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Rossetti

Il documento analizza le esperienze delle donne migranti originarie del Subcontinente indiano in Italia attraverso le lenti dell'intersezionalità e della decolonialità. L'autrice, Sara Rossetti, sottolinea l'importanza di considerare le molteplici identità e oppressioni che influenzano le vite di queste donne, proponendo un'analisi qualitativa che evidenzi le loro strategie di resistenza e valorizzazione dei capitali sociali. Il lavoro mira a contribuire a nuove narrazioni decoloniali e a fornire strumenti utili per operatori sociali ed educatori.
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Il documento analizza le esperienze delle donne migranti originarie del Subcontinente indiano in Italia attraverso le lenti dell'intersezionalità e della decolonialità. L'autrice, Sara Rossetti, sottolinea l'importanza di considerare le molteplici identità e oppressioni che influenzano le vite di queste donne, proponendo un'analisi qualitativa che evidenzi le loro strategie di resistenza e valorizzazione dei capitali sociali. Il lavoro mira a contribuire a nuove narrazioni decoloniali e a fornire strumenti utili per operatori sociali ed educatori.
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Intersezionalità e decolonialità: nuove lenti sugli studi delle migrazioni

femminili attraverso il caso studio delle donne originarie


del Subcontinente indiano in Italia

SARA ROSSETTI

Come citare / How to cite


ROSSETTI, S. (2022). Intersezionalità e decolonialità: nuove lenti sugli studi delle migrazioni fem-
minili attraverso il caso studio delle donne originarie del Subcontinente indiano in Italia. Culture
e Studi del Sociale, vol. 7(2), 152-164.

Disponibile / Retrieved http://www.cussoc.it/index.php/journal/issue/archive

1. Affiliazione Autore / Authors’ information

Ricercatrice indipendente, Viale del lavoro 32/b, Ciampino (Roma)

2. Contatti / Authors’ contact

Sara Rossetti: [email protected]

Articolo pubblicato online / Article first published online: December 2022

- Peer Reviewed Journal

Informazioni aggiuntive / Additional information

Culture e Studi del Sociale


Intersezionalità e decolonialità: nuove lenti sugli studi delle migrazioni femminili attraverso il caso
studio delle donne originarie del Subcontinente indiano in Italia.

Intersezionalità e decolonialità: nuove lenti sugli studi


delle migrazioni femminili attraverso il caso studio delle
donne originarie del Subcontinente indiano in Italia.

Sara Rossetti*

*Ricercatrice indipendente
E-mail: [email protected]

Abstract

Based on years of field research on Indian Subcontinent migrant communities in Rome.


The intervention intends to interpret women's experiences with the paradigms of
intersectionality and decoloniality. Migrant women are usually described as victims or
using unique categories. On the other hand, there are many factors that intersect and
characterize complex existences: age, class, race, religion, social status, language skills and,
last but not least, historical-political pressures. This work is an attempt to put them together
to restore a picture that brings out oppressions, roles of power, resistance.

Keywords
Migration, women, Indian Subcontinent

Introduzione

Il presente contributo intende accogliere la sfida, particolarmente stimolante per


le scienze sociali, di fare propri gli strumenti dell'intersezionalità e della
decolonialità per meglio analizzare i fenomeni migratori. Nello specifico l'autrice
cerca di porre l'attenzione sul caso delle donne originarie del Subcontinente indiano
e delle loro figlie, nate e/o cresciute in Italia. Intersezionalità e decolonialità
sembrano chiavi che al meglio possono narrare i vissuti e le identità, complesse ed
eterogenee, delle donne con background migratorio. L'obiettivo è quello di mettere
in risalto, attraverso un'analisi qualitativa, i vari aspetti e le strategie che le donne
attuano al fine di valorizzare i propri capitali sociali, individuali e collettivi; come
esse rispondono a esigenze/richieste/consuetudini di tipo familiare, come si
posizionano all'interno della comunità etnica in diaspora e come nei confronti della
società d'accoglienza e residenza. Ad accompagnare la riflessione e a porne le basi
sono la letteratura nazionale e internazionale sul tema, la quale tuttavia muove i
primi passi di applicazione pratica in Italia. L'osservazione viene attuata attraverso
l'intersezione dei vari aspetti delle loro esistenze (età, background socio-culturale,
genere, anzianità migratoria, tratti somatici e colore della pelle, lingue parlate)
contribuendo a comprendere quali spinte ne limitano la libera espressione e quali
sono invece i canali attraverso i quali i desideri, le possibilità, le permanenze, le
rinegoziazioni si fanno strada. Lettura che ha innanzitutto lo scopo di facilitare la
presa di parola di tutte – ponendo come tema anche quello del ruolo del ricercatore-
ricercatrice - per contribuire a nuove narrazioni decoloniali e allo stesso tempo
fornire un quadro più vicino alla complessità del reale, per trasformare i risultati in
strumenti per chi lavora nel sociale e all'interno del sistema educativo.

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L'intersezionalità come metodo, infatti, può svilupparsi sull'analisi di marginalità


complesse e sistemi di potere e/o come strategie dei movimenti, partendo dai
margini e dalle diseguaglianze, per creare alleanze (Marchetti et al., 2021, p. 8).
Una lettura delle marginalità legate a razzismo e discriminazioni come semplice
non conoscenza tra culture risulta debole, finendo per ignorare il ruolo “delle
dissimmetrie di potere economico/politico e delle eredità del passato” (Bonfiglioli,
et al., 2009, p.145); una lettura intersezionale che tenga conto di tutti gli aspetti,
invece, risulta più efficace e capace di mettere in luce i vari aspetti dei vissuti.

Intersezionalità e decolonialità: uno sguardo teorico

La lente intersezionale, nata all'interno degli studi e delle pratiche femministe


afroamericane (Crenshaw, 1989), si pone l'obiettivo di comprendere come diversi
tipi di oppressioni e diseguaglianze operino e si sovrappongano ai vissuti dei
soggetti diventando manifestazioni sistemiche. Razza, classe, genere - ma anche
età, background socio-culturale, religione ecc. - contribuiscono a delineare un
quadro complesso di posizionamento, vulnerabilità e resistenze operate dai singoli.
Pensare in maniera intersezionale permette di parlare di diversità, di processi di
formazione delle identità, dei rapporti tra individui e collettività e di diseguaglianze
(Marchetti, 2013). Inoltre, ragionare in maniera intersezionale permette di rifiutare
e criticizzare l'idea che le donne siano tutte vittime di identiche forme di sessismo e
oppressione di genere, senza tener conto che questi fenomeni agiscono
simultaneamente “in base alla collocazione razziale, di genere e di classe”
(Bonfiglioli, et al., 2009 57). Viene così meno l'idea di una acritica sorellanza che
mette tutte le donne sullo stesso piano solo per il fatto di appartenere, appunto, al
medesimo genere. La condizione femminile deve dunque fare i conti con gli
universi delle diverse esistenze e non relegare i propri ragionamenti
all'abbattimento di un unico soffitto di cristallo: semmai si tratta di un prisma
multisfaccettato. La condizione femminile deve dunque fare i conti con gli
universi delle diverse esistenze e non relegare i propri ragionamenti
all'abbattimento di un unico soffitto di cristallo: semmai si tratta di un prisma
multisfaccettato, come ampiamente mostrato dalla letteratura femminista
postcoloniale che critica e problematizza il concetto di sorellanza globale
(Mohanty, 1984; Carby, 1997; Spivak, 2004; hooks. 2021).
D'altronde, già molto prima della definizione data all'approccio da Crenshaw,
nel mondo afroamericano le differenze tra donne nere e donne bianche dettate
dall'appartenenza razziale e dalla classe, erano state evidenziate in altri lavori. Su
tutti Donna, Razza e Classe di Angela Davis (1981), la quale passa al vaglio in
ottica diacronica gli aspetti più rilevanti dei vissuti delle donne afroamericane a
partire dallo schiavismo, soprattutto in relazione a quelli delle bianche e dei diversi
femminismi. Sempre nella stessa area vale la pena ricordare le riflessioni di Audre
Lorde, bell hooks, Gloria Anzaldua (Bonfiglioli, et al., 2009, p. 63). In Italia
“pensare intersezionale” risulta ancora arduo, e lo è stato a partire dalle prime
recezioni e elaborazioni dell'approccio, in particolar modo a causa di una diffusa
difficoltà nel fare i conti con alcuni eventi del passato: le leggi razziali, il
colonialismo, l'antigiudaismo cattolico, l'antimeridionalismo ecc. (Bonfiglioli, et
al., 2009, p. 70). Il topos letterario e storiografico degli “italiani brava gente” viene
scalfito solo in parte e con lentezza dai pure ormai numerosissimi studi critici su
questi temi, a partire da quelli pionieristici di Angelo Del Boca (2005).
Insieme all'intersezionalità, vengono spesso citate e agite teorie di
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decolonializzazione, che pongono al centro un modo di leggere la realtà che


intende allontanarsi da un'impostazione che ha sempre visto l'occidente come
detentore del pensiero, del potere, del sapere considerato scientifico, “normale”
(Borghi, 2020).
La sfida, per le scienze sociali, è fare propri questi strumenti per meglio
analizzare contesti e vissuti. In maniera particolare, in questo intervento, l'autrice
cerca di porre l'attenzione sul caso delle donne originarie del Subcontinente indiano
e delle loro figlie, nate e/o cresciute in Italia. Intersezionalità e decolonialità
sembrano chiavi che al meglio possono narrare i vissuti e le identità, complesse ed
eterogenee, delle donne con background migratorio. L'obiettivo è quello di mettere
in risalto, attraverso un'analisi qualitativa, i vari aspetti e le strategie che le donne
attuano al fine di valorizzare i propri capitali sociali, individuali e collettivi; come
esse rispondono a esigenze/richieste/consuetudini di tipo familiare, come si
posizionano all'interno della comunità etnica in diaspora e come nei confronti della
società d'accoglienza e residenza. L'osservazione viene attuata attraverso
l'intersezione dei vari aspetti delle loro esistenze (età, background socio-culturale,
genere, anzianità migratoria, tratti somatici e colore della pelle, lingue parlate)
contribuendo a comprendere quali spinte ne limitano la libera espressione e quali
sono invece i canali attraverso i quali i desideri, le possibilità, le permanenze, le
rinegoziazioni si fanno strada. Lettura che ha innanzitutto lo scopo di facilitare la
presa di parola di tutte – ponendo come tema anche quello del ruolo del ricercatore-
ricercatrice - per contribuire a nuove narrazioni decoloniali e allo stesso tempo
fornire un quadro più vicino alla complessità del reale, per trasformare i risultati in
strumenti per chi lavora nel sociale e all'interno del sistema educativo.

Il ruolo della ricercatrice e il posizionamento

In una ricerca simile è innanzitutto opportuno evidenziare il significato e il


significante della soggettività della ricercatrice. Il posizionamento di chi effettua
l'indagine si lega in maniera imprescindibile a ciò che viene osservato; va da sé,
dunque, che il ricercatore o la ricercatrice non possono avere un atteggiamento
neutro ed è opportuno che siano consapevoli dei condizionamenti che avranno
luogo durante la ricerca. Ciò avviene perché la soggettività, i valori, il vissuto, i
saperi, il background di chi conduce ricerca sociale non possono essere
invisibilizzati. Inoltre, esplicitare il proprio posizionamento diventa un atto
fortemente politico, in senso lato, laddove il ricercatore agisce anche in un'ottica di
cambiamento sociale.
Nello studiare i vissuti di donne con background migratorio le azioni di
decostruzione e di decolonialità non riguardano soltanto i saperi e i contenuti della
ricerca ma anche il ruolo stesso della ricercatrice. Siamo infatti tutti cresciuti in un
ambiente dai forti contenuti coloniali, abituati a pensare in questo modo:
centro/periferia-margine; noi/loro; dominatori/dominati; colonizzatori/colonizzati;
saperi occidentali/saperi altri. Rachele Borghi (2020) afferma:

“Pensare decolonialmente un mondo pluriversale significa immaginarlo come


un arcipelago di punti di enunciazione, una costellazione di micropolitiche di
decolonialità, di laboratori di sperimentazione, a partire dal proprio posizionamento
e dai propri privilegi. (…) Non è solo una questione di punti di vista, è piuttosto
una questione di punti d'azione. È uno strumento che restituisce immagini plurime,

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senza centri e periferie.”

In questa ottica la ricercatrice ha intenzione di osservare le donne riflettendo, al


contempo, sul suo ruolo e sui suoi privilegi e metterli in relazione con quelli delle
migranti provenienti dal Subcontinente. L'intersezionalità ci aiuta anche in questo:
come una ricercatrice bianca, autoctona, istruita, precaria, molto vicina al
Subcontinente indiano per motivi di tipo personale, si pone nei confronti della
ricerca? Come la influenza? Come può veramente essere “un'alleata” e una pedina
del cambiamento sociale? D'altronde, l'importanza di partire da un punto di vista
che tenga conto della soggettività dei-delle ricercatori-trici (Harding, 1993), come
pure la necessità di pensare a una conoscenza situata (Haraway, 1988) in
contrapposizione all'idea del ricercatore-trice neutrale, sono già state fatte
ampiamente notare dal pensiero femminista alla fine del novecento.

I vissuti delle donne: dalle prime generazioni di migranti alle nuove italiane

Nel parlare di donne migranti, e di donne più in generale, si utilizzano spesso i


plurali: i femminismi, le voci, i vissuti. Questo perché non può esistere una
rappresentazione unica e univoca, né tanto meno si può pensare che tutte le donne
abbiano gli stessi bisogni, desideri, obiettivi immaginari o reali da raggiungere. Il
pericolo che corrono e realizzano studiose e studiosi che si occupano di migrazioni
e più in generale di “Terzo mondo” è ben illustrato nell'agile volume di Francoise
Vergès, Un femminismo decoloniale (2020), in un passo significativo nel quale
l'autrice fa ironicamente parlare una femminista bianca:

“Voi siete sottosviluppati ma potete svilupparvi se adottate le nostre tecnologie,


i nostri modi di risolvere i problemi sociali ed economici. Dovete imitare le nostre
democrazie, il migliore dei sistemi, perché non sapete cosa sono la libertà, il
rispetto delle leggi, la separazione dei poteri.” (p.23)

Il rischio è dunque quello di assumere un ruolo dai tratti paternalisti osservando


gli altri e le altre con un'empatia inferiorizzante, per mezzo della quale si intendono
trasmettere valori, usi, costumi e costruzioni ritenuti necessariamente migliori
perché originari della parte “giusta” del mondo: modi di fare e di essere ai quali i
migranti non devono far altro che aspirare e sforzarsi per entrare. Una visione più
vicina al reale è invece quella di un occidente che non è più l'unico teatro del
fenomeno migratorio ma che, in ottica transnazionale, rappresenta solo una delle
sponde migratorie; la perdita di unicità va di pari passo con una lettura che ne
limiti, via via, anche l'esclusività (Borghi, 2021). Come già fatto notare, questa
stortura particolarmente evidente e si riversa nel pensiero femminista occidentale,
con la creazione della categoria donna del Terzo mondo come gruppo unitario e
normale all'interno della gerarchia che vede ai piani più alti l'uomo bianco
occidentale. (Mohanty, 2012). Attraverso la lente intersezionale a diventare plurime
sono anche le oppressioni che le donne, in questo caso migranti, subiscono, come
pure differenti sono gli aspetti delle loro esistenze che entrano in gioco. Non si può
generalizzare sulla discriminazione rivolta alle donne in toto, ma si devono
analizzare sistematicamente e contemporaneamente al genere la razza, la classe,
l'età, il contesto familiare e comunitario, la sessualità, l'abilità ecc. Torna
nuovamente utile citare Vergès (2020, p.104), per comprendere in maniera
immediata che cos'è l'intersezionalità: “le donne di colore non possono affrontare il
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lavoro domestico allo stesso modo delle donne bianche: la razzializzazione del
lavoro domestico ne cambia profondamente le poste in gioco.” La razzializzazione
diventa quindi significativa per le lavoratrici e si manifesta non solo per le donne
nere, ma anche per le bianche dell'Est Europa o di altre provenienze, come rilevato
da fecondi studi che fanno propria la lente intersezionale (Marchetti et al., 2021).
Similmente accade per le donne migranti originarie del Subcontinente indiano.
Utilizzare come strumento di analisi l'intersezione dei vari aspetti della vita aiuta a
farne emergere l'eterogeneità e soprattutto tutte quelle spinte e oppressioni che
limitano i vissuti. Non solo, in ottica positiva, è utile porre al vaglio sempre tutte le
sfaccettature, per evitare di delineare un quadro eccessivamente vittimistico che
tenga conto anche di resistenze e lotte di successo delle donne stesse. Guardare alle
esperienze femminili migranti con la lente intersezionale permette di far emergere
quali sono i poteri, spesso sistemici, che le donne incontrano e con i quali si
scontrano, sulle proprie strade.
Questa riflessione è frutto di anni di ricerca dell'autrice, in parte già pubblicati
in volumi e saggi 1, e di un impegno più recente volto a implementare i risultati
attraverso una lettura di tipo intersezionale e decoloniale. Le indagini precedenti, di
tipo qualitativo, sono state costruite su una serie di interviste semi-strutturate,
raccolte di storie di vita, osservazione partecipante a partire dal 2016 circa a oggi 2.
Nel complesso il lavoro sul campo ha coinvolto un centinaio di donne incontrate
presso le loro abitazioni, durante festività religiose e laiche, fiere, attraverso
incontri a distanza nei periodi più complicati dell'emergenza covid-19. Il materiale
empirico raccolto è stato utilizzato come punto di partenza per un ragionamento più
ampio che vede la luce con questo contributo e che intende tracciare una pista per
eventuali lavori futuri.
Gli aspetti che sembrano maggiormente caratterizzare i vissuti delle donne sono
il genere, la razza, l'età. All'intersecarsi di questi tre aspetti corrispondono incroci
di poteri, oppressioni e resistenze. Essere una giovane donna nata o giunta in Italia
durante l'infanzia, avere una tonalità di pelle chiaramente più scura del presunto
standard italiano, avere una famiglia con background socio-economico-culturale di
un certo tipo influenza sicuramente la quotidianità, le scelte, i passi da effettuare.
Le ragazze di nuova generazione sono quelle che maggiormente mettono in atto
strategie di resistenza e rinegoziazione e che con le proprie esperienze pongono in
risalto l'intersezione tra origine familiare (sociale, culturale, religiosa),
posizionamento nella comunità in diaspora, genere e generazione. Le loro
resistenze e la loro adesione più o meno consapevoli a movimenti di matrice
femminista fanno comprendere come le pressioni che vivono provengono

1 Si rimanda alla bibliografia


2 Si tratta di due volumi pubblicati a quattro mani con la Dottoressa Katiuscia Carnà (2018 e 2021, in
bibliografia) e alcuni saggi. Nel primo volume (2018) la ricerca qualitativa ha visto la partecipazione
di circa 40 donne banglaldesi residenti a Roma, di varie età e anzianità migratoria. La ricerca si è
inoltre sviluppata attraverso l'osservazione partecipante di momenti comunitari, feste laiche, religiosi
e momenti informali nelle abitazioni o nei luoghi di lavoro delle donne. Sono state intervistate in
merito agli aspetti religiosi, linguistici e al racconto della loro esperienza migratoria. Il volume più
recente (2021) è un'indagine che ha interessato circa 40 donne, originarie di tutto il Subcontinente
Indiano. L'obiettivo è stato quello di indagare come la bellezza, la cura del corpo e l'esteriorizzazione
di simboli e abbigliamenti religiosi e tradizionali influiscano sui vissuti in diaspora (Bangladesh,
India, Pakistan, Sri Lanka) . Anche in questo caso la ricerca è stata di tipo qualitativo, tramite raccolta
di interviste semi- strutturate.

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dall'universo d'origine e da quello di residenza e/o nascita che vanno a insistere,


rispettivamente, sull'intersezione tra età e genere e alterità e genere. Infatti, esse
subiscono il controllo sociale della comunità di provenienza, che riserva loro un
particolare trattamento in quanto giovani e in quanto donne, che si somma alle
discriminazioni della società italiana, che le vede come donne straniere. La
costruzione dell'altro e, nel caso specifico, dell'altra, si alimenta di costruzioni
culturali stratificate nei secoli a partire dal periodo coloniale, quando gli Europei
iniziano a narrare di un oriente completamente diverso/avverso all'occidente
(Said,1978) con un occhio di riguardo a una presunta specificità della condizione
femminile (Mernissi, 2009). L'opinione pubblica, oggi, parla di donne migranti (e
più in generale di donne del Sud del mondo) essenzialmente come vittime di
sistemi patriarcali retrogradi o come donne promiscue e immorali (Bernacchi,
Chiappelli, 2021, p. 147). Le categorie di “donna migrante” e di “donna del Sud del
mondo” diventano degli unicum monolitici non solo per gli studiosi ma anche e
soprattutto per il femminismo bianco e occidentale (Mohanty, 2012). Alcuni filoni
del femminismo, alcune pensatrici femministe e movimenti conservatori e di destra
sembra abbiano in comune, seppure con sfaccettature e accezioni diverse, l'idea che
la società occidentale sia la migliore possibile per le donne, l'unica che garantisca
loro la piena emancipazione e l'esercizio dei diritti umani e individuali. Il
fenomeno, definito come femonazionalismo (Farris, 2015) pone le donne migranti,
musulmane in particolare, nel ruolo di pedine di un sistema interamente gestito
dagli uomini delle comunità, dove esse non hanno alcun tipo di possibilità
decisionale. Il termine sta infatti a indicare come partiti nazionalisti e neoliberali
facciano propri dei temi femministi in funzione antimigratoria, affiancandosi
spesso a intellettuali femministe e a donne delle istituzioni. Tali visioni, strumentali
alla propaganda politica, non tengono conto delle discriminazioni e delle
oppressioni che pure persistono nelle società occidentali e che – intersecandosi tra
loro e le altre – contribuiscono a delineare lo status di donne migranti e native.
Questi stereotipi e generalizzazioni di frequente vengono messe in discussione
dalle donne stesse, attraverso il proprio lavoro, l'attivismo, la creazione di
contronarrazioni. Nella militanza e nelle rivendicazioni le giovani donne pongono
al centro non solo il genere ma anche la provenienza di tipo etnico e religioso, in
un prisma che mette in luce i diversi aspetti a seconda del momento e della
necessità. In questo modo le nuove generazioni si impegnano per i diritti delle
donne, dei migranti, delle minoranze, dei giovani. L'attivismo delle più giovani si
contraddistingue soprattutto per una forte presenza, sui social attraverso la
creazione di collettivi, pubblicazione di testi e immagini. La chiave intersezionale
emerge, le giovani donne considerano infatti parallelamente sia lotte contro il
sessismo che contro il razzismo (Bernacchi, Chiappelli, 2021). Questo emerge nel
caso di alcuni profili collettivi nei quali ragazzi e ragazze intervengono in egual
misura discutendo e esponendo le proprie opinione ed esperienze in temi quali la
discriminazione, il razzismo, il sessismo e altri fattori legati alle proprie origini
(Carnà, Rossetti, 2021).
L'attivismo delle donne di prima generazione assume invece diverse
caratteristiche e diversi obiettivi d'azione (Bernacchi, Chiappelli, 2021, p.170).
Molto spesso si ritrovano infatti in associazioni strutturate e monoetniche che
hanno tra gli obiettivi principali quelli di assistere i migranti, di facilitare la vita
quotidiana nel paese di approdo, di celebrare ricorrenze laiche o religiose della
cultura d'origine. Raramente si occupano di far fronte a discriminazioni, anche se
spesso partecipano a eventi che intendono appropriarsi di spazi pubblici e/o far
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conoscere alla cittadinanza tradizioni, feste e momenti socializzanti delle comunità


di origine. In questo caso sono emblematici e rappresentativi gli eventi organizzati
dalla comunità bangladese di Roma, dove sono spesso presenti le associazioni
femminili Mohila Songostha e i gruppi femminili delle sezioni dei partiti politici
bangladesi all'estero.
Tutte le donne, sia giovani che adulte e anziane, subiscono poi spinte di natura
individuale, altre di natura familiare e altre di natura collettiva. Il ruolo della
comunità di origine non va mai sottovalutato e si affianca con forza a ogni
passaggio e fase della vita delle donne. È impensabile dunque non tenerne conto e
non mettere in relazione comunità, genere e anche particolare posizione socio-
economica della donna e della famiglia di provenienza. In una recente intervista
Sonia, ventenne nata in India e giunta in Italia durante l'adolescenza, racconta le
origini della sua famiglia: una casta tra le più basse e l'appartenenza a una
confessione religiosa minoritaria. Subito dopo espone le preoccupazioni dei suoi
genitori che, in Italia, temono di non riuscire a trovare un ragazzo che accetti di
sposarla senza tener conto di questi fattori.
Inoltre, qualsiasi ragionamento sulle esistenze femminili non può prescindere
dall'appartenenza di tipo razziale e dalla conseguente razzializzazione dei corpi. In
particolare, i vissuti sembrano condizionati dal colore della pelle e
dall'esteriorizzazione di alcuni abiti e pratiche differenti rispetto alla società
italiana. Il fenomeno riguardante il colore della pelle, noto come colorismo, trova
origine nel passato coloniale, in alcune pratiche locali e in una globalizzazione di
modelli di bellezza. A parlarne sono sia storici che sociologi e antropologi 3, a
dimostrazione di quanto il tema sia degno di rilevanza interdisciplinare perché
multisfaccettato (Carnà, Rossetti, 2021). Il colonialismo italiano e le leggi razziali
hanno senz'altro lasciato segni indelebili sull'approccio italiano alla questione,
come pure hanno fatto le legislazioni che in età repubblicana si sono occupate di
migrazione, nonché i presupposti ideologici di molti governi e il conseguente
dibattito pubblico e la creazione di un linguaggio dedicato ai movimenti migratori e
ai protagonisti degli stessi. I corpi degli altri e delle altre sono ora da salvare, ora da
possedere, in ogni caso “utilizzabili” (Bonfiglioli, et al., 2009, p.101): sia
personalmente che collettivamente, sovente a uso propagandistico.
Alcune linee di demarcazione contraddistinte dalla razzializzazione dei corpi
sono più presenti nel dibattito e negli immaginari: bianco/nero, bianco/slavo,
bianco/gitano, bianco/ebreo ecc. Altri, come quelli che avrebbero come
protagonisti soggetti provenienti dall'Asia sud-occidentale e dalla Cina, risultano
maggiormente invisibilizzate (Giuliani, 2014, p.225). Tutte le questioni riguardanti
“la linea del colore” vengono spesso declinate in maniera da mettere in risalto
soprattutto questioni relative alle afrodiscendenze, seguendo il sentiero tracciato da
una presenza sicuramente più di lungo periodo e sull'esistenza di una più ampia
disponibilità di studi e riflessioni in merito. Essere “brown” come nelle società

3 Il termine viene utilizzato per la prima volta dalla scrittrice statunitense Alice Walker negli anni
ottanta, per indicare il favore che all'interno della società afroamericana otteneva in particolar modo
per le donne l'avere la pelle di una tonalità chiara. Oggi il termine viene utilizzato, oltre che negli Stati
Uniti, per descrivere vari contesti (America Latina, India ecc.) per indicare lo stesso fenomeno,
differente dal razzismo poiché avviene anche all'interno delle comunità stesse. Tra le varie
motivazioni c'è senza dubbio quella che porta i colonizzati a voler somigliare sempre più ai
colonizzatori (Fanon, 2015).

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anglosassoni vengono definiti gli asiatici del sud, ma anche latino americani e
mediorientali, rappresenta una condizione di maggiore marginalità laddove non
viene definito e, conseguentemente, invisibilizzato in confronto ad altre
connotazioni di tipo razziale, etnico e culturale. Le donne originarie del
Subcontinente si collocano così in un continuum nel quale loro stesse si
definiscono ora “nere” ora “di colore”, “non bianche”, “asiatiche del sud”, facendo
riferimento al colore della pelle, ma più spesso vengono definite dagli autoctoni
utilizzando l'appartenenza religiosa o nazionale apparentemente ignorando quella
del colore. Stando ai racconti delle dirette interessate, invece e inconsapevolmente,
il colore della pelle influisce nel loro stare al mondo, sia nella società di approdo
che in quelle di provenienza – intersecando ancora una volta diverse traiettorie che
danno come risultato un prisma di oppressioni e resistenze. Fatima ricorda per
esempio di come da bambina, a scuola, notava che ai bambini afrodiscendenti
venivano rivolti complimenti sulla bellezza (oggettivizzando) che a lei erano
preclusi. Anzi, lei veniva spesso definita “brutta” e questo scatenava un suo
pensiero “Ma come, sono meno nera di loro e sono brutta?”. L'idea che chiarezza e
bellezza vadano di pari passo sembra un dato di fatto interiorizzato da chi viene dal
Subcontinente indiano, come dimostrano questi ricordi di bambina. In altri casi,
specularmente, le più giovani si chiedono perché vengano loro rivolti commenti e
complimenti con una certa insistenza. Ignorare il compagno di classe biondo con
gli occhi azzurri e affermare più volte della bellezza di una bambina di origine
pakistana, dopo anni, dà ancora da pensare a quella bambina che oggi è diventata
una donna. Le parole degli autoctoni hanno la funzione di esorcizzare le differenze,
di tranquillizzare chi le riceve e di legittimare la loro presenza nella comunità
italiana. L'origine dei commenti sta in una non-abitudine a trattare con il diverso e
nel renderlo “oggetto”. Come si diceva poc'anzi i corpi degli altri vengono
utilizzati, in diversi modi, sempre in funzione di qualche cosa che si vuole dire,
fare, mostrare. In altre parole, serve a me italiano, bianco, autoctono, farmi vedere
non razzista; serve a me sottolineare, con parole gentili, che l'altro, comunque, è
diverso.
Le donne provenienti dal Subcontinente indiano sembrano essere imbrigliate in
una rete costituita principalmente da due linee perpendicolari tra di loro: quella
della razza e della provenienza etnica e quella del genere. Ognuna di queste linee
ha delle sfumature, dei “nodi di rinforzo” caratterizzati dall'età, dalla religione,
dalla provenienza rurale/cittadina e da tutti gli altri aspetti identitari e dell'essere di
ognuna. La rete è sostenuta e giostrata dai diversi rapporti di potere che le donne
subiscono: quello patriarcale, che attraversa sia la società italiana che quelle di
origine, quello del contesto italiano di accoglienza. Questi poteri si intersecano,
opprimendo le donne in maniera differente da quello, per esempio, che accade per
gli uomini delle stesse comunità o per le donne più anziane rispetto alle più
giovani.
Esplicativo in questo senso è per esempio quello che accade nelle vicende
relative al mercato matrimoniale, momento considerato fondamentale nella vita
femminile. In una società dove ancora molto spesso si contraggono matrimoni
combinati, l'aspetto fisico delle donne risulta un elemento di primaria importanza e
quello che è richiesto dimostra in maniera lampante l'intersecarsi di oppressioni di
tipo coloniale con quelle più strettamente legate agli interessi familiari. La donna
considerata più desiderabile per un uomo in età da matrimonio ha la pelle chiara
(cosa che non viene richiesta a lui) ed è di buona famiglia. Il colore della pelle ha
una storia che è stata illustrata poc'anzi, in un mix di provenienze di tipo globale e
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locale che mettono in gioco sia la società d'origine e i suoi processi storici di più
lunga durata che quelli relativamente più recenti legati prima al colonialismo e poi
alla globalizzazione. L'essere istruita, giovane o appartenere a una famiglia di uno
status sociale medio-alto soddisfa invece più nell'immediato esigenze di apparenza
(da mostrare a parenti e conoscenti) e nel futuro della famiglia (per procurarsi una
progenie di rango, garantire un auspicabile successo scolastico-lavorativo dei figli
ecc.). Le relazioni e gli equilibri di potere al centro dei quali si ritrovano le giovani
donne sono frutto dunque di un'alternanza di spinte micro e macro.

Parlare italiano e lavorare: ostacoli e resistenze

Qualsiasi discorso sul lavoro femminile migrante non può non fare i conti con
l'importanza che hanno i lavoratori stranieri all'interno delle più moderne società
capitaliste (Mellino, 2012). La forza lavoro straniera assume un ruolo ben preciso,
sia nei giochi di potere economico che nei discorsi di propaganda politica – ma con
delle differenze sulla linea del genere. Se infatti l'uomo è forza lavoro necessaria
ma anche “ladro” di lavoro destinato agli autoctoni, la donna è fondamentale nel
mercato del lavoro di cura, coadiuvando e sostenendo le donne autoctone che
entrano in massa nel sistema produttivo spogliandosi del genere (Farris, 2015),
ossia abbandonando – almeno apparentemente – alcune incombenze che nei sistemi
patriarcali vengono tradizionalmente affidate alle donne. La letteratura, sia italiana
che internazionale, ha ampiamente lavorato sulla questione del lavoro domestico e
sulle catene della cura (Marchetti, 2011 e 2014; Marchetti et al., 2021; Busi, 2020;
Andall, 2000; Ehrenreich e Hochschild, 2002; Lutz 2002). Nel caso delle donne
musulmane, come molte tra quelle provenienti dal Subcontinente indiano, la
mancata presenza sul mercato del lavoro è frutto da spinte di natura eterogenea sia
interne alla comunità d'origine che a quella italiana (Rossetti, 2020). Poche sono le
donne occupate, per ragioni varie che vanno dall'esigenza di farsi carico dei figli e
della casa, in assenza della famiglia allargata, della gestione familiare incentrata sul
lavoro del marito e sulla conservazione di usi e costumi – considerati minacciati
dalla eccessiva esposizione alla società europea – alle difficoltà nell'ottenimento di
un'occupazione dovuta alla crisi economica, al mancato riconoscimento di titoli di
studio e competenze e del deficit linguistico. In molti casi le famiglie più
tradizionaliste non vedono di buon occhio l'impiego di mogli e figlie in case altrui,
dunque, viene meno la possibilità di usufruire di quella nicchia lavorativa che
invece in altre comunità migranti rappresenta lo sfogo privilegiato per
l'occupazione femminile.
Tuttavia, pur non essendo in possesso di dati ufficiali, dal lavoro sul campo
sembra emergere una certa tendenza delle donne a scegliere soluzioni alternative
per contribuire alle entrate economiche familiari in diaspora. Diverse tra le donne
conosciute in questi anni lavorano nei servizi domestici, nella maggior parte dei
casi saltuariamente, in nero e/o per poche ore. Questo consente di guadagnare cifre
modeste, ma allo stesso tempo di avere per la maggior parte del tempo entrambi i
piedi in casa propria, al fianco del proprio marito e dei propri figli. Farhana,
trentenne residente a Roma, si reca presso un'anziana vicina di casa di mattina,
quando le figlie sono a scuola, per aiutarla a fare la spesa e sistemare la casa. È
consapevole del fatto che questo non sia sufficiente e si promette di trovare un
lavoro più stabile e remunerativo in futuro, quando le bambine saranno più grandi.
Anche lei, come è stato fatto notare in altri contesti simili (Busi, 2020) stenta a

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definirsi una lavoratrice, invisibilizzando e in qualche modo sminuendo il suo


impegno fuori da casa.
La crisi economica, il fatto di essere straniere, di non avere un buon livello
d'italiano e dei titoli di studio validi e – in alcuni casi – di subire le pressioni della
famiglia a restare in casa, contribuisce all'inattività diffusa delle donne delle
comunità in oggetto (Rossetti, 2021). Molte tra loro scelgono di impegnarsi in
attività in proprio e a domicilio, per eludere i diversi ostacoli e realizzarsi in
qualche modo. Nascono così, soprattutto sui social network, pagine che
pubblicizzano attività di vendita di abiti tradizionali e di catering. Le titolari di
queste imprese preservano in molti casi la volontà delle famiglie, continuando a
lavorare da casa, all'interno della comunità etnica e quindi potenzialmente in una
zona esposta agli sguardi e al controllo sociale della comunità etnica. Così facendo
il loro lavoro diventa invisibile a va ad aggiungersi a quello che già svolgono come
mogli, madri, casalinghe in una sorta di estensione della domesticità; si tratta di
una invisibilità sistemica che ha la funzione di preservare i ruoli di una società
patriarcale e impedisce alle donne di riconoscersi come lavoratrici, con oneri e
onori del caso (Mohanty, 2012). Le protagoniste, però, percepiscono se stesse come
imprenditrici e il loro lavoro come resistenza e riadattamento, un raggirare le
difficoltà di congiuntura economica e le discriminazioni del mercato del lavoro,
mettendo in piedi progetti autogestiti attraverso le proprie competenze e/o qualche
aspetto della propria cultura. Shahina, trentaseienne residente in Italia da tre anni,
ha un canale youtube nel quale pubblica video dei piatti in vendita nel suo catering
ma anche esperienze della sua vita in Italia. La donna pur essendo laureata in
Bangladesh ha conseguito in Italia la licenza media e si è iscritta a un corso serale
in una scuola professionale alberghiera con l'obiettivo di ampliare la sua attività e
affinare le competenze necessarie.
Un aspetto rilevante nella vita delle donne migranti, emerso a più riprese negli
anni di ricerca sul campo e in questo contributo, è la questione linguistica. In molti
casi le donne non raggiungono sufficienti competenze in italiano, assumendo una
posizione di svantaggio in diverse situazioni. Si tratta spesso, infatti, di donne
spostate con uomini che risiedono nel paese di approdo da molti anni e che
solitamente vi lavorano da tempo altrettanto lungo. Verosimilmente i mariti
riescono a utilizzare meglio la lingua, come pure anche i figli nati o cresciuti in
Italia, sostituendosi alle donne in molte situazioni, comprese anche quelle dove
esse potrebbero e dovrebbero essere completamente indipendenti. Emblematico è il
caso per esempio delle visite mediche, anche ginecologiche, riportato in alcune
testimonianze di mediatrici culturali. Le donne vengono accompagnate da mariti e
figli negli incontri con i medici in contesti nei quali, né gli uni né gli altri,
dovrebbero avere accesso al fine di garantire la privacy e il diritto a gestire in piena
autonomia le scelte relative al proprio corpo. Nel caso della presenza di figli
minori, poi, si verifica il fenomeno del diventare “genitori dei propri genitori”
mettendo in discussione, talvolta in crisi, i ruoli all'interno delle famiglie (Carnà,
Rossetti, 2018). Il deficit linguistico è originato da diversi fattori. Sicuramente
molte donne si trovano in difficoltà ad approcciare un sistema linguistico molto
lontano da quelle d'origine, altre sperano e si appoggiano troppo alla lingua inglese
con la quale sono entrate in contatto sin da piccolissime. Tuttavia la gravosità
sembra derivare dallo stile di vita che molte assumono una volta giunte in Italia,
incentrata sul focolare domestico, le incombenze derivate e la crescita e
sorveglianza dei figli. In altri casi, rari ma presenti, i mariti e più in generale gli
uomini della famiglia ostacolano volutamente la frequenza a corsi di lingua e più in
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generale frequentazioni che favorirebbero il miglioramento delle competenze


linguistiche. Il risultato è il posizionamento delle donne in un limbo di cittadine
non parlanti o parzialmente parlanti la lingua del paese di residenza. Se questo,
come già visto, le indebolisce nei ruoli all'interno del nucleo familiare, un processo
molto simile avviene con il mondo e la società esterni, laddove non riescono a
esprimere pienamente il proprio essere, i propri bisogni e farlo alla pari con gli
interlocutori.

Conclusioni

I vissuti delle donne originarie del Subcontinente indiano residenti in Italia


presentano tratti comuni ad altre esperienze migratorie ma anche peculiarità che
vale la pena indagare. Intersezionalità e decolonialità sembrano i paradigmi più
utili a farle emergere, come ha tentato di fare questo contributo, ponendo anche le
basi per un percorso di riflessione sull'operato degli addetti ai lavori (ricercatori,
educatori, operatori nel settore migratorio) libero da stereotipi e
strumentalizzazioni che continuano a persistere sia nell'opinione pubblica che nei
racconti delle donne stesse.
I primi risultati lasciano intravedere come le protagoniste siano imbrigliate in
oppressioni di varia natura che traggono origine sia dalla cultura d'origine che da
quella d'accoglienza e che avvengono e si intrecciano sulla linea della razza, del
genere e dell'appartenenza socio-culturale. Le vite delle migranti sembrano subire
spinte micro e macro: individuali, familiari, comunitarie, coloniali, legate al paese
d'origine e provenienza ecc. Gli occhi degli autoctoni, inoltre, ricadono sul gruppo
femminile con uno sguardo che definisce le donne quasi sempre solo come vittime
inermi da salvare da società di provenienza retrograde e maschiliste; un pensare,
questo, che può essere definito coloniale e che, se osservato appunto
decolonialmente, può essere sufficientemente problematizzato. Le donne subiscono
quindi varie forme di discriminazione e si trovano a ricoprire ruoli ai quali a volte
aderiscono, altre volte resistono rinegoziando. Sono soprattutto le più giovani,
attraverso consapevolezza e associazionismo, a lavorare con maggior forza sulla
propria identità e su come questa viene recepita all'esterno. Nelle esperienze di vita
una funzione non sottovalutabile è quella della razzializzazione dei corpi, tra le
altre cose attraverso il colore della pelle. L'apparire “diverse” (più chiare, più scure,
differenti dalla presunta norma uomo-bianco-europeo) diventa elemento rilevato
sia da parte della società italiana che da quelle d'origine. Oltre a ciò particolarmente
interessante e feconda per sviluppi futuri sembra la lettura dei vissuti che segue il
filo delle competenze linguistiche in italiano (soprattutto per le prime generazioni
di migranti) e quello del lavoro. Il deficit linguistico crea nuove disuguaglianze e
pone le donne in posizione di svantaggio, anche in questo caso, sia nella società
italiana che in quella d'origine. Il lavoro assume invece un ruolo ambivalente:
apparentemente sempre emancipatorio e considerato dalle donne come una via
d'uscita dalla disoccupazione e dal sentirsi un carico per la famiglia, rischia di
rinforzare i ruoli all'interno del sistema patriarcale se in quello stesso sistema viene
agito e pensato.

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