Rossetti
Rossetti
SARA ROSSETTI
Sara Rossetti*
*Ricercatrice indipendente
E-mail: [email protected]
Abstract
Keywords
Migration, women, Indian Subcontinent
Introduzione
I vissuti delle donne: dalle prime generazioni di migranti alle nuove italiane
lavoro domestico allo stesso modo delle donne bianche: la razzializzazione del
lavoro domestico ne cambia profondamente le poste in gioco.” La razzializzazione
diventa quindi significativa per le lavoratrici e si manifesta non solo per le donne
nere, ma anche per le bianche dell'Est Europa o di altre provenienze, come rilevato
da fecondi studi che fanno propria la lente intersezionale (Marchetti et al., 2021).
Similmente accade per le donne migranti originarie del Subcontinente indiano.
Utilizzare come strumento di analisi l'intersezione dei vari aspetti della vita aiuta a
farne emergere l'eterogeneità e soprattutto tutte quelle spinte e oppressioni che
limitano i vissuti. Non solo, in ottica positiva, è utile porre al vaglio sempre tutte le
sfaccettature, per evitare di delineare un quadro eccessivamente vittimistico che
tenga conto anche di resistenze e lotte di successo delle donne stesse. Guardare alle
esperienze femminili migranti con la lente intersezionale permette di far emergere
quali sono i poteri, spesso sistemici, che le donne incontrano e con i quali si
scontrano, sulle proprie strade.
Questa riflessione è frutto di anni di ricerca dell'autrice, in parte già pubblicati
in volumi e saggi 1, e di un impegno più recente volto a implementare i risultati
attraverso una lettura di tipo intersezionale e decoloniale. Le indagini precedenti, di
tipo qualitativo, sono state costruite su una serie di interviste semi-strutturate,
raccolte di storie di vita, osservazione partecipante a partire dal 2016 circa a oggi 2.
Nel complesso il lavoro sul campo ha coinvolto un centinaio di donne incontrate
presso le loro abitazioni, durante festività religiose e laiche, fiere, attraverso
incontri a distanza nei periodi più complicati dell'emergenza covid-19. Il materiale
empirico raccolto è stato utilizzato come punto di partenza per un ragionamento più
ampio che vede la luce con questo contributo e che intende tracciare una pista per
eventuali lavori futuri.
Gli aspetti che sembrano maggiormente caratterizzare i vissuti delle donne sono
il genere, la razza, l'età. All'intersecarsi di questi tre aspetti corrispondono incroci
di poteri, oppressioni e resistenze. Essere una giovane donna nata o giunta in Italia
durante l'infanzia, avere una tonalità di pelle chiaramente più scura del presunto
standard italiano, avere una famiglia con background socio-economico-culturale di
un certo tipo influenza sicuramente la quotidianità, le scelte, i passi da effettuare.
Le ragazze di nuova generazione sono quelle che maggiormente mettono in atto
strategie di resistenza e rinegoziazione e che con le proprie esperienze pongono in
risalto l'intersezione tra origine familiare (sociale, culturale, religiosa),
posizionamento nella comunità in diaspora, genere e generazione. Le loro
resistenze e la loro adesione più o meno consapevoli a movimenti di matrice
femminista fanno comprendere come le pressioni che vivono provengono
3 Il termine viene utilizzato per la prima volta dalla scrittrice statunitense Alice Walker negli anni
ottanta, per indicare il favore che all'interno della società afroamericana otteneva in particolar modo
per le donne l'avere la pelle di una tonalità chiara. Oggi il termine viene utilizzato, oltre che negli Stati
Uniti, per descrivere vari contesti (America Latina, India ecc.) per indicare lo stesso fenomeno,
differente dal razzismo poiché avviene anche all'interno delle comunità stesse. Tra le varie
motivazioni c'è senza dubbio quella che porta i colonizzati a voler somigliare sempre più ai
colonizzatori (Fanon, 2015).
anglosassoni vengono definiti gli asiatici del sud, ma anche latino americani e
mediorientali, rappresenta una condizione di maggiore marginalità laddove non
viene definito e, conseguentemente, invisibilizzato in confronto ad altre
connotazioni di tipo razziale, etnico e culturale. Le donne originarie del
Subcontinente si collocano così in un continuum nel quale loro stesse si
definiscono ora “nere” ora “di colore”, “non bianche”, “asiatiche del sud”, facendo
riferimento al colore della pelle, ma più spesso vengono definite dagli autoctoni
utilizzando l'appartenenza religiosa o nazionale apparentemente ignorando quella
del colore. Stando ai racconti delle dirette interessate, invece e inconsapevolmente,
il colore della pelle influisce nel loro stare al mondo, sia nella società di approdo
che in quelle di provenienza – intersecando ancora una volta diverse traiettorie che
danno come risultato un prisma di oppressioni e resistenze. Fatima ricorda per
esempio di come da bambina, a scuola, notava che ai bambini afrodiscendenti
venivano rivolti complimenti sulla bellezza (oggettivizzando) che a lei erano
preclusi. Anzi, lei veniva spesso definita “brutta” e questo scatenava un suo
pensiero “Ma come, sono meno nera di loro e sono brutta?”. L'idea che chiarezza e
bellezza vadano di pari passo sembra un dato di fatto interiorizzato da chi viene dal
Subcontinente indiano, come dimostrano questi ricordi di bambina. In altri casi,
specularmente, le più giovani si chiedono perché vengano loro rivolti commenti e
complimenti con una certa insistenza. Ignorare il compagno di classe biondo con
gli occhi azzurri e affermare più volte della bellezza di una bambina di origine
pakistana, dopo anni, dà ancora da pensare a quella bambina che oggi è diventata
una donna. Le parole degli autoctoni hanno la funzione di esorcizzare le differenze,
di tranquillizzare chi le riceve e di legittimare la loro presenza nella comunità
italiana. L'origine dei commenti sta in una non-abitudine a trattare con il diverso e
nel renderlo “oggetto”. Come si diceva poc'anzi i corpi degli altri vengono
utilizzati, in diversi modi, sempre in funzione di qualche cosa che si vuole dire,
fare, mostrare. In altre parole, serve a me italiano, bianco, autoctono, farmi vedere
non razzista; serve a me sottolineare, con parole gentili, che l'altro, comunque, è
diverso.
Le donne provenienti dal Subcontinente indiano sembrano essere imbrigliate in
una rete costituita principalmente da due linee perpendicolari tra di loro: quella
della razza e della provenienza etnica e quella del genere. Ognuna di queste linee
ha delle sfumature, dei “nodi di rinforzo” caratterizzati dall'età, dalla religione,
dalla provenienza rurale/cittadina e da tutti gli altri aspetti identitari e dell'essere di
ognuna. La rete è sostenuta e giostrata dai diversi rapporti di potere che le donne
subiscono: quello patriarcale, che attraversa sia la società italiana che quelle di
origine, quello del contesto italiano di accoglienza. Questi poteri si intersecano,
opprimendo le donne in maniera differente da quello, per esempio, che accade per
gli uomini delle stesse comunità o per le donne più anziane rispetto alle più
giovani.
Esplicativo in questo senso è per esempio quello che accade nelle vicende
relative al mercato matrimoniale, momento considerato fondamentale nella vita
femminile. In una società dove ancora molto spesso si contraggono matrimoni
combinati, l'aspetto fisico delle donne risulta un elemento di primaria importanza e
quello che è richiesto dimostra in maniera lampante l'intersecarsi di oppressioni di
tipo coloniale con quelle più strettamente legate agli interessi familiari. La donna
considerata più desiderabile per un uomo in età da matrimonio ha la pelle chiara
(cosa che non viene richiesta a lui) ed è di buona famiglia. Il colore della pelle ha
una storia che è stata illustrata poc'anzi, in un mix di provenienze di tipo globale e
Culture e Studi del Sociale-CuSSoc, 2022, 7(2), pp. 152-164
ISSN: 2531-3975
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Intersezionalità e decolonialità: nuove lenti sugli studi delle migrazioni femminili attraverso il caso
studio delle donne originarie del Subcontinente indiano in Italia.
locale che mettono in gioco sia la società d'origine e i suoi processi storici di più
lunga durata che quelli relativamente più recenti legati prima al colonialismo e poi
alla globalizzazione. L'essere istruita, giovane o appartenere a una famiglia di uno
status sociale medio-alto soddisfa invece più nell'immediato esigenze di apparenza
(da mostrare a parenti e conoscenti) e nel futuro della famiglia (per procurarsi una
progenie di rango, garantire un auspicabile successo scolastico-lavorativo dei figli
ecc.). Le relazioni e gli equilibri di potere al centro dei quali si ritrovano le giovani
donne sono frutto dunque di un'alternanza di spinte micro e macro.
Qualsiasi discorso sul lavoro femminile migrante non può non fare i conti con
l'importanza che hanno i lavoratori stranieri all'interno delle più moderne società
capitaliste (Mellino, 2012). La forza lavoro straniera assume un ruolo ben preciso,
sia nei giochi di potere economico che nei discorsi di propaganda politica – ma con
delle differenze sulla linea del genere. Se infatti l'uomo è forza lavoro necessaria
ma anche “ladro” di lavoro destinato agli autoctoni, la donna è fondamentale nel
mercato del lavoro di cura, coadiuvando e sostenendo le donne autoctone che
entrano in massa nel sistema produttivo spogliandosi del genere (Farris, 2015),
ossia abbandonando – almeno apparentemente – alcune incombenze che nei sistemi
patriarcali vengono tradizionalmente affidate alle donne. La letteratura, sia italiana
che internazionale, ha ampiamente lavorato sulla questione del lavoro domestico e
sulle catene della cura (Marchetti, 2011 e 2014; Marchetti et al., 2021; Busi, 2020;
Andall, 2000; Ehrenreich e Hochschild, 2002; Lutz 2002). Nel caso delle donne
musulmane, come molte tra quelle provenienti dal Subcontinente indiano, la
mancata presenza sul mercato del lavoro è frutto da spinte di natura eterogenea sia
interne alla comunità d'origine che a quella italiana (Rossetti, 2020). Poche sono le
donne occupate, per ragioni varie che vanno dall'esigenza di farsi carico dei figli e
della casa, in assenza della famiglia allargata, della gestione familiare incentrata sul
lavoro del marito e sulla conservazione di usi e costumi – considerati minacciati
dalla eccessiva esposizione alla società europea – alle difficoltà nell'ottenimento di
un'occupazione dovuta alla crisi economica, al mancato riconoscimento di titoli di
studio e competenze e del deficit linguistico. In molti casi le famiglie più
tradizionaliste non vedono di buon occhio l'impiego di mogli e figlie in case altrui,
dunque, viene meno la possibilità di usufruire di quella nicchia lavorativa che
invece in altre comunità migranti rappresenta lo sfogo privilegiato per
l'occupazione femminile.
Tuttavia, pur non essendo in possesso di dati ufficiali, dal lavoro sul campo
sembra emergere una certa tendenza delle donne a scegliere soluzioni alternative
per contribuire alle entrate economiche familiari in diaspora. Diverse tra le donne
conosciute in questi anni lavorano nei servizi domestici, nella maggior parte dei
casi saltuariamente, in nero e/o per poche ore. Questo consente di guadagnare cifre
modeste, ma allo stesso tempo di avere per la maggior parte del tempo entrambi i
piedi in casa propria, al fianco del proprio marito e dei propri figli. Farhana,
trentenne residente a Roma, si reca presso un'anziana vicina di casa di mattina,
quando le figlie sono a scuola, per aiutarla a fare la spesa e sistemare la casa. È
consapevole del fatto che questo non sia sufficiente e si promette di trovare un
lavoro più stabile e remunerativo in futuro, quando le bambine saranno più grandi.
Anche lei, come è stato fatto notare in altri contesti simili (Busi, 2020) stenta a
Conclusioni
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