Modulo 2
Modulo 2
28 marzo 2019
È la scienza che studia la politica, ovvero lo studio dei diversi aspetti della “realtà politica” al
fine di giungere a spiegazioni adottando la metodologia propria delle scienze sociali empiriche.
❖ Ciò che fanno i politici → coloro che vengono scelti attraverso un contesto democratico
(sono i cittadini a sceglierli) e che fanno parte di un partito
❖ Ha a che fare con l’esercizio del potere → legittimo, esercitato attraverso l’apparato
amministrativo e volto a prendere decisioni pubbliche
La democrazia è un regime politico in cui esistono reali garanzie di partecipazione politica dei
cittadini, con la possibilità di esprimere dissenso ed opposizione e con condizioni di
competizione politica. I requisiti minimi sono:
FORME DI DEMOCRAZIA:
Una definizione di cosa è la politica ci viene data da Maurizio Cotta (politologo italiano):
❖ ad essa compete la responsabilità primaria del controllo della violenza (rispetto della
legge, ordine, tutela)
1) POLITICS: è quella parte della politica che riguarda la sfera del potere, la
dimensione che attiene ai partiti e ai politici, alla competizione partitica, alle elezioni,
all’assunzione di cariche pubbliche, alla ricerca di consenso, alla partecipazione dei
cittadini
Sono tutte dimensioni collegate tra di loro perché chi vince le elezioni farà politiche pubbliche e
potrà, se ottiene la maggioranza, modificare il funzionamento delle istituzioni pubbliche, ma
vanno tenute distinte a scopo di studio.
Si tratta di uno specifico approccio disciplinare, oramai consolidato e di successo, della scienza
politica per “scoprire cosa fa il governo, perché lo fa e con quali risultati”. L’oggetto di analisi
è innovativo e si tratta delle “politiche pubbliche” (policy ≠ politics) che fino a quel momento
non erano studiate come un oggetto di analisi perché la tradizione si era concentrata sulla
polity o sulla politics:
❖ l’azione di governo (cosa fanno o non fanno i governi) in relazione ai problemi collettivi
❖ le risposte alle domande che provengono dalla società (non basta che ci sia una legge
perché non è detto che venga attuata)
È una visione processuale della politica, ovvero il processo che dà forma e sostanza all’azione
di governo (dal problema fino al risultato) = policy-making → gli attori, le loro interazioni, le
opzioni decisionali, le decisioni prese, l’attuazione di tali decisioni e gli effetti (risultati)
Nella scienza politica si era affermato il modello di Easton degli anni ’50 che vede il sistema
politico come black box che converte gli input in output (feed-back), il quale introduceva già
una visione processuale della politica. Secondo Easton c’è un sistema politico (organi e attori)
che definisce come black box, cioè non si sa bene cosa succede dentro. La politica, quindi, è di
fatto il flusso di input che entra nella black box ed esce come output: se con l’effetto di
feedback gli output soddisfano i problemi c’è un rafforzamento del sistema politico, altrimenti
si avrà un cambiamento nei soggetti che stanno dentro la black box.
L’analisi delle politiche pubbliche va oltre questo modello perché riflette su come entrano gli
input nel sistema decisionale: per esempio non tutti gli input entrano nel sistema politico e non
si limita a vedere gli output solo in termini di una legge, ma va a vederne i risultati concreti.
Infine, cerca di vedere cosa succede nella black box, quindi come avviene questa
trasformazione da input ad output. Questa analisi indentifica la fase in cui è possibile
scomporre il processo di input - output (cioè di policy making), e sofferma l’attenzione sugli
attori del processo (attori che non sono solo quelli istituzionali: esperti, mass media che sono
fuori dalla black box ma che condizionano come vengono prese le decisioni e quindi entrano
nel policy making…).
DEFINIZIONE PIÙ AMPIA: l’insieme delle decisioni e delle azioni poste in essere da un insieme
di soggetti finalizzate, o in qualche modo correlate, alla soluzione di un problema collettivo,
cioè un bisogno o un’opportunità di intervento pubblico → ci sono anche azioni non
direttamente finalizzate a risolvere il problema, ma a sistemare delle procedure per risolverlo
(per questo “correlate”): es. denunciate irregolarità sull’allocazione dei fondi, si blocca il
processo decisionale, i media hanno svolto la loro funzione di denuncia e viene bloccato il
policy-making
1) il problema
2) gli attori
3) la decisione
4) il policy-making (processo)
Il policy-making viene scomposto in fasi funzionalmente distinte che marcano il ciclo di vita
di una politica pubblica e in ogni fase diversi possono essere gli attori protagonisti:
1) Decisori politici eletti (istituzionali): membri del governo e del parlamento (giunte/
consigli) → mandato elettivo, consenso, potere decisionale formale
4) Esperti → conoscenze innovative, idee, ricerca scientifica (la burocrazia non possiede
tali conoscenze e deve rivolgersi a loro)
Il GOVERNO è l’organo decisionale più importante delle politiche pubbliche (funzione del
“governare”) ed ha avuto un protagonismo crescente anche in relazione ai parlamenti
(rafforzamento):
I primi due modelli si ritrovano anche a livello sub-nazionale sebbene in forma meno pura →
es. In Italia troviamo quello parlamentare a livello nazionale e quello neoparlamentare, di
ispirazione presidenziale, a livello regionale e comunale (forma ibrida)
A seconda del modello varia la complessità del processo decisionale → organi che devono
decidere insieme o meno, in sintonia politica o meno
Le BUROCRAZIE sono attori di primaria importanza: possono entrare in ogni fase del policy
making, concorrono a selezionare i problemi, elaborano proposte e supportano la decisione
formale, sono spesso valutatori delle politiche (valutazione amministrativa), ma è nella fase di
implementazione che si concentra il loro agire.
L’IMPLEMENTAZIONE (o attuazione) è una fase a lungo trascurata dagli studi sulle politiche
pubbliche: i processi di adozione (decisione formale) hanno ricevuto maggiore attenzione da
parte degli studiosi → resta una fase ambigua e delicata (la più oscura del policy-making) → le
burocrazie, infatti, hanno spesso difficoltà a perseguire gli obiettivi iniziali a causa di limiti nelle
risorse a disposizione, nelle loro capacità ma anche per la pressione dei gruppi di interesse →
se lo scarto è ampio si ha implementation gap o DEFICIT DI ATTUAZIONE (es. TVA) → gli
attori in gioco nella fase di implementazione non sono solo i burocrati/dirigenti amministrativi,
ma anche i gruppi di interesse e pure gli esperti
Es. Fondi europei: ci sono fondi per sostenere politiche di sviluppo e vengono dati a paesi con
regioni in ritardo. Problema dell’Italia che le amministrazioni non riescono a spenderli per
mancata capacità di programmazione delle amministrazioni. Le politiche si potrebbero fare e
non si fanno anche se ci sono già linee di politiche e fondi (42 miliardi di soldi da spendere nel
Sud). Problema: passare dall’agenzia della coesione e dalle amministrazioni regionali, le
piccole regioni sono più in difficoltà
2 aprile 2019
❖ SETTORIALI (o concentrati) che difendono gli interessi di una specifica categoria (es.
sindacati, lobby economiche)
La classificazione più diffusa è basata sul problema che la policy intende risolvere, ovvero il
settore funzionale di intervento pubblico (es. politica sanitaria, politica ambientale): si tratta di
una classificazione molto semplice, che denomina la policy (oggetto di analisi) ma dice poco
sulla sua natura. La tipologia di LOWI, trasversale ai settori, riflette invece sulla natura delle
politiche (prescrivono comportamenti o erogano risorse? A chi si rivolgono?) e si basa su due
variabili:
Il significato di fondo della tipologia di Lowi è il “policy determines politics” → è la natura delle
politiche (cosa si decide) a determinare il come si decide. Mette in discussione quanto a lungo
sostenuto, ovvero che sia la politics a determinare la policy: il comportamento degli attori
politici non è sempre uguale, ma cambia a seconda del tipo di policy → la tipologia delinea
quattro tipi di arena decisionale (modalità relazionali e decisionali degli attori).
❖ I COSTI pure possono essere diffusi se la politica grava sulla massa indifferenziata di
contribuenti, oppure concentrati se invece gravano su alcune categorie/gruppi
circoscritti
Troviamo una parziale sovrapposizione con quella Lowi, ma verte sul ruolo dei gruppi che si
attivano quando ci sono costi o benefici concentrati (da evitare o per i quali competere)
Lo studio dei processi decisionali è centrale nell’analisi delle politiche pubbliche (policy =
decisione presa sul problema), ma è centrale anche nella Scienza dell’Amministrazione: le
PP.AA. formalmente preposte a dare attuazione alle politiche pubbliche. Come visto, nel
processo di attuazione delle politiche le PP.AA operano spesso come decisori a tutti gli effetti,
un ruolo tutt’altro che esecutivo. Inoltre, partecipano alla fase della formulazione delle
politiche, a stretto contatto con i politici. Lo studio dei modelli decisionali è importante sia per
comprendere meglio i processi di policy-making che per riflettere sul ruolo politico delle
burocrazie.
Il modello razionale sempre invocato poco si presta a cogliere la realtà dei processi decisionali
pubblici (dove risulta impraticabile): “percorsi tortuosi e accidentati” in cui gli obiettivi non
sempre sono chiari e le soluzioni spesso incerte (aspetti “irrazionali”). “La democrazia non
abita a Gordio” (Bobbio): la complessità del processo decisionale non può essere negata
(“recisa” come il leggendario “nodo” gordiano di Alessandro Magno), ma va “sciolta”; i “nodi”
sono passaggi cruciali che rinviano alla presenza di attori decisionali diversi con interessi e
informazioni divergenti (pluralismo democratico).
La decisione non può prescindere dal processo che va studiato per comprenderne l’esito (la
scelta operata):
3 aprile 2019
I MODELLI DECISIONALI
Costituiscono la razionalità del processo decisionale che, sebbene non sempre possibile, resta
un valore da conseguire: “agire nel modo migliore possibile rispetto ad un fine” → la qualità del
rapporto mezzi/fini. Esistono quattro modelli decisionali che colgono gradi decrescenti di
“razionalità”: dalla razionalità assoluta a quella casuale, passando per la razionalità limitata e
quella incrementale (a posteriori). Lo schema classificatorio è costruito sulle due dimensioni
essenziali della razionalità:
1) MEZZI: certi o incerti dove la certezza passa per il possesso di informazioni sulle
alternative e relative conseguenze
2) FINI: certi o incerti dove la certezza deriva dal grado di accordo fra i decisori (decisore
unitario o plurimo)
MODELLO DELLA SCELTA RAZIONALE
1) Fissare gli obiettivi (fini/valori) → il soggetto (decisore unitario) identifica il fine che
vuole realizzare, definisce la propria struttura di preferenze → se l’attore è collettivo si
presuppone che il suo agire sia la sommatoria dell’agire individuale (razionalità
universale, homo oeconomicus)
Viene detta anche razionalità “comprensiva” in quanto presuppone un’indagine completa del
campo decisionale oppure “olimpica” per le capacità attribuite al decisore.
Altri assunti: a) sequenza razionale fini → mezzi; b) struttura delle preferenze stabile
MODELLO COGNITIVO
❖ non conosce l’ambiente e non può prevedere tutte le conseguenze delle alternative
(incertezza ambientale)
La decisione scaturisce da un processo in cui emergono vari limiti e fattori di incertezza che
attengono ai mezzi e alla capacità di valutarli, nonché aggiustamenti sulle preferenze; non è
un calcolo secondo i canoni della razionalità assoluta. Il criterio decisionale è la soddisfazione:
ma di cosa? Soluzione soddisfacente non significa accontentarsi né una qualunque: si sceglie
l’alternativa che soddisfa le “premesse” del decisore: PREMESSE DI FATTO e PREMESSE DI
VALORE → premesse soggettive che però cambiano nel corso del processo
Le PREMESSE alla decisione sono i criteri che consentono di valutare le alternative, guidano la
scelta:
Come si decide? Si sceglie la PRIMA alternativa che soddisfa le premesse, quelle che il decisore
possiede in quel dato momento → il decisore soddisfatto interrompe la ricerca
MODELLI A CONFRONTO:
Sul decisore unitario c’è però differenza: per Simon l’aggregazione delle preferenze
individuali può essere difficile se l’attore è collettivo → no mera “sommatoria” come nel caso
del modello razionale; tuttavia nelle organizzazioni il processo di aggregazione può essere
operato in modo meno problematico intervenendo sulle premesse dell’azione individuale
MODELLO INCREMENTALE
Con questo modello si abbandona non solo la ricerca di decisioni ottimali ma anche quella di
soluzioni definitive ai problemi e le decisioni non sono nemmeno soddisfacenti (rispetto alle
premesse dei diversi attori) → che decisioni sono? Sono decisioni ACCETTABILI sulla base
dell’aggiustamento prodotto: i decisori aspirano a ciò che è possibile e non a quanto
desiderabile → si scelgono soluzioni minime, di possibile accordo fra attori partigiani. Il
processo è razionale? Solo a posteriori in quanto i fini non si definiscono prima della decisione
(non c’è accordo) bensì ex-post: sono le soluzioni possibili che portano al compromesso sul
fine → l’accordo si cerca e si trova sul mezzo che determina a sua volta il fine (mezzo → fine/
valore)
L’incertezza riguarda gli esiti del processo: non si sa a cosa si approderà, quale compromesso
verrà trovato → solo una volta trovato l’accordo il processo potrà risultare razionale
(definizione del fine a partire dal mezzo scelto, coerenza)
❖ non impedisce, nel lungo periodo, cambiamenti più incisivi (somma di più aggiustamenti
incrementali)
March e Olsen definiscono il contesto decisionale come “anarchia organizzata”, tuttavia, ciò che
è caotico può comunque rispondere ad una esigenza funzionale. Elevatissima incertezza: non
solo le limitate capacità degli attori, la mancanza di informazione, l’ambiente o la divergenza
valoriale fra gli attori, ma anche ambiguità dell’intero contesto decisionale in cui il nesso
mezzi-fini scompare → irrazionalità. Logica di fondo: SOPRAVVIVENZA (mantenere in vita il
sistema decisionale) → il sistema riesce a produrre una decisione in risposta ad una situazione
contingente (ma con modalità non razionali).
1) Gli ATTORI (mutevoli): non solo o tanto partigiani con premesse diverse, non hanno
nemmeno le idee chiare sui loro fini (i valori da difendere si definiscono e cambiano nel
processo); inoltre, la loro partecipazione è fluida ed incostante (cambiano nel corso del
processo decisionale che si sviluppa su lunghi tempi) A
Come si decide? In modo casuale e contingente, una combinazione a caso fra le quattro
variabili: nell’immagine del modello le O sono “bidoni della spazzatura” in cui A buttano alla
rinfusa P e S: la decisione dipende dall’incontro casuale di P e S. Va inoltre considerato il
fattore tempo per cui le O impongono la decisione (non si può più aspettare) e la conseguente
coincidenza temporale che determina la combinazione casuale dei quattro elementi.
L’importanza del timing: è l’occasione di scelta che si impone a determinare la decisione che
non è frutto né di valutazione razionale né di compromesso (gli A presenti “pescano” P e S nel
cestino) → debole nesso tra problemi e soluzioni: la loro comparsa simultanea (vicinanza
nel “bidone”) determina la combinazione (no approccio problem-solving) → pur
nell’irrazionalità, il sistema riesce a produrre una decisione assicurandosi la sopravvivenza: se
c’è razionalità questa è casuale. L’applicabilità del modello è limitata, ma vari processi
decisionali assumono talvolta la forma di “anarchie organizzate”.
4 aprile 2019
POLITICA E AMMINISTRAZIONE
Il rapporto fra politica e amministrazione è collegato al tema dei processi decisionali: le due
“anime” che compongono la decisione pubblica (formalmente presa dai politici, elaborata e
attuata attraverso gli apparati). Il loro è un rapporto cruciale che si sviluppa fra due autorità →
il vertice politico e quello amministrativo:
❖ VERTICE POLITICO: autorità (legale) che poggia sul mandato elettorale → organi
elettivi, che operano sulla base di orientamenti politici in rappresentanza dei cittadini
(mediazione partitica)
Un rapporto che si presume e si auspica sia basato sulla distinzione dei ruoli:
!!! In realtà il rapporto è problematico, tutt’altro che risolto → questo risulta un tema di
cruciale importanza negli studi amministrativi:
❖ connesso al rendimento dei sistemi politici: capacità di operare politiche coerenti alle
domande → apparati qualificati, necessaria buona relazione con politici
Come regolare il rapporto tra politica e amministrazione? Storicamente si sono affermate tre
principali modalità:
I primi passi sono rintracciabili nelle riflessioni di Woodrow Wilson (Usa, 1887) che guarda
all’esperienza europea, teoria poi perfezionata in Weber. Vige una visione dicotomica: da una
parte la politica, che rappresenta ed esprime la volontà popolare (approva le leggi); dall’altra
l’amministrazione, un corpo subordinato alla politica, ma da questa separato, reclutato nel
rispetto delle norme, sulla base della competenza, e chiamato ad attuare le leggi. Si basa su
due principi fondamentali (burocrazia weberiana):
❖ WEBER: coerenza con lo Stato di liberale (che si sta democratizzando); vertice politico
come unico soggetto decisionale (risponde ai cittadini) mentre l’amministrazione
(costituzionalmente subordinata alla sovranità parlamentare) agisce separatamente
secondo i principi di universalità e uniformità stabiliti dalle leggi (a tutela dei cittadini,
per evitare arbitrio o agire partigiano/favoritismi)
SPOILS SYSTEM
WEBER: l’idealtipo di burocrazia assicura separazione, competenza e, non ultimo, coerenza con
la teoria democratica (primato del corpo politico-elettivo) → il controllo politico passa per la
sovra-ordinazione gerarchica ma soprattutto per l’assunta conformità a norme universali
Viene meno l’omogeneità culturale fra vertice politico e vertice amministrativo (comune cultura
nella fase liberale; provenienza da stessa classe sociale) e nascono i partiti di massa (nuovi
gruppi sociali rappresentati, nuovo personale politico) e l’istruzione di massa (personale
amministrativo) → la sintonia e l’affinità culturale non sono più scontate e le nuove funzioni di
intervento (settore sociale ed economico) accrescono la complessità e lo specialismo del
policy-making: sono necessari funzionari esperti, detentori di conoscenze tecnico-specialistiche
e i politici faticano a controllarli, aumentando così il rischio di “dipendenza” → rapporto più
problematico fra politica e amministrazione
I policy studies portano avanti una ricostruzione del ruolo degli attori nel policy-making al di là
delle loro attribuzioni formali producendo due contributi importanti:
❖ Il concetto di POLICY NETWORK: le interazioni fra gli attori che si attivano intorno al
problema di policy ed entrano nelle diverse fasi del policy-making, le loro influenze sulla
decisione. Sono presenti diverse immagini coniate dalla letteratura in cui le burocrazie
risultano essere attori importanti → IRON TRIANGLES (commissioni parlamentari -
dirigenti amministrativi - gruppi di interesse, specie sindacati) e POLICY
COMMUNITIES (ruolo specialisti, esperti, dentro e fuori le burocrazie)
2) RAPPORTI DIRETTI con GRUPPI DI INTERESSE (non sempre mediati dal decisore
politico, ruolo politico-negoziale della burocrazia) e con ESPERTI
I policy studies falsificano la teoria della separazione e i suoi corollari vedendo la burocrazia
come un attore decisionale: un ruolo non solo esecutivo e nemmeno neutrale → il rapporto fra
politica e amministrazione emerge in tutta la sua problematicità e può presentarsi in forme
diverse, da analizzare di volta in volta → vari modelli e prospettive di analisi per interpretarlo e
rilevarlo empiricamente: in letteratura sono presenti due prospettive di analisi.
PROSPETTIVA DUALISTA
In tale prospettiva è possibile separare le due componenti (i loro ruoli sono distinti) ma è da
verificare quale delle due risulta dominante nel caso specifico. La relazione fra politica e
amministrazione viene cioè analizzata come un rapporto di potere fra due attori che
controllano diverse risorse strategiche:
TIPOLOGIA DI PETERS
IL SISTEMA CONTRATTUALE
Si basa su un contratto ideale (talvolta reale) fra il politico quale committente di politiche
pubbliche e il dirigente quale agente/produttore di politiche pubbliche. In particolare, il
contratto disciplina:
Il rapporto contrattuale integra i due ruoli (che sono distinti) e le relative responsabilità
decisionali:
→ come in ogni rapporto contrattuale, ci sono margini di contrattazione (risorse, fattibilità degli
obiettivi)
1) Non più ruolo solo esecutivo: chiaro riconoscimento del RUOLO DECISIONALE,
discrezionale e attivo della burocrazia (i dirigenti sono autonomi, rapporto paritario)
10 aprile 2019
LE RIFORME AMMINISTRATIVE
Politiche di riforma sviluppate in tutte le burocrazie occidentali per rispondere alla crisi della
burocrazia, puntando al miglioramento di questa in risposta alla contemporaneità.
Con l’avvento del welfare state si produce un aumento quantitativo dell’intervento pubblico:
lo stato entra pesantemente nel mercato della produzione dei beni e dei servizi; il big
government si accompagna anche ad un cambiamento qualitativo però, dovuto a cambiamenti
nella struttura sociale e nel mercato del lavoro.
Inoltre, il contatto delle burocrazie con i gruppi di interesse pubblici e privati va gestito poiché
si pone il problema della capacità relazionale della dirigenza amministrativa (potenziamento
della capacità di dialogo con gli interlocutori esterni con i quali si crea una rete).
Le riforme amministrative nascono negli anni ’80 poiché tutti i Paesi occidentali si trovano ad
affrontare un problema di rendimento. Le finalità sono quattro:
Queste finalità ritornano nei due paradigmi di riforma amministrativa: new public management
e teoria della governance.
Filosofia di riforma che ha avuto molto successo e che seguiva una modalità di matrice
anglosassone: avvia delle significative trasformazioni all’interno degli apparati amministrativi.
L’idea di fondo è quella di introdurre nel settore pubblico delle logiche di mercato e degli
strumenti gestionali che vengono dal privato cercando di recuperare efficienza ed efficacia
(business administration) → gestire la PA come un’azienda:
Rappresenta un approccio di rottura, avviando una rivoluzione culturale che viene definita da
conformance (conformità alla norma) a performance.
❖ Non ci sono finalità prescrittive, ma nasce su una serie di studi empirici sul
funzionamento e la difficoltà presenti nella governance delle amministrazioni
❖ Focus con il rapporto con l’ambiente esterno (rete di soggetti con cui le
organizzazioni interagiscono) mentre NPM si concentra unicamente sul cittadino: le
PPAA operano in reti complesse; interscambio con interlocutori esterni, pubblici e privati
→ molteplici attori che contribuiscono all’elaborazione e attuazione delle politiche
❖ Il governare si sviluppa attraverso una rete di azioni (governo a rete) → analisi delle
reti attraverso cui prende forma l’azione di governo
Il rapporto con l’ambiente esterno come rapporto strategico con gli stakeholder (=detentori
di una posta in gioco), ovvero coloro che hanno un interesse nel processo decisionale; non ci si
riferisce unicamente ai gruppi di interesse, ma anche alle altre PPAA ed ai cittadini non
organizzati. Sono tutti coloro che hanno un interesse nell’azione di governo e che detengono
delle risorse utili per il policy making, sono i destinatari ma anche i soggetti attivi o attivabili
quando gli interessi sono utili. I cittadini sono gli stakeholder principali in quanto portatori di
orientamenti valoriali e diritti, hanno inoltre delle informazioni sulla collettività: sono capaci di
orientare l’azione di governo. Sono stakeholder anche i gruppi di interesse classici (sindacati,
associazioni economiche, terzo settore…).
Bisogna dialogare con questi attori e coinvolgerli poiché possono portare legittimazione,
consenso, informazioni, soluzioni ai problemi… Vanno visti attraverso una logica strategica
poiché sono delle risorse.
❖ dialogo con gli stakeholder, come attivarli e coinvolgerli nelle decisioni, al fine di
reperire più risorse
DEMOCRAZIA DELIBERATIVA/PARTECIPATIVA
❖ ≠ democrazia dei cittadini (cittadini al posto dei politici): rischio utopia e populismo;
visione dualistica dello spazio politico, ampio ricorso a sondaggi/votazioni, mera
aggregazione di opinioni, processi decisionali poco strutturati (web), no confronto,
elevato conflitto
La democrazia deliberativa, più che contare le opinioni, fa in modo che queste si formino
attraverso il confronto, senza togliere valore al pluralismo che arricchisce la democrazia anche
quando gli interessi sono divergenti (dialogo e mediazione):
❖ Per riuscire ad avere politiche incisive e consensuali, apre il confronto con tutti coloro su
cui ricadono le conseguenze di una decisione, nel convincimento che il dibattito aperto
possa formare le opinioni e far scaturire migliori contenuti
❖ Si basa su processi strutturati (non solo votazioni on line) per dare ai cittadini
informazioni equilibrate e la possibilità di ascoltare diversi pareri per una deliberazione
attraverso il confronto ed il dialogo (visione dialogica), per un consenso informato
CONCLUSIONI
11 aprile
4) PROCESSI: il ruolo delle PPAA nei processi decisionali (studi di caso, rinvio)
PERIODIZZAZIONE STORICA
La PA italiana nasce con lo Stato italiano, in questi 150’anni è possibile identificare cinque fasi
marcate da momenti di discontinuità legati ai cambiamenti delle funzioni nella PA che non
sempre rispondono ad i mutamenti politici esterni: dal 1930 al 1970 c’è un’unica grande fase
con una sua continuità (fase dell’espansione) nonostante il periodo storico.
1) 1853 – 1900: fase fondante del modello originario che fa riferimento al nucleo
ministeriale; è il sistema politico amministrativo del Regno di Savoia che
successivamente viene esteso in tutto il regno a partire dal 1861
4) 1970 – 1990: fase della mancata riorganizzazione con la nascita delle regioni ordinarie
che replicano il modello ministeriale (opportunità sprecata)
IL MODELLO ORIGINARIO
Con la Riforma Cavour dello Stato Sabaudo del 1853 nascono i ministeri e si forma l’assetto
amministrativo originario successivamente esteso in tutto il Regno unitario: tale riforma è
collegata ad uno dei principi dello Statuto Albertino, il quale prevede la responsabilità da parte
dell’esecutivo davanti al Parlamento. Il ministro diventa infatti un vertice bifronte, poiché deve
guidare l’apparato amministrativo nel settore di cui è competente (ministero) ed è membro del
corpo politico, quindi legato al Parlamento dal rapporto di fiducia.
Elementi caratterizzanti:
Nascono quindi i ministeri e la classica burocrazia weberiana: sono tutti organizzati nello
stesso modo e rispondono tutti al ministro, al vertice. Originariamente esisteva anche un
segretario generale vista l’esigenza di avere un coordinamento di vertice: tale figura viene poi
sostituita dai sottosegretari di stato con la riforma Crispi del 1888 (personale politico
parlamentare) rafforzando la funzione del potere politico interna al ministero, sempre in una
logica di controllo politico; questo porta ad una frammentazione del ministero ed alla
mancanza di un coordinamento di vertice.
Erano presenti 7 (+2) ministeri con funzioni minime, prevalentemente di ordine, difesa, fisco
(Esteri, Interno, Finanze, Giustizia, Lavori pubblici, Guerra, Marina Militare) ai quali, con
l’unificazione si aggiunsero le attività produttive (Agricoltura-Industria-Commercio) e la
pubblica istruzione.
Fino alla riforma del 1999 il modello organizzativo rimane inalterato, tuttavia c’è un’espansione
degli apparati in seguito all’ampliamento delle funzioni di intervento statale:
!!! Tale modello organizzativo lo ritroviamo anche in quelle che sono le amministrazioni locali.
FASE LIBERALE: LE AMMINISTRAZIONI PARALLELE
Con la fase liberale comincia una prima espansione delle funzioni amministrative, le quali
richiedono delle competenze tecniche che non si trovano nell’apparato ministeriale tradizionale
(avvio dell’intervento pubblico in economia e nel sociale): viene sollevata la necessità di
allontanarsi dalla burocrazia tradizionale, in quanto troppo rigida, gerarchica, con troppi
controlli. Si cominciano quindi a creare delle strutture parallele rispetto ai ministeri
(pluralismo amministrativo) sia a livello centrale che locale:
❖ AZIENDA AUTONOMA: (nascono nel 1904) farmacie, prime aziende a livello locale, le
ferrovie, le poste, i tabacchi… Sono entità chiamate a vendere dei beni e dei servizi con
una tariffa da parte del cittadino nelle quali occorrono competenze tecniche e maggiore
autonomia organizzativa e di spesa, sebbene il suo vertice sia sempre quello politico e
ciò evidenzia il fatto che non ci sia una netta separatezza (utili per le attività di natura
economica). Sono rimaste a livello locale ma sono state superate a livello nazionale.
Gli enti pubblici conoscono una grande espansione nella fase fascista (anni ’30) poiché
venivano sostenuti un grande dirigismo ed interventismo del pubblico volto allo sviluppo: in
questa fase ci sono anche gli effetti della crisi del ’29 a causa della quale è necessario
sostenere il settore industriale. In questa fase nascono l’IMI (Istituto Immobiliare Italiano) e
l’IRI (Istituto per la riconversione industriale) con lo scopo di sostenere le iniziative aziendali e
di soccorrere le industrie in crisi (motore dello sviluppo economico italiano): i salvataggi danno
vita al sistema delle partecipazioni statali, con la penetrazione sempre più invadente dello
Stato nel sistema economico. Attraverso questa dinamica si va a sostenere lo sviluppo
economico e ad ampliare enormemente il settore pubblico.
Viene costruito il sistema previdenziale e quello assistenziale con l’INPS e l’INAIL (pilastri del
welfare italiano).
VERSO LE RIFORME
C’è una crescita e ed un proliferare di strutture ed enti anche a scopo di consenso politico:
dagli anni ’80 si avvia il dibattito sulle riforme che porteranno a riorganizzazioni ma anche alla
comparsa di nuove forme organizzative (più flessibili) per rispondere a nuovi problemi.
A partire dagli anni ’90 le riforme sviluppano nuove forme:
❖ SOCIETÀ PER AZIONI (di capitale pubblico), disciplinata dal diritto privato, molto
flessibile e autonoma, orientata al mercato; vertice (AD o CDA) scelto da azionisti (se è
il governo, nomina); decollerà con le PRIVATIZZAZIONI degli anni Novanta (tutti gli enti
pubblici economici nazionali diventano S.p.A; diffusione anche a livello locale,
trasformazione delle aziende municipalizzate)
PRIVATIZZAZIONE
❖ make → produzione attraverso l’apparato pubblico (magari con forme nuove, non
tradizionali, es. agenzie)
Nell’insieme con le esternalizzazioni cambiano gli operatori da pubblici a privati: lo Stato lascia
spazio e/o cede funzioni a soggetti privati, per recuperare efficienza/efficacia (migliorare le
prestazioni, snellire gli apparati, contenere i costi, ridurre le tariffe), ridefinendo il proprio ruolo
→ PARTNERSHIP PUBBLICO-PRIVATO
La privatizzazione spinge inoltre alla modifica della forma giuridica di alcuni soggetti
pubblici quali aziende autonome o enti economici per recuperare flessibilità e capitale →
trasformazione in società per azioni (dal 1992 ENI, Poste, FF.SS, ENEL, ANAS, ecc., moltissime
public utilities a livello locale):
Infine, i suoi ultimi due obiettivi sono l’NPM, ovvero mutuare i modelli organizzativi e gli
strumenti gestionali del settore privato, applicandoli alle pubbliche amministrazioni (che
restano soggetti pubblici) + le tante riforme all’insegna del NPM (es. dirigenza). Per concludere
abbiamo le questioni legate al pubblico impiego: la privatizzazione si estende anche alla
gestione del personale e soprattutto alla regolazione del rapporto di lavoro → dalla
legificazione del passato (regolazione attraverso legge) alla contrattualizzazione (regolazione
attraverso contratto) con crescente equiparazione pubblico-privato.
APPARATI CENTRALI
❖ Riforma dei Ministeri e della Presidenza del Consiglio (d.lgs 300 e 303 del 1999) →
verso modello dipartimentale
DECENTRAMENTO TERRITORIALE
Il decentramento è un fenomeno proprio dello Stato Unitario, che ebbe una forte espansione
nel XX secolo → Stati decentrati e Stati regionali. Si tratta del trasferimento di poteri e
competenze dal centro alla periferia → distribuzione di risorse di governo sul territorio
(autoritative, amministrative e fiscali). È un processo top-down (deliberato dal centro e
trasmesso alla periferia) e reversibile. Ne esistono tre tipologie:
1) DECONCENTRAZIONE
2) DECENTRAMENTO POLITICO-AMMINISTRATIVO
3) DEVOLUZIONE
16 aprile
DECONCENTRAZIONE
Dislocazione di compiti e responsabilità dai ministeri ai loro uffici periferici per sgravare
l’apparato centrale e avvicinare le funzioni ai cittadini: le amministrazioni periferiche diventano
diramazioni operative dell’amministrazione centrale ed esercitano competenze che restano di
titolarità statale, tendenzialmente mono-settoriali → LOGICA ESECUTIVA (braccia operative
del centro). Il rapporto (centro-periferia) è di tipo gerarchico e la burocrazia centrale è
l’interlocutore prevalente (dipendenza, scambi limitati con il territorio, no rappresentanza):
tendono a replicare il modello ministeriale (ne sono un’estensione) → uniformità su territorio
nazionale
❖ MINISTERO DELLA GIUSTIZIA: tribunali, uffici giudiziari vari, giudici di pace, archivi,
istituzioni carcerarie (diverse forme)
❖ MINISTERO DELLE FINANZE: Agenzie fiscali (delle entrate, delle dogane, del demanio);
GdF
Attribuzione di competenze a governi periferici (in primis Comuni), con apparati propri (no
dipendenza gerarchica da burocrazia centrale), guidati da organi elettivi, dotati di autonomia
politico-amministrativa: potere di indirizzo politico, ovvero esercizio di funzioni nel rispetto
delle preferenze espresse dai cittadini, con competenze proprie a detrimento di quelle statali e
diversi gradi di autonomia finanziaria
REGIONI (devoluzione):
DEVOLUZIONE
❖ poteri meno garantiti: manca la rappresentanza dei territori nel parlamento nazionale
(Senato), dunque resta la reversibilità (le Regioni non partecipano al processo
decisionale centrale e nemmeno alle riforme costituzionali)
❖ minore potere fiscale (debole federalismo fiscale) e scarso potere di ordinamento locale
(governi locali)
❖ apparati centrali più ampi e ramificati per le più numerose competenze statali
IL CASO ITALIANO
In Italia sono presenti tutti e tre i tipi di decentramento, con un’articolazione verticale (oltre
che orizzontale) del sistema amministrativo. Le riforme (dagli anni ’90) hanno potenziato il
decentramento politico-amministrativo con numerosi cambiamenti a livello locale: maggiore
autonomia ai governi locali, ma anche riordino territoriale (unioni di comuni, riforma delle
province, città metropolitane). Hanno poi rafforzato il regionalismo italiano in una prospettiva
federale: riforme importanti (Titolo V della Cost., federalismo amministrativo e fiscale). C’è
stato inoltre un recente abbandono della visione federalista (perdita di consenso) ma con la
ripresa dell’autonomismo (differenziato).
Il rafforzamento dei governi locali unito a quello delle Regioni ha reso più diffuso l’ASSETTO
MULTILIVELLO delle politiche pubbliche → quasi sempre coinvolgono governi e
amministrazioni di diverso livello (normativa nazionale + competenze regionali e locali). Tale
assetto multilivello diviene più articolato con il consolidamento del livello europeo: molte
politiche pubbliche seguono oggi direttive e normative dell’UE (e beneficiano di fondi europei)
→ es. politiche di sviluppo locale (fondi strutturali europei); programma Garanzia Giovani
Le FUNZIONI AMMINISTRATIVE sono l’insieme delle attività svolte dalle PPAA: difficile
classificarle poiché si tratta di un universo ampio ed eterogeneo, enormemente dilatato nel
tempo in risposta all’aumento delle istanze sociali. Si possono identificare in due gruppi:
Le attività di supporto sono state potenziate nel tempo per sostenere l’espansione di quelle
di output (rendimento amministrativo) attraverso le riforme (NPM e teoria della governance):
❖ rapporto con ambiente (teoria della governance): mediazione con i gruppi di interesse,
rapporto con stakeholder + rapporto con esperti (policy communities); gestione dei
reticoli (operare in rete con altre PPAA)
IL PUBBLICO IMPIEGO
So parla di “elefantiasi burocratica” sin dai primi del 1900 → aumento a tratti imponente, ma
critica non del tutto fondata. Per quanto riguarda i dipendenti statali in senso stretto (incluso
scuola, corpi militari e aziende autonome):
!!! Si tratta di dati parziali, se si aggiungono gli altri comparti del pubblico impiego (es. sanità,
enti locali) il dato attuale quasi raddoppia arrivando a 3.311.582
Nel corso del ventennio 1990-2010 l’aumento dei dipendenti pubblici è stato modesto (circa il
3,6%; NB: escluso il settore pubblico allargato - SpA): 1/3 dei dipendenti pubblici appartiene
al settore scolastico (in crescita, anche Università cresce) e quasi la metà NON appartiene
all’amministrazione statale (gli altri comparti, ovvero amministrazioni variamente autonome).
Il personale dei ministeri rappresenta una parte esigua dei dipendenti pubblici (circa 8%), però
con magistrati, prefetti, diplomatici, forze armate e corpi polizia arriva al 22%. L’Italia risulta
essere in linea con altri paesi (dati OCSE): i pubblici dipendenti sono il 14,8% del totale
occupati (Francia 20%; GB 19%; USA e Spagna 15%; Germania 12%).
Le prime riforme vennero fatte dopo l’unificazione (ampia crescita del PI): reclutamento per
concorso pubblico; definizione della struttura delle carriere (tre carriere → direttiva, di
concetto, esecutiva); laurea per livelli apicali (direttiva). Con la legge 372/1904 viene
attribuita al Parlamento la competenza di disciplinare ogni aspetto del PI, perfino le piante
organiche al posto del governo (crescente legificazione).
17 aprile
In Italia, come in altri paesi (tradizione civil law), il pubblico impiego ha a lungo goduto di un
ordinamento speciale (funzione pubblica): molte tutele (stabilità impiego, carriera e
retribuzione certe), ma condizioni di lavoro definite in modo unilaterale dallo Stato attraverso
la legge (legificazione) → problema dello sciopero
L a p r i va t i z z a z i o n e d e l ra p p o r t o d i i m p i e g o i m p l i c a l a d e l e g i f i c a z i o n e e l a
contrattualizzazione → l’uso del contratto (diritto privato) quale fonte di regolazione (al
posto della legge): una contrattazione collettiva che chiama in causa il sindacato
(equiparazione con settore privato, NB: Statuto dei lavoratori 1970)
RAPPORTO GIANNINI sui problemi della PA (1979): volto a delegificare il PI per evitare
ingerenze partitiche (leggi per consenso elettorale), consegnando la disciplina del rapporto alle
“parti” (governo e sindacati) per una gestione più efficiente e flessibile del PI attraverso il
contratto
L. 93/1983: legge quadro sul PI che regolamenta la contrattazione collettiva come modalità
prevalente (ma non esclusiva) di disciplina del PI in alcuni comparti statali della PA (avvio
parziale); status misto → distinzione tra materie soggette alla contrattazione (es. org. lavoro,
trattamento economico) e materie ancora soggette alla legge (es. assunzione, carriera)
❖ Istituzione dell’ARAN: Agenzia per la rappresentanza negoziale delle PPAA per gestire il
processo di contrattazione collettiva (trattative sindacali)
❖ Contrattazione su due livelli: nazionale (per aspetti fondamentali del rapporto di lavoro,
comparti) e decentrato (singola PA, per aspetti integrativi, es. salario accessorio)
Attraverso la contrattualizzazione si sono create forme nuove di gestione delle risorse umane
come ad esempio:
❖ Dalle qualifiche alle categorie/aree professionali per una gestione più flessibile e meno
gerarchica, volta a valorizzare maggiormente le risorse umane (RU) → individuazione di
diversi profili professionali all’interno della stessa area, possibile progressione
economica orizzontale senza progressione verticale (per quest’ultima necessari concorsi
interni)
❖ Collegamento di parte del salario (quello accessorio) alla valutazione della prestazione
lavorativa come incentivo al risultato (NB: scarsa attuazione → Riforma 2009, rivista
dalla riforma del 2017)
È stata rivista in parte dalla RIFORMA MADIA (d.lgs 74/2017– non ancora attuata):
❖ valutazione annuale dei dipendenti, operata dai dirigenti, con i criteri definiti dal OIV;
quota del salario variabile definita dal contratto collettivo
❖ istituzione della dirigenza (prima solo carriera direttiva) → tentativo di creare una élite
autonoma e responsabile
→ fallimento e debole applicazione della legge: resta assoggettamento gerarchico alla politica,
scarso decentramento decisionale, difficoltà a distinguere le responsabilità dei dirigenti da
quelle dei politici (separazione fra politica e amministrazione problematica); pressioni per
entrare nei ruoli dirigenziali in base all’anzianità di servizio dei vecchi direttori (no corso-
concorso)
❖ Rapporti con le amministrazioni di diverso livello (anche UE) seguendo le direttive del
politico
❖ NB: Gli incarichi conferiti sempre a tempo DETERMINATO, con provvedimento specifico,
su decisione dell’organo politico →
L’assegnazione e revoca discrezionale degli incarichi da parte della politica introduce elementi
di DIRIGENZA FIDUCIARIA → tema controverso (spoils system?)
La riforma della dirigenza ridimensiona il potere della politica, ma ciò si accompagna a gradi di
discrezionalità nella scelta di coloro che ricoprono gli incarichi, per assicurare controllo/
sintonia:
SPOILS SYSTEM ALL’ITALIANA: elementi fiduciari (incarichi attribuiti dal politico + dirigenti
esterni) in un regime giuridico di riabilitata separazione (autonomia dei dirigenti)
Nel quadro della più generale e variegata riforma della PA varata dall’allora governo Renzi
❖ ELEMENTI FIDUCIARI: ridimensionati, gli incarichi tutti 4+2 (rinnovabili solo per due
anni), più rotazione (anche fra diverse PPAA) e trasparenza; dirigenti esterni max 10%
organico
❖ NB: NON ATTUATA, SOSPESA! Mobilitazione della dirigenza, contraria + una sentenza
della Corte Costituzionale che ha riconosciuto elementi di illegittimità; la riforma ora è
in via di revisione; pare sarà confermato il rafforzamento della valutazione ma riviste le
possibilità di licenziamento (rapporto fra politica e amministrazione ancora
problematico)
1) Pochi studi empirici sull’impatto reale; verso una maggiore valutazione della
performance e orientamento al risultato ma riforme poco attuate
2) Rilevati effetti positivi per la riforma della dirigenza del 1993: competenze più
gestionali, migliore rapporto con politica, maggiore responsabilizzazione, più risultati;
ma problemi persistenti e scandali → INCHIESTA REPORT
3) Nuova riforma della dirigenza pubblica (2015): in attesa della sua revisione per capire
se porterà novità