USA e Spagna 15%; Germania 12%).

EVOLUZIONE STORICA DEL PI

AMMINISTRAZIONE SABAUDA: accesso libero su base volontaria (spirito di servizio, periodo di


addestramento al lavoro); carriera gerarchica per anzianità; osmosi fra ceto politico e ceto
amministrativo (stessa élite, omogeneità culturale).

Le prime riforme vennero fatte dopo l’unificazione (ampia crescita del PI): reclutamento per
concorso pubblico; definizione della struttura delle carriere (tre carriere → direttiva, di
concetto, esecutiva); laurea per livelli apicali (direttiva). Con la legge 372/1904 viene
attribuita al Parlamento la competenza di disciplinare ogni aspetto del PI, perfino le piante
organiche al posto del governo (crescente legificazione).

Nel CONSOLIDAMENTO DEL PI (1900-1930) emergono dei tratti culturali:

❖ GIURIDICIZZAZIONE della cultura amministrativa: le norme prevedono laurea in legge


per accedere ai ruoli direttivi, competenze generaliste e non tecniche (spinta alla
nascita di amministrazioni parallele); conoscenza del diritto come criterio di selezione,
conformità alla norma come logica d’azione

❖ MERIDIONALIZZAZIONE: dagli anni ‘20 cambia la provenienza geografica (prima dal


Nord); lavoro pubblico come unica prospettiva di impiego e carriera per chi abitava al
Sud (NB: forte negli anni ‘50-’60, oggi più attenuato)

❖ SINDACALIZZAZIONE: avvio di un fenomeno che risulterà sempre più diffuso (crescita


dei dipendenti pubblici), associato ad elevata frammentazione corporativa (comparti)

Dal 1930 al 1970 ci fu una tendenziale stasi: no mutamenti significativi (nonostante


espansione degli apparati e gli avvicendamenti politici); rafforzamento dei tratti culturali visti;
Testo Unico del 1957 → conferma la progressione di carriera per anzianità e l’accesso per
concorso, però evoluzione differenziata. Ci fu una crescente differenziazione normativa e
retributiva per i diversi comparti anche su pressione dei sindacati (frammentati); no unica
disciplina PI, prevalgono logiche corporative → proliferare di leggi e leggine. Il reclutamento
nel pubblico impiego e la sua disciplina legislativa vengono spesso usati dai partiti per
assicurare consenso politico + funzione di ammortizzatore economico-sociale.

17 aprile

LE RIFORME DEL PUBBLICO IMPIEGO

In Italia, come in altri paesi (tradizione civil law), il pubblico impiego ha a lungo goduto di un
ordinamento speciale (funzione pubblica): molte tutele (stabilità impiego, carriera e
retribuzione certe), ma condizioni di lavoro definite in modo unilaterale dallo Stato attraverso
la legge (legificazione) → problema dello sciopero

L a p r i va t i z z a z i o n e d e l ra p p o r t o d i i m p i e g o i m p l i c a l a d e l e g i f i c a z i o n e e l a
contrattualizzazione → l’uso del contratto (diritto privato) quale fonte di regolazione (al
posto della legge): una contrattazione collettiva che chiama in causa il sindacato
(equiparazione con settore privato, NB: Statuto dei lavoratori 1970)

RAPPORTO GIANNINI sui problemi della PA (1979): volto a delegificare il PI per evitare
ingerenze partitiche (leggi per consenso elettorale), consegnando la disciplina del rapporto alle
“parti” (governo e sindacati) per una gestione più efficiente e flessibile del PI attraverso il
contratto

L. 93/1983: legge quadro sul PI che regolamenta la contrattazione collettiva come modalità
prevalente (ma non esclusiva) di disciplina del PI in alcuni comparti statali della PA (avvio
parziale); status misto → distinzione tra materie soggette alla contrattazione (es. org. lavoro,
trattamento economico) e materie ancora soggette alla legge (es. assunzione, carriera)

D. LGS. 29/1993: LA PRIVATIZZAZIONE DEL PI:

❖ Equiparazione pubblico-privato: regolazione del rapporto di lavoro pubblico sulla base


del diritto privato (codice civile) tramite contratto; controversie al giudice ordinario (no
TAR/Consiglio di Stato); forme contrattuali più flessibili, possibile licenziamento

❖ Istituzione dell’ARAN: Agenzia per la rappresentanza negoziale delle PPAA per gestire il
processo di contrattazione collettiva (trattative sindacali)

❖ Contrattazione su due livelli: nazionale (per aspetti fondamentali del rapporto di lavoro,
comparti) e decentrato (singola PA, per aspetti integrativi, es. salario accessorio)

❖ Categorie escluse (magistratura, prefetti, diplomatici, forze dell’ordine, militari); inclusa


dirigenza

Attraverso la contrattualizzazione si sono create forme nuove di gestione delle risorse umane
come ad esempio:

❖ Dalle qualifiche alle categorie/aree professionali per una gestione più flessibile e meno
gerarchica, volta a valorizzare maggiormente le risorse umane (RU) → individuazione di
diversi profili professionali all’interno della stessa area, possibile progressione
economica orizzontale senza progressione verticale (per quest’ultima necessari concorsi
interni)

❖ Collegamento di parte del salario (quello accessorio) alla valutazione della prestazione
lavorativa come incentivo al risultato (NB: scarsa attuazione → Riforma 2009, rivista
dalla riforma del 2017)

RIFORMA BRUNETTA (d.lgs 150/2009): meritocrazia, valutazione delle prestazioni dei


dipendenti pubblici (non dirigenti), con sistema di premi e sanzioni sulla base di rigide fasce di
merito → mai attuata (controversa)

È stata rivista in parte dalla RIFORMA MADIA (d.lgs 74/2017– non ancora attuata):

❖ ciclo della valutazione: assegnazione di obiettivi, risultati misurati attraverso specifica


metodologia, valutazione della performance → conferimento quota salario variabile +
progressione di carriera

❖ istituzione per ogni PA di un organismo di valutazione (OIV), con esperti esterni,


chiamato a predisporre indicatori di performance per la valutazione dei dipendenti

❖ valutazione annuale dei dipendenti, operata dai dirigenti, con i criteri definiti dal OIV;
quota del salario variabile definita dal contratto collettivo

LA DIRIGENZA PUBBLICA → Legge 748 del 1972

❖ istituzione della dirigenza (prima solo carriera direttiva) → tentativo di creare una élite
autonoma e responsabile

❖ tre qualifiche: dirigente inferiore, superiore, generale; accesso per corso-concorso

→ fallimento e debole applicazione della legge: resta assoggettamento gerarchico alla politica,
scarso decentramento decisionale, difficoltà a distinguere le responsabilità dei dirigenti da
quelle dei politici (separazione fra politica e amministrazione problematica); pressioni per
entrare nei ruoli dirigenziali in base all’anzianità di servizio dei vecchi direttori (no corso-
concorso)

RIFORMA DELLA DIRIGENZA (d.lgs 29/1993):

❖ netta distinzione tra politica e amministrazione, autonomia decisionale e


responsabilizzazione dei dirigenti sulla gestione e sugli obiettivi (rapporto contrattuale);
no assoggettamento gerarchico

❖ nuclei di valutazione per controllo risultati

❖ tripartizione delle voci di stipendio: salario di base, retribuzione di posizione (incarico) e


di risultato

❖ riduzione delle qualifiche → da 3 a 2: I fascia (dirigente generale) e II fascia (dirigente


di base); accesso per concorso o per corso-concorso

❖ distinzione fra QUALIFICA e INCARICO DIRIGENZIALE

Cosa fanno oggi i dirigenti?

❖ Conseguono gli obiettivi definiti dal politico

❖ Formulano proposte e pareri

❖ Gestiscono le risorse umane (NB: rapporti sindacali) e finanziarie (atti di spesa,


budget); hanno la responsabilità degli uffici/settori (dirigono/controllano)

❖ Stipulano contratti; presiedono gare d’appalto e concorsi (rapporti esterni)

❖ Rapporti con le amministrazioni di diverso livello (anche UE) seguendo le direttive del
politico

❖ Atti di certificazione, autorizzazione, concessione, licenze (rapporto con cittadino a


livello locale)

QUALIFICA DIRIGENZIALE ≠ INCARICO DIRIGENZIALE

❖ La qualifica corrisponde al ruolo e viene conferita in modo stabile (a tempo


indeterminato) con un concorso

❖ L’incarico riguarda invece lo specifico compito/ufficio (carico di responsabilità) a cui il


dirigente è preposto; non tutti gli incarichi dirigenziali comportano la direzione di un
ufficio, ci possono essere i dirigenti di staff, che sono preposti a funzioni ispettive, di
coordinamento o studio/ricerca (senza dotazione di risorse umane o finanziarie); a
seconda dell’incarico varia la retribuzione di posizione

❖ NB: Gli incarichi conferiti sempre a tempo DETERMINATO, con provvedimento specifico,
su decisione dell’organo politico →

L’assegnazione e revoca discrezionale degli incarichi da parte della politica introduce elementi
di DIRIGENZA FIDUCIARIA → tema controverso (spoils system?)

La riforma della dirigenza ridimensiona il potere della politica, ma ciò si accompagna a gradi di
discrezionalità nella scelta di coloro che ricoprono gli incarichi, per assicurare controllo/
sintonia:

❖ TEMPORANEITÀ DEGLI INCARICHI (3-5 anni, rinnovabili; NB: decadimento automatico


per dirigenza apicale)
❖ DIRIGENTI ESTERNI per il 5-10% della dotazione organica, a discrezione del politico,
con contratto ad personam, per acquisire nuove competenze; no immissione nel ruolo
dirigenziale, incarico non superiore al mandato politico

SPOILS SYSTEM ALL’ITALIANA: elementi fiduciari (incarichi attribuiti dal politico + dirigenti
esterni) in un regime giuridico di riabilitata separazione (autonomia dei dirigenti)

❖ Le RAGIONI: 1) facilitare la collaborazione, consentendo al politico di scegliere “il


dirigente giusto al posto giusto” 2) acquisire competenze e professionalità non presenti
in organico 3) bilanciare il rapporto di potere fra la politica e una dirigenza rafforzata
dalle riforme

❖ Le CRITICHE: pericolo di vincolare troppo l’autonomia del dirigente, di scivolare nella


nomina politica, di avere dirigenti spesso inamovibili, snaturando la riforma (che invece
cercava equilibrio e la distinzione dei ruoli)

NUOVA RIFORMA DELLA DIRIGENZA (ministro Madia, 2015)

Nel quadro della più generale e variegata riforma della PA varata dall’allora governo Renzi

❖ CONTENUTI: alcune novità ma in linea con le precedenti riforme, ribadita la separazione


dei ruoli, ridimensionato spoils system, contro l’inamovibilità (evitare abusi)

❖ ACCESSO per corso-concorso (con formazione di 4 anni ed esame finale) o solo


concorso (conferma dopo I triennio)

❖ CARRIERA: solo in funzione degli esiti della valutazione (risultati)

❖ LICENZIAMENTO: possibile in assenza di risultati (dopo 4 anni) oppure di attribuzione di


incarico (dopo 2 anni)

❖ RETRIBUZIONI: maggiore incidenza della retribuzione di risultato e definizione di


massimali (tetto agli stipendi)

❖ ELEMENTI FIDUCIARI: ridimensionati, gli incarichi tutti 4+2 (rinnovabili solo per due
anni), più rotazione (anche fra diverse PPAA) e trasparenza; dirigenti esterni max 10%
organico

❖ COMMISSIONE PERMANENTE per la dirigenza pubblica: definizione di criteri generali di


selezione, valutazione e vigilanza sulla corretta attribuzione degli incarichi

❖ NB: NON ATTUATA, SOSPESA! Mobilitazione della dirigenza, contraria + una sentenza
della Corte Costituzionale che ha riconosciuto elementi di illegittimità; la riforma ora è
in via di revisione; pare sarà confermato il rafforzamento della valutazione ma riviste le
possibilità di licenziamento (rapporto fra politica e amministrazione ancora
problematico)

UN BILANCIO DELLE RIFORME DEL PI (1990-2015)

1) Pochi studi empirici sull’impatto reale; verso una maggiore valutazione della
performance e orientamento al risultato ma riforme poco attuate

2) Rilevati effetti positivi per la riforma della dirigenza del 1993: competenze più
gestionali, migliore rapporto con politica, maggiore responsabilizzazione, più risultati;
ma problemi persistenti e scandali → INCHIESTA REPORT

3) Nuova riforma della dirigenza pubblica (2015): in attesa della sua revisione per capire
se porterà novità

Potrebbero piacerti anche