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La Notte Di Israele: Rivista Italiana Di Geopolitica Rivista Italiana Di Geopolitica

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RIVISTA ITALIANA DI GEOPOLITICA

Tra guerra all’Iran e guerra civile


Gli adoratori dell’apocalisse
LA NOTTE
La sveglia suona ma l’Italia dorme
DI ISRAELE
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RIVISTA MENSILE - 24/10/2024 - POSTE ITALIANE SPED. IN A.P. - D.L. 353/2003 CONV. L. 46/2004, ART. 1, C. 1, DCB, ROMA
RIVISTA MENSILE - POSTE ITALIANE SPED. IN A.P. - D.L. 353/2003 CONV. L. 46/2004, ART. 1, C. 1, DCB, ROMA

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9/2024 • mensile
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Luciano CANFORA - Antonella CARUSO - Claudio CERRETI - Gabriele CIAMPI - Furio COLOMBO
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Marco FILONI - Federico FUBINI - Ernesto GALLI della LOGGIA - Laris GAISER - Carlo JEAN - Enrico LETTA
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Sergio ROMANO - Gian Enrico RUSCONI - Giuseppe SACCO - Franco SALVATORI - Stefano SILVESTRI
Francesco SISCI - Marcello SPAGNULO - Mattia TOALDO - Roberto TOSCANO - Giulio TREMONTI
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Włodek GOLDKORN - Franz GUSTINCICH - Virgilio ILARI - Arjan KONOMI - Niccolò LOCATELLI - Marco MAGNANI
Francesco MAIELLO - Luca MAINOLDI - Roberto MENOTTI - Paolo MORAWSKI - Roberto NOCELLA - Lorenzo NOTO
Giovanni ORFEI - Federico PETRONI - David POLANSKY - Alessandro POLITI - Sandra PUCCINI - Benedetta RIZZO
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Afghanistan: Henri STERN - Albania: Ilir KULLA - Algeria: Abdennour BENANTAR - Argentina: Fernando
DEVOTO - Australia e Pacifico: David CAMROUX - Austria: Alfred MISSONG, Anton PELINKA, Anton
STAUDINGER - Belgio: Olivier ALSTEENS, Jan de VOLDER - Brasile: Giancarlo SUMMA - Bulgaria: Antony
TODOROV - Camerun: Georges R. TADONKI - Canada: Rodolphe de KONINCK - Cechia: Jan KR̆EN - Cina:
Francesco SISCI - Congo-Brazzaville: Martine Renée GALLOY - Corea: CHOI YEON-GOO - Estonia: Jan
KAPLINSKIJ - Francia: Maurice AYMARD, Michel CULLIN, Bernard FALGA, Thierry GARCIN - Guy HERMET
Marc LAZAR, Philippe LEVILLAIN, Denis MARAVAL, Edgar MORIN, Yves MÉNY, Pierre MILZA - Gabon: Guy
ROSSATANGA-RIGNAULT - Georgia: Ghia ZHORZHOLIANI - Germania: Detlef BRANDES, Iring FETSCHER
Rudolf HILF, Josef JOFFE, Claus LEGGEWIE, Ludwig WATZAL, Johannes WILLMS - Giappone: Kuzuhiro JATABE
Gran Bretagna: Keith BOTSFORD - Grecia: Françoise ARVANITIS - Iran: Bijan ZARMANDILI - Israele: Arnold
PLANSKI - Lituania: Alfredas BLUMBLAUSKAS - Panamá: José ARDILA - Polonia: Wojciech GIEŁZ∙Y7SKI
Portogallo: José FREIRE NOGUEIRA - Romania: Emilia COSMA, Cristian IVANES - Ruanda: José KAGABO
Russia: Igor PELLICCIARI, Aleksej SALMIN, Andrej ZUBOV - Senegal: Momar COUMBA DIOP - Serbia e
Montenegro: Tijana M. DJERKOVI®, Miodrag LEKI® - Siria e Libano: Lorenzo TROMBETTA - Slovacchia:
Lubomir LIPTAK - Spagna: Manuel ESPADAS BURGOS, Victor MORALES LECANO - Stati Uniti: Joseph
FITCHETT, Igor LUKES, Gianni RIOTTA, Ewa THOMPSON - Svizzera: Fausto CASTIGLIONE - Togo: Comi M.
TOULABOR - Turchia: Yasemin TAŞKIN - Città del Vaticano: Piero SCHIAVAZZI - Venezuela: Edgardo RICCIUTI
Ucraina: Leonid FINBERG, Mirosłav POPOVI® - Ungheria: Gyula L. ORTUTAY - Fabrizio AGNOCCHETTI
Rivista mensile n. 9/2024 (settembre)
ISSN 1124-904

Direttore responsabile Lucio Caracciolo Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

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Registrazione al Tribunale di Roma n. 178 del 27/4/1993

Stampa: Rotolito S.p.A, via Sondrio 3, Pioltello (MI), ottobre 2024


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TUTTI GLI OCEANI PORTANO A ROMA


LE GIORNATE DEL MARE | V EDIZIONE | ROMA | 9/10 NOVEMBRE 2024

Tempio di Adriano, Sala del Tempio di Vibia Sabina e Adriano, Piazza di Pietra

PROGRAMMA

SABATO 9 NOVEMBRE DOMENICA 10 NOVEMBRE


Ore 10 Ore 10
Inaugurazione della mostra cartografica di Laura Canali Back in the Mediterranean: il ritorno della VI Flotta americana
nel mare nostrum. Con Seth Cropsey e Germano Dottori.
Ore 10.40 Modera Lucio Caracciolo
Saluti introduttivi di Lorenzo Tagliavanti, Presidente della Camera
di Commercio di Roma Ore 11
Artico: attacco al Mediterraneo? Da Taiwan a Gibilterra.
Ore 10.45 Con Orietta Moscatelli e Wang Zichen. Modera Federico Petroni
L’Italia nell’oceano mondo. Dove arriva l’interesse marittimo del nostro
paese? – Relazione introduttiva di Lucio Caracciolo Ore 12
Dal Mediterraneo all’Indo-Pacifico. L’Italia nei mari in guerra.
Ore 11.30 Conversazione tra Lucio Caracciolo e l’Ammiraglio Enrico Credendino,
Il Mediterraneo è stretto. Da Gibilterra a Suez. Con l’Ammiraglio Aurelio capo di Stato maggiore della Marina Militare
De Carolis, Egidio Ivetic, Fabrizio Mattana, Riccardo Rigillo (tbc).
Modera Fabrizio Maronta Ore 13
Saluti conclusivi di Nello Musumeci, Ministro per la Protezione Civile
Ore 15 e le Politiche del mare (tbc)
Il Mar Rosso nella Guerra Grande. Da Suez a Malacca.
Con Massimo Deandreis, Mario Zanetti, Francesco Zampieri
e l’Ammiraglio Stefano Costantino. Modera Daniele Santoro

Ore 16.30
Sfida per l’Indo-Pacifico. Da Malacca a Taiwan. Con Hirohito Ogi,
Seth Cropsey e Wang Zichen. Modera Giorgio Cuscito Un grato saluto ai nostri lettori

Ore 18
Roma è il mare. Alle origini della marittimità italiana. Conversazione
tra Lucio Caracciolo, Luigi Capogrossi Colognesi e Nicola Piepoli

IN COLLABORAZIONE CON IN COLLABORAZIONE CON


SOMMARIO n. 9/2024

EDITORIALE
7 La saggezza di Tucidide
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PARTE I ISRAELE CONTRO SÉ STESSO

37 Włodek GOLDKORN - Conoscersi per riconoscersi


43 Anna FOA - Il nuovo antisemitismo
e la fine dell’eccezionalismo ebraico
49 Giacomo Maria ARRIGO - I fanatici dell’apocalisse
La guerra escatologica di H . izbullaˉh
(in appendice: L’apocalisse in 17 punti)
57 Lorenza BOTTACIN-CANTONI - La terra d’Israele è sconfinata,
parola di Dio (e di Bibi)
65 Giuseppe DE RUVO - Comanda chi non teme la morte
81 Orna MIZRAHI - ‘I due Stati non si faranno, ma a Israele
manca un piano per il dopoguerra’
89 Umberto DE GIOVANNANGELI - Palestina, anno zero (in appendice:
Riyaˉd. AL-MAˉLIKIˉ - ‘Senza uno Stato palestinese il Medio Oriente
resterà ingestibile’)

PARTE II ISRAELE CONTRO IRAN

101 Lorenzo TROMBETTA - H


. izbullaˉh venderà cara la pelle
111 Meir ELRAN - ‘Ridisegniamo il Medio Oriente’ (in appendice:
Michelangelo GENONE - I numeri di un anno di guerra)
121 Nicola PEDDE - Padella o brace, il dilemma di Teheran
127 Yochanan TZOREF - Come riprenderci la Galilea
135 Eleonora ARDEMAGNI - Gli h.uˉtıˉ hanno già vinto
ˉ
141 Francesco ZAMPIERI e Isabella CHIARA - In morte di Suez?
I progetti di land bridge per evitare il Canale
157 Samir AITA - Se la Siria sprofonda nella Pax Israeliana
161 Antonella CARUSO - La fondamentale partita degli oleodotti iracheni
171 Pierguido IEZZI - Ai, la freccia avvelenata all’arco di Israele
PARTE III LA GUERRA DEGLI ALTRI

179 Federico PETRONI - Come si usa l’America


189 Scott SMITSON - Il dilemma degli Usa:
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evitare l’escalation o indebolire l’Iran?


195 Mauro DE BONIS - Odi et amo. Tra Mosca e Teheran
203 FAN Hongda - La Cina non vuol cadere nelle guerre d’Israele
209 Germano DOTTORI - Israele divide l’Italia
217 Emily TASINATO - Distensione e deterrenza, la formula saudita
alla prova del fuoco
225 Daniele SANTORO - La Turchia sogna la zona grigia

AUTORI
237

LA STORIA IN CARTE a cura di Edoardo BORIA


239
LA NOTTE DI ISRAELE

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La saggezza di Tucidide

1. I SRAELE STA COMBATTENDO CON SUCCESSO LA SUA GUERRA


di autodistruzione. Nelle parole del generale Udi Dekel, a un anno dalla
mattanza del 7 ottobre: «È evidente che la leadership israeliana vede
all’orizzonte solo la guerra perpetua. Il conflitto in corso beneficia solo i
nemici di Israele e si allinea alla strategia iraniana che promuove una
guerra di attrito contro Israele fino al suo collasso finale» 1. Deriva suici-
da. Votata all’annientamento del Nemico – l’Iran e la sua costellazione
imperiale – travolgendo tutti e chiunque si frapponga fra sé e Amalek.
Archetipo biblico del Male, proditorio aggressore degli israeliti, che orto-
dossia ebraica impone di distruggere. Identificato ieri con Hitler, oggi
con l’Iran e terroristi arabi associati, su domani si accettano scommesse.
Binyamin Netanyahu conferma, rivolto ai suoi soldati: «Ricordate
quel che vi ha fatto Amalek!» 2. Mentre battezza Operazione Spade di Ferro
la rappresaglia senza limiti scattata contro Gaza ed estesa a sempre nuo-
vi fronti. Siamo al primo Libro di Samuele. Per ricordare che «da migliaia
di anni il fondamento dell’esistenza del popolo ebraico è stato la lotta co-
stante per le nostre vite e per le nostre libertà» 3. Da Giosuè a Bibi, i soldati
dell’eterno Israele si certificano eternamente belligeranti.

1. U. DEKEL, «The Risk of Sliding into a Perpetual Multi-Arena War – It Can Still Be Blocked»,
Institute for National Security Studies, n. 1898, 10/10/2024.
2. «Letter from PM Netanyahu to Our Soldiers and Commanders in the Swords of Iron War»,
Prime Minister’s Office, 3/11/2023.
3. Ivi. 7
LA SAGGEZZA DI TUCIDIDE

Sarebbe stolto trattare la santificazione israeliana di questa guerra


da stratagemma propagandistico. Non solo i religiosi, larga parte dell’o-
pinione pubblica laica sostiene Spade di Ferro, giusta punizione degli
assassini di Õamås estesa a tutta la gente di Gaza, corresponsabile del 7
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ottobre, donne e bambini compresi. E via via per onde concentriche, un


Amalek dopo l’altro, da Beirut fino a Teheran, forse oltre. La guerra per-
petua eretta a plurimillenaria identità nazionale, poggiata sul verbo del
Dio furioso della Bibbia ebraica dove il termine «guerra» ricorre 310
volte, esclude per definizione la pace. Il destino dell’israeliano non è più
di vivere con il fucile al piede, ma sempre in mano.
Sarebbe peggio che stolto trascurare la fede del popolo ebraico nel
mandato ricevuto da Dio. Stirpe eletta, per Lui in missione sulla sacra
Terra di Israele, (Eretz Yisra’el, carta a colori 1). Dunque suprema. Dopo
la Shoah, questo privilegio divino incrocia la delebile memoria dello
sterminio nazista. Doppio registro che esclude di riconoscersi pari agli
altri umani. La pace fra dispari non è pace.
Sarebbe infine imperdonabile dimenticare la parabola dello Stato di
Israele, che dal 14 maggio 1948, giorno dell’Indipendenza, ha affrontato
e vinto (o pareggiato) conflitti difensivi e preventivi. Cinque giorni dopo
quel battesimo scatta l’Ordinanza per la legge e l’amministrazione che
impone lo stato di emergenza per tre mesi. L’articolo 9, commi a e b, dele-
ga poteri speciali all’esecutivo per fronteggiare gli arabi che intendono ri-
buttare subito gli ebrei a mare. Emergenza tuttora in vigore. Da tre gene-
razioni gli israeliani vivono in lunghe tregue fra uno scontro e l’altro con
nemici variabili come gli amaleciti. Mai in pace. Da due occupano terri-
tori strappati agli arabi nel 1967, dove si sono insediati mezzo milione di
ebrei sponsorizzati dai vari governi, anche laici e di sinistra, onde stron-
care l’ipotesi dei due Stati, ritornello delle anime belle. O solo pigre.
Israele sopravvive alla giornata. Confida nelle bombe atomiche che
non dichiara, nella potenza delle Forze di difesa (Idf), nelle supertecno-
logie e soprattutto nella protezione americana, con i molti alti e gli at-
tuali bemolle (carta 1). Sposa la tattica del «cane pazzo» cara al genera-
le Moshe Dayan, il riconquistatore di Gerusalemme. La strategia di Isra-
ele è di non averne, altrimenti che «cane pazzo» sarebbe. In modalità di
deterrenza senza limiti.
Noi europei, inversamente apocalittici perché postulanti la pace per-
petua, quindi altrettanto astrategici, siamo refrattari al combattimento.
8 Osserviamo con disgusto il mondo alla rovescia che infiamma il nostro
LA NOTTE DI ISRAELE

1 - IL NUCLEARE ISRAELIANO L I B A N O

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S I R I A
M a r
M e d i t e r r a n e o Alture
del
Golan
(annesse
Yodfat da Israele)
Possibile sito di allestimento
e smaltimento di armi atomiche La g o d i
Tib er ia d e
Haifa Eilabun
Centro per le tecnologie Possibile sito
nucleari militari di stoccaggio

Tel Aviv
Ci sg i or d a n i a
Soreq Nuclear Research Center
Reattore e sviluppo armi
G I O R D A N I A

GERUSALEMME
Possibile sito di stoccaggio Tirosh

Mar
S tr is c ia M o rt o
d i Ga z a

I S R A E L E
Mishor Rotem
Centro chimico
Dimona e deposito di uranio
E G I T T O
Reattore nucleare

estero vicino, percepito alieno. Ma per molti ebrei israeliani i pazzi sia-
mo noi (non per i diasporici, altrimenti sarebbero a Gerusalemme).
Quel che ci pare suicidio a tappe, per i difensori in armi dello Stato
ebraico è benedizione. Si vive un giorno alla volta. La morte è dentro la
vita. L’orizzonte non esiste. Il nuovo antisemitismo eccitato dalla guerra 9
LA SAGGEZZA DI TUCIDIDE

perpetua rimastica i terribili stereotipi del passato a partire da questo


sentimento antipodale. Razzismo da progressisti inferociti.
La sconfitta del 7 ottobre è figlia del narcisismo di Israele. Gerusalem-
me immaginava che mantenere Õamås nella gabbia di Gaza a libro paga
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mensile con soldi qatarini trasferiti via Mossad e servizi egiziani fosse
garanzia di tregua infinita. Tanto che nella zona del massacro restavano
di guardia esigui drappelli di giovanissime reclute, per lo più soldatesse.
Perché sprecarvi i migliori reparti, schierati in Giudea e Samaria a dispo-
sizione dei coloni? I gaziani erano presunti subumani, incapaci di sfidare
Tzahal. Pregiudizio tragicamente smentito dall’incursione di migliaia di
palestinesi a caccia di ebrei da catturare o trucidare (carta 2). La rappre-
saglia senza quartiere molto deve al dolore di una superiorità umiliata.
C’erano alternative alla strage di palestinesi che in poche settimane
ha quasi cancellato il 7 ottobre nella comunicazione pubblica del resto
del mondo, amici di Israele inclusi? Assolutamente sì. Testimoniate dagli
scontri quasi fisici nel gabinetto di guerra, domati con ammirevole ca-
parbietà da Netanyahu, senza dubbio fra i più spregiudicati e talentuo-
si politici del nostro tempo. Per esempio, si sarebbero potuti anticipare gli
assassinî mirati dei capi di Õamås e Õizbullåh, dopo aver stretto d’asse-
dio Gaza, con incursioni di commando per salvare gli ostaggi e scompa-
ginare Õamås. Salvo penetrare nel Libano meridionale per disarmare
Õizbullåh come prescritto dalla risoluzione Onu 1701 che la missione
Unifil non avrebbe mai applicato. E scatenare la guerra civile a Beirut
per scalzare il Partito di Dio. Così fratturando il corridoio imperiale per-
siano (carta a colori 2) tenendo agganciati gli Stati arabi interessati ai
patti di Abramo nella coscienza che nessuno intende morire per i pale-
stinesi, ai quali tutti applicano il dogma «usa e getta» sulla base dei ri-
spettivi interessi. Gerusalemme si sarebbe in tal modo garantita l’appog-
gio totale degli Stati Uniti, con europei a rimorchio. E avrebbe ridotto a
temporale d’agosto il diluvio mediatico anti-israeliano.
L’errore voluto di Netanyahu è stato bollare minaccia esistenziale
l’orrore del Diluvio di al-Aqâå. Nemmeno Õamås fosse per conquistare
Gerusalemme. Golda Meir, Iron Lady del laburismo eroico, confidava
che dopo l’Olocausto Israele può permettersi tutto. Bibi ne applica il mot-
to al 7 ottobre. Un tempo si sarebbe gridato al sacrilegio. Dopo che lui
stesso ha attribuito al muftì di Gerusalemme l’idea di annientare gli
ebrei, sicché Hitler ne sarebbe solo l’autore materiale, qualsiasi gioco
10 con la storia diventa lecito. Netanyahu si è dato mano libera per scate-
LA NOTTE DI ISRAELE

2 - L’OPERAZIONE DILUVIO DI AL-AQSĀ Ashkelon


La carta illustra i primi due giorni del conflitto (7-9 ottobre),
quindi l’attacco a sorpresa di Ḥ amās e l’iniziale reazione delle
forze israeliane. Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Massima estensione dell’avanzata militare di Hamās


. in
territorio israeliano il 7 ottobre Zikim
Combattimenti intorno a Gaza (7-9 ottobre) Karmia
Comunità evacuate dalle forze israeliane Netiv HaAsara
Barriera fortificata Yad Mordechai

Bayt Lāhyā Erez


Incursioni di Hamās: Or HaNer
. Bayt Hānūn
.

o
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Gaza Sderot
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Be’eri Netivot
Dayr al-Balah.
Località del festival Supernova
Kissufim Kissufim Re‘im

Ein HaShlosha
I S R A E L E
Hān Yūnis Nirim

Magen Ofakim
Rafah.

Sūfa
. Nir Oz

Rafah.
EGIT TO Nir Yitzhak Valichi di frontiera
Holit Sufa
Kerem Shalom Chiusi
Kerem Shalom Tze’elim Aperti fino
al 7 ottobre 2023
Fonti: Le Monde; Reuters

nare la guerra senza regole contro qualsiasi nemico conclamato o pre-


sunto, a partire dai civili palestinesi di Gaza, per spianare il terreno da
occupare. E mai più abbandonare. 11
LA SAGGEZZA DI TUCIDIDE

Grafico 1 - EBREI ISRAELIANI CHE NUTRONO UN’ALTA FIDUCIA


NELLE IDF E NELL’AVIAZIONE MILITARE (in %)

89,5
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100 91,5 91 93 91 87 91 91 88 88 89
86 82 84 83
78 79
80 87
78 78 76
60
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16

30
29

12

19

26

10

17

Idf Aviazione

Fonte: Inss

Israele si dedica a massacrare decine di migliaia di gaziani in quanto


«animali» – voce del ministro della Difesa, il moderato Yoav Gallant (non
risultano proteste degli animalisti) 4. Il laburista Yitzhak Herzog, ininfluen-
te capo dello Stato, aggiunge: «È quella intera nazione che è responsabile.
(…) Non è vera la retorica per cui i civili non sono consapevoli, non sono
coinvolti. Non è assolutamente vero. Avrebbero potuto insorgere» 5. Il cosid-
detto «piano dei generali» attribuito a Giora Eiland, nutrito di impliciti rife-
rimenti ad assedi biblici, tira le somme. Gaza va sigillata, distrutta e ripuli-
ta di ogni presenza «animale» sezione dopo sezione, da nord a sud. Agli
abitanti si danno i dieci giorni per scegliere se arrendersi o morire di fame.
Nella speranza che molti tra loro sfondino il muro egiziano a Rafaõ e dila-
ghino nel Sinai. Qui Israele contribuirebbe a righettizzarli finanziando de-
positi di palestinesi affidati alla vigilanza del Cairo 6. Infine, la Stella di
Davide risplenderà su Gaza riannessa, ricostruita e arricchita di basi mili-
tari. Danno collaterale: con queste stragi Israele si è garantito per genera-
zioni leve di giovani terroristi/patrioti palestinesi assetati di sangue ebraico.
Per chi di mestiere si vota all’analisi, la cesura antropologica che
esclude la pari umanità del nemico, premessa della guerra senza fine, è
4. E. FABIAN, «Defense Minister Announces “Complete Siege” of Gaza: No Power, Food or
Fuel», The Times of Israel, 9/10/2023.
5. P. BLUMENTAL, «Israeli President Suggests That Civilians In Gaza Are Legitimate Targets»,
Huffpost, 13/10/2023.
6. «Israel’s “Generals” Plan explained: Controversial strategy to “starve” Gaza civilians until
12 Hamas surrenders», The Week, 12/10/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

Grafico 2 - EBREI ISRAELIANI CHE NUTRONO UN’ALTA


FIDUCIA NELLA CLASSE DIRIGENTE ISRAELIANA (in %)

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74 78
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69 69 68 65
59 65 63 63
60 58 53 56
52 49,5 46 57
45
39 35 37
40

31 35 31 30
20 28 28 30 27 30 28 29
26

0
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3/1

10

16

20

13

21

11

16

30
29

26

10

17

24

Premier Binyamin Netanyahu Ministro della Difesa Yoav Gallant Capo di Stato maggiore delle Idf Herzl Halevi

Fonte: Inss

sfida morale e intellettuale. La geopolitica ci aiuta a compensare questo


iato perché non ammette verità assolute, tantomeno distribuisce patenti di
eticità. È esercizio di modestia. Di affetto per i soggetti che studia, onde
intuirne intenzioni e capacità. Empatia per l’altro, soprattutto se avverso.
Quel che latita nelle élite che reggono lo Stato ebraico, non solo nell’ala
nazional-religiosa del gabinetto di guerra. Oltre a una opposizione inti-
midita e senza leader, restano robuste eccezioni nell’intelligence – in Mos-
sad (estero) e Shin Bet (interno) più che in Aman (militare) – e in parte
delle Forze armate, atterrite dal nichilismo del premier. Le Idf godono del-
la fiducia di nove ebrei israeliani su dieci contro i meno di quattro che
apprezzano Netanyahu, mentre tre su quattro sono convinti che i soldati
di Israele vinceranno la guerra di Gaza (grafici 1,2,3).

2. C’è una ragione indicibile che spinge Israele a rischiare il sacrifi-


cio di sé. Il terrore della guerra civile. La guerra esterna serve quantome-
no a rinviarla. Nell’equazione bellica non sono considerate le ricadute
sulla diaspora, minacciata in terre infedeli e talvolta complici dalla fu-
ria antisemita, sequenza ultima dell’antisionismo predicato anche da
una minoranza ebraica. Si nega così il principio stesso dello Stato di
Israele protettore di tutti gli ebrei. Il suicidio è già mezzo compiuto. 13
LA SAGGEZZA DI TUCIDIDE

Limes ha da tempo indagato i prodromi dell’emergenza domestica,


manifesti nella crescente alterità fra le tribù dello Stato ebraico – ultimo il
volume «Israele contro Israele» 7. Crisi estremizzata nelle manifestazioni di
ultraortodossi che agitano la bandiera palestinese urlando «nazisti!» in
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

faccia ai poliziotti di un’entità per loro blasfema. In attesa del giorno del
giudizio, ossia della sentenza della commissione d’inchiesta sul 7 ottobre
che Netanyahu promette ma non forma, visto che lo condannerebbe al
ludibrio, se non al carcere. Altro argomento a favore della guerra infinita.
Avevano visto lungo i capi di Õamås pronti a sfruttare la disunione
degli israeliani per colpirli da Gaza. Ma forse nemmeno i più scatenati
fra gli odiatori dello Stato ebraico erano disposti a considerare che Ge-
rusalemme sarebbe caduta nella trappola al punto di rinnegare i co-
mandamenti cui aveva legato il suo destino. Dai fondatori in avanti, i
suoi leader politici e militari ne avevano praticati sette.
Primo. Il «cane pazzo» può permettersi solo conflitti brevi, causa esi-
guità demografica e territoriale. L’attuale ha già strabattuto il record
della guerra di indipendenza, tra maggio 1948 e marzo 1949. Per il
resto, l’orizzonte bellico è sempre stato di settimane, se non giorni.
Secondo. Il nemico va diviso. Netanyahu l’ha invece coalizzato
aprendo finora sette fronti: Gaza, Libano, Giudea e Samaria, Siria, Iraq,
Mar Rosso (cruciale per la nostra connessione all’Oceano Indiano, via
Båb al-Mandab, carta 3 e carte a colori 3 e 4) province della Repubblica
Islamica, con cui ingaggia il duello decisivo. Tutti i fronti restano aperti
mentre Netanyahu minaccia di tagliare la testa del serpente iraniano e
chiama il «nobile popolo persiano» a rovesciare il regime dei pasdaran.
Terzo. E implicito. L’Iran non va distrutto. È il nemico perfetto. Dun-
que alleato in quanto contribuisce alla causa di Israele quale Male asso-
luto che minaccia di distruggerlo, mentre è deciso a preservare l’«entità
sionista» intorno a cui stringere la catena dell’odio islamico e del revan-
scismo arabo-palestinese. E naturalmente viceversa. Manipolazioni sim-
metriche forse scadute dopo il 7 ottobre e i reciproci attacchi diretti sul
suolo avversario, in una spirale che può finire fuori controllo malgrado le
intenzioni di chi l’ha finora gestita. Oggi persino i sauditi escludono che i
patti di Abramo siano praticabili, in attesa che la tempesta si calmi e Isra-
ele inventi uno stratagemma per salvare la finzione dello staterello palesti-
nese (carta a colori 5).
14 7. Limes, 3/2023, «Israele contro Israele».
LA NOTTE DI ISRAELE

Grafico 3 - EBREI ISRAELIANI SECONDO I QUALI


LE IDF VINCERANNO LA GUERRA DI GAZA (in %)

100
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92 90
88 88 89 86
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80 75
68 68 70
64 66
70 61
60
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40
27
30 22
19
18 18 17,5
20 12 10 13 13 12 13
8 8 8 6 8
10 4 15 14 14 15
11 12 12,5 11
0 7 9
6
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30
15

22

29

12

10

17

Vinceranno sicuramente Forse non vinceranno/Non vinceranno Non sa

Fonte: Inss

Quarto. E conseguente. Netanyahu ha puntato tutto sull’intesa con le


petrodittature del Golfo e altri vicini arabi, per stabilire una cintura di si-
curezza attorno a Israele in nome della comune avversione per l’Iran. Solo
in parte formalizzata ma stabilizzata fino a prima delle Spade di Ferro.
Quinto. E strategico. Gli Stati Uniti d’America sono e debbono resta-
re la garanzia ultima della sicurezza di Israele. La diaspora americana
va coltivata per contribuire a questo scopo, insieme ai sionisti cristiani
di matrice evangelicale, squisitamente apocalittici. Aspettando l’ultimo
giorno, quando Gesù farà rientro in patria, riconosciuto Messia dal suo
popolo. Ma subito dopo il massacro attorno a Gaza Netanyahu ha re-
spinto l’invito di Biden a «non ripetere i nostri errori», a respingere la
tentazione della guerra al terrorismo in stile afghano e iracheno, da cui
umiliazioni e crisi di credibilità del Numero Uno. In attesa del cambio
della guardia alla Casa Bianca, le relazioni fra Washington e Gerusa-
lemme beccheggiano. In Israele vige sempre l’interpretazione sportiva
che Moshe Dayan, l’eroe dei Sei giorni, amava dare del vincolo a stelle e
strisce: «Gli americani ci offrono soldi, armi e consigli. Noi prendiamo i
soldi, le armi e rifiutiamo i consigli».
Sesto. E dirimente. Finora i governi israeliani hanno accettato di
negoziare con i terroristi scambi di prigionieri, fino a un ebreo contro 15
LA SAGGEZZA DI TUCIDIDE

più di mille palestinesi. Come nel caso di Gilad Shalit. Per il quale Israe-
le aveva liberato Yaõyå Sinwår, futuro architetto del 7 ottobre e capo di
Õamås a Gaza. Forte di questa e altre lezioni, Netanyahu ha allestito un
teatro di finti negoziati asseritamente destinati a liberare gli ostaggi in
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

mano a Sinwår, curando che fallissero. Con ciò ha scatenato la protesta


dei parenti e dei molti israeliani che solidarizzano con loro. L’esigenza
tattica prevale sul principio ebraico e umanitario violato da questo go-
verno. La protezione della vita di ogni singolo ebreo non è più dogma.
Settimo. E decisivo. Il mantra di Gerusalemme è la deterrenza. Ha
funzionato, eccome, con gli Stati arabi e – meno – con l’Iran. Ovvero con
gli ex avversari ormai addomesticati e interessati alle tecnologie, agli ar-
mamenti e al fiorire dei commerci con lo Stato ebraico, nel caso iraniano
dediti solo al teatro dell’inimicizia. Non può funzionare con i terroristi,
altrettanto apocalittici e agitati da frenetica vocazione al martirio.
La guerra al terrorismo, ovvero alla modalità bellica di norma adot-
tata dal debole contro il forte, esclude la deterrenza. A meno di terroriz-
zare i terroristi. O di sterminarli tutti.
Valga un riferimento a Tucidide, Bibbia laica dei neoconservatori
americani e dei loro omologhi israeliani, innamorati dell’elogio della
guerra preventiva che vogliono trovare in quel capolavoro di duemila
anni fa. Uso selettivo della storia in spregio del contesto, esercizio assai
di moda. Peccato che della Guerra del Peloponneso non citino un passo
illuminante. Tratto dal discorso dell’ateniese Diodoto figlio di Eucrate
sul mettere o meno a morte tutti i maschi adulti di Mitilene, alleato ribel-
le: «È semplicemente impossibile, e chi lo pensa dà prova di grande stol-
tezza, che la natura umana, quando sia protesa con tutte le forze a
raggiungere un obiettivo, ne possa venir dissuasa (…) per timore di
qualcos’altro» 8.
C’è ai vertici di Israele chi si rende conto del tunnel apocalittico im-
boccato ma non vi si rassegna. Sconta riparabile l’autoisolamento dal
resto del mondo, recuperabili ed estendibili gli accordi di Abramo. Consi-
dera serio il rischio di guerra civile, però limitabile con l’unica vittoria
oggi possibile: definire le frontiere di Stato riducendo con le cattive la
quota di arabi in Giudea, Samaria, Gaza, da evacuare forzosamente in
Giordania ed Egitto a suon di dollari. Quindi annettere quelle porzioni di
Terra santa e battezzare un Grande Israele ridotto ma relativamente sicu-
ro. Così estinguere il «cerchio di fuoco» acceso da Teheran attorno al foco-
16 8. TUCIDIDE, La guerra del Peloponneso, Milano 2018, Rizzoli.
LA NOTTE DI ISRAELE

3 - MAR ROSSO MERIDIONALE 900


Isobate N
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Ğabal al-Tayr
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Golfo di Aden
42° E 12° N 45° E

lare ebraico, senza illudersi di rovesciare il regime dei Guardiani della


rivoluzione. Tutto nel giro di mesi perché il tempo è contro Gerusalemme.

3. Il Grande Israele (Hashlemà Yisra’el) è teologia geopolitica dai


molti usi. Premessa: il diritto degli ebrei al proprio Stato su tutta la Terra
di Israele è decreto divino. Ma qual è questa Terra? Tormento ed estasi
dei rabbini che interpretano il Libro per trarne i limiti del sacro regno a
venire. Ascoltiamo la Bibbia. Alfa e omega dei progetti nazionalreligiosi.
Obbligo partire da Genesi 15:18. Il Signore stringe un patto con
Abramo: «Io do alla tua discendenza questa terra, dal fiume d’Egitto,
fino al gran fiume, il fiume Eufrate». Qui «scorre latte e miele» (Esodo 17
18
4 - LA CONCESSIONE REALE AD ABRAMO
LA SAGGEZZA DI TUCIDIDE

Mappa a cura di Clarence Larkin, contenuta nel libro The Book of Revelation: A Study of the Last Prophetic Book of Holy
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Scripture, basata su riferimenti biblici (Genesi, 15: 18-21) e su interviste dell’autore con gli abitanti della zona (1919).
LA NOTTE DI ISRAELE

3:8). Dallo spazio fra Nilo ed Eufrate – oggi dall’Egitto all’Iraq – con vi-
sta su Mediterraneo, Mar Rosso e Golfo Persico, nello stesso Genesi (17:8)
si precipita all’intimità della terra di Canaan, intesa tra Dan, presso le
Alture del Golan, e Beer Sheva, deserto del Negev. Meno dell’Israele pro-
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per internazionalmente riconosciuto. Ma pur sempre patrimonio di


Abramo (carta 4) 9.
Poi però Dio conforta Giosuè: «Passa questo Giordano, tu e tutto que-
sto tuo popolo, verso il paese che io sto per dare a loro: ai figli di Israele.
Ogni luogo dove si poserà la pianta dei vostri piedi l’ho designato per voi,
come ho detto a Mosé. Il vostro territorio andrà dal deserto al Libano,
sino al fiume grande, il fiume Perat, tutto fino al Mare Grande, all’occi-
dente» (Giosuè 1:4). Posto che Perat sia l’Eufrate, non stupiamo quando
un estroverso capo ultrà del sionismo religioso, il ministro delle Finanze
Bezalel Smotrich, assicura: «È scritto che il futuro di Gerusalemme è di
espandersi a Damasco» 10. Riscatto del dominio di Damasco su Gerusa-
lemme, quattordici secoli fa (carta 5). Della teogeopolitica affascina il
servizio à la carte senza carte. Almeno fin quando un fortunato biblio-
logo non s’imbatterà nell’appendice cartografica del Libro.
I sionisti coltivano ambizioni discordanti ma tendono al pragmati-
smo. Le loro carte geopolitiche offrono latitudine all’interpretazione. Ga-
ranzia di flessibilità. I più pratici sono coloro che si vogliono strettamente
ispirati ai testi sacri e alle tradizionali interpretazioni certificate (mi-
drash). Mentre laici e agnostici dibattono sul Grande Israele, questi lo co-
struiscono pezzo a pezzo avanzando in Giudea e Samaria (Cisgiordania)
o in Libano, per tornare domani a Gaza e oltre (carte a colori 6, 7, 8).
Tradotto: Israele è quello che decido io. Dove è un ebreo lì è Israele. Ideo-
logia, teologia o miscela di entrambe, il principio operativo dei sionisti
religiosi – cui agilmente attingono non credenti – esclude che qualsiasi
autorità non giudaica possa reggere Eretz Yisra’el in tutto o in parte.
Rimettiamo i piedi per terra. Presa sul serio, l’equazione ebreo=Israele
imporrebbe al governo di Gerusalemme di non toccare i coloni che si
insediano nei Territori contesi (occupati, nella dizione onusiana, israe-
liani per chi li percorre). Esempio. Nel 1994 all’ex premier Yitzhak Sha-
mir (Likud) è chiesto di pronunciarsi sulla sentenza di tre rabbini, ri-
spettati esponenti del sionismo religioso, che proibisce ai soldati israelia-

9. Per approfondire, cfr. P. PINCHAS PUNTURELLO, «I confini di Israele secondo la Bibbia», Limes,
10/15, «Israele e il Libro», pp. 69-76,
10. Così nel documentario di Arte «Israel, extremists in power», YouTube. 19
LA SAGGEZZA DI TUCIDIDE

ni di evacuare i coloni da Hebron dopo il massacro di musulmani per-


petrato da Baruch Goldstein presso la Cava dei Patriarchi. Risposta: «È
fuori questione, qui e in ogni altra circostanza. Se un comandante des-
se a un soldato l’ordine di uccidere padre e madre, costui dovrebbe forse
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

obbedire? Evacuare ebrei dalla patria equivale a uccidere madre e pa-


dre» 11. Concetto ripreso dall’ultradestra al governo. Sicché i coloni più
disinibiti si impadroniscono di terre palestinesi contando sull’appoggio
di poliziotti e militari selezionati in ambito religioso, che affiancano le
proprie milizie irregolari in via di speditiva regolarizzazione. I confini
di Israele cambiano mentre scriviamo.
Uno Stato qualsiasi può contrattare le sue frontiere. Per gli ultrà del sio-
nismo biblico il popolo eletto non è abilitato a negoziare sulla Terra eletta.
L’altalena fra visioni religiose e sperimentazioni laiche agita Israele.
Ne segna la costante provvisorietà. Impedisce di comporre il triangolo
Terra-ebraicità-democrazia. Di questi lati se ne possono combinare solo
due. Problema: un piano su due gambe non sta in piedi. Ce ne vogliono
almeno tre. Qui ce ne sono due. Terra ebraica, non democratica, o terra
democratica, non solo ebraica. Instabilità assicurata. Superabile solo
quando Gerusalemme disegnerà lo spazio che intende governare e ne
deriverà il carattere democratico per tutti o solo per gli ebrei che vi si ri-
conosceranno (non gli ultraortodossi in fervore apocalittico). Oppure
rinuncerà alla democrazia. Oggi lo Stato di Israele appare democratico
agli ebrei ed ebraico agli arabi, specie se cisgiordani – di Gaza taccia-
mo. Di certo, più ampio il territorio – anche solo il piccolo Grande Isra-
ele che annettesse Giudea e Samaria – meno plausibile il triangolo.
In attesa di fissare confini e regime politico Israele resta provisorium.
Almeno fin quando tra Fiume e Mare abiterà una corposa popolazione
araba dai diversi gradi di relazione con la nazione ebraica in rapida
ritribalizzazione. In tre stadi: cittadinanza a scartamento ridotto per i
palestinesi di Israele; residenza permanente ma revocabile per gli abi-
tanti di Gerusalemme Est, senza diritto di voto nazionale; giurisdizione
militare per i cisgiordani, a loro volta divisi fra élite relativamente bene-
stanti di stampo mafioso e plebe sofferente, esposta all’arbitrio degli oc-
cupanti. Salvo eccezioni, gli ebrei con cui gli occupati incrociano lo
sguardo sono controllori in armi e coloni impegnati ad estendere le loro
proprietà più o meno illegittime. Il rapporto dei coloni con gli indigeni è
11. Cfr. A. NAOR, Greater Israel: Theology and Policy, Haifa 2001, Haifa University & Zmora-
20 Bitan (originale in ebraico), p. 12.
LA NOTTE DI ISRAELE

5 - CHI HA GOVERNATO GERUSALEMME


Mare
del Nord
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Londra
1917 d.C.

Bisanzio
Costantinopoli
324 d.C. e 629 d.C. Mar
Roma 1517 d.C. Caspio
63 a.C. Pella 323 a.C.

Antiochia
198 a.C.
Aleppo 1249 d.C.
Mar Mediterraneo Damasco 660 d.C. Baghdad 750 a.C.
GERUSALEMME
Babilonia 587 a.C.
Susa 539 a.C.
Alessandria 320 a.C. Kerak 1239 d.C.
Il Cairo 878 d.C., 1098
1260 d.C. ol

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Tebe 320 a.C.
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Ro
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Confini attuali

nella risposta che uno di loro, Moshe Sharvit, oppone al rifiuto di un


arabo cisgiordano di cedergli i suoi pascoli, almeno fin quando il gover-
no, il giudice o la polizia non lo obbligassero: «Io sono il governo, il giu-
dice, la polizia» 12. Un rapporto governativo del 2005 informa che «sono
i coloni a stabilire lo schieramento dell’esercito nei territori, non l’eserci-
to» 13. Ora però la crisi sta precipitando. Questo agosto il capo dello Shin
Bet, Ronen Bar, ha sentito il dovere di scrivere a Netanyahu che il «terro-
rismo ebraico» della Gioventù della Collina, violento gruppo squadristi-
co attivo negli insediamenti, sfida la sicurezza nazionale ed è «una
grande macchia per il giudaismo» 14.
Per alcuni siamo all’apartheid. L’elefante nella stanza, come vuole il
manifesto firmato da ebrei americani e israeliani avversi all’occupazione,

12. J. TACCHI, Z. AL-QATTAN, E. NADER, M. CASSEL, «Extremist settlers rapidly seizing West Bank
land», Bbc Eye Investigations, 3/9/2024.
13. «Stemming Israeli Settler Violence at Its Root», International Crisis Group, 6/9/2024.
14. Cfr. M. ZONSZEIN, «Israel’s Hidden War», Foreign Affairs, 15/10/2024. 21
LA SAGGEZZA DI TUCIDIDE

dipinta fotocopia della segregazione di candida marca boera 15. Rincara


Tamir Pardo, ex capo del Mossad: «Un territorio in cui due persone vengo-
no giudicate secondo due sistemi giuridici è uno Stato di apartheid» 16.
Bollo polemico – come tutte le analogie che essenzializzano epperciò de-
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turpano la storia – che qui stigmatizza la disparità di rango e qualità


della vita fra ebrei e non ebrei nello Stato nazionale ebraico. Stigma raf-
forzato dalla terrificante rappresaglia seguita alla strage del 7 ottobre. Al
triangolo occorre ormai aggiungere un quarto lato. Concerne la legittimi-
tà internazionale di Israele, mai così (auto)isolato. Israele Stato aperto o
Stato chiuso al resto del mondo? L’entità che avrebbe voluto emancipare il
giudeo dal ghetto minaccia di involvere in Grande Ghetto.
Esiste un’alternativa radicale che aggira il dilemma del triangolo.
Evacuare i palestinesi dal piccolo Grande Israele. Quanto meno ridurne
numero e velleità in modo da garantirsi un grado di tranquillità inter-
na, nel contesto della convivenza con gli altri Stati della regione. Il tema
è sul tavolo dal 1967 e sarà deciso in un modo o nell’altro al termine
della partita in corso. La vittoria nella guerra dei Sei Giorni che ha ri-
portato a casa tutta Gerusalemme, capitale eterna di Israele, oltre a Giu-
dea e Samaria, poi il fallimento dei negoziati di pace con l’Olp di Arafat
e successori confinati a Ramallah nel quartier generale dell’Autorità na-
zionale palestinese, invitano a sciogliere una volta per tutte il nodo pa-
lestinese. A rischio di strangolarsi.
L’obiettivo massimo per Gerusalemme è incassare la dote senza la
sposa. Giudea e Samaria per soli ebrei. In termini meno irrealistici, con
una minoranza arabo-islamica addomesticata. E molto minoritaria. Il
resto da respingere non si sa dove, a meno di installare regimi compia-
centi al Cairo, Amman e negli altri paesi della regione, che di palestine-
si non vogliono sentir parlare ma potrebbero disporsi a recluderli in
spazi sorvegliati dietro rabbocco in moneta. Come nei campi profughi
bombardati dall’Idf. Da una segregazione (hafrada) all’altra.
La conquista delle colline bibliche rende obsoleta la Linea verde, limite
informale dello Stato di Israele dopo il trionfo nella guerra davvero esisten-
ziale del 1948-49 contro i regimi arabi che speravano di soffocarlo nella
culla. Omissione invita colonizzazione. Culmine della tattica dei fatti com-

15. Cfr. J. ABUSALIM, «The Elephant in the Room: Addressing the Ignored Reality in Israeli
Protests», The Jerusalem Fund, 10/8/2023.
16. «“There Is an Apartheid State Here”: Ex-Mossad Chief on Israel’s West Bank Occupa-
22 tion», Haaretz, 6/9/2023.
LA NOTTE DI ISRAELE

piuti cara a Israele.


Omaggio al postulato
di Golda Meir: «La fron-
tiera è dove vivono gli
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

ebrei, non dove c’è un


segno sulla mappa» 17.
Per sicurezza, meglio
eliminarne ogni trac-
cia cartografica. Già
nell’ottobre 1967 il ga-
binetto israeliano sta-
bilisce in segreto di
abolire la Linea verde
1. Netanyahu illustra una mappa di Israele
dal Fiume al Mare dalla mappatura uffi-
ciale e ufficiosa. Da al-
lora il confine orientale dello Stato resta vago, con la nuova frontiera di
fatto presentata come provvisoria linea di cessate-il-fuoco nelle carte gover-
native, titolate «Israele», non «Stato di Israele». Potenza della semantica.
«Dobbiamo scansare i sospetti di annessione o simili», osserva il ministro
Yigal Allon. «Non dovremmo manifestare le nostre intenzioni espansioni-
ste», echeggia il collega Moshe Dayan. Glossa Menachem Begin: «Non con-
cordo con il termine “espansione” mentre rifiuto la parola “occupazione”.
Fraseologia davvero misera». Il primo ministro Levi Eshkol riassume: «Sap-
piamo tutti perché una sposa sta sotto il baldacchino nuziale (chuppah),
ma non ne parliamo» 18. Risultato: salvo eccezioni, le carte israeliane esclu-
dono la Linea verde o la tratteggiano quasi invisibile. Resta Israele dal Fiu-
me al Mare. Quello che Netanyahu esibisce sfondo cartografico delle sue
orazioni multimediali (foto 1). Piccolo Grande Israele.
Non sappiamo se, quando e come Gerusalemme raggiungerà questo
obiettivo. Siamo però certi che il ritorno a casa di Giudea e Samaria,
con il minor numero di spose possibile, sarebbe trattato dalle correnti
più estreme del nazionalismo religioso quale tappa verso un Israele mag-
giore, piluccando questo o quel brano del Libro. Alternative?

4. Un giorno temiamo lontano la storia prenderà congedo dalla tra-


gica ipocrisia dei «due popoli, due Stati». Per manifesta impraticabilità.

17. Cfr. «Israel’s next war?», PBS Frontline, 5/4/2005.


18. A. RAZ, «Why Israel Secretly Decided to Erase the Green Line», Haaretz, 9/9/2022. 23
LA SAGGEZZA DI TUCIDIDE

Seguirà cambio di paradigma.


Se Israele sopravvivrà a sé stesso e se
non virerà in entità di e per il solo
popolo ebraico, l’utopia dello Stato
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

unico potrebbe avvicinarsi alla re-


altà. Ne risulterebbe un Grande
Israele davvero israeliano. A misura
di tutti i suoi cittadini. Ebrei e ara-
bi. Purché i primi siano maggioran-
za. Altrimenti non della casa ebrai-
ca si tratterebbe, ma di Stato bina-
zionale a prevalenza araba. Molto
2. Ze’ev Jabotinsky più utopico (distopico) dei due Stati.
(Odessa 1880 – New York 1940) Inaccettabile dagli ebrei quindi
inaccessibile per i palestinesi, salvo
fossero capaci di una Nakba (Catastrofe) a rovescio, come quella di cui
furono vittime centinaia di migliaia di ebrei espulsi dagli Stati arabi
subito dopo la nascita di Israele 19.
Lo Stato unico democratico fondato sul principio di cittadinanza
non è idea della sinistra sionista, come forse immaginano ingenue men-
ti occidentali, ma ipotesi coltivata prima della nascita di Israele da un
peculiare ramo della destra nazionalista. Meglio, dalla sua ormai esau-
sta corrente nazional-liberale. Il cui padre nobile è Ze’ev Jabotinsky det-
to «Jabo», ebreo russo nato Vladimir Evgen’evi0 Žabotinskij nella cosmo-
polita Odessa del 1880, morto nell’ancor più multietnica New York del
1940 (foto 2). Personalità eccezionale, cui sarebbero erette statue e me-
moriali nel futuribile Israele di tutti gli israeliani. In tal caso l’ebreo po-
lacco David Ben Gurion, al secolo David Grün, patriarca dell’Israele
reale, leader autorevole quanto autoritario della sinistra marxisteggian-
te, si rivolterebbe nella tomba. Quando Menachem Begin, capo del par-
tito di destra Herut, gli propone di seppellire il suo maestro Jabotinsky in
Eretz Yisra’el, Ben Gurion oppone: «Lo Stato ha bisogno di ebrei vivi» 20.
È fuorviante comprimere la figura di Jabotinsky nella tassonomia de-
stra/sinistra, scolorita in politica e inadatta a stabilire uno spartiacque in

19. Cfr. E. HAZAN, «Quella “Nakba ebraica” del tutto dimenticata. Fino a oggi», Israel Hayom,
28/11/2013, tradotto in www.israele.net, 8/2/2013.
20. Cfr. A. SHILON, «The Jabotinsky Paradox», Mosaic Magazine, 2/8/2021, cui ci rifacciamo
24 per la sua originale ricostruzione della parabola di «Jabo».
1 - LA TERRA D’ISRAELE
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Fonte: «Terra di Israele. Questo è il paese che apparterrà a voi», Keren Kayemet LeYisrael, Gerusalemme 1936
2 - L’IMPERO PERSIANO E I SUOI RUSS A
FED.NEMICI KIRGHIZISTAN
UZB EKI STA N

M
GEORGIA

ar
C I N A

AR
Ankara AZERBAIG. TAGIKISTAN

Ca

ME
TURCHIA TUR KMENISTAN

NIA
4

spio
Mar M
edit SIRIA Kabul
err
an LIBANO
eo Beirut Damasco IRAQ Teheran Herāt Islamabad
(perno del corridoio
LIB IA ISRAELE imperiale)
AFGHANISTAN
GAZA Amman Baghdad PAKISTA N I N D I A
IRAN
Il Cairo 5
EGI T TO GIORDANIA
Siria IMPERO PERSIANO

Go
Area sotto il controllo KUWAIT Possibile

lfo
governativo Pe blocco
r sic di Hormuz Corridoio imperiale
o
Esercito turco e miliziani BAHREIN
antiregime tra cui jihadisti 4 Sfera d’influenza iraniana
QATAR Dubai
Area sotto il controllo Paesi pseudo-amici
delle Forze democratiche Export di petrolio
siriane (Sdf) curde Abu Dhabi verso la Cina Aree di speciale influenza iraniana
Riyad E.A .U. Mascate (oltre il 90%

M
Iraq centro-meridionale
Aree sotto controllo del totale)
A RA BIA SAUD I TA Area governativa in Siria

a r
dello Stato Islamico
OMA N
NEMICI DELL’IMPERO Yemen del Nord (hūtī)
. -

R
Esercito turco
PERSIANO 4 Area di insediamento

o s
Area sotto controllo Usa sciita in Arabia Saudita
5 Striscia di Gaza

s o
Asse anti-iraniano
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Forziere iraniano Separatismi interni latenti


- Contingente Usa Nemici dell’Iran
- Militari turchi Curdi Baluci
- Presenza russa Y EME N Paesi ambigui
SIRIA Guerre in corso Arabi 4 Azeri
Siria (divisioni interne) PORTI ISRAELIANI LIBANO
3 - LA CRISI DEL MAR ROSSO Principali
Forze lealiste
Minori
TU R CHI A Forze democratiche siriane *Porto per l’import
(ala siriana del Pkk) (45%)
Mar Haifa
Caspio Esercito turco (presenza diretta) di prodotti
Mersin Passaggi di frontiera strategici per
Altri miliziani il paese. Hadera
ROTTA ASIA-EUROPA Kurdistan È rimasto in
7,48 milioni di teu iracheno Stato Islamico
Ci
funzione anche
(solo il 4% ha continuato a durante
transitare nel Area sotto il controllo Usa gli attacchi Giaffa GIORDANIA
sgio

Mar Mediterraneo) Haifa I RAN terroristici Tel Aviv


Port Said Baghdad Corridoi di terra di Hamās Ashdod*
Strade alternative Ashkelon
rdania

CANALE DI SUEZ I R AQ per aggirare la crisi


nel Mar Rosso Striscia
‘Ayn Suhna Bassora (Trucknet) di Gaza
Eilat al-Fāw
-85% Development Road
(progetto iracheno)

Go
ISRAELE

l
Hafar al-Bātin fo Autostrada e ferrovia
EGI T TO Pe
rsic
al-Dammām o Progetti alternativi
Mīnā’ Salmān Dubai al Canale di Suez
Medina
Ğabal ‘Alī BEN GURION

M
Riyad Abu Dhabi SOUTHERN GATE
-74%

A R
Gedda Aeroporto (esistente)

R
SU DAN AR ABI A S AU DI TA O MAN EGITTO Ilan e Asaf Ramon
La Mecca

O
Eilat
Porto di Eilat Progetto di un canale

S S
Yemen (divisioni interne) in bancarotta di accesso per il porto

O
a causa degli nell’entroterra e per
Forze hūtī Porto Salāla attacchi hūtī l’area di movimentazione
-50% delle navi
Forze affiliate al governo yemenita
Forze di resistenza nazionale Tareq Saleh YEM EN Crisi del Mar Rosso
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Diminuzione del 33% degli scali


Forze affiliate Stc di navi portacontainer
al-Qaī(dā (Aqap) BĀB AL-MANDAB Porti in grave crisi
Forze d’élite Hadrami Golfo di Aden -50% Diminuzione degli scali nei singoli porti
Zuqar
al-Ḥanīš 4 - STRETTO DI
al-ṣaġīr
al-Hawha BĀB AL-MANDAB
al-Ḥanīš ˘ ˘
al-kabīr Yemen (divisioni interne) Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Forze hūtī
Forze di resistenza nazionale Tareq Saleh
Suyūl Ḥanīš
Haykūk Forze affiliate Stc
Arbitrato del al-Qaī(dā (Aqap)
17 dicembre 1999
Muḥabbaka Eritrea/Yemen

M a r R o s s o al-Muhā
˘

al-Muhā
Isole Fāṭma
’Asab Zona di
(Porto utilizzato separazione
sporadicamente dall’Iran) Dubāb
˘

E R I T R E A
Aden
Barīm

E
TIOPIA

Isole
al-Sawābi‘

L’Etiopia e l’autoproclamata Repubblica


del Somaliland hanno firmato un accordo
per garantire ad Addis Abeba l’accesso al mare
tramite la concessione di 20 km di costa
del Golfo di Aden. L’accordo comprende
la costruzione di una base navale militare G o l f o
etiope, ma ha anche un piano commerciale per Ūbūk d i A d e n
via della crisi nel Mar Rosso e della conseguente
difficoltà a raggiungere il porto di Gibuti.
Tāǧūra
0 50 km
G I B U T I Isole Mūšā
Gibuti



★ ‘Aybāt
Base militare italiana Sa‘d al-dīn Il porto di Gibuti figura al 26°
di supporto posto nella classifica globale
Amedeo Guillet dell’Indice Cppi 2022 e al 3°
posto per quanto riguarda il
Basi militari Usa, Italia, Giappone, Zayla‘ continente africano, dopo Tanger
Francia, Germania, Spagna, Med (Marocco) e Porto Said




Regno Unito e Cina (Egitto). È un porto
SO M A LI LA ND

Basi militari di Arabia Saudita ed Eau fondamentale per Etiopia e Sud


in costruzione e in allestimento Berbera Sudan, privi di sbocchi sul mare.
Fonti: Atlas géopolitique des espaces maritimes, Bbc, Cppi Index 2022
Ma r M edit erraneo 5 - L’ARABIA SAUDITA TRA PROGETTI E REALTÀ
ISRAELE
Gerusalemme IA
AN

RD
I R A Q

GIO
EGITTO I R A N
USA KUWAIT FED. RUSSA

G
ol
fo b ile
Tabuk Pe e sta
Trojena rsi am
Triangolo co Leg
negoziale SIRIA
BAHREIN
(Usa-Israele-Arabia S.) TURCHIA IRAN
PAESI PER QATAR
Forte legame commerciale CINA
APPROVVIGIONAMENTO
Riyad

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DEI MINERALI E.A.U.

a r
GUINEA Base Usa Lega
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Prince Sultan e in
via d OCEANO

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REP. DEM.
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liora I N D IA N O

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DEL CONGO men
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s o
A R A B I A S A U D I T A
NAMIBIA Relazioni da sempre
S U D A N tese ma in ripresa
per la sicurezza
PRIORITÀ STRATEGICHE collettiva regionale
DELL’ARABIA SAUDITA YEMEN
Mar Rosso - hūtī
. - - Golfo di Aden Y E M E N Forze hūtī
. -
Negato supporto logistico e militare ERITREA Hūtī
. - Forze affiliate
agli Usa per l’attacco contro gli hūtī
. - al governo yemenita
Socotra
Prevenire attacchi transfrontalieri e n (Yemen) Forze di resistenza
ETIOPIA nazionale Tareq Saleh
degli hūtī
. - con l’obiettivo di un A d
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

cessate-il-fuoco a lungo termine d i


Forze affiliate Stc
f o
Sicurezza delle coste orientali Contenimento GI BUTI o l Forze d’élite Hadrami
G S OMA LIA
per i piani di sviluppo nazionali dello Stato Islamico
(Città di Niyūm e progetto The Red Sea) da Siria e Iraq SOMALILAND Al-Qā(ida (Aqap)
6 - OGGI CISGIORDANIA
DOMANI GIUDEA E SAMARIA?
Area palestinese Hinanit
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Zona edificata Jenin


Area A
(Pieno controllo palestinese) Qabātiyya
.
Area B ‘Arrāba
(Pieno controllo civile delle aree
palestinesi civili e controllo congiunto
con Israele per la sicurezza) Tūbās
Tūlkarim
.
Rāmallāh
Nomi località palestinesi

Kdumim Nāblus
Qalqīliyya Argaman
Mekhora
Linea verde
Huwwāra

G I O R D A N I A
Muro costruito
Ariel
Muro in costruzione Salfīt Ma‘ale
Efraym
Petzael
Città Vecchia (Gerusalemme)

Fiume Giordano
Municipalità Netiv
di Gerusalemme HaGdud
Beit El Ofra Yitav

I S R A E L E Rimmonim
Rāmallāh
Modi‘in
‘Illit
Gerico
Area israeliana
Zona edificata Mizpe
Yericho
Area municipalizzata
GERUSALEMME Almog
Area C Ma‘ale
Pieno controllo israeliano per la sicurezza, Adumim
pianificazione e costruzione Gilo
Betlemme
Zone chiuse (zone di fuoco)
Aree chiuse esistenti e progettate dietro Beitar ‘Illit Nokdim
la barriera. L’accesso è limitato
ai possessori di permesso Sūrīf
Basi militari israeliane Bayt Fağğār
Bayt Awlā Ma‘ale
Nokdim Halhūl ‘Amos
Nomi località israeliane al-Halīl
Kiryat Arba Mar Morto

Zona di fuoco 918 Dūrā Banī Na(īm


Negohot
Yattā
Carmel
al-Zāhiriyya Ma‘on

Beit Yatir

Fonte: Peace Now 2024


7 - IL LIBANO OGGI
Area Unifil
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Fattorie Šib‘ā (AKKĀR al-Qusayr


(Area occupata da Israele nel 1965
.
e ancora oggi sotto il suo controllo)
Tripoli
Confini governatorati al-Hirmil

O
Campi profughi palestinesi

E
NORD 3083 Ras Ba‘labakk

N
Rilievi in Libano
3000 A
R

2000 B A(L B AK H IR MIL


R
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1000 O
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L I B A N O N
500
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BEIRUT N
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Zahla
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. 2039
A

A
Attacchi israeliani
IB
L

Area Hizbullāh bombardata


E

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al-Zabadānī
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a tappeto
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L

Attacchi Hizbullāh S I R I A
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(razzi, missili e droni) ra
A

F . Aw w ālī
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V

Località Hizbullāh B IQA (


. Sidone
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ir

GANŪB -Da
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Zona di evacuazione masco


Zone militari chiuse N Damasco
O
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R
Marg(Uyūn H E Basi Unifil
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e Līṭānī Nabatiya
. TE LIBANO
Est ON
Tiro SU D re Quartier
Area

Settore tto M generale


Se

Ovest Unifil SETTORE OVEST


Undo

Kyriat
Bint Gubayl Shmona Nāqūra
Nāqūra
f (Onu)

Linea
5-4
1-3
1-3

Blu Alture
Linea Blu
1
2a

del
Ma’alot-Tarshiha Golan ISRAELE
Acri
Attacchi israeliani:
Haifa Quartier generale di Nāqūra
Base 1-31 (Italia)
Base 1-32a (Italia)
Tiberiade Base 5-42 (Ghana)
GALILEA Danni:
Stime economiche devono ancora essere prodotte
Basi 1-31 e 1-32a: Abbattuti muri perimetrali di cemento (T-wall)
Attacco drone I S R A E L E Base 1-31: Disabilitate antenne di comunicazione del sistema elettronico
Base 1-32a: Distrutti un cancello, un reticolato e sistema di illuminazione
vicino a Tel Aviv Base 5-42: Sfondato un muro perimetrale
Tel Aviv Qg di Nāqūra: Spari contro due torrette di osservazione (Op-14, Op-16)
Qg di Nāqūra: Cinque peacekeeper feriti (due cingalesi e tre indonesiani)
Fonte: autori di Limes, Unifil, Unrwa, Geopolitical report, Atlante Geografico de Agostini
8 - TRA LE ROVINE DI GAZA Aree di recenti
e intensi
Zone sotto controllo israeliano

o
scontri a fuoco

e
Area intorno al corridoio Netzarim

n
Distruzione
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Valico di Rafah

a
massiccia di terreni

r
Corridoio Philadelphi agricoli e abitazioni

r
Area orientale di Rafah

e
Valico di Erez-Ovest

t
ingresso di beni

i
Corridoio Philadelphi

d
di prima necessità

e
Zona cuscinetto controllata

M
e pattugliata dalle forze israeliane
Bayt Lāhyā Valico di Erez
r
a
Strada costiera dichiarata
M

corridoio umanitario Ğabāliya


al Šāti’ Bayt
Hānūn
Massima estensione dichiarata
dell’area delle operazioni israeliane Gaza

m
L or
e
Aree di infiltrazione di milizie Wadi Gaza
palestinesi attraverso i tunnel

Aree delle Gate 96


Dayr Nuovo ingresso Missili e razzi
operazioni di sgombero
īn

al-Balah
l-D

israeliane per aiuti umanitari israeliani


ha

.
alā

.
rS
. wa

Valichi chiusi
mih

al-Mawasi
Zona umanitaria Muro
Fasce di sicurezza:
100 metri
Zona militare 300 metri
israeliana 1.000 metri
Hān Yūnis

Corridoio Netzarim
Passaggio lungo 4 miglia (6,5 km)
costruito dalle Forze di difesa
Rafah israeliane per scopi militari

Secondo osservazioni satellitari,


Valico di Rafah. costruzione in corso di nuove
installazioni e avamposti militari
israeliane per incursioni nel Nord
e nel Centro della Striscia
Valico di Keren Shalom
ingresso di persone e beni Area poco urbanizzata
EG I T TO di prima necessità e aree industriali
Area fortemente urbanizzata
I S R A E L E
Campi profughi
0 1 2 4 km Principali strade
Fonte: Institute for the Study of War, unric.org, The Wasghington Post (1° ottobre 2024)
LA NOTTE DI ISRAELE

geopolitica. Dove in questione sono delimitazione e gestione d’uno spazio


specifico, qui Palestina/Israele, inteso dai contendenti in forme specular-
mente esclusive. Il carismatico «Jabo», dal credo tanto sfaccettato da in-
durre anime semplici a sospettarne un grado di schizofrenia, non attrae-
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va l’altrettanto autocentrato Ben Gurion, che pure ne stimava il genio. I


due faticavano a sopportarsi, i rispettivi seguaci ancora meno.
Dopo decenni di quasi oblio, oggi in Jabotinsky ognuno vede ciò che
più gli aggrada. Ne prende un pezzo e lo battezza intero. Obiettiamo. C’è
un fondo umanista – primato dell’individuo sullo Stato – e libertario nel
campione del revisionismo sionista, che nel 1923 abbandona l’Organizza-
zione sionista mondiale, non abbastanza nazionalista, per battezzare la
propria invece di provare a scalare le gerarchie stabilite. Scelta che avrebbe
mutato la traiettoria del movimento nazionale ebraico e prodotto un Isra-
ele altro. Anche perché a differenza dei laburisti filosovietici il fondatore
del sionismo revisionista sionista è occidentalista, con vena anglofila.
Per l’intellettualità progressista e il correttismo di sinistra Jabotinsky
è un fascista. Pur non incontrando mai Mussolini – ci prova inutilmen-
te già nel 1922 – ne ammira per un periodo il nazionalismo militarista,
da buon comandante delle milizie Haganah, abilitate al terrorismo. Il
Duce, ancora immune dall’antisemitismo d’importazione nazista, gli
consente di stabilire nel 1934 a Civitavecchia l’Accademia navale Betar,
dove si formeranno i quadri della Marina israeliana.
Su di lui la destra ebraica si divide. Quella radicale oggi in voga e al
potere lo venera profeta del Grande Israele espanso su entrambe le rive
del Giordano. Jabotinsky considera il Fiume spina dorsale del corpo
ebraico sviluppato dal Mediterraneo alla Transgiordania inclusa, come
ripreso nella cartografia dello Herut, precursore del Likud, e dall’estre-
ma destra attualmente al governo (carta 6). I seguaci di Netanyahu, per
tacere degli ultranazionalisti religiosi, trascurano le origini laiche del
leader revisionista, le polemiche con certi rabbini bigotti e misogini,
mentre ne esaltano la conversione religiosa degli anni finali. Jabotinsky
è per Netanyahu parte del suo stesso albero politico-genealogico, con le
radici piantate nel sionismo revisionista, avverso al laburista. Mena-
chem Begin, leader dello Herut e capo del governo che nel 1977 rompe
l’egemonia laburista, si considerava discepolo di «Jabo», suo «maestro e
rabbino». Paragonato al premier regnante il Nostro è vegano. Eppure il
papà di Bibi, il medievista Benzion Netanyahu morto ultracentenario
nel 2012, è assistente del segretario personale di Jabotinsky. Dallo stesso 25
LA SAGGEZZA DI TUCIDIDE

seme deriva la centrista Tzipi Livni, già ministro degli Esteri, oggi soste-
nitrice dei due Stati che tuttavia riconosce il suo debito verso «Jabo». Al
quale in ambito Likud continua a richiamarsi l’ex presidente Reuven
Rivlin, in polemica con Netanyahu. Fautore del Grande Israele che vor-
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rebbe democratico e liberale, oppositore della riforma giudiziaria voluta


dal premier per tagliare le unghie alla Corte suprema accusata con
qualche ragione di politicismo antigovernativo, Rivlin fissa: «Tutto ciò
che abbiamo cercato di dimostrare quali discepoli di Ze’ev Jabotinsky è
che non esiste contraddizione tra l’essere nazionalista e l’essere libera-
le» 21. Di più: «Ricorderemo Jabotinsky, un capo il cui cuore era anche il
cuore del popolo. Poeta, scrittore, statista e genio unico, singolare e spe-
ciale. Che la sua memoria sia eterna benedizione» 22.
Chi era dunque Ze’ev Jabotinsky? Perché considerarlo icona di un
nuovo Israele, Stato di ceppo ebraico ma aperto su democratica base
paritaria ai non ebrei, musulmani palestinesi in testa? Accettiamo la
tesi dello storico Avi Shilon: «Jabo» è un paradosso 23. Il contrario di una
contraddizione. Le sue scelte ideali e pratiche evolute nel tempo smonta-
no le banalità del senso comune e svelano la profondità reticolare del
ragionamento geopolitico, umano dunque irriducibile alla logica for-
male: differenza tra fiore vivo e fiore morto, macchia di colore o segna-
libro rinsecchito soffocato in un pesante trattato di dogmatica.
Uomo dai troppi talenti, tra politica e poesia, narrativa e saggistica,
giornalismo e traduzioni letterarie (tra cui Dante e D’Annunzio), me-
stiere delle armi e oratoria. Esteta raffinato e feroce polemista, con ab-
bondante tocco di vanità a compensare la notevole bruttezza. Amante
delle arti, rovescio dell’idealtipico pioniere laburista rozzo e trasandato,
predilige abiti sartoriali e fa colazione nei caffè intellettuali. Traccia
una linea rossa fra arte e politica, domini autonomi. Il bello è tale in sé,
mai abbassarlo al servizio di una causa.
Di cultura cosmopolita – fluente in dieci idiomi, fra cui l’italiano da
madrelingua (riflesso di Odessa, dove il sì di Dante suona per secoli lin-
gua franca, e di struggenti soggiorni romani) più svariati dialetti no-
strani – in ostinata competizione con sé stesso, come capita ai passiona-
li. La sua autodefinizione sta nella risposta alla signora di cui s’invaghi-

21. «Former Israeli President Rivlin on Judicial Coup: “You cannot agree to half a democra-
cy”», Haaretz, 20/5/2023.
22. Messaggio di R. RIVLIN su X, 1/9/2019.
26 23. Vedi nota 20.
LA NOTTE DI ISRAELE

sce passeggiando tra le Alpi, che gli chiede: «Sei marxista?». In versi: «Only
cowards and tame spirits/ Need a god to whom to bow/ The highest
type is he who has/ No labels pasted to his brow» 24.
Nulla si capisce del suo sionismo senza considerarne l’universalismo.
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Per lui l’uomo è dio mortale. Lo Stato deve servirlo, non il contrario 25. La
sua antropologia ruota attorno alla dialettica necessità/gioco, biologia/
piacere. Noi umani ci vorremmo re (mani’a ha-malkhut) per godere della
libertà di giocare che distingue il sovrano dal servo. L’uomo è tale perché
ama il gioco. Il progresso dell’umanità deriva dal desiderio di fuggire il
necessario per immergersi nel gioco, finché questo lusso gli diventi neces-
sario. Il ritorno alla Terra d’Israele sarà figlio di tale estetismo geopolitico
che evolverà il diasporico confitto nella maschera dello shtadlan (il media-
tore che cappello in mano si rivolge ai gentili per aiuto, leggi Herzl) in
«ebreo nuovo», dotato di hadar (splendore, maestà, onore): fiero, morale,
elegante, rispettoso dell’eguaglianza di genere, conscio dei propri diritti.
Una personalità così brillante non si lascia comprimere in un mar-
chio. Le sue facce si rispecchiano nelle più varie correnti ideologiche isra-
eliane e diasporiche. Ma il suo lascito presente e futuro sta nell’idea dello
Stato democratico e liberale, dove la maggioranza ebraica garantisce alla
minoranza araba i suoi stessi diritti nel quadro di una costituzione che
Israele non ha mai voluto scrivere per non dover sciogliere le costruttive
ambiguità su cui gira il suo eterno provvisorio. Ora che più di una voce
invoca di colmare quella lacuna giuridico-strategica, sfogliare i prolego-
meni di Jabotinsky alla costituzione sionista tracciati poco prima di mori-
re è esercizio rivelatore. Quasi controprogetto ante litteram della legge fon-
damentale su «Israele, Stato nazionale del popolo ebraico» varata il 18
luglio 2018 dalla Knesset a stretta maggioranza, voluta da Netanyahu e
avversata in quanto «cattiva per Israele e cattiva per gli ebrei» dall’allora
presidente Rivlin, che minaccerà di firmarla in arabo.
Tale legge di valore paracostituzionale stipula fra l’altro che «Eretz
Yisra’el è la patria storica del popolo ebraico» (articolo 1a). A scanso di
equivoci, «il popolo ebraico è l’unico a potere esercitare il diritto di auto-
determinazione nazionale nello Stato d’Israele» (art. 1c). «Gerusalemme
intera e unificata» ne è la capitale (art. 3). «La lingua dello Stato è l’e-
24. «Solo i codardi e gli spiriti molli abbisognano di un dio cui inchinarsi. L’uomo superio-
re non ha etichette incollate sulla fronte».
25. Seguiamo qui la sintesi di A. SHILON, op. cit. Per il lato artistico, vedi A. NAOR, «The leader
as a poet: the political and ideological poetry of Ze’ev Jabotinsky», Israel Affairs, 20:2, pp.
161-181. 27
LA SAGGEZZA DI TUCIDIDE

6 - IL SOGNO DEL GRANDE ISRAELE (1947)

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Questo poster del 1947 indica come «Terra d’Israele» tutto lo spazio del Mandato
britannico della Palestina e dell’Emirato di Transgiordania. In alto si trova una
citazione di Genesi 15, 18: «In quel giorno il Signore fece un patto con Abramo,
dicendo: “Io do alla tua discendenza questa terra, dal fiume d’Egitto, fino al gran
fiume, il fiume Eufrate”». In fondo, in nero, sono riportate due frasi di Ze’ev Jabo-
tinsky, lo storico leader dei sionisti revisionisti: «Il Giordano ha due sponde. L’una
ci appartiene, l’altra pure» e «Che la mia mano destra si inaridisca se dimenticherò
il lato orientale del Giordano».

28
Fonte: Pubblicazione dell’Irgun Zvai Leumi (2017)
LA NOTTE DI ISRAELE

braico» (art. 4a). L’arabo avrà un suo statuto speciale regolato per legge
(art. 4b). Soprattutto, «lo Stato considera lo sviluppo dell’insediamento
(yishuv) ebraico come un valore nazionale e agirà per incoraggiarne e
promuoverne la creazione e il consolidamento» (art. 7). Nessuna men-
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zione del carattere democratico dello Stato, come neanche nella Dichia-
razione d’indipendenza (14 maggio 1948) 26. Questa legge è perfetta-
mente adattabile allo Stato unico monoetnico, ne è anzi premessa impli-
cita. Con residui palestinesi in funzione decorativa.
Siccome «Jabo» è paradosso anche postumo, appetto alla sua idea
d’Israele la controproposta di legge fondamentale della minoranza ara-
ba, intitolata «Stato di tutti i cittadini» – se questo è un nome – appare
moderata. Postula sì la parità di diritti dei «due gruppi di appartenenza
nazionale», il principio democratico, il rango di lingua ufficiale dell’a-
rabo accanto all’ebraico. Ma resta al di qua delle tesi di Jabotinsky, vec-
chie di un secolo ma con apertura spericolata al futuro.
Non è certo per arabofilia che l’incompiuta costituzione secondo Ja-
botinsky si spinge oltre le rivendicazioni degli odierni palestinesi di Isra-
ele. Tutto in lui è per l’avvento dello Stato ebraico. Puro realismo nazio-
nalista, con supplemento d’umanismo libertario. Nazione, libertà, uni-
versalismo: trinomio impossibile stando al metro politologico, depurato
della storia. Eppure sono i princìpi della rivoluzione francese, madre
della sinistra, parametro di ogni progressismo. Notiamo come Jabotinsky
intendesse declinarli nello Stato ebraico che ancora nomina Palestina e
di cui negli anni Trenta rivendica l’urgenza, contro buona parte del
suo stesso popolo. Vale la pena citare alcuni frammenti della sua traccia
di costituzione (i tondi sono nostri) 27.
Primo. «Premesso che nulla deve impedire a qualsiasi ebreo stranie-
ro di rimpatriare in Palestina e con ciò diventare automaticamente cit-
tadino palestinese, il principio degli uguali diritti per tutti i cittadini di
qualsiasi razza, credo, lingua o classe dev’essere attuato senza limiti in
tutti i settori della vita pubblica del paese».
Secondo. «In ogni gabinetto di governo dove il primo ministro sia un
ebreo, la vicepresidenza sarà offerta a un arabo, e viceversa. La stessa
regola varrà per le municipalità miste o i consigli di contea».
26. Il testo integrale di questa legge fondamentale e del progetto alternativo dei partiti
arabi, a cura e con note di Cesare Pavoncello, è in Limes, 9/2018, «Israele, lo Stato degli
ebrei», pp. 33-41.
27. Cfr. M. KREMNITZER, A. FUCHS, «Ze’ev Jabotinsky on Democracy, Equality, and Individual
Rights», The Israel Democracy Institute, 2013. 29
LA SAGGEZZA DI TUCIDIDE

Terzo. «Le lingue ebraica e araba godranno di eguali diritti ed eguale


valore legale. Nessuna legge, proclama od ordinanza dello Stato; nessuna
moneta, banconota o bollo dello Stato; nessuna pubblicazione o iscrizio-
ne prodotta a spese dello Stato sarà valida se non eseguita identicamente
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sia in ebraico che in arabo. Ebraico e arabo saranno usati con identico
effetto legale in parlamento, nelle corti di giustizia e in generale in ogni
ufficio od organo dello Stato, come anche nelle scuole di ogni grado».
Quarto. «Dopo averle coltivate a spese dello Stato, le terre demaniali
disponibili saranno divise in appezzamenti da assegnare, a prezzi one-
sti e via agevolati termini di credito, agli acquirenti sia individuali che
di gruppo, senza discriminazione fra ebrei e arabi».
Quinto. «Io non credo che la costituzione di qualsiasi Stato debba
includere paragrafi specifici che ne garantiscano esplicitamente il carat-
tere “nazionale”. Anzi, penso che sarebbe bene che di questo genere di
paragrafi ve ne siano il meno possibile. Il metodo migliore e più natura-
le per garantire il carattere “nazionale” dello Stato è di avere una certa
maggioranza».
Si noterà che la prima frase di questo punto nega avanti lettera no-
me e senso della legge su «Israele, Stato nazionale del popolo ebraico». E
che l’ultima è condizione inaggirabile dell’ebraicità dello Stato liberal-
democratico. Altrove Jabotinsky preciserà: «La Palestina potrà essere pro-
mossa a Stato indipendente solo dopo (sottolineatura originale, n.d.r.) la
formazione della maggioranza ebraica» 28. Lo Stato ebraico sarà parita-
rio, democratico e liberale in quanto vi saranno più ebrei che arabi.
Ossimoro chiave. Illogica formale, logica geopolitica. Jabotinsky fonde
due caratteri in feconda contraddizione perché convinto che proprio il
tono aperto e universalista dello Stato possa attrarre milioni di ebrei in
diaspora. In caso contrario, niente Palestina ebraica in Eretz Yisra’el.
Nel suo ultimo libro, uscito nel 1940, scritto sotto la cupa impressione
della guerra, Jabotinsky evocherà a malincuore l’eventuale espulsione
degli arabi dallo Stato, misura estrema per garantirne l’ebraicità: «Non
vedo la necessità di tale esodo, che sarebbe indesiderabile sotto diverse
prospettive. Ma se diventa chiaro che gli arabi preferiscono emigrare, se
ne potrà discutere senza traccia di tristezza nel cuore» 29.
28. Cfr. A. NAOR, «Ze’ev Jabotinsky’s Constitutional Framework for the Jewish State in the
Land of Israel», in A. BARELI, P. GINOSSAR, (a cura di) In the Eye of the Storm: Essays on Ze’ev
Jabotinsky, pp. 51-92. Citato in D. SCHEINDLIN, The Crooked Timber of Democracy in Israel.
Promise Unfulfilled, Berlin-Boston 2023, de Gruyter, p. 25.
30 29. Cfr. M. KREMNITZER, A. FUCHS, op. cit.
LA NOTTE DI ISRAELE

Per chiudere il cerchio, conviene introdurre il testo che ha reso cele-


bre Jabotinsky e che gli ha dato fama di ultranazionalista anti-arabo a
sinistra (segno negativo) come a destra (segno positivo): Il muro di ferro,
scritto e pubblicato in russo nel 1923 30. Contro gli stereotipi, vi spicca la
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coerenza fra muro di ferro e Stato ebraico democratico e liberale, con


pari diritti per la minoranza araba. Sequenza, non contraddizione.
Fredda logica. Arabi ed ebrei perseguono obiettivi inconciliabili. Inutile
fingere che si accettino spontaneamente contitolari della medesima ter-
ra. Poiché il sionismo è «giusto e morale», bisogna costringere i «nativi»
palestinesi – violazione della vulgata ebraica che considera la Terra d’I-
sraele vuota fino all’arrivo dei pionieri sionisti – al compromesso che
consenta di formare lo Stato di tutti i cittadini. Per convincere gli arabi
è necessario sradicargli dalla testa la speranza di cacciare gli ebrei dal-
la Palestina. A quel punto accetteranno di coesistere su base numerica-
mente inferiore ma in uguaglianza di rango con i «coloni» (termine oggi
scorretto) ebrei. Il muro di ferro è metafora della pressione anche milita-
re con cui gli stessi ebrei spingeranno gli arabi a recedere dal sogno di
rigettare in mare i coloni. Dopodiché gestire in comune lo stesso Stato
sarà «scelta» obbligata. Con tutte le garanzie per le minoranze. Accetta-
bile anche un capo di Stato arabo, addirittura una Camera bassa a
maggioranza palestinese purché non tenti di limitare l’immigrazione
degli ebrei.
Sotto questo aspetto il sionismo revisionista è antipodale al religioso
ormai dominante, per cui il muro di ferro serve a espellere musulmani e
cristiani arabi, altro che costruirci insieme la casa comune. Ed è inconci-
liabile con il pragmatismo massimalista di Bibi, che aderisce all’interpre-
tazione seccamente militare del muro di ferro per chiudere la questione
palestinese dopo averla aggirata nell’accordo regionale che farà del Gran-
de Israele l’egemone mediorientale. Così rovesciando Jabotinsky e il liku-
dismo liberale, per avvicinarsi alla Realpolitik di Ben Gurion e del Partito
laburista delle origini (Mapai), in nome di un «sionismo pratico». Bibi
«ultimo dei Mapainiks»? 31. Paradosso che mentre contrappone lo stile Ben
Gurion-Netanyahu al Jabotinsky autentico conferma la prevalenza della
geopolitica sulle ideologie politiche, clamorosa nel caso di Israele.

30. In effetti i testi in questione sono due, apparsi in sequenza nella rivista russa Rassvet
(Alba) il 4 e l’11 novembre 1923: «Il muro di ferro» e «L’etica del muro di ferro». Per una
traduzione inglese, vedi «The Iron Wall» nel sito del Jabotinsky Institute.
31. Cfr. K. MICHAEL, O. WERTMAN, «The last “Mapainik” and the “Iron Wall”: Benjamin Netan-
yahu and the Palestinian issue 2009-2021», Israel Affairs, vol. 29, n. 6, pp. 1115-1134. 31
LA SAGGEZZA DI TUCIDIDE

Ora che questa strategia rischia di preludere alla fine del Piccolo Isra-
ele mentre persegue il trionfo del Grande, l’idea dello Stato liberaldemo-
cratico di tutti i cittadini, espanso o meno sulle due rive del Giordano,
pare miraggio. E l’attesa del nuovo Jabotinsky rinviata al dopo apocalisse.
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Ovvero alla guerra civile eventualmente innescata dal fallimento della


guerra esterna. Il fantasma del «Jabo» esteta, estremista della dialettica,
osserva costernato lo scontro finale fra due modi di dire (e fare) muro.

5. Comunque finisca, o peggio non finisca, questa guerra ci cambia


la vita. La nostra incoscienza al riguardo è formidabile. Il mondo accele-
ra intorno all’Italia, satellite fisso a vocazione codarda proprio mentre il
nostro sole, gli Stati Uniti d’America da cui totalmente dipendiamo per
sicurezza e difesa, si oscura. L’allegra passività con cui dopo la Prima
Repubblica abbiamo rinunciato a qualsiasi visione strategica per votarci
al gregariato – inutile per il sole, umiliante per il satellite – ci sta costando
cara. Così possiamo solo subire, al massimo limitare i danni. Mentre i due
incandescenti torrenti della Guerra Grande veloci scorrono dall’Ucraina
e dal Medio Oriente verso lo Stivale per saldarsi in un cerchio di fuoco che
destabilizza l’intera Eurasia occidentale, con riverberi mondiali. Eppure
noi ci pensiamo villa nella giungla, riprendendo la metafora applicata
dall’ex premier israeliano Ehud Barak al suo paese. Incrociamo le dita,
sperando passi la nottata. Geopolitica dello Stellone.
Istruttiva la reazione all’attacco di Israele contro i nostri soldati par-
cheggiati da tempo immemore nel Libano meridionale, in classica missio-
ne Onu di peacekeeping mentre intorno e dentro si spara a man salva. Il
primo riflesso molto italico – non prendiamo ordini da Israele, solo dalle
Nazioni Unite – conferma la nostra (voluta?) ignoranza dell’impotenza
dell’Onu. Senza considerare che i rapporti fra Gerusalemme e Palazzo di
Vetro sono stati fissati quattro mesi dopo il riconoscimento dello Stato
ebraico da parte dell’augusto consorzio internazionale quando l’ebraica
banda Stern freddò il conte Folke Bernadotte, mediatore Onu nel primo
conflitto israelo-palestinese (Gerusalemme, 17 settembre 1948), che pure
aveva salvato 31 mila ebrei dai campi di sterminio nazisti. Italiani e onu-
siani: più passivi non si può. Non stupiremmo se Netanyahu estendesse a
Roma la sua maledizione contro le Nazioni Unite «palude antisemita».
Sintomatica l’emozione mediatica suscitata dall’attacco ai nostri
caschi blu, fino allora ignorati nella Fortezza Bastiani libanese, come le
32 altre missioni a partecipazione italiana in Medio Oriente (carta 7).
Ma
rM Mfo - Multinational Force and Observers Eunavfor operazione Atalanta
ed 78 militari e 3 unità navali 198 militari, 1 unità navale e 2 velivoli
ite (Egitto: Sinai e confine con Israele) (protezione rotte per gli aiuti umanitari del Programma
r CIPRO alimentare mondiale, protezione navi mercantili)

ra
Missione Levante

ne
o
Gaza LIBANO 192 militari, 1 unità navale, 10 mezzi terrestri e 1 velivolo Operazione Emasoh/Agenor
(Israele-Gaza) 200 militari, 1 unità navale e 3 velivoli
Il Cairo Arbīl (protezione della libera navigazione nello Stretto di Hormuz)
Camp Singara Eunavfor operazione Aspides
LA NOTTE DI ISRAELE

Sinai ISRAELE IRAQ


EGITTO 642 militari, 3 unità navali e 5 velivoli Cmf - Combined maritime forces
(transito davanti alle coste dello Yemen degli hūtī) 642 militari, 3 unità navali e 5 velivoli
Baghdad (sicurezza marittima)
Camp Dublin
Unifil - Operazione Leonte (settore Ovest)
1.068 militari, 375 mezzi terrestri, 7 velivoli e 1 mezzo navale
KUWAIT Mibil - 20 militari (capienza massima: 105)

G olf
(Missione bilaterale di addestramento delle Forze

Mar Rosso
di sicurezza libanesi)

oP
BAHREIN

er
Islamabad
QATAR
sic
o Unmogip - Osservatori Nazioni Unite - 2 militari
Jammu (Confine Pakistan-India per il rispetto dell’accordo sul
E.A.U. PAKISTAN e Kashmir cessate-il-fuoco del 17/12/1971)
Stretto
di Hormuz Gibuti - Base italiana Amedeo Guillet
155 militari, 9 mezzi terrestri

I N D I A Missione Nato in Iraq - 75 militari


GIBUTI Missione Prima Parthica
Golfo di Aden 1.005 militari, 180 mezzi terrestri e 16 velivoli
Mare Arabico (Contrasto allo Stato Islamico)

Eutm - Missione European Union Training


171 militari, 35 mezzi terrestri
(Addestramento Forze armate somale)
SOMALIA
Mogadiscio Miadit - Somalia - 115 militari
Partecipazione di personale a missioni
in Medio Oriente e Asia
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O C E A N O I N D I A N O 145 militari, 2 velivoli

7 - PRESENZA MILITARE Missione Unficyp (Peacekeeping force)


5 militari
ITALIANA IN MEDIO ORIENTE

33
LA SAGGEZZA DI TUCIDIDE

D’improvviso è sembrato fossimo finiti in guerra con Israele. Profluvio di


sentimenti offesi e di retorica paramarziale. Per un attimo ci siamo sen-
titi protagonisti. Salvo rientrare immediatamente nella nostra bolla
d’indifferenza. O nel tifo da stadio, che ne è la forma più desolante per-
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ché definisce la nostra inconsapevolezza.


Un giorno ci accorgeremo dei veleni che stiamo assimilando dal 7 ot-
tobre. Sarà tardi. Il nuovo antisemitismo non si esaurirà con la sospensio-
ne dei massacri in corso. Né riguarderà solo gli ebrei. Fa già parte della
miscela di paura, intolleranza e razzismo istintivo scatenata dalla brusca
accelerazione della storia cui siamo del tutto impreparati. Dal suo impat-
to sul Belpaese, assuefatto a vivere in tempo separato, senza passato né
futuro. Ciascuno confitto nel suo fuso orario privato. Smart living.
Abbiamo rimosso la nostra condizione di ultima frontiera dell’Occi-
dente, a ridosso di Caoslandia. Così ci finiamo dritti dentro. Vogliamo
preoccuparcene? Se sì, battiamo un colpo.
Per esempio. Se centinaia di migliaia di gaziani sopravvissuti alla
rappresaglia di Netanyahu saranno scaraventati nel deserto egiziano o
nel Mediterraneo per far posto a militari e nuovi coloni israeliani, scon-
tato che alcuni punteranno alle nostre spiagge. Aspetteremo che ci affo-
ghino davanti? Li trasferiremo in Albania per esser certi di non vederli?
Escluso organizzarci per andarli a prendere, promuovendo una missio-
ne internazionale di volenterosi? La risposta a queste domande ci dirà
molto su noi stessi.

34
LA NOTTE DI ISRAELE
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Parte I
ISRAELE
contro
SÉ STESSO
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LA NOTTE DI ISRAELE

CONOSCERSI Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

PER RICONOSCERSI di Włodek


GOLDKORN
I massacri di oggi sono figli anche dei muri fisici e mentali che
ostacolano l’incontro con l’Altro, spengono la curiosità di scoprirsi.
Un tempo non era così. Possiamo recuperarlo. A partire dal
principio che la vita prevale sulla ragion di Stato.

1. L’ IMMAGINE RISALE ALLA FINE DEL SECOLO


scorso. Sul lungomare di Tel Aviv alcuni operai edili srotolano minuscoli tappetini
e, rivolti verso la Mecca, chini, pregano. Intorno, il solito traffico della metropoli
israeliana, automobili, persone che camminano o corrono sui marciapiedi, e più in
là, sull’ampia spiaggia di sabbia, uomini e donne, quasi nudi. Gli operai sono ara-
bi palestinesi musulmani e sono venuti da Gaza per la giornata di lavoro, il pome-
riggio tardi rientreranno a casa. I loro nonni per lo più vivevano da queste parti, a
Giaffa per esempio, fino alla Nakba, l’esodo forzato del 1948.
Che cosa ci racconta questa immagine? Ci parla non tanto e non solo di un
passato, quanto di un cambiamento epocale, avvenuto – come quasi tutti i cambia-
menti epocali – per distrazione, casualmente, per una questione di contingenza,
per un calcolo «funzionale». Gli operai che venivano quotidianamente da Gaza a
Tel Aviv e nelle altre città israeliane potevano osservare gli ebrei nella loro vita di
tutti i giorni, svestiti addirittura, non come soldati in divisa e con le armi in pugno.
Certo non potevano partecipare alla loro vita: l’occupazione origina rapporti socia-
li basati su una gerarchia di diseguaglianze sicché finisce per danneggiare gli occu-
pati e corrompere gli occupanti.
C’è un innegabile e indelebile tratto che accomuna tutti gli umani in tutte le
situazioni (e non occorre aver letto Immanuel Kant o Hannah Arendt per sapere
che l’umanità è una e indivisibile). Questo tratto è la curiosità. Non peccato, anzi
strada maestra per imparare a immaginare un mondo altro da quello in cui vivia-
mo. In concreto: gli abitanti di Gaza, figli e nipoti dei profughi, avevano una certa
dimestichezza con un Israele che cercava a sua volta di vivere in una impossibile
normalità. Molti di loro avevano imparato l’ebraico (l’idioma degli occupanti stava
diventando la lingua franca del territorio della Palestina nei confini dell’ex Manda-
to britannico). E ancora, un giorno di dicembre 1994, a Città di Gaza, Yasser Arafat, 37
CONOSCERSI PER RICONOSCERSI

rientrato in Palestina nel luglio di quell’anno in base agli accordi di Oslo del set-
tembre 1993, alla domanda se c’era qualcosa che lui invidiava a Israele (ero nel suo
ufficio con la collega Dina Nascetti) rispondeva: «Sì. La democrazia». Intendeva la
proverbiale litigiosità degli israeliani, quel fenomeno per cui Amos Oz diceva: «Ab-
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biamo qui milioni di premier». Cito questo episodio per dire che il leader palesti-
nese conosceva Israele. Aggiungo che a partire dalla seconda metà degli anni Ot-
tanta gli israeliani scoprivano la storia della Nakba (basti pensare al fenomeno dei
nuovi storici). Il dialogo sembrava avviato.
Torniamo alla nostra immagine, che parla non solo degli operai di Gaza, ma
anche degli ebrei di Tel Aviv. Ecco, gli israeliani, a loro volta, vedevano arabi pa-
lestinesi che pregavano, lavoravano e potevano immaginare – volendo – le fami-
glie da cui tornavano la sera, potevano perfino – sempre volendo – porsi qualche
domanda sulla diseguaglianza insita nel rapporto fra le due popolazioni.
Il punto è politico: gaziani e israeliani conoscevano la controparte e sapevano
che si trattava di un conflitto difficile, spesso violento. L’incontro non annullava
l’ostilità, ma conoscere l’Altro in carne e ossa è già un entrare in dialogo, ricono-
scere la sua umanità anche se si presenta da nemico (per approfondire rimando
agli scritti di Emmanuel Lévinas).

2. Nel suo bel libro Il sentiero dei dieci pubblicato da Piemme, Davide Lerner
racconta come oggi a Gaza ci sia invece una nuova generazione di palestinesi,
persone che hanno poco più di vent’anni e non hanno alcuna memoria del mondo
di allora. Sono uomini (perché si parla per lo più di maschi, le donne non andava-
no a lavorare in Israele) che non sono mai usciti dalla Striscia, non sanno altra
lingua che l’arabo, non hanno mai visto un aeroporto, non sono mai stati in un
cinema, non hanno idea di come si viva fuori. Dal 2007 infatti, dopo la presa del
potere da parte di Õamås, Gaza ha sempre vissuto nell’isolamento imposto da
Israele (che comunque si era ritirato dalla Striscia unilateralmente nel 2005, sman-
tellando anche le colonie) con la volonterosa collaborazione degli egiziani e per la
grande soddisfazione del resto del mondo.
Quel recinto faceva comodo a tutti. A Õamås perché rendeva più facile il ferreo
controllo sulla popolazione. Agli israeliani, intesi come società e non solo come
governo, perché li metteva in condizione di rimuovere una realtà scomodissima: a
un’ora di macchina da Tel Aviv, la metropoli cosmopolita e libertina che «non chiude
mai», viveva un’umanità che non aveva niente da perdere, ad eccezione dei maschi
che da perdere avevano il loro potere sulle donne. Governata da un’organizzazione
dai forti tratti integralisti e fondamentalisti che vuole la distruzione di Israele.
E se aggiungiamo il Muro di separazione in Cisgiordania, costruito dagli israe-
liani fra il 2002 e il 2003, capiamo perché oggi per i palestinesi gli ebrei israeliani
sono fantasmi. Lo stesso vale per gli israeliani, che conoscono sempre meno i pa-
lestinesi. Alla base della disumanizzazione c’è la trasformazione dell’avversario
38 concreto, protagonista di un conflitto di lunga durata, in presenza fantasmatica.
LA NOTTE DI ISRAELE

MOSAICO ISRAELIANO
Le élite ashkenazite
di origine europea LIBANO
concentrate soprattutto
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nella zona Nord di Tel Aviv


Gli arabi israeliani Alture
SIRIA
Religiosi e ultraortodossi del
Golan
I "russi" Haifa GALILEA
I mizrahim ("orientali"): Tiberiade
provenienti dai paesi arabi
e islamici (appartenenti in Nazaret
grande maggioranza agli
strati sociali più poveri) Umm al-Fahm
(epicentro arabi israeliani)

Ğanīn
M ar
Netanya Tūlkarim
M e di t e r r an e o .
Nāblus
Tel Aviv Kfar
(epicentro ebrei secolari) Saba
Cisgiordania
Bat Yam GIORDANIA
Rishon LeTziyon
Ramla Modi‘in Gerico
Ashdod
Gerusalemme
Bnei Brak Efrat
(epicentro ebrei ultraortodossi) Beitar Betlemme (epicentro ebrei nazional-religiosi)
‘Illit
Kiryat Gat
al-Halīl
(Hebron)
Gaza

ISRAELE

NEGEV

EGITTO

39
CONOSCERSI PER RICONOSCERSI

3. Sia l’isolamento di Gaza in mano a Õamås sia la costruzione del Muro di


Cisgiordania corrispondevano a una stringente logica di stampo «funzionale»: de-
bellare il potere degli integralisti nel caso di Gaza, impedire o almeno diminuire
in una misura significativa gli attentati terroristici in Israele nel caso della Cisgior-
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dania, e anche della Striscia. Eppoi, per altri motivi (immigrazione illegale) i
muri vanno oggi di moda, ce ne sono tanti in varie parti del mondo e il loro
numero aumenta di giorno in giorno. I muri prima o poi cadono. Lo dice la storia
dell’umanità. E soprattutto producono, come ogni pensiero esclusivamente «fun-
zionale» e procedurale, effetti collaterali dannosi: agevolano coloro che pensano
di essere protetti dalle mura a non porsi il problema di cosa fare domani, di come
– per dirla ancora una volta con Arendt – avere cura del mondo e capacità di
giudizio.

4. Nel tetro paesaggio delle atrocità compiute da Õamås il 7 ottobre 2023 (che
a molti hanno richiamato alla memoria i peggiori pogrom) e della risposta israe-
liana che ha portato alla catastrofe di Gaza, c’è tuttavia un pezzo dell’umanità che
custodisce e ha cura dell’avvenire. Sono le famiglie degli ostaggi in mano a Õamås.
Spieghiamoci partendo da una questione che viene da lontano. Israele è diventato
negli ultimi decenni uno dei paesi leader nel campo delle alte tecnologie. Viene
chiamato «start-up nation». Primato riconosciuto legittimo dai vicini egiziani e gior-
dani e da vari altri Stati arabi. Con una società segnata da forti disuguaglianze fra
ricchi e poveri, ma dove il prodotto interno lordo è in costante crescita. Con una
popolazione di ormai dieci milioni di abitanti, di cui l’80% ebrei, dotato di un eser-
cito forte. E con una solida alleanza con gli Stati Uniti.
Insomma, prima del 7 ottobre il progetto utopico di Theodor Herzl e dei sio-
nisti riunitisi nel 1897 a Basilea nel loro primo congresso sembrava coronato da
grande successo. Eppure bastava leggere i romanzi dei grandi scrittori, seguire i
giornali, vedere i film per accorgersi del senso di profonda insicurezza degli israe-
liani. Come se non riuscissero a immaginarsi un domani. Il sionismo – al netto di
aver ignorato il fatto che la Palestina-Eretz Yisrael non fosse un «paese senza abi-
tanti» – aveva promesso agli ebrei la «normalità», nozione chiave del pensiero e
della prassi occidentale dell’Ottocento. Non più ebrei dediti a professioni e mestie-
ri astratti, non più Luftmenschen (uomini sospesi nell’aria) in balia dei gentili, a
rischio pogrom e con le valigie sempre pronte.
Sto citando alcuni stereotipi. La realtà era più complessa, il radicamento nei
territori della diaspora era forte, le valigie fino alla fine dell’Ottocento, epoca dei
pogrom nell’impero zarista, raramente usate per emigrare. Ma tanto è. O se voglia-
mo: il sionismo era una delle risposte degli ebrei alla promessa tradita della moder-
nità. La promessa era l’inclusione ma finì con l’esclusione. Fra i pogrom appunto,
l’affaire Dreyfus e lo sterminio.
Però la memoria non sempre è controllabile, come sanno tutti gli psicanalisti.
Riguarda anche le società, non solo gli individui. Negli anni Sessanta, l’allora mini-
40 stro degli Esteri israeliano Abba Eban, uomo colto, mite, poliglotta diceva che i
LA NOTTE DI ISRAELE

confini di Israele erano i confini di Auschwitz. Mai più quindi. Ma esiste un mai
più, davvero? E si può parlarne seriamente dopo aver visto, o peggio vissuto, le
scene del 7 ottobre?
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5. Dan Diner, un importante storico del Novecento che divide la sua vita fra
Berlino e Tel Aviv, cita spesso un episodio che Nahum Goldmann, uno dei lea-
der più importanti del movimento sionista, ha raccontato nei suoi diari. Un gior-
no del 1956 ha una conversazione con David Ben-Gurion, il fondatore dello
Stato degli ebrei. Parlavano del futuro e della legittimità dello Stato, universal-
mente riconosciuta in virtù della risoluzione Onu del 29 novembre 1947 e per il
fatto che Israele esiste ed è una nazione fra le nazioni. Ben-Gurion citò però il
paradosso di una legittimità basata sulla memoria trasmessa attraverso i testi: è
Dio che ha indicato questa terra a Israele, disse, ma è il nostro Dio, non quello
degli arabi. Ergo: lui, Ben-Gurion, aveva la certezza di essere sepolto in Israele,
ma aveva forti dubbi che lo stesso valesse per suo figlio e i figli di suo figlio. Il
futuro gli appariva breve, immaginabile per qualche anno. Il resto era un’inco-
gnita persino per il padre fondatore, l’uomo che aveva saputo sfruttare ogni
occasione data dalla storia per portare a compimento il progetto di uno Stato
ebraico (Herzl parlava dello Stato degli ebrei, Ben-Gurion tradusse Stato ebrai-
co). Stratega lucido, nel bene e nel male, come pochi altri della sua generazione.

6. E così torniamo alle famiglie degli ostaggi. Al di là delle accuse rivolte a


Netanyahu di aver fatto fallire più volte i negoziati sul loro rilascio, c’è una con-
vinzione di fondo che unisce questi uomini e donne. La convinzione è elemen-
tare: la vita è più importante della ragion di Stato. Le famiglie degli ostaggi, con
le loro manifestazioni di piazza, con le incessanti attività, con la presenza inde-
fessa nei media hanno messo i corpi al centro della politica e trasformato il do-
lore intimo e l’angoscia altrettanto intima in fatto pubblico quindi politico, in
presa di posizione da cittadini perché non si cessa di essere cittadini anche
quando si è fratelli, sorelle, figli, figlie, madri e padri. Da questo punto di vista è
interessante quanto l’idea della vita che prevale sulla ragion di Stato – tipica del-
la diaspora, visto che gli ebrei fino al 1948 non avevano uno Stato e quindi la
ragione stava nella mitzvah di pidayon shevuim (il riscatto dei prigionieri, costi
quel che costi) – fosse recepita da Israele, sebbene fra mille discussioni, quando
nel 2011 un solo soldato, Gilad Shalit, venne scambiato con 1.027 prigionieri
palestinesi. In quella vicenda decisiva fu la tenacia del padre di Shalit e la mobi-
litazione della pubblica opinione.
A pensarci bene, forse questa è la vera strada per mettere fine alle discus-
sioni sulla legittimità e sul futuro di Israele. Si è israeliani perché si vive in Isra-
ele. Caso mai la questione è come essere israeliani. Le famiglie degli ostaggi
hanno dimostrato come e perché il futuro sia vita e cura del mondo. E in fondo,
a pensarci bene, questa è stata sempre una delle strategie della diaspora, forse
la migliore. 41
CONOSCERSI PER RICONOSCERSI

7. Resta la domanda su come Israele voglia vivere nel Medio Oriente. Le rispo-
ste possibili sono diverse. Ma va tenuto conto che stiamo parlando di uno spazio
post-imperiale, post-ottomano, con una lunga memoria di convivenza fra le varie
comunità. Le memorie del passato non muoiono insieme alle sue forme politiche.
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C’è in questo spazio post-imperiale assai ampio un piccolo pezzo di terra su cui
vivono due popoli. Nessuno dei due ha un altro luogo. È questo il perimetro di un
possibile e doveroso accordo.

42
LA NOTTE DI ISRAELE

IL NUOVO ANTISEMITISMO E LA FINE Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

DELL’ECCEZIONALISMO EBRAICO
L’odio contro gli ebrei cresce ovunque, ma prende nuove forme. Le
accuse a Israele di genocidio non sono più tabù. La contaminazione
con la retorica anticoloniale. Denunciare le politiche di Netanyahu
non è antisemita, bensì l’unico antidoto al suicidio del paese.
di Anna FOA

1. C HE L’ANTISEMITISMO STIA AUMENTANDO


tanto in Europa quanto negli Stati Uniti e nel resto del mondo è un dato di fatto,
confermato dagli osservatori deputati a monitorarne gli episodi, dai social ai casi di
cronaca. Ma se questa crescita è generalizzata, essa registra notevoli differenze nei
vari paesi. In Europa, è certamente molto estesa in Francia e in Inghilterra, dati il
loro passato coloniale e la presenza di generazioni di immigrati soggetti in molti
casi a radicalizzazione. Il fenomeno cresce anche in Italia, ma in misura nettamen-
te inferiore.
Credo però che anche nella diaspora, almeno in Italia, non sia proficuo da
parte delle istituzioni ebraiche alimentare le paure tra gli ebrei. Non credo che,
almeno da noi, ci sia davvero una caccia all’ebreo. Finora gli episodi più rilevanti
sono stati, oltre ad alcuni fatti sporadici (certo pesanti per chi ne è stato vittima), le
violenze per lo più verbali contro ebrei identificati come tali, le manifestazioni filo-
palestinesi e il boicottaggio universitario – un gravissimo errore, a mio avviso, da
parte degli oppositori di Netanyahu. Un movimento, quello del boicottaggio, nato
molti decenni fa ma finora senza grande presa, che ha tratto alimento e vitalità
dalla guerra di Gaza e dai suoi morti.
In particolare, in Italia si distinguono per virulenza le parole d’ordine pro
Õamås e inneggianti al 7 ottobre e alla sua mattanza. Le abbiamo ascoltate poco
tempo fa in cortei non autorizzati che hanno percorso tra violenze dei manifestan-
ti e cariche della polizia le vie di Roma e Milano, gridate dai palestinesi delle fran-
ge più radicalizzate e da esponenti dei centri sociali. Che le voci che incensavano
il 7 ottobre come inizio della rivoluzione palestinese per sbarazzarsi dello Stato di
Israele fossero antisemite non c’è dubbio. Come non abbiamo dubbi sul fatto che
il 7 ottobre i terroristi di Õamås che ammazzavano al grido di «Jehudì» volessero 43
44
LA DIASPORA EBRAICA
Primi 25 paesi
per presenza
ebraica
Primi 10 TOTALE EUROPA,
Da 11 a 25 EX URSS E TURCHIA
1.328.800
8,7%

TOTALE
ASIA
TOTALE
AMERICHE ISRAELE 6.914.000
45,5%
6.760.000
44,5%
IL NUOVO ANTISEMITISMO E LA FINE DELL’ECCEZIONALISMO EBRAICO

Primi 10 paesi per numero di ebrei


numero % totale
ebrei mondiale
TOTALE
Israele 6.894.000 45,3 AFRICA TOTALE
Stati Uniti 6.000.000 39,5 56.000 OCEANIA
Francia 446.000 2,9 0,4% 125.500
Regno Unito 393.500 2,6 0,8%
Canada 292.000 1,9
Argentina 175.000 1,1
Russia 150.000 1
Germania 118.000 0,8
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Australia 118.000 0,8 TOTALE EBREI NEL MONDO: 15.200.000


Brasile 91.500 0,6
ITALIA 27.200 0,2
Fonti: Jewish Virtual Library, The American Jewish Yearbook (2022)
LA NOTTE DI ISRAELE

uccidere proprio gli ebrei in quanto tali. Ma davvero, come si è detto, la molla
principale del massacro è stato l’antisemitismo?

2. Innanzitutto, cos’è l’antisemitismo oggi? Non nel 1879, quando il termine fu


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inventato dal giornalista tedesco Wilhelm Marr a designare un’ostilità razziale nei
confronti degli ebrei; non nella Shoah, quando Hitler ne decise lo sterminio. Si
tratta di un nuovo antisemitismo? E se sì, cosa in particolare lo qualifica come tale?
Stabilirlo non è facile, tanto è vero che sono nate delle commissioni deputate a
darne una definizione precisa e a delimitarlo anche attraverso esempi che lo distin-
guessero da quanto invece non poteva essere considerato tale. Una di queste defi-
nizioni, quella dell’International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra), ha assun-
to carattere ufficiale benché non vincolante ed è stata accettata da molti paesi, fra
cui l’Italia nel 2016. Essa lo descrive come «una certa percezione degli ebrei che
può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo ver-
bali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso
istituzioni comunitarie ebraiche e edifici utilizzati per il culto». Nel 2021 oltre due-
cento studiosi del campo di vari paesi hanno sottoscritto una dichiarazione sull’an-
tisemitismo (Jerusalem Declaration on Antisemitism, Jda) che si proponeva di
emendare il grande rilievo dato da quella dell’Ihra agli attacchi contro la politica di
Israele, nel timore che finisse per essere dichiarato antisemita qualsiasi tipo di cri-
tica. Tale dichiarazione definisce l’antisemitismo come «pregiudizio, ostilità e vio-
lenza contro gli ebrei in quanto ebrei (o le istituzioni ebraiche in quanto ebraiche)».
A sottolineare quanto sia difficile definire l’antisemitismo, ricordo che esistono
altre formulazioni ugualmente elaborate da organizzazioni e comitati a questo pre-
posti. Come quella della Fundamental Rights Agency, frutto di un’indagine condot-
ta fra il 2012 e il 2018 in Europa e fondata sulla metodologia delle scienze sociali,
che ha analizzato anche la percezione dell’antisemitismo da parte degli ebrei e non
solo il fenomeno in sé.
Ma cerchiamo di cogliere le caratteristiche dell’antisemitismo di oggi. Se guar-
diamo agli episodi di antisemitismo che avvengono in Europa e nel resto del mon-
do, vediamo innanzi tutto che sono prevalentemente o esclusivamente «di sinistra».
Non hanno cioè quasi nessun riferimento alla Shoah e al negazionismo, e scarsis-
simi legami con la destra neonazista. Ugualmente, tranne eccezioni, vediamo la
quasi completa scomparsa dei tradizionali topoi antigiudaici di matrice cattolica,
pure tuttora presenti – almeno in Italia – nella polemica dei cattolici più tradizio-
nalisti. Fa eccezione la satira, tanto è vero che molte vignette pubblicate dalla
stampa utilizzano gli stereotipi del passato, rappresentando gli ebrei come ban-
chieri e attribuendo loro il famigerato naso adunco.
Questo antisemitismo è tutto centrato sul conflitto israelo-palestinese e da esso,
dalla sua esplosione dopo il 7 ottobre, trae vita. In sé, non si tratta di una novità. Da
decenni la lotta dei palestinesi è stata assunta come mito dai gruppi più radicali del-
la sinistra, sostituendo quello del Vietnam e prendendone il ruolo e la funzione:
guerra all’imperialismo, agli americani, alla Nato, sostegno alla guerriglia in America 45
IL NUOVO ANTISEMITISMO E LA FINE DELL’ECCEZIONALISMO EBRAICO

Latina e in generale ai popoli oppressi. Ma ora, in un mondo molto più multicultu-


rale, il fenomeno ha molti aspetti di novità nelle sue modalità e nei suoi obiettivi. Più
che nel tema dell’anti-imperialismo si inserisce nel solco del dibattito post-coloniale,
che tanto è presente negli Stati Uniti ma non solo. Anche in Italia, dove scarsi ne
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sono stati finora gli echi anche accademici, esso sta assumendo questo carattere, sul
modello delle riflessioni post-coloniali degli Stati Uniti, della loro storiografia, della
loro diffusione nelle università e fra gli studenti. Ed ecco quindi il riferimento costan-
te a Israele come Stato coloniale, all’apartheid, e il linguaggio degli studi che si sem-
plifica senza consapevolezza nelle rozze parole d’ordine dei cortei.

3. Da noi, dai sostenitori di Israele senza se e senza ma, definire come «colo-
niale» la nascita di tale Stato è oggi considerato un falso storico e un’interpretazione
antisemita. Eppure, la storiografia israeliana e quella americana discutono da molti
anni su questo problema. Gli aspetti coloniali individuati nella nascita di Israele
sono stati visti come indicatori di un colonialismo diverso da quello tradizionale, il
cosiddetto settler colonialism (colonialismo di insediamento). In altre interpretazio-
ni, è stato distinto dal primo sionismo il momento della fondazione dello Stato, con
la cacciata dei palestinesi, o il 1967, con l’inizio dell’occupazione – interpretazioni
in gran parte nate all’interno della stessa storiografia israeliana e che nessuno a li-
vello accademico ha mai tacciato di antisemitismo. Lo stesso si può dire dell’accusa
di apartheid rivolta a Israele a proposito della condizione dei palestinesi della Ci-
sgiordania e in misura diversa a Gerusalemme Est. Un’apartheid certo differente dal
modello sudafricano, che le dichiarazioni razziste del governo israeliano si propon-
gono comunque apertamente come obiettivo e tentano di realizzare nei fatti.
Anche se gli slogan anti-israeliani più radicali non si propongono di mettere
in discussione la Shoah, il risultato è che questa ondata di antisemitismo sembra
segnare la fine dei tanti decenni di elaborazione della memoria della Shoah che
abbiamo attraversato dopo il 1945: non perché se ne rimetta in discussione la re-
altà ma piuttosto in quanto fine dell’«eccezionalismo» tanto israeliano quanto ebrai-
co. Lo Stato di Israele, autore di un’occupazione che dura ormai da cinquant’anni
e fautore di un diverso status giuridico per gli ebrei e per i palestinesi, non è più
esentato, in virtù del genocidio subìto dai nazisti, dalle accuse di colonialismo,
genocidio, apartheid. Tutte accuse che il governo continua ad attribuire all’antise-
mitismo del resto del mondo, negando qualsiasi rapporto con il conflitto e con le
sue conseguenze in termini di vite umane e proponendo invece un forte richiamo
alla Shoah. Un richiamo che trova echi negli israeliani, che non possono non assi-
milare gli orrori del 7 ottobre e quelli della prigionia e della morte di tanti ostaggi
allo sterminio nei campi. Benché si tratti di tutt’altra cosa, cioè di un terribile e
sanguinario attacco terroristico. Non un pogrom ma un fenomeno nuovo per l’ef-
fetto che voleva provocare, che ha segnato un netto spartiacque nella storia di
tutti e che rende difficile, anche per quanti in Israele si sono battuti per decenni
per la pace – è stato detto più volte dalla sinistra israeliana – provare empatia per
46 i morti di Gaza.
LA NOTTE DI ISRAELE

All’esterno, anche chi ne esalta da lontano il valore «rivoluzionario» dovrà a un


certo punto fare i conti col fatto che quel giorno è caduto anche teoricamente un
tabù: quello che uccidere i civili è un reato punito dalle leggi internazionali. Col 7
ottobre e la guerra di Gaza il mondo sta rinunciando a tutte quelle misure protetti-
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ve della civiltà che dopo il 1945 si proponevano di eliminare la possibilità di ster-


mini e fenomeni genocidari: la condanna della guerra contro i civili, la definizione
di crimini contro l’umanità e di genocidi, la creazione di tribunali internazionali.
Non entro qui nella discussione se definire la guerra di Gaza un genocidio o un
crimine contro l’umanità sia corretto, augurandomi che un giorno non lontano pos-
sano farlo i tribunali internazionali creati per questo, così come mi auguro possano
farlo anche per i dirigenti di Õamås che hanno pianificato il massacro del 7 ottobre.

4. La crescita dei fenomeni antisemiti nell’ultimo anno ci riporta però alla que-
stione cruciale sottesa alla natura e alla definizione di antisemitismo: quella di qua-
le sia il rapporto tra antisemitismo e antisionismo, intendendo il termine sionismo
nel senso più usato, anche se non correttamente, di politica del governo israeliano.
Gli intrecci fra i due fenomeni sono stretti e innumerevoli. Uno dei criteri per distin-
guerli è quello del manifesto dell’Ihra, che propone di considerare antisemitismo
tutto quanto è rivolto a rifiutare l’esistenza dello Stato di Israele e augurarne la di-
struzione, e non invece la critica alla politica dei governi di Israele. Questa la clau-
sola dell’Ihra: «Negare agli ebrei il diritto dell’autodeterminazione, per esempio so-
stenendo che l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo». Così
invece statuisce la dichiarazione di Gerusalemme: «Negare il diritto agli ebrei dello
Stato d’Israele di esistere e prosperare, collettivamente e individualmente, come
ebrei, secondo il principio di uguaglianza». È una formula che si differenzia decisa-
mente da quella della dichiarazione dell’Ihra. Se infatti quest’ultima vede nell’accu-
sa di razzismo un attacco all’esistenza stessa dello Stato di Israele in quanto Stato
degli ebrei, quella di Gerusalemme si richiama al principio di uguaglianza fra ebrei
e palestinesi e attribuisce un carattere antisemita solo a quanti negano agli ebrei il
diritto di avere uno Stato fondato sull’uguaglianza di tutti i suoi cittadini.
Nella pratica, la distinzione fra antisemitismo e antisionismo è difficile. Gli
stessi manifestanti antisionisti, molto spesso del tutto ignoranti della questione, non
si rendono conto che dietro slogan come «Dal fiume al mare» c’è la prospettiva
della distruzione di Israele. D’altra parte moltissimi ebrei, soprattutto nella diaspo-
ra, attribuiscono valenze antisemite a ogni critica alla politica israeliana. La distin-
zione diventa ancora più difficile nei momenti di guerra come questo, quando
molti ebrei ritengono – non del tutto a torto – che sia in gioco l’esistenza stessa di
Israele e molti altri – altrettanto giustamente – che sia in gioco la sua anima.

5. La questione della perdita dell’anima ha una lunga storia in Israele. Risale


addirittura al 1948, quando la stampa, davanti ai massacri di civili compiuti nella
guerra dall’esercito israeliano, scrisse che i soldati avevano introiettato i metodi
nazisti. E al 1967, quando il filosofo Yeshayahu Leibowitz parlò di giudeo-nazismo. 47
IL NUOVO ANTISEMITISMO E LA FINE DELL’ECCEZIONALISMO EBRAICO

Ora è considerata da tutti, in particolare dalla dichiarazione dell’Ihra, come un’ac-


cusa antisemita che rovescia le vittime in carnefici. Ma la sua origine è altra. Le
critiche dentro Israele sono, a tutti i livelli (da quello accademico a quello politico),
molto più radicali e decise che fuori da Israele, dove prevale la paura di aumenta-
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re l’antisemitismo. Converrebbe prendere in considerazione quanto una parte no-


tevolissima degli israeliani ha gridato nelle piazze. Le loro affermazioni sulle re-
sponsabilità del governo nella mattanza del 7 ottobre e sull’abbandono degli ostag-
gi sono molto più radicali di quando si dice dall’esterno. Ma nessuno – tranne il
premier, e forse nemmeno lui, che li definisce anarchici e traditori – li accusa di
antisemitismo o di «odio di sé», espressione comunemente usata per accusare un
ebreo di antisemitismo.
Da parte di Netanyahu e dei suoi ministri la tendenza è invece quella a taccia-
re di antisemitismo il resto del mondo. Netanyahu lo ha fatto nel suo ultimo discor-
so all’Onu definendolo «una palude antisemita». Tutto il mondo, vuol dire, è contro
di noi. Di nuovo, il richiamo, sia pur implicito, è allo sterminio nazista e alla solitu-
dine degli ebrei di fronte a Hitler. L’idea che il resto del mondo sia antisemita è una
di quelle formule che nel corso dell’elaborazione sionista e poi della vita politica
dello Stato hanno portato una parte del mondo ebraico israeliano a chiudersi, spin-
gendolo verso quello che si definisce suprematismo ebraico, ora rivolto principal-
mente contro i palestinesi. È la solita tragica scelta ebraica fra universalismo e
particolarismo. Accusare il resto del mondo di antisemitismo non solo accentua la
solitudine di Israele, ma la esalta. È un tragico errore. È questa forse la ragione,
posso ipotizzare, per cui l’esercito ha sparato ripetutamente in Libano contro i ca-
schi blu dell’Unifil: sottolineare che Israele combatte contro l’antisemitismo del
resto del mondo, ben simboleggiato dall’Onu.
In definitiva, ritengo che si possa affermare che l’antisionismo è contiguo all’an-
tisemitismo, ma non è la stessa cosa e non può essere equiparato a esso. Soprattut-
to in questo momento, in cui le vittime di Gaza e l’estensione della guerra al Libano
e di quella contro l’Autorità nazionale palestinese in Cisgiordania accrescono ovun-
que nel mondo sentimenti antisemiti, è difficile non considerare che un ruolo fon-
damentale nell’origine di questa crescita lo stia giocando la politica dell’attuale go-
verno israeliano. Credo che difendere senza se e senza ma tale politica, attribuirla
alla necessità di difesa, assimilare ai terroristi tutti i palestinesi rappresentino la
molla principale dell’aumento dell’antisemitismo nel mondo. Opporsi a questa po-
litica senza timori di portare acqua al mulino degli antisemiti, denunciarne con
forza gli effetti disastrosi, invocando la pace e la liberazione degli ostaggi e la crea-
zione di uno Stato palestinese, rappresenta invece un atto di difesa dell’ebraismo e
di Israele, una volontà di fermarne il suicidio. Fino a quando sarà ancora possibile.

48
LA NOTTE DI ISRAELE

I FANATICI DELL’APOCALISSE
LA GUERRA ESCATOLOGICA Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

DI H. IZBULLĀH di Giacomo Maria ARRIGO

Alle origini del messianismo del Partito di Dio. L’attesa per il Mahdø
e l’importanza del martirio. Il jihåd locale contro Israele anticipa la
fine dei tempi. Il rapporto tra lo sciismo duodecimano delle milizie
e quello di Teheran. E se l’imam occultato fosse la Bomba?

1. L A TERRASANTA SI CONFERMA ANCORA UNA


volta uno spazio simbolico che esercita sempre, e chissà per quanto tempo ancora
lo farà, un magnetismo irresistibile, un’attrazione che ha la sua sorgente non in
questo mondo ma nell’altro. «Metafisica» è la parola d’ordine. Un termine desueto,
un vocabolo a dir poco impolverato, che però in quel lembo di terra continua a
dettare le regole del gioco. L’attuale conflitto non è fondato (solamente) su mere
mosse strategiche, su rivendicazioni territoriali più o meno legittime. La terra ha
senz’altro il suo peso, è innegabile, ma solamente come riflesso appannato di un
altro livello di realtà, quello celeste.
Õizbullåh, il Partito di Dio, segue così traiettorie parallele (ma non divergenti)
alla retorica altisonante delle dichiarazioni pubbliche. La fine dei tempi deve esse-
re accelerata, essere quietisti a tal proposito è pericoloso – e denota perfino com-
plicità col male. La guerra con Israele è un compito ineludibile, forse la missione
che deciderà le sorti dell’umanità. E, vista la teologia sciita condivisa da Õizbullåh
e abbracciata energicamente dal regime iraniano, una parola può e deve essere
pronunciata: messianismo. Dimenticare questa dimensione del conflitto, che non
si lascia racchiudere nel più razionale calcolo costi-benefici (più confortevole per
la mentalità occidentale), significa precludersi la possibilità di un’accurata previsio-
ne geopolitica – laddove con «geo», come si diceva poc’anzi, si deve intendere
certamente la terra quaggiù ma anche, e soprattutto, il cielo, ovvero quelle sconfi-
nate distese uraniche che corrono indisturbate fino al limes di tutto ciò che esiste,
cioè Dio.

2. Lo sciismo rappresenta il 10-13% della popolazione islamica mondiale. La


maggioranza (tra il 68% e l’80%) è spalmata tra quattro paesi: Iran, Pakistan, India
e Iraq. Il 37-40% della popolazione sciita vive in Iran (tra i 66 e i 70 milioni di per- 49
I FANATICI DELL’APOCALISSE. LA GUERRA ESCATOLOGICA DI H.IZBULLAˉH

sone), rendendolo il paese sciita più popoloso al mondo. Una significativa mino-
ranza sciita si attesta in Libano (45-55% della popolazione) e nello Yemen (34-
40%) 1. Sul fronte opposto sta il sunnismo, di gran lunga la corrente islamica mag-
gioritaria a livello mondiale (87-90% dei musulmani) e oggi, in assenza di un valido Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

califfato (abolito il 3 marzo 1924), sempre più rappresentata dall’Arabia Saudita,


dove sorgono i due Luoghi sacri per l’islam, Mecca e Medina. Va da sé che il terzo
luogo sacro per l’islam è Gerusalemme – ed eccoci di nuovo punto e accapo.
Questi dati vengono troppo spesso interpretati per dare un tocco confessiona-
le a qualsiasi conflitto mediorientale, sicché la formula «sunniti vs sciiti» appare
sempre più come la chiave interpretativa di tutto ciò che capita in Medio Oriente.
La realtà, tuttavia, è sensibilmente più complicata di così – e lo è per il fatto che le
sfumature non sono poi tali, e un conflitto come quello israelo-palestinese, che
vede il coinvolgimento attivo dell’Iran ma non dell’Arabia Saudita, non si lascia
dirimere da formule universalmente esplicative e di facile utilizzo.
Persino la retorica anticoloniale, che pure gioca un ruolo di primissimo piano
nel conflitto in corso, è solo una componente tra le altre. Nel sottosuolo si agita
uno spettro ancora più insidioso e affatto invisibile agli occhi secolarizzati degli
occidentali, e forse è proprio per questo motivo che è libero di muoversi indistur-
bato. Stiamo parlando dell’«apocalitticismo sciita», che dal 1979 è divenuto un forte
carburante per la politica iraniana e un potente collante per le forze militari che ne
sposano la retorica attivista.
Lo sciismo è fin dall’inizio una corrente dell’islam dalle forti venature messia-
niche. Esso riconosce in ‘Alø, cugino e genero del profeta Maometto, e nei suoi
discendenti la legittima guida spirituale e temporale della umma, la comunità dei
fedeli. Alla morte di ‘Alø (661 d.C.) seguì l’instaurarsi del califfato omayyade e il
consolidarsi del sunnismo. Degno di nota è lo scontro di Karbalå’ del 680 d.C.,
combattuto tra Õusayn, secondogenito di ‘Alø, e le truppe del secondo califfo
omayyade, Yazød ibn Mu‘åwiya, che si concluse con la morte (meglio: il martirio)
di Õusayn. Questo evento segnerà per sempre l’autocomprensione dello sciismo
come corrente islamica degli oppressi e dei diseredati, che si oppone ai tiranni e
agli usurpatori.
Nella teologia sciita, l’accento «liberatore» si andò presto sposando con una
caratteristica assente nel sunnismo, vale a dire il messianismo dell’imamato. Con-
trariamente al sunnismo, infatti, lo sciismo riconosce negli imam i legittimi succes-
sori del Profeta, suoi discendenti di sangue. «Nello sciismo, quindi, anziché un
primato di Corano e Sunna come fonti testuali, troviamo un magistero vivente,
quello della famiglia del Profeta, che si fa interprete del Corano (…) che possiede
una tipologia di conoscenza religiosa diversa da quella del comune credente, e che
è quindi riferimento esegetico e di (indiscussa e indiscutibile) autorità» 2.

1. «Mapping the Global Muslim Population. A Report on the Size and Distribution of the World’s Mu-
slim Population», Pew Research Center, ottobre 2009.
2. F. BOCCA-ALDAQRE, M. CAMPANINI, Manuale di teologia islamica, Milano 2021, Le Monnier Università,
50 pp. 95-96.
LA NOTTE DI ISRAELE

Lo sciismo duodecimano, religione di Stato in Iran, ammette la successione di


dodici imam, di cui il primo è rappresentato da ‘Alø e l’ultimo da Muõammad
al-Mahdø, figura ammantata di mistero. Infatti quest’ultimo, figlio di Õasan al-‘Askarø
(873-874), l’undicesimo imam, scomparve quand’ancora era un bambino nello Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

stesso momento della morte del padre. Sicché si iniziò a parlare di Muõammad
al-Mahdø come dell’imam «nascosto» (ôayb, «occultato»), che non era morto ma en-
trato in una fase ulteriore dell’imamato, quella dell’occultazione o dell’occultamen-
to (ôayba). A sua volta distinta in «occultazione minore», che durò settant’anni,
durante i quali l’imam nascosto parlò alla comunità dei fedeli per mezzo di alcuni
rappresentanti scelti, e in «grande occultazione», connotata da un perturbante ed
enigmatico silenzio e che dal 941 d.C. perdura fino a oggi.
«Da questo momento», scrive l’orientalista e filosofo francese Henry Corbin, «ha
inizio la storia segreta del dodicesimo imam. Senza dubbio essa non rientra nel
campo di quella che siamo soliti chiamare storicità dei fatti materiali. Essa domina
tuttavia la coscienza sciita da dieci secoli; essa è la storia stessa di questa coscien-
za» 3. Una coscienza che si strugge nell’attesa messianica del ritorno del Mahdø,
l’atteso (r), che uscirà dall’occultamento alla fine dei tempi.

3. Õizbullåh appartiene a pieno titolo alla coscienza sciita, fa parte di questa


storia. E perpetua la credenza in un prossimo ritorno del Mahdø appena prima
della fine dei giorni. Il confronto con Israele è il momento decisivo di questo ca-
lendario apocalittico. I giorni che stiamo vivendo, allora, non sarebbero neutri o
piatti, ma connotati da un irresistibile afflato millenarista. L’aggravarsi della situa-
zione in Israele, in Libano e nei Territori palestinesi rispecchia una pienezza dei
tempi ultimi, nell’attesa, gravida di speranza, che l’atteso giunga una volta per tutte
e sbaragli i nemici nella battaglia finale.
La carica escatologica di Õizbullåh si radica nel recente passato. Nel 1977,
l’ayatollah Muõammad Båqir al-Âadr scriveva in Iraq una prefazione all’Enciclope-
dia dell’Imåm al-Mahdø (Mawsû‘at al-Imåm al-Mahdø) di Muõammad Âådiq al-
Âadr, suo cugino e discepolo. Ben presto la prefazione circolò pure come opusco-
lo a parte, divenuta tanto popolare da essere studiata avidamente da un nutrito
gruppo di lettori. Il trattatello discute della longevità del Mahdø e del carattere
apocalittico dei tempi recenti, annunciando un vicino confronto definitivo con le
forze dell’empietà. Lo storico e arabista Jean-Pierre Filiu ricorda che Õasan Naâral-
låh 4 è stato studente dell’ayatollah al-Âadr.
Il 1979 è l’anno della rivoluzione islamica in Iran, un evento che mobilitò tutto
il mondo sciita (e non solo), trasformando l’islam in una religione veramente rivo-
luzionaria e facendo uscire lo sciismo dal quietismo nel quale versava da secoli. In
Iran viene instaurata la velayat-e faqih, la dottrina khomeinista traducibile come «il
governo del giurisperito», secondo cui nell’attesa dell’Imåm Mahdø il clero religioso

3. H. CORBIN, Storia della filosofia islamica, Milano 2007, Adelphi, p. 82.


4. J.-P. FILIU, L’apocalisse nell’Islam, Milano 2011, O barra O edizioni, p. 188. 51
I FANATICI DELL’APOCALISSE. LA GUERRA ESCATOLOGICA DI H.IZBULLAˉH

è legittimato a condurre e tutelare gli interessi della comunità. Diversi opuscoli


apocalittici iniziano a circolare per tutti i territori a maggioranza sciita. Quello stes-
so anno, ad esempio, Kåmil Sulaymån, personalità laica di spicco in Libano, pub-
blica a Beirut un libro dal titolo Yawm al-œalås (Il giorno della redenzione). Nel Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

testo si ritiene che la fondazione dello Stato di Israele abbia inaugurato il ciclo
delle battaglie apocalittiche 5.
È pur vero che la gerarchia ecclesiastica iraniana è sempre stata diffidente nei
confronti delle passioni messianiche e delle imprevedibili fughe in avanti di gruppi
di esaltati. Tuttavia, l’elezione di Ahmadi-Nejad nel 2005 ha ridato vigore all’immagi-
nario mahdista. Il nuovo presidente evocava a ogni piè sospinto l’imminente ritorno
dell’imam nascosto 6. Un anno dopo, nel 2006, a Beirut viene pubblicata un’altra
opera dai toni fortemente millenaristici e dal titolo roboante: Aõmadø Nažåd wa-l-
ñawra al-‘ålamiyya al-muqbila (Ahmadi-Nejad e la futura rivoluzione mondiale). Il
sottotitolo è ancora più esplicativo: Ahmadi-Nejad è il capo delle forze del Mahdø che
libereranno Gerusalemme. (…) Il progetto nucleare è connesso alla apparizione
dell’Imåm Mahdø. L’autore è il libanese Šådø Faqøh, che ne è pure l’editore. Il testo
enumera diciassette segni che precedono, e rendono quindi certa, l’apparizione
dell’Imåm Mahdø; tra questi almeno due sono da segnalare, e cioè «il raduno degli
ebrei in Palestina» e «la lotta di un partito alle porte di Gerusalemme», identificato con
Õizbullåh. In altri opuscoli sempre scritti e editi da Šådø Faqøh si identifica Naârallåh
con lo «yemenita» (al-Yamanø), figura escatologica appartenente alla tradizione sciita,
importante condottiero precursore del Mahdø ormai prossimo al ritorno 7 (tabella).
Ancora più importante è l’opera dello sceicco Na‘øm Qåsim, vicesegretario
generale di Õizbullåh dal 1991, destinato oggi ad assumere una rinnovata centra-
lità. Nel 2006 Qåsim pubblica un libro intitolato Al-Mahdø al-muœalliâ (Il Mahdø
salvatore), nel quale afferma senza mezzi termini che «siamo nell’èra dell’appari-
zione del Mahdø», che Õizbullåh si inscrive nel Movimento dell’apparizione (Õara-
kat al-‰uhûr), e che il suo jihåd aspira ad «accelerare la liberazione e l’apparizione
[del Mahdø]». Rilevante è l’affermazione che l’Anticristo sarà ucciso dal Mahdø in
Palestina 8.
Nel sito web personale di Na‘øm Qåsim è possibile leggere alcuni estratti del
libro. Ad esempio: «Si noti che l’accelerazione degli eventi non lascia spazio a una
lunga attesa alla comparsa [del Mahdø], poiché gli eventi sono molto accelerati e
sono calcolati non in anni o decenni ma in giorni, settimane e mesi, e questo a
causa dei numerosi eventi che si verificano nella regione» 9. E ancora: «Il modello
dei credenti nel tempo dell’occultamento è generalmente migliore rispetto al loro
modello nei tempi della presenza dell’imam infallibile, perché l’occultamento im-
plica una prova aggiuntiva. (…) Chi, tra i credenti e i combattenti nel tempo
5. Ivi, p. 190.
6. M. AHDIYYIH, «Ahmadinejad and the Mahdi», Middle East Quarterly, vol. 15, n. 4, 2008.
7. J.-P. FILIU, op. cit., pp. 200-203.
8. Ivi, pp. 205-206.
52 9. Al-Mahdø al-muœalliâ, naimkassem.com.lb, 2006.
LA NOTTE DI ISRAELE

dell’occultamento, offre il proprio contributo, partecipa all’accumulo di quegli sfor-


zi dei combattenti per accelerare la manifestazione [del Mahdø], ottenendo così un
ulteriore merito» 10. E inoltre: «La deviazione e la tirannia stanno aumentando note-
volmente e rapidamente, e vengono fatti tentativi per trascinare il mondo attraver- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

so il nuovo ordine mondiale e il controllo americano in un sistema di cultura de-


cadente e fluida, comportamenti vergognosi e la diffusione dei vizi. (…) La diffu-
sione dell’ingiustizia e della corruzione è un’indicazione della loro fine, e quanto
più saremo preparati a essere tra i soldati dell’Imåm Mahdø (che Dio lo benedica e
gli conceda la pace), tanto più affretteremo la sua apparizione, che porterà alla
distruzione della tirannia a livello di tutta l’umanità» 11.
Sia Šådø Faqøh sia Na‘øm Qåsim recuperano alcuni celebri aõådøñ, le tradizioni
profetiche, risalenti agli ultimi anni del califfato omayyade (661-750 d.C.) per sot-
tolineare la loro fiducia verso l’Iran: «La gente della mia Casa affronterà calamità,
espulsioni ed esili dopo la mia scomparsa, fino a quando verranno genti dall’Est
sventolando vessilli neri. Chiederanno la carità, ma nessuno darà loro niente. Allo-
ra combatteranno e saranno vittoriosi, e poi verrà loro concesso ciò che desidera-
vano, ma non lo accetteranno e daranno il potere a un uomo della mia famiglia.
Poi riempiranno (la terra) di giustizia, così come era stata riempita di ingiustizia.
Chiunque di voi vivrà per vedere ciò, si rechi da loro, anche se dovrà strisciare
sulla neve» (Sunan ibn Måja, libro 36, õadøñ 157).
E ancora: «Tre uomini, uno dei quali è figlio di un califfo, si combatteranno
l’uno contro l’altro per il vostro tesoro, ma nessuno di loro lo otterrà. Poi verranno
bandiere nere dall’Oriente. (…) Quando le vedrete, giurate loro fedeltà, anche se
dovrete strisciare sulla neve, perché là è il califfo di Allåh, il Mahdø» (Sunan Ibn
Måja, libro 36, õadøñ 159).
Il colore nero dei turbanti è tradizionalmente il simbolo sciita dei discendenti
del Profeta 12. Sicché utilizzare queste tradizioni profetiche, specialmente da parte
di un membro di alto rango di Õizbullåh, significa ratificare la fedeltà all’Iran in
termini escatologici, riconoscendo nella Repubblica Islamica un ruolo di primissi-
mo piano nella lotta contro i nemici della fede.

4. Õizbullåh rappresenta a pieno titolo un capitolo di quella lunga sfilza di


«fanatici dell’apocalisse» 13 che la storia ha sempre generato e sempre continuerà a
generare. Il martirio, cioè la morte in battaglia, è attivamente cercata dai suoi mili-
ziani, perché ad attendere il martire c’è il paradiso. La morte violenta è purificatrice,
nell’attesa dell’apocalisse che «è il disvelamento del senso e del suo compimento,
il trionfo finale, malinconico certo, ma non privo di un godimento anticipato per la
vittoria definitiva dell’islam. È una purificazione totale» 14.
10. Ibidem.
11. Ibidem.
12. D. COOK, «Armageddon nell’Islam: le bandiere nere dell’Isis», oasiscenter.eu, 12/6/2015, pp. 83-89.
13. N. COHN, I fanatici dell’apocalisse, Roma 2000, Edizioni di Comunità.
14. F. BENSLAMA, Un furioso desiderio di sacrificio. Il supermusulmano [2016], Milano 2017, Raffaello
Cortina Editore, p. 48. 53
I FANATICI DELL’APOCALISSE. LA GUERRA ESCATOLOGICA DI H.IZBULLAˉH

Com’è scritto nel Manifesto di Õizbullåh del 2009: «O Dio, Tu sai che nessuno
di noi compete per il potere né ha desideri di vanità. Si tratta solamente di far rivi-
vere il diritto, di abbattere la falsità, di difendere coloro che, tra i Tuoi fedeli, sono
oppressi, d’instaurare la giustizia sulla Tua terra, di chiedere la Tua approvazione
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

e avvicinarsi a Te. Per questo i nostri martiri sono morti, e per questo continuiamo
il jihåd. Tu ci hai promesso una di queste due ricompense: o la vittoria o l’onore
di incontrarti attraverso il martirio» 15.
Contrariamente all’Iran e al suo esercito, divenuto col tempo più attento alla
gestione del potere e alla difesa della Repubblica, e dove ormai la cautela regna
sovrana e i toni apocalittici sono smorzati e sempre soppressi sul nascere (con
l’eccezione del periodo di Ahmadi-Nejad), Õizbullåh si può permettere una vitalità
messianica veramente rivoluzionaria. La guerra diventa cosmica, e «l’attualizzazio-
ne dell’escatologia» 16, cioè lo svolgersi attivistico dell’apocalisse in real time, assu-
me un portato motivazionale invincibile.
Qualche decennio fa, commentando i movimenti rivoluzionari in Occidente
Eric Voegelin parlava di «immanentizzazione dell’eschaton» 17, delle cose ultime, o,
in altri termini, del portar quaggiù la Gerusalemme celeste con la forza. Ebbene, si
può parlare di tutto questo anche in riferimento a Õizbullåh. Il «misticismo attivisti-
co» 18, che Voegelin chiama anche gnosticismo rivoluzionario 19, si condensa intor-
no alla credenza che «l’avvento del regno esige la sua cooperazione militare» 20.
Ogni azione militare, allora, assume la forma di un’operazione magica, «l’azio-
ne rivoluzionaria (anche e, forse, soprattutto nei suoi aspetti più violenti) ha una
funzione propiziatrice» 21, intesa a far avverare le profezie, nell’impazienza dei tem-
pi ultimi. Ogni eventuale pace e ogni possibile riforma vengono immediatamente
intese come un tradimento e come una collusione con il Nemico (con la maiusco-
la), quindi scartate a priori.
Sebbene possa sembrare un’antinomia, Õizbullåh conduce un jihåd apocalit-
tico locale: pur avendo di mira tutta la realtà, che verrà alfine trasfigurata dall’av-
vento del Mahdø, nondimeno il Partito di Dio non combatte una guerra indistinta
contro qualsivoglia tipo di infedele o empio (come fanno, ad esempio, i salafiti
jihadisti, tra cui al-Qå‘ida e lo Stato Islamico) 22. Il «Grande Satana» rimangono sen-
z’altro gli Stati Uniti, ma è più urgente impegnarsi in uno scontro con il «Piccolo
15. «The New Manifesto (30 November 2009)», in J. ALAGHA (a cura di), Hizbullah’s Documents. From
the 1985 Open Letter to the 2009 Manifesto, Amsterdam 2011, Pallas Publications, p. 137.
16. B. COOPER, New Political Religions, or An Analysis of Modern Terrorism, Columbia 2004, University
of Missouri Press, p. 57.
17. E. VOEGELIN, La nuova scienza politica, Roma 1999, Borla, p. 202.
18. ID., I movimenti gnostici di massa del nostro tempo, Milano 1970, Rusconi, p. 32.
19. Sul rapporto tra gnosticismo rivoluzionario e jihadismo contemporaneo, cfr. G.M. ARRIGO, Gnostic
Jihadism. A Philosophical Inquiry into Radical Politics, Milano 2021, Mimesis International.
20. E. VOEGELIN, op. cit., p. 182.
21. V. MATHIEU, La speranza nella rivoluzione. Saggio fenomenologico, Roma 1992, Armando Editore,
p. 12.
22. Il più importante studio sul tema è S. MAHER, Salafi-Jihadism. The History of an Idea, London 2016,
54 Hurst & Co.
LA NOTTE DI ISRAELE

Satana», Israele – tanto più che è lì che, secondo la tradizione, avranno luogo gli
eventi escatologici decisivi. E così questioni strategiche e contingenze storiche si
mescolano a considerazioni profetiche e a racconti apocalittici. In questo quadro,
la delimitazione delle operazioni guerresche al territorio israelo-palestinese non è
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

un limite per il jihåd apocalittico ma, incidentalmente, il suo massimo inveramen-


to. L’obiettivo è la distruzione di Israele, non ci sono vie di mezzo. Gerusalemme
è «sede dei luoghi santi cristiani e musulmani» 23, si legge nel Manifesto del 2009 –
ove appunto viene accuratamente omesso l’aggettivo «ebraici».
Nella frenesia di una guerra che non vede una fine, l’Imåm Mahdø tarda ad
arrivare, rimane nell’occultamento. E, dato che la sua venuta preannuncia la fine
del mondo, sorge il fondato sospetto – profano, s’intende – che l’imam possa iden-
tificarsi con la bomba atomica iraniana, la cui manifestazione, quella sì, potrebbe
designare la fine del mondo. Se «il progetto nucleare è connesso all’apparizione
dell’Imåm Mahdø» (così suona il sottotitolo del libro di Šådø Faqøh citato sopra), c’è
da preoccuparsi seriamente.

L’apocalisse in 17 punti
Si elencano di seguito i diciassette segni (‘alåma) associati all’apparizione
dell’Imåm Mahdø secondo Šådø Faqøh. In base alla sua lettura, i primi quattordici
segni sono già avvenuti, mentre gli ultimi tre stanno per accadere.

1. «Il raduno degli ebrei in Palestina» con la nascita dello Stato d’Israele (1948).
2. «L’apparizione di un uomo a Qom», identificato con l’ayatollah Khomeini.
3. «La forza militare e mediatica dell’Imåm prima dell’apparizione», ovvero la
costituzione dei Guardiani della rivoluzione in Iran, dell’Esercito del Mahdø in Iraq
e di Õizbullåh in Libano.
4. La fondazione della Repubblica Islamica in Iran, propedeutica al prossimo
Stato guidato dall’Imåm (1979).
5. «La lotta dei turbanti neri contro i nemici dell’Imåm prima della sua appari-
zione»: per gli sciiti i turbanti neri sono il simbolo dei discendenti del profeta, quin-
di il segno si riferisce alla lotta di Khomeini o Khamenei in Iran, di Muqtadå al-Âadr
in Iraq e di Õasan Naârallåh in Libano.
6. «La lotta di un partito alle porte di Gerusalemme», e quindi specificamente
Õizbullåh.
7. «L’ingresso delle forze occidentali in Iraq» (marzo 2003).

23. «The New Manifesto (30 November 2009)», cit., p. 134. 55


I FANATICI DELL’APOCALISSE. LA GUERRA ESCATOLOGICA DI H.IZBULLAˉH

8. «Il martirio dell’Anima pura a Naãaf con ottanta fedeli», identificato con la
morte dell’ayatollah Båqir al-Õakøm, capo del Consiglio superiore della rivoluzione
islamica in Iraq (agosto 2003).
9. «Il trasferimento della scienza da Naãaf a Qom», cioè lo spostamento dall’I- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

raq all’Iran di diversi seminari per la formazione del clero sciita.


10. «L’insediamento in Iraq di un potere islamico fedele ai precursori iraniani»,
che Faqøh identifica con il governo di Nûrø al-Målikø (dicembre 2005).
11. La sempre più diffusa paura delle catastrofi naturali.
12. L’apparizione di una cometa che turberà gli ordinari cicli naturali.
13. La comparsa di al-Œuråsånø, rilevante figura apocalittica che combatterà al
fianco dell’Imåm Mahdø, e associata qui all’ayatollah Khamenei.
14. La comparsa di Šu‘ayb bin Âåliõ, altra figura apocalittica che guiderà un
esercito contro il Sufyånø (rilevante figura antagonista dell’apocalitticismo sciita),
che Faqøh vede in Ahmadi-Nejad (agosto 2005).
15. Un colpo di Stato in Siria organizzato dagli Stati Uniti e da Israele per sta-
bilirvi il governo del Sufyånø.
16. Lo svolgimento della «battaglia delle Grida» tra l’esercito del Sufyånø e i
seguaci del Mahdø.
17. L’uccisione a Medina dell’inviato del Mahdø, il quale a questo punto si ma-
nifesterà.

Fonte: Šådø Faqøh, Aõmadø Nažåd wa-l-ñawra al-‘ålamiyya al-muqbila (Ahmadi-Nejad e la futura
rivoluzione mondiale), Beirut 2006. Cfr. J.-P. FILIU, L’apocalisse nell’Islam [2008], O barra O edizioni,
56 Milano 2011, pp. 200-202.
LA NOTTE DI ISRAELE

LA TERRA D’ISRAELE
È SCONFINATA Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

PAROLA DI DIO (E DI BIBI)


Alle origini delle tendenze apocalittiche che caratterizzano la postura
dello Stato ebraico. La questione della lingua sacra e i (vaghi) confini
biblici. Cartografie religiose: come la pedagogia nazionale recupera le
scritture a fini strategici. Il monito di Scholem.
di Lorenza BOTTACIN-CANTONI
Dopo aver giurato giorno per giorno sugli antichi
nomi, non possiamo più respingere i loro poteri. Li
abbiamo svegliati e quelli sorgeranno, poiché li
abbiamo invocati così fortemente. (…) Ogni parola
non di quelle nuove, ma presa dal «buon vecchio
tesoro» è colma fino all’orlo di polvere da sparo.
(…) Coloro che hanno rianimato la lingua ebraica
non credevano al giorno del giudizio, e tuttavia
con le loro azioni lo hanno decretato per noi. Ci
auguriamo che la loro vanità, che ci ha condotto a
questa via apocalittica, non diventi nostra rovina.
Lettera di G. Scholem a F. Rosenzweig, 26/12/1929

1. I
« L MESSIANISMO EBRAICO È ALLE SUE ORIGINI
e per sua natura – non lo si sottolineerà mai abbastanza – la teoria di una catastro-
fe. Questa teoria mette l’accento sull’elemento rivoluzionario e cataclismatico nella
transizione da ogni presente storico al futuro messianico» 1. Bastano queste poche
parole di Gershom Scholem, filosofo, teologo e semitista di origine tedesca per
comprendere che la storia non è sufficientemente forte da reggere alla tensione
messianica. Il presente, abissalmente differente dal futuro del Regno di Dio, non
può defluire gradualmente verso la fine dei tempi e non vi è alcuna possibilità di
una progressione lineare verso il compimento del tempo.
Il tempo messianico è frutto di un’apocalisse, a cui farà seguito il Regno di Dio.
La redenzione ha quindi una natura «distruttiva», ed è proprio a una conflagrazione
e a una definitiva devastazione che potrebbe condurre l’attuale conflitto. Difficile
non interrogarsi quindi su quali siano i movimenti profondi che scuotono la società

1. G. SCHOLEM, «Per comprendere l’idea messianica nell’ebraismo», in ID., L’idea messianica nell’ebrai-
smo e altri saggi sulla spiritualità ebraica, Milano 2008, Adelphi, pp. 13-45. 57
LA TERRA D’ISRAELE È SCONFINATA, PAROLA DI DIO (E DI BIBI)

israeliana contemporanea e quanto di tutto questo abbia un carattere propriamen-


te religioso anziché squisitamente politico.

2. L’utilizzo della terminologia sacra ha sempre costituito uno degli strumenti Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

di propaganda del sionismo secolare, e anche l’attuale sionismo governativo non


è nuovo all’uso di una certa bagna messianica con cui cerca di fondere, in un uni-
co crogiolo culturale, le diverse anime di Israele 2. Luogo in cui prendono corpo
voci, storie, simboli e lingue non solo di quegli ebrei che, dal 1948, si sono sposta-
ti nello Stato ebraico, ma anche di tutti i non ebrei che continuano a vivere come
minoranze nel territorio israeliano.
Eretz Yisrael rimane un sogno dai confini incerti, come il «mobilissimo» ed
enigmatico Odradek 3. E gli stessi sionismi, ciascuno con la propria geografia e la
propria idea di storia, mostrano coloriture che, per Jacob Talmon, mettono in risal-
to «l’immagine della storia ebraica come prisma che assorbe e frange i raggi prove-
nienti dall’esterno», così impedendo di scorgerne il nucleo 4.
Eppure il progetto di Eretz Yisrael resta ancorato a un qualcosa di specifico: il
concetto di Terra (eretz). E in questo senso, è proprio dalla fondazione dello Stato
di Israele che sono state messe in atto diverse misure ideologiche volte a unire il
popolo alla Terra e a saldare a essa la diaspora, le cui radici affondavano nella
Parola e, dunque, nel cielo, esattamente come l’albero sefirotico della tradizione
cabalistica.
L’agenda politica che traduce in confini geografici i precetti biblici risente del-
la contraddizione tra la certezza di essere il popolo eletto e la consapevolezza
della costante minaccia rappresentata da chi non riconosce tale elezione 5. È da
siffatta contraddizione che derivano le letture successive di eventi considerati capi-
tali. Un esempio è la guerra dei Sei giorni, che viene utilizzata per celebrare «l’at-
trattiva dell’azione, il bisogno di realizzare le cose» che è inerente alla «proiezione
nel futuro della parte migliore dell’uomo, che è appunto ciò che il messianismo
ebraico, nei suoi elementi utopici, propone in modo così energico» 6.
Il tempo del Messia redime distruggendo, restaura la storia sconvolgendone le
forme durature, ma richiede pazienza. Scholem, che si era trasferito in Palestina nel
1923, vedeva dilagare un sionismo frettoloso di affermare la continuità con le radi-
ci religiose dell’ebraismo, a discapito dell’intimo legame (religio) con il sacro, tra-
sformandosi in una caricatura messianica.
Per il disilluso Scholem, uno dei grandi errori del sionismo era stato la scelta
dell’ebraico come lingua parlata: secolarizzare la lingua dell’Altissimo e appropriar-
2. Si veda in merito l’articolo di A. MARZANO, «Alle origini del sionismo religioso di Binyamin Ne-
tanyahu», Limes, 3/2023, «Israele contro Israele», pp. 97-106.
3. F. KAFKA, «Il cruccio del padre di famiglia», in ID., Tutti i racconti, Milano 2017, Mondadori, p. 218.
4. J.L. TALMON, Israele tra le nazioni, Milano 1973, Edizioni di Comunità, p. 99.
5. Una minaccia che tradizionalmente è percepita in territori di scarse dimensioni, oggetto di contesa,
in cui una popolazione cerca legittimazione e si fa forza attraverso la mitologia del legame con Dio,
come ricorda D.H. AKENSON, God’s peoples: covenant and land in South Africa, Israel, and Ulster, Itha-
ca 1992, Cornell University Press.
58 6. G. SCHOLEM, op. cit., p. 26.
LA NOTTE DI ISRAELE

sene per descrivere il quotidiano corrispondeva a portare la parola sacra dentro il


mondo senza poterne disinnescare la carica messianica, con il rischio di attivare un
Golem potente e incontrollabile e di sguinzagliare nel nostro mondo la caustica e
pericolosa forza del messianismo 7. Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

L’adozione dell’ebraico come lingua ufficiale rientra nelle numerose misure


adottate da Israele per fondarsi come democrazia. La costruzione di uno Stato
ebraico in Palestina avvenne infatti attraverso un’affermazione identitaria ed etnica
forte, che implicava la negazione della diaspora e la rigenerazione della Terra dei
padri, trasformata in Stato occidentale.
Si finisce così per erigere una fortezza per una «comunità immaginata all’inse-
gna della Bibbia, dell’ecologia, dell’Occidente e (…) della Shoah. In ultima analisi,
per il sionismo, è la Bibbia a legittimare il diritto degli ebrei a occupare la Palesti-
na» 8. Ed è l’Occidente – e in particolare l’alleato più potente, gli Stati Uniti – a rico-
noscere questo diritto, mantenendo ancora Israele in una posizione subordinata e
di sudditanza, sebbene la stanchezza imperiale americana sia ormai evidente e le
flebili esortazioni a cessare il fuoco e a limitare le azioni belliche siano risultati
inutili, ai limiti del patetico.

3. L’escalation recentemente intrapresa da Israele ha un sapore quasi escatolo-


gico. Essa porta all’estremo il precetto ebraico di «riparare il mondo» (tiqqun ‘olam,
‫)םלוע ןוקית‬, lasciando trasparire l’intento di rifondarlo epurandolo dagli errori, dalle
storture e dalle cattive azioni umane. Un mondo buono e giusto è il risultato di un
rinnovamento che prevede la cancellazione del male in una lotta senza tregua per
il ripristino della Terra dei padri.
Se Israele sorge da un’ideologia chiara per cui vi è un popolo ebraico dotato
di origine, lingua e cultura comuni che rivendica la proprietà di un territorio che
ritiene la propria patria esclusiva, allora esso non può non assumere le fattezze di
una democrazia «ridotta», in cui la pietra angolare dello Stato non è la cittadinanza
ma la nazione etnica 9. E su basi etnocratiche si comprende anche l’intento di rin-
novamento del mondo fisico e dei suoi confini. Il progetto di Eretz Yisrael – che
nel momento di massima espansione dello Stato ebraico, prima degli accordi di
Camp David, ha raggiunto anche il Sinai – torna infatti a essere centrale in una
politica che mira a una maggiore estensione territoriale, legittimandosi attraverso
frequenti citazioni bibliche riguardanti i confini della terra promessa.
Ma Elohim non è un cartografo. Nella Tanak, non vi sono definizioni univoche
né dell’estensione di Israele, né del Grande Israele, né di Eretz Yisrael. Quello che
vi si ritrova sono piuttosto delle indicazioni. E la più generosa può essere rintraccia-
ta in Genesi 15:18, quando Dio sancisce il patto con Abramo affermando: «Alla tua
7. ID., «Le delusioni di un sionista», MicroMega, n. 3/1997, pp. 191-194. Si veda in merito anche S.
CAMPANINI, «‫םלשורי םולש ולאש‬. Gershom Scholem from Zion to Jerusalem», in A. MAMBELLI, V. MARCHETTO
(a cura di), Naming the Sacred. Religious Toponymy in History, Theology and Politics, Göttingen 2019,
V&R Unipress, pp. 105-118.
8. E. TRAVERSO, La fine della modernità ebraica. Dalla critica al potere, Milano 2013, Feltrinelli, p. 129.
9. Cfr. S. SMOOHA, «Ethnic Democracy: Israel as an archetype», Israel Studies, n. 2/1997, p. 210. 59
LA TERRA D’ISRAELE È SCONFINATA, PAROLA DI DIO (E DI BIBI)

discendenza io assegno questa terra, dal fiume d’Egitto al grande fiume, il fiume
Eufrate». Oppure in Deuteronomio 11:24, in cui si legge: «Ogni luogo dove mettere-
te piede sarà vostro: Il tuo territorio si estenderà dal deserto al Libano e dal fiume
Eufrate al Mar Mediterraneo» 10. Vi sono poi limiti circoscritti, come quelli che si tro- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

vano nella descrizione della terra promessa a Mosè in punto di morte in Deuterono-
mio 34:1-4: «Poi Mosè salì dalle pianure di Moab sul monte Nebo, in vetta al Pisga,
che è di fronte a Gerico. E il Signore gli fece vedere tutto il paese: Galaad fino a Dan,
tutto Neftali, il paese di Efraim e di Manasse, tutto il paese di Giuda fino al mare
occidentale, la regione meridionale, il bacino del Giordano e la Valle di Gerico, città
delle palme, fino a Soar. Il Signore gli disse: «Questo è il paese riguardo al quale io
feci ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe, questo giuramento: “Io lo darò ai tuoi discen-
denti”. Te l’ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai».
Indipendentemente dalle indicazioni geografiche (poco) precise, ciò che
emerge è che, nella narrazione biblica, è Dio a donare la terra al popolo ebraico.
Il racconto mitico, con tutta la sua forza persuasiva, viene dunque impiegato come
fonte storica nel nuovo Stato di Israele, con eroi diversi (il nuovo ebreo) e forme
di redenzione aggiornate 11. La Terra diviene lo scenario della lotta di un popolo
tornato a reclamare la patria, ostaggio dell’invasore arabo. La geografia viene dun-
que ripensata in chiave sacrale, per saldare l’unione tra popolo, Terra e Libro.
Non è casuale, allora, il capillare ripristino della toponomastica biblica per
indicare le città dell’attuale Stato israeliano, che rientra in quello «zelo archeologico
consacrato alla riproduzione della carta dell’“antico” Israele» che evidenzia il «ten-
tativo sistematico, erudito, politico e militare di dearabizzare il territorio, i suoi
nomi e la sua geografia, ma soprattutto la sua storia» 12. La geografia sacra diviene
uno degli elementi identitari su cui costruire l’ideologia etnocratica israeliana, fon-
data sulla differenza specifica rispetto a tutto ciò che è non ebreo.
Un esempio semplice ma non banale di questa operazione è offerto dai libri
scolastici, che rendono chiaro il progetto messianico di uno Stato degli ebrei – e
solo di essi – in cui esistono degli «arabi» (parola utilizzata per la popolazione pa-
lestinese non percepita come minaccia, a differenza di «palestinesi» che indica
specificamente i terroristi o la popolazione araba armata) che vengono però siste-
maticamente marginalizzati e sottorappresentati 13. Il messaggio sionista è chiaro:
«Questa terra è nostra, nostro e delle generazioni a venire il compito di donarle
nuovamente lo splendore d’un tempo».

10. Il Libano compare anche in Giosuè 1:4 «Dal deserto del libano (…) fino al grande mare, dove
tramonta il sole: tali saranno i vostri confini».
11. Un esempio di questo è riportato da N. Peled-Elhanan che racconta «quando ero piccola, negli
anni Cinquanta e Sessanta, il quindici del mese di shevet (il capodanno degli alberi nella tradizione
ebraica) si andava ogni anno con tutta la classe a piantare alberi nei boschi creati dal Fondo nazio-
nale ebraico (cosa che i bambini ebrei israeliani fanno tutt’oggi) e ci veniva spiegato che stavamo
ripristinando i gloriosi boschi biblici distrutti dagli arabi invasori con le loro mandrie mentre noi
eravamo altrove». N. PELED-ELHANAN, La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideologia e propaganda
nell’istruzione, Torino 2015, Gruppo Abele, p. 18.
12. I. PAPPÉ, The ethnic cleansing of Palestine, Oxford 2006, Oneworld, p. 226.
60 13. Cfr. N. PELED-ELHANAN, op. cit., pp. 209-210.
LA NOTTE DI ISRAELE

Non è infrequente che le carte geografiche, nei libri di testo, si accompagni-


no a didascalie che riportano dei versetti che costituiscono il dato della carta.
Mappe e versetti sono collegati in maniera diretta e la carta costituisce la visua-
lizzazione plastica della promessa contenuta nel testo sacro 14. La scelta ideologi- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

ca di inserire dei versetti nei testi scientifici e scolastici conferisce a questi ultimi
una sorta di sacralità, ne certifica il portato di verità e al contempo conferisce
alla Bibbia e alle promesse divine validità scientifica (carta 1).
La resa visiva della carta in cui la terra promessa appare indivisa legittima ex
auctoritate anche l’occupazione dei Territori dei palestinesi: «Se ci si domanda
dunque perché la carta non mostri le frontiere di Israele riconosciute internazional-
mente, la risposta è: perché lo dice la Bibbia» 15. La potenza sinottica di queste
mappe forma la coscienza civile della popolazione israeliana fin dal tempo della
scuola, preparando un terreno fertile per l’attecchire della successiva propaganda
costruita sulla minaccia e sulla necessità di sicurezza. Ciò garantisce che l’impegno
a proteggere Eretz Yisrael e a ricostruirne gli antichi confini sia percepito come
comandamento divino.
Le carte diventano modelli in miniatura della realtà, laddove questa è come
minimo prospettica, se non distorta e ideologica. I titoli stessi che vengono dati
alle mappe non richiamano «Lo Stato di Israele», ma indicano solamente «Israele»
o «La Terra di Israele», e includono i territori esterni ai confini ufficiali dello Stato,
ivi comprese le aree occupate confiscate durante le guerre (il cui status non è
riconosciuto dalla comunità internazionale). Le aree palestinesi sotto occupazio-
ne militare, e mai annesse da Israele, non vengono marcate in modo netto, ma
indicate con linee tratteggiate a indicarne la provvisorietà e sembrano, così, fare
pienamente parte dello Stato (carta 2).
Oltre a questa sistematica minimizzazione delle differenze, i testi scolastici non
criticano l’uccisione dei palestinesi, che si infiltrano nel territorio per compiere atti
terroristici, né evidenziano la natura moralmente abietta dei massacri condotti per
lo scopo più alto di proteggere e salvaguardare i cittadini israeliani. La potenza di
Israele dipende direttamente dal «principio del fuoco al fuoco e dell’orrore contro
l’orrore», come ha affermato il 20 settembre 2007 l’allora capo della commissione
parlamentare per la Sicurezza Yuval Steinitz, a seguito di sparatorie contro i civili
nelle zone in cui erano stati lanciati i missili Qassam. Il risultato non può che esse-
re una popolazione allevata nella violenza e nella paura e tenuta insieme dalla
lingua che, esprimendo la parola e la volontà di Dio, trasforma lo Stato ebraico in
una pentola a pressione costantemente in procinto di esplodere.
Il risultato è una forma di «cartoipnosi» 16 prodotta dall’utilizzo della nomencla-
tura biblica e dal rifiuto categorico di quella impiegata durante il protettorato bri-
14. Ivi. p. 131.
15. Ivi, p. 132.
16. Termine coniato da S.W. Boggs per indicare che le mappe, che raffigurano e mettono in ordine
dall’alto una porzione di spazio normalmente non visibile nella nostra esperienza quotidiana, indu-
cono ad accettare acriticamente e inconsciamente le idee suggerite da una certa rappresentazione
dello spazio. Cfr. S.W. BOGGS, «Cartohypnosis», Scientific Monthly, vol. 64, n. 6, 1947, p. 464. 61
LA TERRA D’ISRAELE È SCONFINATA, PAROLA DI DIO (E DI BIBI)

1
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

La didascalia della carta riporta quattro versetti biblici che alludono ai confini di
Israele secondo il Libro, ovvero: Esodo 23:31, Deuteronomio 11:24, Giosuè 1:4,
Genesi 28:14. La mappa è prodotta dal ministero dell’Istruzione israeliano ed è
consultabile in N. Peled-Elhanan, La Palestina nei testi scolastici di Israele. Ideolo-
gia e propaganda nell’istruzione, Torino 2015, Gruppo Abele, p. 131.

tannico. La disposizione dello spazio cartografico nei libri di scuola si accompagna


peraltro ad altre forme di rappresentazione dei luoghi. Per esempio non mancano
le fotografie in cui vi sono vasti campi profughi in prospettiva aerea, tradizional-
mente usata per suggerire distanza e distacco emotivo. A queste si contrappongono
cartoline idilliache di insediamenti nei kibbutzim fioriti e operosi. Non sorprende
quindi che il progetto di Eretz Yisrael venga percepito come desiderabile, destinale
62 e inevitabile, se non già realizzato, dato che le carte mostrano esattamente questo.
LA NOTTE DI ISRAELE

E sorprende ancora meno,


alla luce dell’ultimo anno, che la
2
potenza d’Israele non si accon-
tenti più di quei confini che le Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

mappe negano e occultano si-


stematicamente. Israele sembra
volere perseguire il precetto
estremo, compiendo il tiqqun
‘olam in direzione non più di un
mondo il cui centro è Eretz Yi-
srael. L’obiettivo pare infatti es-
sere Yisrael HaShlema (Grande
Israele), la cui posizione non è
più né vicaria né periferica, ma
si afferma come centro di un’a-
rea caratterizzata da un accer-
chiamento promosso dall’eterno
nemico, ovvero l’islam.
Ecco perché l’attuale escala-
tion non sembra destinata a ri-
comporsi, come sarebbe nella
logica delle cose. In questo mo-
mento, Netanyahu non vuole – e
soprattutto non può – fermarsi.
Dalla potenza imperiale america-
na, fiaccata dai dissidi interni e
privata delle energie per control-
lare in modo solido le varie zone
provinciali, giungono al limite
flebili rimbrotti e inascoltati inviti
a non degenerare. Il progetto del
Grande Israele è oramai intra-
preso. Una nuova geografia at-
tende di essere tracciata. Questo
glorioso proposito è probabil-
mente destinato all’apocalisse.
Non a quella nobile e definitiva
delle scritture, ma alla sua versio-
ne umana, che prende le forme
del massacro e dello spreco di carne umana, sacrificata sull’altare di un’ideologia
messianica costruita a tavolino per legittimare i giochi di potere tra nazioni.
Il governo di Netanyahu ha scelto la via del fuoco e della distruzione: una
scelta dettata chiaramente e principalmente da motivazioni politiche, prontamente 63
LA TERRA D’ISRAELE È SCONFINATA, PAROLA DI DIO (E DI BIBI)

mascherate da esigenze di sicurezza, laddove non sembra che Israele oggi sia più
sicura di un anno fa, anzi. Eppure, anche lo spirito più laico e disincantato viene
colto dal sospetto che le decisioni politiche siano affiancate da tensioni d’altro or-
dine, incomprensibili se non alla luce di una suprema lotta tra il principio del bene
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

e quello del male. L’obiettivo, ovviamente, è la distruzione del male. E, dato che
questo compito potrebbe spettare solo all’Altissimo, tanto vale accelerare la fine
dei tempi e giungere a quel punto di massima concentrazione in cui la storia col-
lassa. Inaugurando il tempo nuovo del Messia.

64
LA NOTTE DI ISRAELE

COMANDA
CHI NON TEME Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

LA MORTE di Giuseppe DE RUVO


Filosofia della proxy war: (in)attualità della dialettica
servo-signore. Perché America e Iran non riescono a contenere
i sogni messianici dei loro clienti. Eretz Yisrael, l’oggetto
del desiderio dello Stato ebraico tra teologia e geopolitica.

1. V IVIAMO TEMPI POST-ARISTOTELICI. C’ERA


una volta un mondo governato dalla santissima trinità dei princìpi d’identità, non
contraddizione e terzo escluso, in cui il primo motore immobile era in grado di
attirare a sé la molteplicità dell’essere semplicemente in quanto oggetto amato. Le
cose erano bianche o nere. L’impero del bene e quello del male si servivano l’uno
dell’altro. L’America, autentico primum mobile geopolitico, attraeva a sé il cosiddet-
to fronte occidentale – e, potenzialmente, il mondo intero – promettendo pace,
prosperità e progresso.
Sono stati anni poco dialettici. Tutto pareva essere fisso. O meglio: tutto era
stato fissato una volta per tutte. Fine della storia al maschile e al femminile. Supre-
ma realizzazione del principio d’identità. «Il mondo è, al massimo sarà, America»,
dunque tutto ciò che la contraddice è destinato a essere eliminato. Dalla storia, non
da Washington. Soggetto innocente e altruista legittimato da Dio l’altroieri e dal
processo storico ieri.
Oggi tutto è cambiato. La realtà si è vendicata uccidendo quei princìpi che
volevano incapsularla e imporle la loro legge. Nella transizione egemonica che ci
troviamo ad affrontare il vecchio strumentario analitico risulta inadeguato perché
è in atto una rivoluzione ontologica. O forse era sbagliata l’ontologia – tutta for-
mule e calcoli – che è stata usata fino a ieri. Dal cielo alla terra: oggi si spara, non
si calcola; si sfida l’egemone, non lo si ama; si vive nella contraddizione, non nel-
l’identità.
Non è più possibile isolare singoli fattori o procedere a una classificazione po-
litologica dei protagonisti, cercando di ricavare da siffatta pratica un qualche model-
lo previsionale basato su una distinzione tra grandi, medie e piccole potenze. Il
motivo è semplice: il mondo è mosso da passioni tra loro inconciliabili, da violenze
mimetiche legate a motivi profondamente storici (dunque non oggettivi, ma erme- 65
COMANDA CHI NON TEME LA MORTE

neutici) e da una tendenza all’estremo che, per usare le parole di Girard/von Clau-
sewitz, «non è più nascosta, ma è apparsa alla luce del sole» 1. Si combatte per la vita,
rischiando la morte. In America (chiedere a Trump), in Ucraina e soprattutto in quel
pezzo di terra che, per ironia della storia, siamo soliti chiamare Terrasanta. Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Per andare in profondità e cercare di capire le forme del caos – prismatiche,


irriducibili a un fattore di spiegazione e dunque aperte a essere smentite – è neces-
sario compiere un esercizio dialettico. Il cui primo passo consisterebbe nel render-
si conto, ancora una volta, che il vero è sempre l’intero, ovvero che la realtà – in
quanto tale, in quanto sostanza – semplicemente non esiste. La realtà esiste solo
come azione reciproca (Wechselwirkung) delle parti che la compongono.
Da questa semplice presa di coscienza derivano molteplici corollari 2. Ma quel
che ci interessa qui è studiare un particolare tipo di azione reciproca, ovvero
quella che unisce (o univa) servi e signori, concentrandoci in particolare sullo
scenario mediorientale in ebollizione. Nello stato d’eccezione geopolitico che
stiamo vivendo – e che il Medio Oriente forse strutturalmente è – la dialettica tra
procuratori e clienti (proxies) pare infatti essere in procinto di compiersi. O di
rompersi definitivamente.

2. La questione, posta nella maniera più semplice, è la seguente: i principali


attori geopolitici – nello specifico, Usa e Iran – non sono più in grado di controlla-
re i loro satelliti (Israele) o i loro proxies (Õizbullåh, õûñø). Peggio: questi attori,
statali o no, coltivano agende che non sono semplicemente indipendenti, ma ad-
dirittura in contraddizione con gli interessi dei loro principali sponsor. Israele, no-
nostante i numerosi avvertimenti americani, è oramai in guerra contro tutto e tutti.
L’obiettivo è creare il Grande Israele, dal Giordano al Mediterraneo (almeno), an-
che a costo di scatenare una guerra che l’America – stanca, confusa e sovraestesa
– non avrebbe né la forza né la voglia di coprire.
Le milizie legate a Teheran gettano invece benzina sul fuoco, impedendo all’I-
ran di leccarsi le ferite interne, obbligando la Repubblica Islamica ad assecondare
siffatte operazioni per non far sbiadire la retorica sul Piccolo Satana (Israele) e,
peggio, forzando gli ayatollah o a rispondere militarmente (rischiando una guerra
che farebbe impazzire la maionese domestica) o a non farlo (sancendone lo status
di tigre di carta).
Ma come si è arrivati a questa situazione? Come è possibile che il più grande
impero della storia non riesca a piegare Israele alle sue volontà? Perché Teheran
non riesce a controllare le agende di gruppi miliziani che essa stessa ha creato e

1. R. GIRARD, Portando Clausewitz all’estremo, Milano 2008, Adelphi, p. 44.


2. Ho approfondito questi corollari in diverse sedi, con particolare attenzione al rapporto tra realtà ed
economia, tra realtà e pratiche d’intelligence e tra realtà e prassi geopolitica in quanto tale. Mi permet-
to dunque di rimandare, rispettivamente, a G. DE RUVO, «La scienza impossibile. Adam Smith e la non
totalizzabilità del mercato», Syzethesis, 1/2022; ID., «Metafisica dell’intelligence», Limes, 11/2023, «Le
intelligenze dell’intelligence», pp. 177-186; ID., «La guerra postmoderna e il principio d’irrealtà», Limes,
4/2024, «Fine della guerra», pp. 57-68. In generale, si veda ID., «Governare il caos. La geopolitica come
66 pensiero dell’ordine», in ID. (a cura di), Storia e filosofia della geopolitica, Roma 2024, Carocci.
LA NOTTE DI ISRAELE

che copiosamente finanzia? La risposta è che si è innescata la più classica dialettica


servo-signore. Con l’aggiunta, rispetto al motivo hegeliano, di un grande quantita-
tivo di storie, che ne impediscono una risoluzione sintetica. E che rendono la real-
tà decisamente più violenta. Ma procediamo con ordine. Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Nella Fenomenologia dello Spirito, il rapporto tra servo e signore è un rappor-


to di riconoscimento (Anerkennung). Il servo, per essere tale, deve riconoscere il
signore in quanto tale, ovvero quale autocoscienza che non ha temuto – e, aspetto
ignorato, tutt’ora non teme – di mettere a rischio la sua vita. Il signore, a sua volta,
riconosce sé stesso nella misura in cui ottiene il riconoscimento del servo. Non
abbiamo un processo unidirezionale di causa ed effetto. Al contrario, ancora una
volta, abbiamo un’azione reciproca: «I due estremi si riconoscono come reciproca-
mente riconoscentisi» 3.
A questo livello di complessità, il servo si riconosce come agente non autono-
mo: «Ciò che fa il servo è propriamente il fare del signore» 4. Si potrebbe essere
tentati, e non a torto, di intravedere in questa dinamica la prefigurazione della
nozione gramsciana di egemonia. Il servo, infatti, non è propriamente dominato
dal signore, il cui potere non è violento (se non in origine, quando ha dimostrato
di non tenere alla vita). Semplicemente, il servo è tale perché serve il padrone,
proprio nel senso che fa ciò che gli serve e che, altrimenti, dovrebbe fare da solo.
In una parola, il servo lavora, ovvero – in termini hegeliani – modifica la realtà
secondo la volontà del signore.
In questo senso, centrale per la coscienza servile è la capacità di tenere a freno
il desiderio. Il lavoro, infatti, nel suo modificare la realtà per compiacere il signore,
si configura esattamente come «desiderio tenuto a freno» 5. Il servo non gode
dell’oggetto. Piuttosto, egli lo lavora e lo offre al signore che, di conseguenza, si
sente certo di possederlo nella misura in cui il servo glielo offre pronto per essere
consumato e goduto.
È a questo punto che avviene il ribaltamento dialettico. La questione cruciale
non è la fattuale dipendenza del signore dal lavoro del servo, ma il fatto che – a
differenza del primo – quest’ultimo non è semplicemente certo della cosa, ma –
avendola lavorata – ne conosce la verità. Ponendo la sua autocoscienza nell’ogget-
to mediante il lavoro, il servo scopre la sua capacità di modificare la realtà e,
dunque, la sua libertà, intesa nel senso moderno di capacità di fare e di produrre
(machen). Il signore, certo della cosa ma capace solo di goderne, è fondamental-
mente passivo, dunque inessenziale: «La verità della coscienza autonoma è la co-
scienza servile. (…) la signoria ha mostrato che la sua essenza è proprio l’inverso
di ciò che la signoria stessa vuole essere» 6.
Ora, applicare questa dinamica alle questioni geopolitiche è semplice. I clien-
tes riescono a sviluppare capacità di agire autonomamente nei loro teatri regionali

3. G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello Spirito, Milano 1993, Rusconi, p. 277.


4. Ivi, p. 285.
5. Ivi, p. 289.
6. Ivi, p. 287. 67
COMANDA CHI NON TEME LA MORTE

perché lavorano in quell’ambiente, perché è il loro agire a disegnarlo e dunque a


produrlo. I signori, per quanto possano essere presenti in loco, spesso non com-
prendono, anche per motivi contingenti, le dinamiche di quel territorio – hegelia-
namente diremmo dell’oggetto – e, dunque, dipendono dal lavoro dei servi: laCopia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

«cosa» con cui hanno a che fare è già da sempre mediata dal fare dei clientes, dalle
loro informazioni e interpretazioni.
Non abbiamo qui a che fare con una relazione di mera potenza. Il servo non è
più forte del padrone. Piuttosto, dato che il signore non è in possesso della verità
della cosa, allora esso non è dotato neppure dell’autorità necessaria per esercitare
un’egemonia nel senso letterale (dal greco ago, condurre) del termine. Il padrone
potrà anche essere virtualmente riconosciuto come tale, ma a condurre le operazio-
ni sarà il servo. La questione è la conoscenza della realtà effettuale (Wirklichkeit) e
della rete di azioni reciproche (Wechselwirkungen) che la compongono. Il servo
possiede questo sapere, il signore no. Dunque è totalmente dipendente dal servo.
Oltre alla dialettica tra certezza e verità, hegelianamente e geopoliticamente
centrale, agisce in questo contesto anche la questione più empirica della dipenden-
za che lega il signore al servo. Dipendenza che, però, è anch’essa legata alla capa-
cità di lavorare la cosa – o, in termini geopolitici – di saper agire in uno scenario.
Come scrive Hegel, infatti, la potenza del lavoro, la sua forza liberante, sta nel
fatto che esso «forma, coltiva» 7.
La figura dell’Arbeit pone dunque una differenza antropologica tra servo e si-
gnore: il primo, capace di sprofondare nella cosa grazie a quella particolare forma
di intus-legere che è il machen, è abituato ad agire, perché il lavoro è suprema
forma di Bildung (educazione). Il secondo, di fatto non educato alla cosa, dipende
dal servo soprattutto a causa di una sua virtuale incapacità ad agire, che si confi-
gura come un’abitudine di segno inverso: abituato a far compiere il lavoro sporco
al servo, il signore semplicemente dimentica come esercitare la sua potenza con
successo. Quella servile è coscienza che esce fuori di sé e rientra in sé, negando e
lavorando l’esteriorità del mondo. Il padrone non compie questo doppio movi-
mento. Egli semplicemente attende l’agire del servo, dimostrandosi idiota, ovvero
incapace di uscire dal suo spazio «privato» (idion). Il signore dipende dal servo
perché, troppo preso a specchiarsi e a godere del suo essere, non ha mai imparato
(o ha dimenticato) l’importanza del fare, dell’intus-legere e della Bildung.
Nei rapporti tra Stati Uniti e Israele la tendenza è esattamente questa. Washin-
gton non riesce a sentire il polso del Medio Oriente per motivi strutturali. Il parzia-
le abbandono della regione, avvenuto in maniera disordinata (eufemismo) dopo
vent’anni di follie astrategiche seguite agli attacchi dell’11 settembre, ha generato
nella classe dirigente e nella popolazione una sorta di rigetto nei confronti delle
dinamiche mediorientali.
Gli americani, come segnalato dai budget per la difesa e dalle varie National
Security Strategy 8, non vogliono neppure sentir parlare del Medio Oriente. Sono
7. Ivi, p. 289.
68 8. Si vedano in particolare quelle del 2021 e del 2022.
LA NOTTE DI ISRAELE

talmente poco interessati a queste faccende che, quando sono obbligati a trattarle,
propongono «soluzioni» a dir poco fantasiose – esempio: una (sempreverde) Nato
mediorientale 9 – o semplicemente affermano di battersi per difendere l’«unica de-
mocrazia» della regione (previa intesa con le democraticissime petromonarchie del Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Golfo, ça va sans dire).


Gli spazi di manovra per il servo Israele sono dunque infiniti. La percezione è
quella di un’America che non ha a cuore le sorti dello Stato ebraico e che ignora
la complessità regionale, ricorrendo alla manichea semplificazione tra democrazie
(quali?) e autocrazie. Gli israeliani conoscono gli iraniani e i loro proxies meglio
degli americani, dunque gli inviti statunitensi a non commettere gli stessi errori
dell’America suonano inaccettabili alle orecchie dei decisori dello Stato ebraico. La
soluzione finale è il Grande Israele, unico modo per ristabilire la deterrenza in una
regione in cui la spada vale più del fioretto. E Washington, in preda alla tempesta
domestica e fondamentalmente ignara dei sentimenti che si agitano nella regione,
non può che seguire. In fin dei conti, meglio tenersi il Grande Israele – et pereat
mundus – che assistere alla dissoluzione, anche interna 10, del Piccolo Satana, «uni-
ca democrazia della regione». Quando certezza – in senso hegeliano, dunque non
verità – politologica e disabitudine strategica si mischiano, il signore diventa servo.
Se gli va bene.
Spostiamoci sull’altro lato della barricata. Tra Iran e proxies la dinamica è simi-
le ma diversa. Qui non si tratta di idiozia (nel senso espresso in precedenza) o di
mancata conoscenza del teatro, quanto di pura dipendenza. Teheran e le milizie a
essa legata si integrano e si completano, dunque non possono vivere l’una senza
le altre. La Repubblica Islamica necessita dei suoi proxies per condurre operazioni
militari che non potrebbe svolgere in prima persona senza rischiare un conflitto
diretto con lo Stato ebraico e, allo stesso tempo, le milizie dipendono totalmente
da Teheran in termini economici e bellici 11.
Ciononostante, i proxies determinano la postura dell’Iran in virtù di un atteg-
giamento mistico-religioso che la Repubblica Islamica non può permettersi di limi-
tare. Cruciale nello sciismo duodecimano è infatti il concetto di martirio, in virtù del
quale chi si sacrifica per la causa verrà immediatamente accolto in paradiso. E
tuttavia, questo precetto teologico viene declinato in maniera differente a seconda
del teatro in cui si opera. I potenziali martiri di Õizbullåh, infatti, vivono la loro
missione con una carica messianico-escatologica decisamente superiore rispetto ai
loro signori iraniani. La Repubblica Islamica deve infatti tener conto di equilibri
regionali complessi e di varie faglie interne, dunque essa storicamente ha cercato
(e cerca tuttora) di limitare l’esplosione del messianismo sciita. L’obiettivo è evitare
che i suoi effetti si ritorcano contro di lei.

9. Cfr. R. GREENWAY, «L’America deve creare un’alleanza arabo-israeliana contro l’Iran», Limes, 5/2024,
«Misteri persiani», n. 221-228.
10. Cfr. Limes, 3/2023, «Israele contro Israele».
11. Si veda la seconda sezione di Limes, 5/2024, cit., dedicata a «I clienti dell’impero». 69
COMANDA CHI NON TEME LA MORTE

Per quanto siffatta cautela venga consigliata anche ai membri del Partito di
Dio, questi ultimi – imbevuti di un senso di missione particolarmente radicato –
non sempre agiscono seguendo le direttive degli ayatollah. La conseguenza è che
essi mettono in campo operazioni che, dal punto di vista di Teheran, rischiano di Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

essere pericolose, ma che la Repubblica Islamica non può condannare. Dissociar-


si dai martiri del Partito di Dio significherebbe infatti mettere in dubbio il disposi-
tivo teologico-politico del martirio, centrale nello sciismo duodecimano su cui
l’Iran fonda la sua legittimità. Teheran si trova dunque a dover rincorrere le azio-
ni delle milizie, assomigliando a quello stregone che non è più in grado di gover-
nare le forze mistiche che ha evocato. Il ribaltamento dialettico si tinge di cariche
religiose: il signore non può arginare il servo perché esso non fa altro che realiz-
zare ciò che il primo predica. Ma che, a livello strategico, non può effettivamente
realizzare.
Insomma, applicare la dialettica servo-signore alle relazioni israelo-americane
e a quelle tra l’Iran e i suoi proxies pare essere euristicamente efficace. Di certo,
permette di mettere al centro dell’analisi le azioni reciproche tra i diversi attori,
mandando in frantumi gli schemi politologici (autocrazie vs democrazie), moralisti-
ci (buoni vs cattivi) e propagandistici. E tuttavia, questa interpretazione hegeliana
sconta due problemi fondamentali, differenti ma tra loro legati.
La dialettica servo-signore, infatti, non si conclude con un inversione dei ruoli.
Secondo Hegel, il servo non si trasforma in signore. Piuttosto, il compimento di
questa figura porta all’instaurarsi di una nuova congiuntura, in cui – a ben guarda-
re – non ci sono più né servi né signori, perché ciascuna autocoscienza è al con-
tempo sovrana e dipendente dalle altre, proprio grazie alla mediazione del lavoro.
Hegel è estremamente chiaro: il compimento della dialettica servo-signore significa
il passaggio dal sistema feudale all’economia di mercato borghese, dove il sogget-
to non è più il signore (o il servo), ma il lavoro stesso, ovvero il «fare di tutti e di
ciascuno» 12. Se, in precedenza, a dominare era il padrone, ora ci troviamo in una
«dipendenza onnilaterale» 13 dove ciò che conta è che tutti gli esseri umani siano
uguali e interdipendenti.
Epperò, se torniamo a volgere lo sguardo alle dinamiche descritte in prece-
denza, vediamo che, sotto questo aspetto, né il rapporto dell’America con Israele
né quello dell’Iran con i suoi proxies si sono trasformati in una dipendenza onnila-
terale. O meglio, servi e signori dipendono gli uni dagli altri, ma i primi paiono
porre un’asimmetria nel rapporto. Israele e i clientes iraniani, per quanto dipenden-
ti da Washington e Teheran, sembrano dirigere le operazioni e dettare i tempi,
nonostante ciò che i loro padroni vorrebbero. La dipendenza onnilaterale non è
equilibrata. Formalmente esiste, ma concretamente essa è sbilanciata verso i servi.
Il lavoro è di tutti e di ciascuno, ma sono questi ultimi a dirigerlo. Con buona pace
di chi crede(va) di essere il signore.

12. G.W.F. HEGEL, op. cit., p. 277.


70 13. ID., Lineamenti di filosofia del diritto, Milano 2016, Bompiani, §183, p. 337.
LA NOTTE DI ISRAELE

Questa asimmetria nasce da un non detto presente nel ragionamento hegelia-


no, che ne mina la diretta applicazione in ambito geopolitico. Secondo Hegel, in-
fatti, con il compimento della dialettica servo-signore avviene «il superamento di
ogni immediatezza, di ogni astratta sostanzialità» 14. Questo può valere senza dub- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

bio nella sfera sociale, dove la nascente economia capitalistica distrugge ogni vin-
colo sostanziale e personale introducendo il denaro e il mercato come dispositivi
quantitativi di ordinamento 15.
Ma siffatto processo non avviene nelle dinamiche geopolitiche, dove le identità
immediate e sostanziali non vengono rimosse dalla dialettica. Anzi, come vedremo,
esse resistono e la incrinano, sbilanciandola verso chi ha più da perdere e impeden-
done una risoluzione pacifica: «Solo il servo può trasformare il mondo che lo fissa e
forma nella servitù, e creare un mondo formato da lui in cui egli sarà libero. (…)
trasformando il mondo mediante il lavoro, il servo trasforma sé stesso e crea così le
condizioni oggettive che gli permettono di riprendere la lotta liberatrice» 16.
Insomma, come ebbe a dire René Girard: «La dialettica di servo e padrone, in
questo senso, mi è sempre sembrata irenica» 17. Si tratta dunque di finire Hegel (e
non solo Clausewitz 18), portando all’estremo questa dialettica fino a toccare il suo
limite, costituito dall’incrocio – dialettico, ovviamente – delle due forze che guida-
no il mondo. L’amore e la violenza 19.

3. Gli attori geopolitici sono entità concrete, cariche di storia e imbevute di


rappresentazioni strategiche. Non sono pure autocoscienze. La dialettica del loro
incontro è sempre caratterizzata da un fondo d’irriducibilità, anche quando le ge-
rarchie sono chiare, quando il rapporto si configura come un’alleanza e quando i
soggetti si percepiscono come simili. Anzi, è proprio in queste congiunture che si
genera una particolare riedizione della dialettica servo-signore, ovvero quella tra
maestro e discepolo.
La questione, come nota Girard, è che questa dialettica è perlopiù inconsape-
vole: «Né il modello né il discepolo sono pronti a riconoscere che si consacrano
entrambi alla rivalità» 20. I due estremi della relazione hanno qualcosa in comune,
ma proprio per questo essi sono destinati alla rivalità. Entrambi vogliono la stessa
cosa, ma il discepolo – nel riconoscere l’autorità del maestro – «si crede condanna-
to e umiliato» 21.
14. M. CACCIARI, Dialettica e critica del politico, Milano 1978, Feltrinelli, p. 30.
15. Cfr. G. DE RUVO, Da Hegel a TikTok. Metafisica e geopolitica del capitalismo digitale, Monza 2022,
Ebs. Si veda in particolare la sezione 1.1. del terzo capitolo, intitolata «Una genesi calcolistico-quanti-
tativa del capitalismo».
16. A. KOJÈVE, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano 1996, Adelphi, p. 43 (corsivo mio).
17. R. GIRARD, Portando Clausewitz all’estremo, cit., p. 67.
18. Cfr. «Il segreto di Clausewitz», editoriale di Limes, 4/2024, «Fine della guerra».
19. Per ragioni di economia del discorso, nelle pagine che seguono ci concentreremo soprattutto sul
rapporto tra America e Israele. Sul rapporto tra Iran e Õizbullåh, si veda l’articolo di G.M. ARRIGO in
questo volume.
20. R. GIRARD, La violenza e il sacro, Milano 1980, Adelphi, p. 205.
21. Ivi, p. 206. 71
COMANDA CHI NON TEME LA MORTE

L’azione reciproca tra maestro/signore e discepolo/servo non si conclude con


il riconoscimento della loro codipendenza, ma con la frustrazione del desiderio del
secondo, la cui conseguenza principale è l’eccitamento della sua volontà. E tutta-
via, entrambi gli attori sanno che non esiste protesta razionale che possa portare il
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discepolo a convincere il maestro della legittimità dei suoi interessi: «Il modello si
ritiene troppo al di sopra del discepolo, il discepolo si ritiene troppo al di sotto del
modello» 22.
Siamo in un’impasse che non può essere risolta dialetticamente. Per il discepo-
lo/servo l’unica soluzione è la rottura di questo circolo, dal quale non può cavare
assolutamente nulla se non l’ipostatizzazione della sua servitù e la frustrazione del
suo desiderio. Per affermare il suo essere, è necessario un tipo differente di sintesi,
in grado di sancire che «il discepolo può servire anch’egli da modello, talvolta per-
sino al suo stesso modello» 23. È necessaria un’operazione illogica, non razionale ed
estrema, che permetta al discepolo di affermare davanti al maestro la sua singola-
rità, la sua irriducibilità e soprattutto la sua concretezza. Trasformandosi così in un
modello.
Ed ecco che il discepolo, «con sintesi a un tempo logica e delirante, deve
presto convincersi che la violenza stessa è il segno più sicuro dell’essere che sem-
pre lo elude. La violenza e il desiderio sono oramai collegati l’uno all’altro» 24.
L’esibizione spettacolare della violenza, che non riconosce superiori, si trasforma
in mezzo per esibire l’identità. L’operazione, che può suonare anche come grido
d’aiuto, serve al discepolo per segnalare al maestro la sua irriducibilità alla mera
dimensione servile. Ed è violenza mimetica. Il discepolo non vuole qualcosa di
diverso dal maestro. Vuole la stessa cosa, ma vuole essere lui a volerla e a deci-
dere le forme di siffatta volontà: «La violenza diviene il significante del desidera-
bile assoluto» 25.
Siamo al contempo dentro e oltre Hegel. La relazione tra servo e signore è
ancora quella di un’azione reciproca, ma questa – nella dialettica maestro-discepo-
lo – è «al tempo stesso scambio, commercio e reciprocità violenta» 26. Il rapporto tra
le due autocoscienze si è modificato nella misura le abbiamo iniziate a considerare
in primis come dotate di un desiderio concreto, situato storicamente e da queste
considerato esistenziale. Avendo compiuto questo passaggio, la dialettica servo-si-
gnore perde la sua natura irenica perché, a questo livello di complessità dialetti-
co-esistenziale, «non abbiamo più la reciprocità che frena e rallenta il corso delle
cose, bensì quella che lo accelera» 27.
Il desiderio, insomma, non è più un qualcosa di tenuto a freno – come nella
Fenomenologia – ma qualcosa di portato all’estremo, in virtù del quale ogni rap-
22. Ibidem.
23. Ibidem.
24. Ivi, p. 208.
25. Ibidem.
26. ID., Portando Clausewitz all’estremo, cit., p. 39.
72 27. Ivi, p. 42.
LA NOTTE DI ISRAELE

porto di dipendenza viene letteralmente spezzato. Con la differenza, rispetto al


motivo hegeliano, che lo stato finale non è una pacifica dipendenza onnilaterale,
ma un gioco violento di seduzione attraverso cui il discepolo mira ad affermare
violentemente la sua identità. Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

4. Forse, per comprendere la dialettica che si è innestata tra Stati Uniti e Israe-
le, questa riconfigurazione della dialettica servo-signore può essere più utile dell’o-
riginale. Del resto, né l’America né lo Stato ebraico sono pure autocoscienze, ma
soggetti geopolitici concreti, dotati di desideri specifici, tra loro molto simili e,
forse proprio per questo, in potenziale competizione.
La questione è la seguente: in Medio Oriente, Israele sta combattendo una
guerra che considera esistenziale, mentre per gli Usa si tratta esclusivamente
dell’ennesima distrazione che gli impedisce di leccarsi le ferite domestiche. Stato
ebraico e America vogliono ancora la stessa cosa: essere Gerusalemme. Il proble-
ma è che per il primo questo obiettivo può essere raggiunto oramai solo con la
violenza, mentre la seconda ritiene che esso presupponga una delimitazione
dell’impero, per impedire alla città sulla collina di bruciare definitivamente 28.
Dal punto di vista americano, la soluzione sarebbe – esattamente come per
l’Europa orientale e in misura minore anche per l’Indo-Pacifico 29 – la creazione di
un ordine regionale mediorientale sufficientemente stabile, basato sull’equilibrio
delle forze e sulla capacità degli alleati di rispondere alle minacce in sostanziale
autonomia. Obiettivo ultimo: permettere agli Usa di dedicarsi alla tempesta dome-
stica, dove la violenza politica dilaga e il tiro al presidente pare essersi trasformato
in sport nazionale.
È in quest’ottica che vanno letti i messaggi inviati dall’amministrazione ameri-
cana allo Stato ebraico, attraverso i quali il maestro statunitense chiede al discepo-
lo israeliano di non ripetere i suoi stessi errori. L’America chiede a Israele di non
condurla in una guerra totale e cerca dunque di esercitare nei confronti dell’alleato
una sorta di potere d’interdizione che, tornando a Girard, è la forma più pura del
potere del maestro. Washington sta infatti dicendo allo Stato ebraico «non imitar-
mi» 30, ovvero sta cercando di tenere a freno il desiderio di Israele.
Ma la contraddizione era destinata a esplodere perché il signore, come abbia-
mo visto in precedenza, pare essere poco educato alla cosa. Washington non
comprende che per gli israeliani questa guerra non è contestualizzabile. Essa non
si combatte né per Gaza, né per il Sud del Libano, né per l’egemonia regionale. Al
contrario, la posta in palio è l’esistenza stessa di Israele in quanto Stato sicuro e
dotato di confini certi, possibilmente come Bibbia comanda.
Washington, insomma, non riconosce e frustra il desiderio dello Stato ebraico.
Il suo «non imitarmi» non produrrà gli effetti sperati sul discepolo. Al contrario, «lo

28. F. PETRONI, «La sindrome di Lear», Limes, 3/2024, «Mal d’America», pp. 51-62.
29. S. WERTHEIM, «La fine dell’impero globale», ivi, pp. 75-84.
30. R. GIRARD, La violenza e il sacro, cit., p. 206. 73
COMANDA CHI NON TEME LA MORTE

getterà nella disperazione» 31, eccitandone l’animo e fomentando una violenza non
più diretta solo verso i (tanti) nemici, ma anche indirettamente verso il maestro, reo
di considerarlo «indegno di partecipare all’esistenza superiore di cui quello gode» 32.
Il legame dialettico tende dunque a rompersi. Il signore/maestro vorrebbe che
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il servo/discepolo tenesse a freno il suo desiderio e si adattasse a svolgere un ruo-


lo normale all’interno di un rinnovato ordine mediorientale, ma per lo Stato ebrai-
co tutto questo è irricevibile. È troppo tardi. Dal punto di vista israeliano, Washin-
gton non comprende che gli attacchi del 7 ottobre sono stati un evento di portata
biblica.
Come ha scritto Bernard-Henry Lévy, in una riflessione totalmente irrazionale
e dunque geopoliticamente interessante, gli eventi recenti impongono totale ripen-
samento delle categorie. Essi stanno «capovolgendo i quadranti della storia» e, es-
sendo «estranei a ciò che un intelletto può concepire» in quanto «scritti in una lingua
sconosciuta», obbligano lo Stato degli ebrei a fare i conti con problemi «aberranti e
prodigiosi; irriducibili, anche a posteriori, al loro contesto» 33. La questione è che «la
corazza d’invulnerabilità dello Stato ebraico si è bruscamente rotta» 34 e il «rifugio» si
è oramai trasformato in «trappola», al punto che «il luogo simbolo del “mai più que-
sto” è quello in cui “questo” ritorna come un fulmine» 35.
Non esistono soluzioni politiche a un problema esistenziale. Almeno, non
esistono per chi ritiene di vivere in stato d’eccezione, in una fase storica in cui in
gioco non c’è questo o quell’interesse strategico, ma la possibilità stessa di esistere.
Il ragionamento assume tinte messianiche: «Non c’è posto su questa terra che sia il
rifugio degli ebrei: questo è l’annuncio dell’evento. Non si potrà mai dire, da nes-
suna parte, che gli ebrei possono vivere pacificamente nel mondo, e questo fino
alla fine dei tempi, ed è la verità che sembra saltare agli occhi. Amalek è tornato» 36.
Se Israele vuole salvarsi, la soluzione è una sola. Distruggere gli amaleciti, farli
scomparire dalla storia, esattamente come fece Davide a suo tempo: «Egli ricorse
allo sterminio di donne e di bambini, e pensava di non agire a questo riguardo in
maniera barbara e inumana: innanzitutto perché gli amaleciti erano nemici che
l’avevano minacciato e, in secondo luogo, perché aveva avuto un comando da
parte di Dio, che era pericoloso disattendere» 37.
Insomma, davanti alla possibilità della distruzione (vera o percepita poco im-
porta), il servo/discepolo non accetterà mai la moderazione del maestro. Al contra-
rio, la sfiderà con la violenza, con l’obiettivo di far emergere la sua soggettività,
nella fondata (o infondata) speranza di trasformarsi nel signore/maestro. Gerusa-
lemme non può ritirarsi nella sua Fortezza, né può essere una pedina nel grande
gioco mediorientale. Il suo desiderio non può essere tenuto a freno, deve irradiar-
31. Ibidem.
32. Ibidem.
33. B-H. LÉVY, Solitudine d’Israele, Milano 2024, La Nave di Teseo, p. 30.
34. Ivi, p. 36.
35. Ivi, p. 38.
36. Ivi, p. 36.
74 37. Flavio GIUSEPPE, Antichità ebraiche, libro VI, capitolo VII.
LA NOTTE DI ISRAELE

si per ricordare al mondo la sua grandezza. Ancora Lévy: «Che ognuno dica con
chiarezza se riconosce un’altra grandezza a Israele oltre al ritorno all’ovile e un’altra
utilità agli ebrei se non ostacolare il ritorno dei saraceni» 38. Tradotto: non ci accon-
tentiamo di far parte di un ordine volto a contenere l’Iran. Vogliamo che la luce di
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Gerusalemme illumini il mondo.


Dal punto di vista israeliano, la precondizione per ogni «discussione illumina-
ta» 39 è dunque il riconoscimento della sua sacralità, del suo essere modello e non
mero discepolo, del suo essere oltre le questioni geopolitiche. E questo riconosci-
mento deve arrivare in primis da parte dei maestri americani, che continuano a
pensare lo Stato ebraico come una pedina e non come «un punto, un semplice
punto, ma che punto! Il punto centrale e nascosto, il punto segreto ed essenziale
sul quale poggia, nell’atroce dramma della storia, una parte della sopravvivenza
della razza umana (…). Israele non è una pedina, ma un punto. Ed è il nucleo da
cui provengono una parola e una luce senza le quali qualcosa dell’essere umano
andrebbe perduto» 40 .
Per lo Stato ebraico, nell’attuale congiuntura non ci sono vie di mezzo. Geru-
salemme o morte. Altro che moderazione e non-imitazione del maestro america-
no. Il contesto non conta più nulla, né conta qualcosa il «dopo». Perché, nella
violenza mimetica e messianica che si è impossessata di Israele (e non solo di
Netanyahu), l’«ora» non è più ciò che divide l’«adesso» dal «poi», ma un istante de-
cisivo in cui si compie una decisione metafisica, in base alla quale si genereranno
il prima e il dopo.
E dunque, insieme a Hegel, anche Clausewitz viene portato all’estremo. Que-
sta guerra metafisica non porta solo il servo/discepolo a disinteressarsi degli ordini
del signore/maestro e a competere con lui per quanto riguarda il modo di condur-
re le operazioni. Piuttosto, la tensione mistica con cui questa guerra viene combat-
tuta e raccontata «spinge l’immaginazione a tali estremi che vi si finisce per perde-
re il senso della realtà» 41. Non ci sono limiti politici alla guerra, perché essa trascen-
de la politica: è guerra sulle condizioni di possibilità dello Stato ebraico. È letteral-
mente una guerra trascendentale, precategoriale, prepolitica. È richiesta di ricono-
scimento assoluto, desiderio di «autosufficienza divina» 42 – altro che dipendenza
onnilaterale.
E la violenza ne è componente essenziale. Non solo perché redentrice. Non
solo perché diretta sia verso i nemici – in termini girardiani semplici capri espiato-
ri – sia, indirettamente, verso i maestri. La violenza è parte essenziale di questa
guerra perché figlia di un particolare tipo di amore. Che, legando Israele alla sua
terra, porta lo Stato ebraico a disinteressarsi della realtà. E forse anche di sé stesso.
Fiat Eretz Yisrael, pereat mundus.
38. B-H. LÉVY, op. cit., p. 110.
39. Ibidem.
40. Ivi, p. 63.
41. R. GIRARD, Portando Clausewitz all’estremo, cit., p. 32.
42. ID., La violenza e il sacro, cit., p. 208. 75
COMANDA CHI NON TEME LA MORTE

5. La violenza, mimetica e messianica, sgorga dalla mancanza di riconoscimen-


to. Del maestro, reo di non riconoscere la sacralità di Israele, e del nemico, mero
capro espiatorio, esteriorità da rimuovere per garantire la sicurezza dello Stato. La
dialettica servo-signore si rompe, perché il desiderio promuove una tendenza all’e- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

stremo. Ma, concretamente, di che desiderio stiamo parlando? Meglio: qual è l’og-
getto del desiderio che muove lo Stato ebraico e che lo porta a rompere ogni lega-
me di riconoscimento?
La risposta sfiora il paradosso, perché a muovere il desiderio è una forma di
amore talmente potente e sovraumana da rendere impossibile qualsiasi forma ter-
rena di Anerkennung. Questo amore, presente nella cultura ebraica di cui lo Stato
guidato da Netanyahu si fa portavoce, è indirizzato verso un qualcosa di assoluta-
mente altro, di irriducibile alle cose umane e da cui dipende la salvezza degli ebrei.
Ieri questo amore aveva per oggetto Dio, mentre oggi ha per oggetto la Terra. Quel
che non cambia, però, è la fenomenologia di questo modo di amare, il fatto che
esso – orientato esclusivamente verso un principio trascendente – generi indiffe-
renza (se non disprezzo) nei confronti del mondo, così rifuggendo ogni possibilità
di riconoscimento. Del maestro e del nemico.
Torniamo a Hegel. Nei suoi Scritti giovanili, il filosofo tedesco opera una
estremamente controversa analisi dello spirito ebraico, destinata a essere contesta-
ta e considerata piena di stereotipi. Effettivamente è vero. In alcuni passaggi, egli
ricorre a luoghi comuni – come la proverbiale avidità degli ebrei o la loro astuzia
e inaffidabilità – che manifestano un’evidente stereotipizzazione del popolo ebrai-
co, facilmente individuabile anche alla luce della celebrazione della figura di Cristo
svolta da Hegel nella Vita di Gesù, dove il figlio di Dio viene fatto parlare con le
parole di Kant, maestro di rettitudine e buon cuore.
E tuttavia, le analisi del filosofo di Stoccarda sul particolare tipo di amore che
lega gli israeliani alla Terra possono essere utili perché, a ben guardare, esse paio-
no anticipare una particolare postura geopolitica assunta dal sionismo religioso
negli ultimi anni e che trova in Binyamin Netanyahu il suo massimo rappresentan-
te. Ciò non significa, ovviamente, che la cultura ebraica nella sua totalità sia ridu-
cibile all’esaltazione della sacralità della Terra. Esistono correnti dell’ebraismo che,
al contrario, pongono al centro la questione dell’esodo, del viaggio e del nomadi-
smo, proprio per decostruire il mito di Eretz Yisrael. Eppure, l’attuale postura dello
Stato ebraico pare essere fondata soprattutto su questo mito, che dà luogo a una
forma d’amore astrategica per la Terra tale da rendere impossibile ogni riconosci-
mento umano e da trasformare la guerra per i confini di Eretz Yisrael in guerra
escatologica.
Veniamo dunque a Hegel: «Abramo vagò con il suo gregge per un territorio
senza confini, di cui non rese a sé più vicine, coltivandole e abbellendole, singole
parti che in tal modo gli sarebbero state care (…): la terra era destinata solo al
pascolo del suo gregge» 43. In questo passaggio hegeliano emerge in tutta la sua
76 43. G.W.F. HEGEL, Scritti Giovanili, Napoli 2015, Orthotes, p. 453. Corsivi miei.
LA NOTTE DI ISRAELE

potenza la forma d’amore che lega Israele alla sua Terra. Essa è sacra in quanto
tale, ma non viene né coltivata né abbellita. Nessuna sua porzione è cara ad Abra-
mo, che la ama solo perché costituisce la condizione di esistenza del suo gregge.
L’amore per la Terra è un amore astratto, nel senso che essa viene venerata e sa- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

cralizzata in quanto ipostasi, in quanto pura possibilità di Israele. Ma questo amore


non è in alcun modo diretto a ciò che vive, viveva o vivrà su quella Terra. Che, in
fin dei conti, deve essere intesa come secretum, ovvero come «qualcosa di assolu-
tamente estraneo a cui nessun uomo poteva essere innalzato, ma da cui poteva
solo dipendere» 44.
Il popolo ebraico, la sua esistenza, dipende dalla Terra. Essa è il suo unico
signore e Dio il suo unico maestro. Ogni altra dialettica di riconoscimento viene
inghiottita dalla potenza del richiamo di Eretz Yisrael. E l’obiettivo ultimo del po-
polo ebraico non è coltivarla e renderla abitabile, quanto conservarne «l’esistenza
fisica e renderla sicura» 45, indipendentemente da qualsiasi evento. L’amore astratto
per la Terra si rigira dunque, secondo Hegel, in incapacità di amare concretamen-
te ciò che è umano e particolare: «Abramo volle non amare» 46, perché egli volle
solo obbedire al suo Dio e al richiamo della sua Terra.
Ora, è curioso notare come il riferimento a Eretz Yisrael – e l’amore nei suoi
confronti, con conseguente disinteresse nei confronti delle conseguenze terrene –
tenda a riemergere in momenti particolari, critici, potenzialmente messianici. Ad
esempio, le posizioni di esponenti del sionismo religioso come Isaac Kook (1865-
1935) – e successivamente di suo figlio Zvi Yehuda Kook (1891-1982) – vennero
recuperate soprattutto a seguito della vittoria nella guerra dei Sei giorni, nella mi-
sura in cui si credeva che «si stesse già vivendo un’èra messianica» 47. Peraltro, il
fatto che la guerra fosse durata proprio sei giorni – ovvero il tempo impiegato da
Dio a creare il mondo – non fece che rafforzare gli afflati escatologici del sionismo
religioso, che vedeva nel controllo di Eretz Yisrael il punto di partenza e d’arrivo
del sionismo tout court, oramai virato in dottrina teologico-politica.
Sotto questo aspetto, Kook (padre) era stato chiarissimo: «Ritenere Eretz Yisra-
el soltanto uno strumento per creare la nostra unità nazionale (…) è un concetto
sterile; non vale la santità di Eretz Yisrael (…). L’originale creatività ebraica (…) è
impossibile se non in Eretz Yisrael. D’altro canto, qualsiasi cosa il popolo ebraico
faccia in Eretz Yisrael trasforma ciò che è universale in una forma unicamente
ebraica» 48. La Terra d’Israele è ciò che rende possibile la creatività e l’esistenza del
popolo ebraico. Essa non è mero spazio su cui edificare uno Stato. Siffatta prospet-
tiva sarebbe sterile e non produttiva. Eretz Yisrael è un luogo donato da Dio ad
Abramo con confini vaghi e amplissimi, proprio perché ciò che conta non è la
44. Ivi, p. 461.
45. Ibidem.
46. Ivi, p. 452.
47. A. MARZANO, Storia dei sionismi, Roma 2017, Carocci, p. 137.
48. A.I. KOOK, «The Land of Israel», in A. Hertzberg (a cura di), The Zionist Idea, Jerusalem 1997, Jewi-
sh Publications Society. 77
COMANDA CHI NON TEME LA MORTE

dimensione quantitativa dello Stato, ma la sua esistenza qualitativa, ovvero il suo


essere lo spazio degli ebrei, la loro condizione di esistenza.
Non è dunque un caso che, negli ultimi anni, la postura dello Stato ebraico sia
tornata a fondarsi sul mito di Eretz Yisrael 49. Gli attacchi del 7 ottobre ne hanno Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

sancito la vulnerabilità. Ma, al contempo, l’avvicinarsi della catastrofe reca in sé la


traccia della redenzione. Non c’è escatologia senza mediazione del disastro. E la
possibilità della fine spalanca le porte del paradiso, recidendo ogni dialettica uma-
na di riconoscimento. Non è più possibile tenere a freno il desiderio. Farlo signifi-
cherebbe rimandare l’apocalisse, intesa non come distruzione ma come momento
decisivo in cui ciò che è stato promesso finalmente si realizza. L’amore per la
Terra è più forte dell’amore per gli uomini. E non importa se, come già ammoniva
Hegel, «il destino del popolo ebraico è il destino di Macbeth, che si staccò dalla
natura, si legò a potenze estranee e, per servirle, dovette uccidere e disperdere
ogni cosa sacra della natura umana» 50.
Il punto è che oggi salvezza non significa più mera sopravvivenza, ma defini-
tivo avvento di Eretz Yisrael, Terra degli ebrei in cui «non ci sono territori arabi o
terre arabe, ma soltanto territori israeliani – la Terra eterna dei nostri progenitori,
che appartiene nelle sue frontiere bibliche al governo d’Israele» 51. L’estensione di
questi confini non è chiara e non è neppure interessante – valga Deuteronomio
11:24, dove si sancisce che «ogni luogo dove metterete piede sarà vostro». L’impor-
tante è che Eretz Yisrael sia, indipendentemente da ogni forma d’amore terreno e
da ogni dialettica servo-signore o maestro-discepolo.

6. Il tempo «normale» è finito. Siamo in piena teologia geopolitica rivoluziona-


ria, dove l’amore per la Terra e l’attesa messianica per la sua redenzione sostitui-
scono qualsiasi forma d’amore terreno. Pilastro per ogni pratica autenticamente
strategica.
Parafrasando Derrida 52, il tono apocalittico di recente usato in geopolitica fa
saltare qualsiasi razionalità e qualsiasi dialettica. Nessun egemone, neppure il più
potente, sarebbe in grado di contenere le operazioni di un attore che ha deciso di
combattere per compiere la sua storia. E questo vale sia per il messianismo ebraico
sia per quello sciita, che anima i profeti del Partito di Dio.
Se la guerra fosse motivata da ragioni territoriali o strategiche, si potrebbe trat-
tare. La forza giocherebbe la sua parte, ma alla fine – come nel modello hegeliano
– porterebbe a qualche forma di riconoscimento. Ma quando si combatte in nome
della propria esistenza – non solo fisica – e in nome di un amore ultraterreno, al-
lora non ci sono né servi né signori, né maestri né discepoli. L’arena geopolitica si
trasforma in un gioco al rialzo, dove l’escalation è sempre dietro l’angolo perché

49. A. MARZANO, «Alle origini del sionismo religioso di Binyamin Netanyahu», Limes, 3/2023, «Israele
contro Israele».
50. G.W.F. HEGEL, Scritti giovanili, op. cit., p. 470.
51. Così Kook figlio, citato in A. MARZANO, Storia dei sionismi, cit., pp. 137-138.
78 52. J. DERRIDA, Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia, Milano 2020, Jaca Book.
LA NOTTE DI ISRAELE

altro non è che non un ulteriore passo verso l’eschaton 53. È una dinamica oramai
impossibile da controllare e che potrà concludersi solo, per citare ancora Girard,
dopo essere arrivata all’estremo.
E, in fin dei conti, è per questo che America e Iran non riescono a controllare
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Israele e milizie varie. Né Washington né Teheran sono pronte ad arrivare all’estre-


mo e a mettere in gioco la loro vita. Epperò, se le cose stanno così, allora tutto il
nostro ragionamento è stato in fin dei conti vano. E non aveva senso fare un passo
oltre Hegel. Del resto, signore è chi «dimostra di non tenere alla vita» 54. In nome
dell’amore. E della violenza.

53. Su questo si veda l’articolo di L. BOTTACIN-CANTONI in questo volume.


54. G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello Spirito, cit., p. 279. 79
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LA NOTTE DI ISRAELE

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‘I due Stati non si faranno,


ma a Israele manca un piano
per il dopoguerra’
Conversazione con Orna MIZRAHI, ricercatrice senior all’Institute for Israeli
National Security Studies (Inss), a cura di Cesare PAVONCELLO

LIMES Qual è il fine strategico di Israele in questa guerra?


MIZRAHI Occorre distinguere tra gli obiettivi bellici operativi e il piano per il dopo-
guerra. «Strategia» è un termine dal significato molto ampio. Può anche mutare
forma, soprattutto durante una guerra. Tutto sommato, dopo il 7 ottobre Israele ha
delineato in modo abbastanza esplicito e rapido i propri scopi strategici. È stato
chiaro fin da subito, all’indomani del massacro, che lo Stato ebraico si sarebbe
dovuto confrontare con almeno tre fronti – Gaza, Libano e Siria, ai quali in breve
tempo si sono aggiunti Yemen e Iraq. Ed era altrettanto chiaro che dietro a queste
linee calde ci fosse la mano dell’Iran.
Gerusalemme ha però dovuto stabilire le proprie priorità, dosando forze e risorse.
All’inizio la Striscia di Gaza è stata individuata come teatro di guerra principale. Il
Libano è rimasto in secondo piano. È stata una decisione non scontata, presa sol-
tanto a seguito di un acceso dibattito all’interno del gabinetto di guerra – come
ampiamente testimoniato dai media israeliani e internazionali.
Per Gaza sono stati fissati tre obiettivi strategici. Primo, smantellare le infrastrutture
militari di Õamås. Secondo, impedire che l’organizzazione torni in futuro a domi-
nare il territorio della Striscia. Terzo, riportare a casa gli ostaggi. Com’è naturale,
non sono mancate le discussioni riguardo all’ordine e all’importanza degli obiettivi,
anche alla luce delle profonde tensioni che dividono la società israeliana. C’è stato
anche un dibattito interno sui programmi operativi. Occorre mantenere il controllo
di quali quartieri e arterie stradali? Come agire? Con quali tempi? Anche la termino-
logia utilizzata da Netanyahu, che ha esplicitamente parlato di «vittoria totale», ha
generato un po’ di confusione, benché essa fosse parte di un messaggio politico
per trasmettere forza al paese e non intendesse esercitare alcuna influenza sull’o-
perato dell’esercito. 81
‘I DUE STATI NON SI FARANNO, MA A ISRAELE MANCA UN PIANO PER IL DOPOGUERRA’

A un anno di distanza dal 7 ottobre, la forza militare e la leadership di Õamås sono


state quasi totalmente distrutte. Le milizie palestinesi non hanno celebrato questa
data come avrebbero voluto. Non ci sono stati lanci di razzi o attentati sul territorio
israeliano. Non perché Õamås non lo volesse. Molto più semplicemente, perché Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

non possiede più le capacità per farlo, se non in modo sporadico, affidandosi so-
prattutto a iniziative personali non coordinate da una catena di comando. Se som-
miamo questo dato di fatto a numerosi rapporti militari e di intelligence, si intuisce
che Israele è molto vicino al raggiungimento del suo primo obiettivo. Il secondo è
invece meno tangibile. Un parametro che a questo riguardo può essere utilizzato è
la capacità dei combattenti palestinesi di coordinare gli aiuti umanitari che giungo-
no a Gaza, che all’inizio del conflitto era quasi totale. Oggi la situazione è rovescia-
ta: il controllo dell’entrata dei beni è nelle mani delle Forze di difesa israeliane
(Idf). Resta quindi il terzo obiettivo. Nello Stato ebraico esiste un consenso sull’im-
portanza della questione degli ostaggi, ma anche visioni eterogenee su come ripor-
tarli a casa. Bisogna accordarsi a qualsiasi prezzo o proseguire e finanche ampliare
la pressione militare per costringere il leader di Õamås, Yaõyå Sinwår, a cedere?
Tale dilemma non è ancora stato risolto e sta logorando la società israeliana dall’in-
terno, proprio come previsto dagli ideatori dell’attacco del 7 ottobre.
LIMES Che ruolo svolge in questo quadro il fronte settentrionale?
MIZRAHI Il Libano inizialmente costituiva un teatro di guerra secondario. Per questo
Gerusalemme ha deciso di limitarsi a rispondere duramente agli attacchi di Õizbul-
låh. Alcuni giorni fa il portavoce delle Idf ha dichiarato che in questi mesi sono
state compiute molte incursioni in territorio libanese contro obiettivi giudicati peri-
colosi per la popolazione civile e per i militari israeliani stanziati lungo il confine.
Ma il vero cambiamento di orizzonte si è verificato lo scorso 16 settembre, quando
Israele ha deciso di spostare il baricentro del conflitto al Nord, con l’obiettivo di
creare le condizioni per il ritorno nel territorio dei circa 70 mila cittadini evacuati.
Questo scopo di ampio respiro è stato poi tradotto in operazioni con un obiettivo
più mirato: indebolire massicciamente le milizie sciite e allontanarle dal confine,
quantomeno secondo le direttive della risoluzione delle Nazioni Unite del 2006.
Õizbullåh ha senz’altro subìto danni considerevoli, in termini di capacità militari e
perdite umane. Ma è ancora in grado di bersagliare le città israeliane e mettere in
pericolo le infrastrutture militari delle Idf.
LIMES Dal punto di vista di Israele, qual è lo scenario finale ottimale per il dopo-
guerra?
MIZRAHI In questo caso la situazione è differente. Il governo israeliano non ha mai
presentato la sua posizione su come dovrà apparire Gaza a partire dal «giorno
dopo», ovvero dalla fine della guerra. Alcuni sostengono che non ha voluto farlo.
Altri che non ha proprio potuto, soprattutto a causa della composizione dell’ese-
cutivo, che presenta figure estremiste di notevole peso politico all’interno della
coalizione.
Nel governo ci sono state numerose discussioni riguardo a «chi dovrà occuparsi di
82 Gaza nel dopoguerra». Quel che è certo è che Israele non permetterà mai che
LA NOTTE DI ISRAELE

Õamås torni a governare la Striscia di Gaza, poco importa se direttamente o indi-


rettamente. All’interno del sistema politico nazionale, in molti sostengono quella
che appare la risposta più logica: Gaza dovrebbe essere gestita da palestinesi mo-
derati. È un buono slogan, difficile però da concretizzare nella realtà. Chi sarebbe-
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ro questi «palestinesi moderati»? Al di là della scarsa chiarezza della formula – «mo-


derati» agli occhi di chi? – le vere domande restano le seguenti: quale sarebbe l’i-
dentità di questo gruppo? E chi gli offrirà gli strumenti per far rispettare i termini
che saranno fissati dopo la fine delle ostilità?
Negli Stati Uniti, l’amministrazione Biden ha proposto l’idea di rivitalizzare l’Auto-
rità nazionale palestinese (Anp), con l’intento di renderla un fattore trainante nella
ricostruzione di Gaza. Ma sono prima di tutto i palestinesi della Striscia a rifiutare
la guida di Abu Mazen, sul quale peraltro anche Israele ha molte riserve a causa
della sua attività diplomatica e retorica contro lo Stato ebraico. Abu Mazen è soste-
nuto nei territori della Cisgiordania dal corrotto apparato che figura sulla sua busta
paga e non raccoglie in alcun modo il consenso dell’opinione pubblica. Ha princi-
palmente due obiettivi: assicurare la sopravvivenza del suo apparato e attaccare
Israele in ogni possibile consesso internazionale. Mentre lo sviluppo di infrastrut-
ture e di progetti per il benessere della sua popolazione restano ai suoi occhi que-
stioni marginali.
Tra le proposte rientra pure la possibilità che a prendere il controllo politico della
Striscia sia una forza internazionale congiunta, basata su paesi del Medio Oriente
(nella sua accezione più ampia). Su tutti Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudi-
ta. Anche in questo caso ci si è però fermati soltanto alle belle parole. Non c’è
stato nessun passo concreto, nessun lavoro diplomatico reale per trasformare l’idea
in un progetto pratico.
Significa che per Israele, ad ora, resta sul tavolo l’ipotesi più scomoda: che sia pro-
prio lo Stato ebraico a doversi far carico della gestione della Striscia, almeno fin
quando non emergerà una valida alternativa. Sotto diversi aspetti è quello che sta
avvenendo già oggi in molte sezioni di Gaza, poiché in assenza delle Idf sarebbe
Õamås a (ri)prendere il controllo del territorio e degli aiuti umanitari.
Insomma, Israele non ha investito ancora abbastanza nel definire una strategia per
il dopoguerra, ma è anche vero che non gli si può chiedere – soprattutto dopo il 7
ottobre – di accontentarsi di consegnare il controllo della Striscia a chi non offre
alcuna garanzia. Se nessuno si farà avanti, di fronte alla possibilità che Õamås rico-
stituisca il proprio potenziale bellico, lo Stato ebraico si assumerà suo malgrado
questa responsabilità. E penso che da questo punto di vista il governo israeliano
dovrebbe essere più creativo e collaborativo.
LIMES Le guerre contro Õamås e Õizbullåh sono due facce della stessa medaglia o
due fronti ben distinti?
MIZRAHI Bisognerebbe aggiungere a questa lista anche lo Yemen degli õûñø, l’Iraq,
parti della Siria e anche l’Iran, che ormai è direttamente coinvolto nel conflitto. La
risposta alla domanda che mi è stata posta dipende interamente da Teheran, che
ha ordinato ai suoi proxies di attaccare Israele per «sostenere la lotta dei fratelli 83
‘I DUE STATI NON SI FARANNO, MA A ISRAELE MANCA UN PIANO PER IL DOPOGUERRA’

palestinesi a Gaza, aggrediti dall’entità sionista». Così, l’8 ottobre 2023 Õizbullåh ha
iniziato a bersagliare Israele con razzi, missili e mortai, dichiarando che avrebbe
smesso solo laddove le Idf si fossero ritirate dalla Striscia. È quanto Naârallåh ha
ripetuto fino al suo ultimo discorso.
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Non c’è da stupirsi. Perché questo è il cardine della strategia di Teheran: accerchia-
re Israele con un «anello di fuoco», i cui principali ideatori erano proprio Naârallåh
e il generale iraniano Qasem Soleimani, ucciso dagli Stati Uniti a Baghdad nel
gennaio 2020. Secondo questa visione, l’Iran si presenta al mondo come garante
dell’equilibrio mediorientale e dietro le quinte usufruisce di proxies disposti a fare
il «lavoro sporco» attraverso attacchi militari e terroristici contro Israele e altri attori
occidentali. Tale ipocrisia mette a dura prova la logica e la moralità di molti paesi
che – in una forma o in un’altra, per una ragione o per un’altra – collaborano con
l’Iran, ovvero con il diretto responsabile delle tensioni che impediscono di raggiun-
gere qualsiasi stabilità in Medio Oriente. Non sarà forse tutta colpa di Teheran, che
arma, addestra e dirige Õizbullåh, le milizie sciite in Iraq, i gruppi filo-iraniani in
Siria e tante altre fazioni che vivono di terrorismo? È proprio per questo che quella
in corso non è la «guerra di Gaza» o la «terza guerra del Libano», ma la prima guer-
ra tra Israele e Iran, sostenuto dai suoi clienti.
Il conflitto non viaggia per ora in direzione favorevole all’Iran, che negli ultimi
mesi ha incontrato due problemi di considerevole entità. Primo, i colpi accusati dai
proxies ma anche dagli stessi iraniani – pensiamo all’uccisione di Ism呸l Haniyya
– hanno costretto Teheran a uscire allo scoperto, abbandonando le vesti di garante
della stabilità mediorientale e affrontando lo Stato ebraico faccia a faccia. Lo si è
visto con gli attacchi missilistici di aprile e ottobre, la cui portata è stata senza pre-
cedenti nonostante gli scarsi risultati ottenuti. Secondo, l’intento di imporre a Isra-
ele una guerra di logoramento su più fronti non funziona più. Gli israeliani hanno
bombardato costantemente le principali risorse e strutture belliche dei nemici,
hanno ucciso le loro più alte cariche e sono entrati militarmente in territorio liba-
nese. Tutto ciò ha mutato l’orizzonte strategico. Non sarà forse la «vittoria totale»
sognata da Netanyahu, ma di certo si tratta di un risultato ben diverso da quello
pronosticato dalla classe dirigente iraniana.
A partire dal 16 settembre, lo Stato ebraico ha tolto il piede dal freno. Il calcolo
delle equazioni e delle reazioni proporzionali è saltato. E una volta entrati in Liba-
no i soldati israeliani si sono resi conto che c’erano tutti i presupposti per un’ag-
gressione di portata simile al 7 ottobre. Õizbullåh aveva creato tunnel di vario ge-
nere, dotati di depositi di armi e postazioni per l’attacco e per la difesa. Sono stati
trovati piani operativi per l’invasione e la conquista del Nord di Israele. Probabil-
mente l’attacco di Õamås – di cui con ogni probabilità l’Iran e Õizbullåh non erano
del tutto informati, perlomeno per quanto riguarda le sue tempistiche – ha in real-
tà annullato l’effetto sorpresa di quel piano.
La decisione dell’Iran e di Õizbullåh di prendere parte alla battaglia di Õamås ha
84 danneggiato, se non compromesso del tutto, il meccanismo di deterrenza conven-
LA NOTTE DI ISRAELE

zionale di maggior valore nelle mani di Teheran: era ciò che garantiva l’impossibi-
lità di un attacco israeliano contro gli impianti nucleari iraniani.
LIMES Alla guerra dello Yom Kippur nel 1973 è seguita la pace con l’Egitto. Oggi
può succedere lo stesso? Possono crearsi nuove dinamiche positive nella regione?
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MIZRAHI Israele non ha alcuna intenzione di conquistare o occupare territori del


Libano. Le operazioni delle Idf sono finalizzate a rimuovere la spada di Damocle
che da decenni incombe sulla testa della popolazione nel Nord di Israele. Nessun
paese al mondo accetterebbe di vivere sotto la costante minaccia di essere invaso
o di subire lanci di missili contro i propri cittadini.
Per anni Õizbullåh ha costruito, davanti agli occhi del contingente di pace dell’O-
nu, considerevoli capacità belliche in sei diversi villaggi adiacenti al confine, che si
erano trasformati di fatto in basi militari nascoste. Da qui i miliziani libanesi piani-
ficavano di attaccarci attraverso sei direttrici. Gerusalemme vuole solo avere la
certezza che la situazione cambi radicalmente. Õizbullåh non dovrà più rappresen-
tare una minaccia per la vita degli israeliani.
La questione palestinese è tutto un altro paio di maniche. È molto più complicata.
Comprende vari fattori. C’è la dimensione locale, quella in cui le popolazioni isra-
eliana e palestinese si incontrano e si scontrano. Qui il discorso dei confini è visi-
bile a occhio nudo. Ma non sono sicura che questa guerra, quando e se finirà,
potrà veramente portare a una soluzione concreta. Penso anzi che l’influenza del 7
ottobre sull’opinione pubblica israeliana suggerisca l’opposto. Il fatto che i radicali
abbiano preso le redini di questo confronto-scontro è forse la più grande tragedia.
Poiché induce un allontanamento tra le due popolazioni, compresi coloro che da
entrambe le parti hanno creduto e lavorato per la pace.
Dagli accordi di Oslo a oggi, ogni tentativo di risolvere la questione palestinese è
fallito. I terroristi non hanno mai smesso di colpire la nostra popolazione. E Israele
non ha mai mancato di reagire. Õamås e le altre organizzazioni estremiste hanno
conquistato il controllo della piazza palestinese, mentre Abu Mazen e l’Anp si sono
indeboliti al punto che, se oggi si tenessero le elezioni, ne uscirebbero nettamente
sconfitti. Nel frattempo, in Israele la destra e i partiti che sostengono l’espansione
degli insediamenti nei territori della Cisgiordania, che un tempo godevano di un’in-
fluenza soltanto marginale, si sono nettamente rafforzati. E coloro che credevano
nella possibilità che i due popoli potessero vivere uno accanto all’altro oggi hanno
forti ripensamenti, stanno perdendo la fiducia. Per questo, a un anno dalla tragedia
del 7 ottobre, non è realistico prevedere una soluzione negoziata delle dispute tra
israeliani e palestinesi.
LIMES Qual è il ruolo dei paesi arabi moderati nella strategia israeliana?
MIZRAHI La sfera regionale è il contesto decisivo. Negli ultimi anni per Israele ci
sono stati sviluppi importanti. Su tutti la ratifica degli accordi di Abramo con Emi-
rati Arabi Uniti e Bahrein, che hanno formalizzato la normalizzazione delle relazio-
ni con lo Stato ebraico e si sono quindi uniti a Egitto e Giordania. L’attacco del 7
ottobre ha interrotto il processo di avvicinamento fra Israele e Arabia Saudita, il 85
‘I DUE STATI NON SI FARANNO, MA A ISRAELE MANCA UN PIANO PER IL DOPOGUERRA’

quale potrebbe chiudere il conflitto fra israeliani e mondo arabo sunnita, che rap-
presenta circa l’85% di tutti i musulmani.
L’intenzione di Gerusalemme è migliorare l’orizzonte strategico regionale senza
prendere impegni a livello locale, soprattutto riguardo alla questione palestinese,
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tentando di tenere i due piani separati. Tale volontà deriva in parte da un compren-
sibile desiderio di normalità – vivere pacificamente con gli altri paesi, sviluppare gli
scambi economici, turistici, culturali, scientifici – ma anche dall’esigenza strategica
di coordinarsi con gli attori minacciati dalle mire egemoniche dell’Iran.
Ad aprile i paesi arabi moderati hanno preso parte allo sforzo per contrastare l’at-
tacco iraniano a Israele. Tuttavia, l’Arabia Saudita non può accettare una normaliz-
zazione dei rapporti con lo Stato ebraico senza che nell’accordo sia incluso un ri-
ferimento ai princìpi di base che dovrebbero risolvere la questione palestinese. Si
tratta di una sorta di «tassa» richiesta a entrambe le parti. Riyad ne ha bisogno per
mantenere il proprio ruolo di guida nel mondo arabo sunnita. Gerusalemme, inve-
ce, per ottenere la normalizzazione con i sauditi. Bisogna anche ricordare che i
governi dei paesi arabi moderati devono sempre muoversi con molta attenzione
riguardo ai rapporti con Israele, poiché le opinioni pubbliche arabe non sono sul-
la stessa lunghezza d’onda delle loro classi dirigenti.
Non è escluso che, in un ipotetico dopoguerra, la visione dei «due Stati, due po-
poli» – linea portata avanti di recente da Washington – possa giocare un ruolo
nella normalizzazione fra Israele e Arabia Saudita. Potrebbe essere il principio su
cui ricostruire il processo di pace. Sarebbe chiaramente la cosa più giusta e più
logica. Ma questa prospettiva non potrà essere realizzata fintanto che uno dei due
popoli vorrà annientare l’altro, ci saranno leader incapaci di far rispettare gli accor-
di presi e le garanzie offerte dagli organismi internazionali saranno assolutamente
inaffidabili. Israele non si troverebbe oggi a combattere in Libano se la risoluzione
dell’Onu siglata nel 2006, secondo cui Õizbullåh non avrebbe dovuto espandere la
propria presenza militare oltre la linea del fiume Lø¿ånø, non fosse stata violata fin
dal giorno zero.
LIMES Nella sua lettura, è possibile che il vero piano di Sinwår non sia ottenere
un’improbabile vittoria militare, ma minare dall’interno la società israeliana?
MIZRAHI Sinwår e Naârallåh prevedevano la disintegrazione dall’interno della no-
stra società, ma hanno dovuto fare i conti con la realtà. Il loro più grande errore sta
nel non aver capito che, in un contesto di democrazia, le divergenze – per quanto
acute – non sono paragonabili a quelle dei modelli dittatoriali cui loro sono sempre
stati abituati. Perché è vero: due ebrei, discutendo, fondano tre partiti. Questa non
è solo una battuta divertente. Gli israeliani hanno notoriamente un carattere procli-
ve alla discussione, sono abituati ad accentuare e in certi casi perfino a estremizza-
re le differenze di opinione. Ma quando si sentono minacciati trovano sempre il
modo di mettere i bisticci da parte. Soprattutto quando non vi è alcuna scelta.
Sinwår e Naârallåh questo non l’hanno capito. È chiaro che il primo stia usando gli
86 ostaggi per colpire la società israeliana. In parte ciò è anche responsabilità di Ne-
LA NOTTE DI ISRAELE

tanyahu. Ma bisogna anche riconoscere che, dopo il primo gruppo di ostaggi,


Sinwår non ha mai seriamente pensato di liberarne altri. Perché costituiscono la
carta per accentuare le tensioni sociali in Israele. E soprattutto perché sono la sua
assicurazione sulla vita. Nell’ultimo anno i suoi obiettivi sono rimasti essenzialmen-
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te gli stessi: minare la stabilità sociale dello Stato ebraico ed espandere la dimen-
sione del conflitto a livello regionale.
Purtroppo in Occidente spesso manca la consapevolezza delle differenti scale di
valori in gioco quando si danno giudizi sul conflitto. Alcuni giorni fa sono stata in-
tervistata da una radio britannica. La giornalista mi ha chiesto: «Ma perché non vole-
te accettare la semplice e giusta soluzione dei due Stati?». Dunque le ho chiesto di
aiutarmi. Con chi dovremmo trattare? A chi dovremmo consegnare le chiavi di que-
sto Stato che dovrebbe vivere pacificamente accanto a noi? Forse a Õamås? Oppure
all’Anp, che finirebbe per farsi cacciare di nuovo dalla Striscia come nel 2007?
Si accusa spesso Israele di attaccare la popolazione civile e di fare vittime innocen-
ti. Non ne andiamo certo fieri. Ma come potremmo eliminare le minacce militari di
Õamås e Õizbullåh, se gran parte dei terroristi, dei depositi di armi e dei missili
viene nascosta all’interno di strutture civili? Occorre porsi una domanda elementa-
re: se Õamås posiziona un lanciamissili in una casa e lo utilizza per sparare contro
obiettivi civili dentro Israele, le Idf possono o non possono attaccare l’abitazione,
col rischio di colpire veri o presunti civili che abitano al suo interno? Di certo non
si può accettare impotenti e senza poter reagire queste forme di terrorismo. E poi,
sono curiosa: com’è possibile che non si comprenda l’incompatibilità tra l’idea dei
due Stati e lo slogan tanto di moda nelle manifestazioni pro palestinesi – «dal fiume
al mare» – il quale implica la sparizione di Israele dalla carta geografica?
Non amo i cliché. Ma non posso fare a meno di evidenziare che stiamo combatten-
do contro organizzazioni che pongono i loro obiettivi prima della vita della propria
gente. Per questo è utile ricordare la famosa frase di Golda Meir: «Arabi, noi vi po-
tremmo un giorno perdonare per aver ucciso i nostri figli, ma non vi perdoneremo
mai per averci costretto a uccidere i vostri. Una possibilità di pace esisterà solo
quando gli arabi dimostreranno di amare i propri figli più di quanto odino noi».

87
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LA NOTTE DI ISRAELE

PALESTINA Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

ANNO ZERO di Umberto


DE GIOVANNANGELI
L’efferatezza del 7 ottobre 2023 ha offerto alla destra israeliana
l’occasione di liquidare la causa palestinese, già tradita da anni di
occupazione coloniale e tribalismi interni. Il consenso passivo per
Õamås. Lo Stato non c’è, ma il popolo esiste e soffre.

1. I NDEBOLITO, MA NON ANNIENTATO MILITARMENTE


in quel che resta della Striscia di Gaza. In crescita nella Cisgiordania, soprattutto nel
consenso passivo giovanile. Õamås un anno dopo la guerra iniziata il 7 ottobre
2023. Fuori dalla propaganda che va per la maggiore in Israele e in Palestina ma
anche in Europa, una cosa è certa: la dirigenza militare di Õamås è stata decapita-
ta, nella Striscia e altrove, ma morto un capo se ne fa un altro.
La storia della guerra totale d’Israele contro la «resistenza» palestinese è zeppa di
lapidi e assassinî mirati: lo sceicco Aõmad Yåsøn, fondatore e guida spirituale di
Õamås; ‘Abd al-‘Azøz al-Rantisø; Ismå’øl Haniyya; il «fantasma di Gaza» Muõammad
Îayf, leader delle Brigate al-Qassåm (il braccio armato di Õamås); Sayyid ‘A¿å’ullåh.
Eppure Õamås è sopravvissuta a questa mattanza di quadri dirigenti, per due motivi.
Primo, perché a differenza di altri movimenti politico-militari islamisti – come Õizbul-
låh – si struttura a livello reticolare, orizzontale, senza una solida catena di comando
verticale. I suoi capi sono transitori e non solo perché nel mirino delle Forze di dife-
sa israeliane (Idf), dello Shin Bet e del Mossad (l’intelligence di Israele). Secondo,
perché resta fortemente ancorato alla dimensione territoriale, per molti versi tribale,
della società palestinese, molto più di Fatõ o dell’ormai defunta Autorità nazionale
palestinese. Soprattutto ai livelli intermedi i cambiamenti sono rapidi e le falle causa-
te dalle operazioni militari israeliane sono il più delle volte colmate.
Gaza sarà pure ridotta a un cumulo di macerie, ma un giorno una ricostruzio-
ne – con i soldi delle petromonarchie del Golfo e la supervisione dell’Arabia Sau-
dita di Muõammad bin Salmån – sarà inevitabile. Quel giorno a gestire sul terreno
i relativi miliardi ci sarà anche Õamås, direttamente o attraverso un governo di
«tecnici» indicati, se non direttamente espressi, delle vecchie fazioni palestinesi.
Fonti indipendenti stimano che, a un anno dall’inizio della guerra, Õamås conti
nella Striscia ancora 11 battaglioni e circa 12 mila sostenitori attivi. 89
PALESTINA, ANNO ZERO

In questo scenario, di grande interesse è il quadro tratteggiato per Haaretz da


Dahlia Scheindlin: «Anche se le differenze sono enormi, due punti sembrano chia-
ri dai recenti sondaggi: il divario tra la Cisgiordania e Gaza è vasto e secondo alcu-
ne stime, almeno a Gaza la temporanea ascesa di Õamås sta frenando». A maggio Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

un sondaggio di Awrad chiedeva in che direzione stessero andando le cose in


Palestina: il 70% dei gaziani ha risposto «sbagliata», solo il 27% «giusta». Occorre
però intendersi su quel «giusta».
Muœaymar Abû Sa‘da, sondaggista di Gaza fuggito al Cairo durante la guerra,
nota: «Il 27% secondo cui la Palestina sta andando nella giusta direzione è proba-
bilmente sostenitore di Õamås e pensa che queste battaglie porteranno alla libera-
zione della Palestina». A suo avviso la base di Õamås è di circa il 25-30% della
popolazione di Gaza, cifra citata anche da altri analisti e vicina a quella misurata
prima della guerra. Secondo il Palestinian Center for Policy and Survey Research
(Psr), nel settembre 2024 il 27% riteneva Õamås il soggetto più meritevole di rap-
presentare e guidare il popolo palestinese.
Quanto al 70% dei gaziani secondo cui le cose stanno andando male: «Se si
guarda a Gaza con l’80% delle case distrutte, senza scuole, università, linee elettri-
che e servizi di base, come si può dire che le cose vadano bene?», rimarca Abû
Sa‘da, sottolineando che oltre 650 mila bambini e 100 mila studenti delle superiori
hanno perso un anno scolastico e che ci sono più di 1,8 milioni di sfollati, per non
parlare dei morti. «Le uniche persone per le quali le cose vanno bene sono quelle
che credono alle fantasie, ai miti, alle narrazioni religiose». Circa 100 mila gaziani
sono fuggiti dall’inizio della guerra secondo l’ambasciata palestinese al Cairo; mol-
ti appartenevano alla classe media, uomini d’affari o accademici che potevano
permettersi le esorbitanti cifre necessarie a fuggire. Come i morti, anche loro non
sono rappresentati nei sondaggi.
«Tutto ciò», rileva Scheindlin, «non annulla i risultati più allarmanti per Israele.
Secondo i primi sondaggi del Psr, oltre il 70% dei palestinesi riteneva che Õamås
avesse fatto bene ad attaccare. A novembre i palestinesi mi hanno spiegato che
nelle prime ore molti speravano che l’attacco fosse foriero di liberazione e cerca-
vano di eludere i dettagli delle atrocità. Questo è ancora il caso: secondo i sondag-
gi circa il 90% dei gaziani non ha visto le prove video delle atrocità e non crede
che siano state commesse».
Il divario tra Cisgiordania e Gaza è impressionante. Nel sondaggio Psr di giu-
gno, il 57% degli abitanti di Gaza appoggiava la decisione di Õamås di attaccare,
rispetto al 73% della Cisgiordania. Una spiegazione è che l’attacco ha riportato i
palestinesi nell’agenda internazionale: l’82% degli intervistati a giugno affermava
che l’attacco «ha riacceso l’attenzione internazionale sul conflitto israelo-palestinese
e potrebbe portare a un maggiore riconoscimento dello Stato palestinese». Il che è
empiricamente vero. L’impotenza è un dato che spicca invece nei sondaggi dell’I-
sep (Institute for Social and Economic Progress), secondo cui a ottobre un terzo
degli abitanti della Cisgiordania indicava questa come emozione principale, dato
90 salito al 53% nella rilevazione di giugno.
LA NOTTE DI ISRAELE

2. Tutto questo è il culmine di un anno terribile per la Cisgiordania. Il 2023 ha


visto una violenza dilagante da parte dei coloni, attacchi alle città palestinesi e un
governo israeliano estremista. Prima dell’ultimo rinnovo della Knesset (parlamento
israeliano), il 35% degli intervistati in Cisgiordania sosteneva la lotta armata come
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mezzo per porre fine all’occupazione; alla vigilia dell’attacco di Õamås, era il 54%.
Perché un numero così elevato di gaziani non supporta Õamås lo spiega il profes-
sor Khalil Shikaki (Œaløl Šiqaqø) di Ramallåh’: «In Cisgiordania simpatizzare non ha
costi: non si può fare nulla per aiutare Gaza [da qui], ma si può esprimere un so-
stegno emotivo e cognitivo».
Poi c’è l’odio per l’Autorità nazionale palestinese (Anp) e per Abu Mazen, atte-
stato dalla maggioranza dei palestinesi (80% a Gaza e in Cisgiordania) che lo vuole
esautorare. Solo a Gaza l’Anp ottiene qualche punto in più su alcune misure limitate,
triste testimonianza della miseria sotto Õamås. Questo ha distribuito pacchi di cibo
per le prime settimane di guerra, forse lasciando intendere quanto pensasse che
sarebbe durata. Nel sondaggio Awrad di giugno solo il 2% indicava Õamås come
soggetto di cui fidarsi per la fornitura di aiuti umanitari, rispetto al 21% dell’Anp.
Shikaki ritiene che la retorica della liberazione rifletta le tendenze politiche
palestinesi del secolo scorso, esauritesi tra gli anni Sessanta e Ottanta quando l’Or-
ganizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) dichiarò di sostenere uno
Stato nelle aree occupate da Israele nel 1967. Si è parlato senza mezzi termini di
fallimento politico della diaspora, dove in molti non conoscono la realtà della si-
tuazione e indulgono in un paternalistico «vogliamo liberare la Palestina, ma voi ne
pagherete il prezzo».
Secondo una recente indagine coordinata dallo stesso Shikaki, per metà dei
palestinesi la dissoluzione dell’Anp gioverebbe alla causa palestinese e oltre il 70%
guarda positivamente alla nascita di nuovi gruppi armati per arginare le violenze.
Per Raãå al-Œålidø, direttore dell’Istituto di ricerca per la politica economica palesti-
nese, «l’Autorità nazionale palestinese non è in grado di onorare i propri obblighi
verso la popolazione e questa è una forma di collasso istituzionale». Õamås non
gode di buona salute, ma le alternative in campo palestinese sono ectoplasmi te-
nuti in vita da un sempre più esangue credito internazionale. Così l’Autorità nazio-
nale palestinese guidata (si fa per dire) da Abu Mazen; così Fatõ, che ha visto il suo
potere disintegrarsi.
Scrive Michele Giorgio, a lungo corrispondente del manifesto dalla Palestina:
«Per i palestinesi l’Anp è un elefante che grava sulle spalle della popolazione. Tan-
ti ne accettano malvolentieri l’esistenza anche se ha fallito l’obiettivo della piena
indipendenza – cui si oppone Israele – perché temono il caos derivante dalla sua
caduta. Altri pensano che solo attraverso il suo scioglimento e la rinascita dell’Or-
ganizzazione per la liberazione della Palestina i palestinesi potranno elaborare una
strategia nazionale».
Il 27 luglio 2024 quattordici fazioni palestinesi si sono riunite a Pechino per
sancire un’intesa benedetta dal ministro degli Esteri cinese Wang Yi. Al termine di
tre giorni di incontri è arrivato l’annuncio che Õamås, Fatõ e gli altri gruppi politici 91
PALESTINA, ANNO ZERO

avrebbero raggiunto un accordo sul futuro della Palestina con la mediazione della
Repubblica Popolare. Il condizionale è d’obbligo, visti i tanti precedenti rimasti
lettera morta. A guidare la delegazione di Õamås era Muså Abû Marzûq, leader
storico del movimento, mentre per Fatõ era presente Maõmûd al-‘Ålûl. Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Presenti anche emissari dell’Egitto (storico mediatore a Gaza), dell’Algeria (che


al Consiglio di sicurezza dell’Onu ha svolto in questi mesi un ruolo di rilievo nelle
risoluzioni dedicate al conflitto) e della Russia. L’intesa prevederebbe di istituire a
guerra finita un governo di unità nazionale ad interim con autorità anche su Gaza
(conforme al desiderio cinese di giocare un ruolo chiave nei futuri equilibri medio-
rientali), ma con un coinvolgimento di Õamås che difficilmente sarebbe accettato
da Israele.
Nelle stesse ore il sito statunitense Axios faceva filtrare la notizia di un vertice
segreto tenutosi una settimana prima tra Stati Uniti, Israele ed Emirati Arabi Uniti,
preceduto da un editoriale sul Financial Times in cui la diplomatica emiratina Lana
Nusseibeh apriva a una missione internazionale a Gaza per gestire la crisi umani-
taria, ristabilire l’ordine e gettare le basi di un futuro governo. Abu Dhabi sarebbe
disposta a inviare proprie truppe, a condizione che la missione internazionale
agisca su invito formale dell’Anp. Sul punto il premier israeliano Binyamin Ne-
tanyahu ha sempre opposto un netto rifiuto, anche perché il massimo orizzonte
negoziale abbracciato da Õamås è quello della hudna. Il gruppo, scrive Khaled
Hroub nel suo Hamas. Un movimento tra lotta armata e governo, «è molto attento
a distinguere questo concetto dalla politica di Olp e Anp, da esso considerata una
capitolazione. Secondo Õamås ci sono due grandi differenze tra una tregua e una
hudna. Una hudna è solo un accordo per interrompere le ostilità, non un trattato
di pace che possa comprendere concessioni; inoltre, la tregua implica spesso un
accordo di durata imprecisata, mentre una hudna è limitata a un preciso lasso di
tempo. Se Olp e Autorità palestinese sono pronte ad abbandonare la strategia del-
la lotta armata, Õamås non lo è. Il massimo cui potrebbe indulgere, seguendo la
linea della hudna, è un accordo per il cessate-il-fuoco di dieci o vent’anni, senza
nulla concedere ai diritti dei palestinesi».

3. Dal 7 ottobre 2023 tale orizzonte appare comunque sempre più lontano. Il
risultato più probabile, afferma l’Economist in un articolo del 18 luglio 2024, «è che
un Õamås malconcio finisca per competere con clan e bande in una Gaza senza
legge. Criminalità e violenza sarebbero diffuse. Le organizzazioni umanitarie do-
vrebbero stringere accordi con uomini armati per proteggere i loro convogli, quel-
le di beneficenza cercherebbero di riparare alcuni pezzi di infrastrutture vitali come
gli impianti di desalinizzazione, ma una ricostruzione su larga scala rimarrebbe
impossibile. Alcuni funzionari delle Nazioni Unite chiamano questo scenario “Mo-
gadiscio sul Mediterraneo”».
L’ottantottenne Abu Mazen, stanco e visibilmente provato, ha preso la parola
all’Assemblea Generale dell’Onu per illustrare una road map negoziale: un-cessate-
92 il-fuoco «completo e permanente» nella Striscia che comporti «la fine delle aggres-
LA NOTTE DI ISRAELE

sioni militari» in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Quindi l’invio di aiuti umanitari


nell’enclave palestinese, da consegnare con urgenza «perché a Gaza non c’è più
nulla»; poi il «pieno ritiro israeliano da Gaza», senza creare zone cuscinetto od oc-
cupare qualsiasi parte della Striscia. «Non permetteremo l’espulsione di alcun pale-
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stinese», ha detto Abbas chiedendo «la protezione dell’Unrwa e delle organizzazioni


umanitarie» che operano a sostegno dei palestinesi. Il presidente dell’Anp ha anche
chiesto protezione internazionale per i palestinesi nelle loro terre: «Non stiamo
combattendo Israele, non possiamo e non vogliamo combattere Israele, ma voglia-
mo protezione», ha affermato. Ha chiesto infine che lo Stato di Palestina si assuma
le proprie responsabilità a Gaza e v’imponga piena giurisdizione.
Ragionare di Stato palestinese con la controparte israeliana dedita a una guerra
totale avente come obiettivo, dichiarato dall’ala messianica della destra al governo,
la costituzione del Regno di Giudea e Samaria (proiezione ideologica della più pro-
saica annessione della Cisgiordania) è già un esercizio letterario. Lo è ancor più se si
guarda a chi e come, in campo palestinese, dovrebbe esercitare l’auspicabile assun-
zione di responsabilità invocata da Abu Mazen. I servizi di sicurezza dell’Anp sono
un simulacro, dediti più a taglieggiamenti e a traffici che al controllo del territorio
anche per ovviare alla cronica penuria di fondi. Il futuro sembra un eterno passato.
Una bussola per capire dove volgano gli orientamenti nella società palestinese
resta quella del Psr. In un recente sondaggio, alla domanda: «La decisione di Õamås
di condurre l’attacco del 7 ottobre fu giustificata?», la risposta è sì nel 71% dei casi,
nella Striscia e in Cisgiordania. Ciò sebbene il 60% dei gaziani dica di aver avuto
almeno un morto in famiglia, il 68% un ferito e solo il 19% dica di sapere ove rivol-
gersi per reperire cibo o acqua potabile. Al quesito: «Chi vincerà questa guerra?»,
risponde «Õamås» il 56% dei gaziani (a dicembre era il 50%) e il 69% dei palestine-
si di Cisgiordania (in calo). Il 59% a Gaza e in Cisgiordania si dice convinto che
dopo la guerra sarà ancora Õamås a controllare la Striscia. Se si andasse oggi a
elezioni con gli stessi partiti del 2006, Õamås avrebbe il 49% dei consensi ma solo
grazie al tracollo di Fatõ (precipitato al 17%) e al 36% degli aspiranti astensionisti.
Il 62% dei palestinesi di Gaza e il 34% di quelli della Cisgiordania credono
nella soluzione «due popoli, due Stati», ma solo il 37% la ritiene ancora praticabile
dopo anni di politica israeliana degli insediamenti illegali. In ogni caso, la precon-
dizione per ogni sviluppo futuro sono considerate la riconciliazione tra Fatõ e
Õamås e la formazione di un governo di unità nazionale gestito da tecnici. Pur
intaccato, Õamås regge ancora in mancanza di alternative minimamente autorevo-
li e legittimate.

4. Il grande intellettuale libanese Elias Khoury, recentemente scomparso, ha


scritto: «L’Autorità nazionale palestinese che ha ereditato il potere da Arafat ha fatto
l’impossibile, si è piegata fino a spezzarsi per soddisfare il campo opposto e otte-
nere una parvenza di Stato a scapito della dignità del popolo palestinese. Tutto
questo all’ombra di un assoluto dominio israeliano chiamato “coordinamento per
la sicurezza” e di un discorso che criminalizza la resistenza all’occupazione. Con 93
PALESTINA, ANNO ZERO

quali risultati? Fatõ è diventata l’ombra di sé stessa. Guardate cosa avete fatto. Guar-
date come avete continuato a cancellare la vostra storia. Ricominciamo dall’inizio.
«Il ritorno alle origini è imposto dalla ferocia del progetto coloniale sionista,
dalla sua follia apocalittica e dalla sua determinazione a sottomettere la regione al
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progetto di trasformare il mito in storia. Quel che è successo durante la rivolta del
maggio 2021 è un ritorno alle questioni iniziali, perché i sionisti hanno voluto con-
tinuare a saccheggiare le case del quartiere di Šayœ Ãarraõ, dichiarando che il loro
progetto di Nakba aspira a cancellare ogni traccia dell’esistenza palestinese. Il loro
linguaggio razzista si è manifestato senza mezzi termini alla luce del sole, come i
proiettili dei loro fucili e le bombe dei loro aerei.
Quando il presidente palestinese Abu Mazen ha deciso di annullare le elezioni
presidenziali, era un modo di evitare le dimissioni. Quando l’Autorità nazionale pa-
lestinese ha intrapreso una campagna del terrore contro la lista Libertà guidata dal
prigioniero Marwån Barôûñø e da Nåâir al-Qudwa sapeva benissimo che la questione
non riguardava il Consiglio costituzionale, ma la presidenza palestinese e la fine del
suo mandato. Riguardava anche come organizzare il cuore pulsante della resistenza
nelle prigioni coloniali per iniziare una nuova (…) resistenza alla colonizzazione. La
presidenza palestinese ha cercato di sfuggire alla sua inevitabile fine rinviando le
elezioni, ma la rivolta di Gerusalemme ha segnalato che quell’epoca è finita.
È arrivato il momento per il presidente Abu Mazen e il suo gruppo dirigente
di dimettersi con onore, per preservare una storia cui un tempo appartenevano.
Questa nuova tappa necessita di una nuova visione che restituisca a un popolo che
ha deciso di non morire ciò che gli appartiene».
È un estratto di un lungo articolo scritto da Khoury il 23 luglio 2023, pubblica-
to integralmente in Italia da Orient XXI con il titolo «Il crepuscolo di Fatõ». Sono
passati quindici mesi da allora e la situazione è ulteriormente peggiorata. Ma resta-
no i palestinesi. Milioni di palestinesi. Possono annientare la loro rappresentanza,
moltiplicare per mille le eliminazioni mirate. Ma un popolo non può essere cancel-
lato. La soluzione finale non è contemplabile. Almeno si spera.

‘Senza uno Stato palestinese il Medio Oriente


resterà ingestibile’
Conversazione con Riyåî al-Målikø, ministro degli Esteri dell’Autorità nazionale
palestinese (Anp), a cura di Umberto DE GIOVANNANGELI

LIMES Un anno dopo il 7 ottobre 2023, la guerra a Gaza continua e il conflitto si


estende. Per Israele è e resta una guerra di difesa. Concorda?
AL-MĀLIKĪ Oltre 40 mila morti, in maggioranza civili: donne, bambini. Questa non è
94 una guerra di difesa, è una guerra di vendetta. Quanto a Õamås, il primo ministro
LA NOTTE DI ISRAELE

di Israele Binyamin Netanyahu ha proclamato inizialmente di volerlo annientare,


poi di volerlo renderlo inabile e ora parla di disarmarlo. Sa che distruggere Õamås
non è obiettivo realizzabile. Di questo erano ben consapevoli fin dall’inizio i verti-
ci delle Forze armate israeliane e i capi dell’intelligence. Al premier serviva però
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qualcosa di più eclatante, propagandistico: l’annientamento. Il vero obiettivo di chi


governa Israele non è mai stato annientare Õamås, bensì liquidare la causa palesti-
nese trasformando il popolo di Gaza in una moltitudine di profughi e i palestinesi
della Cisgiordania in ostaggi nelle mani dei coloni. Netanyahu non ha mai creduto
alla soluzione dei due Stati e ha fatto di tutto per sabotarla. L’esercito israeliano ha
già raggiunto i suoi obiettivi non dichiarati: rendere Gaza inabitabile, espellervi i
palestinesi con la forza, uccidere in massa la popolazione e portare al collasso i
servizi pubblici. Ciononostante, continua la guerra. Ha costretto i gaziani a evacua-
re il Nord della Striscia per trasformarlo in una zona cuscinetto e ora vuole spinge-
re tutti i rifugiati nel Sud verso il Sinai egiziano. Netanyahu ha trasformato l’acqua,
il cibo, l’elettricità, le medicine e gli aiuti umanitari in armi contro i civili.
LIMES Õamås continuerà dunque a essere un attore politico? Negozierete con esso
e con Fatõ la costituzione di un esecutivo?
AL-MĀLIKĪ A Gaza come in Cisgiordania, è l’Autorità nazionale palestinese il sogget-
to titolato a governare. Non siamo disposti ad alcun negoziato finché non vi sarà un
cessate-il-fuoco permanente. Solo allora potremo parlare di come riprendere i rifor-
nimenti e mobilitare il nostro personale a Gaza. Per riprendere la nostra responsa-
bilità di governo a Gaza e riavviare gradualmente i servizi di cui la gente ha biso-
gno, è fondamentale che la comunità internazionale spinga per un cessate-il-fuoco.
LIMES C’è chi sostiene, dentro e fuori Israele, che Netanyahu non abbia una strate-
gia per il dopoguerra a Gaza. Ma lo stesso vale per l’Anp. Come controllare Õamås?
AL-MĀLIKĪ Questo è un punto su cui siamo disposti a discutere, a condizione che
l’Autorità nazionale palestinese abbia potere decisionale illimitato non solo per
l’approvvigionamento della popolazione, ma anche nella sfera della sicurezza.
Dobbiamo prima ricostruire le capacità e per farlo abbiamo bisogno del sostegno
di molti paesi. Siamo aperti alla domanda su come ciò possa essere fatto. Forse ci
vorrà una fase di transizione prima di poter assumere piena responsabilità, ma alla
fine l’Anp deve avere il controllo. L’Autorità è l’unico rappresentante della popola-
zione di Gaza e della Cisgiordania. Siamo sempre stati a Gaza, il 40% del nostro
bilancio è stato stanziato lì. Abbiamo stipendiato 60 mila dipendenti pubblici,
emesso passaporti e investito in infrastrutture. È falso dire che Õamås controllasse
tutto. So bene del malessere presente nella società palestinese, soprattutto tra i
giovani cui è negato un futuro di pace. Comprendo la necessità di avviare un rin-
novamento generazionale nella nostra dirigenza. Ma come può avviarsi il cambia-
mento in una situazione disastrata come quella del popolo palestinese? Come ga-
rantire normalità quando Gaza è un cumulo di macerie e nella Cisgiordania vige
un regime di apartheid? Non vuol essere una scusante, ma è la realtà dei fatti. Non
ci sottrarremo alle nostre responsabilità, prima però chiediamo al mondo di realiz-
zare le condizioni del cambiamento. Questo può avvenire solo con la fine della 95
PALESTINA, ANNO ZERO

guerra. Una forza internazionale d’interposizione a Gaza e nella Cisgiordania, chia-


mata a garantire il rispetto di un cessate-il-fuoco, potrebbe fungere da garante di
una normalizzazione che garantisca le condizioni per nuove, libere elezioni nei
Territori palestinesi, compresa Gerusalemme Est. Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

LIMES Vi sono concrete possibilità che si arrivi a un governo palestinese con dentro
Fatõ e Õamås?
AL-MĀLIKĪ Quando la situazione lo consentirà potremo prendere in considerazione
questa opzione. Ma prima bisogna fermare questa guerra folle e proteggere il nostro
popolo. Õamås dovrebbe capirlo e credo sia favorevole all’idea di istituire un gover-
no tecnico. Non è il momento per un governo con dentro Õamås, perché verrebbe
boicottato da diversi paesi com’è già successo in passato. Non vogliamo trovarci in
una situazione del genere. Vogliamo essere accettati pienamente dalla comunità
internazionale. Le elezioni determineranno il tipo di governo che guiderà lo Stato di
Palestina, ma per prima cosa occorre scongiurare ulteriori spostamenti di popola-
zione e coinvolgere i paesi che possono fornire sostegno politico e finanziario.
LIMES La guerra di Gaza ha oscurato quanto avviene in Cisgiordania?
AL-MĀLIKĪ Più che un oscuramento, è una complicità. In Cisgiordania le forze di
occupazione israeliane e i gruppi armati di coloni terrorizzano la popolazione civi-
le e commettono ogni tipo di crimine. Approfittano del fatto che l’attenzione del
mondo è concentrata su Gaza. Gli atti di violenza sono all’ordine del giorno: ven-
gono confiscate terre, distrutte case, sradicati alberi, uccisi innocenti, terrorizzate
famiglie e scolaresche. Soldati e coloni agiscono di concerto: i primi sono sempre
pronti a intervenire per proteggere i secondi dalle reazioni dei palestinesi. Alla fine
sono sempre questi a essere picchiati, imprigionati o a vedersi confiscate le pro-
prietà. Tutto ciò deve finire.
LIMES Lei ha ricucito i rapporti tra l’Anp e l’Arabia Saudita. Ha cambiato idea sugli
accordi di Abramo?
AL-MĀLIKĪ Non c’è stata alcuna ricucitura perché non v’è mai stato alcuno strappo.
Nella visione di Israele quegli accordi dovevano servire a cancellare la questione
palestinese dall’agenda mediorientale. Così non è stato e le drammatiche vicende
di questi mesi lo testimoniano. Il principe ereditario Muõammad bin Salmån è sta-
to molto chiaro: la stabilizzazione della regione e nuove relazioni con Israele pas-
sano per la costituzione di uno Stato palestinese. Il suo punto di riferimento sono
le risoluzioni Onu 242 e 338. Il regno saudita, come tanti altri paesi arabi, sarà
protagonista attivo della ricostruzione di Gaza.
LIMES L’Iran apre il fronte di guerra con Israele chiamando in causa la questione
palestinese.
AL-MĀLIKĪ L’Iran, da Stato sovrano, ha reagito ai ripetuti atti ostili compiuti da Isra-
ele in Siria, in Iraq e in territorio iraniano. Israele non può pensare di agire come
se fosse al di sopra del diritto internazionale. Noi però abbiamo bisogno di soste-
gno, non di una «rappresentanza» esterna. Abbiamo bisogno del sostegno politico
e finanziario del mondo arabo per la ricostruzione post-bellica. I paesi arabi, in
96 particolare gli Stati del Golfo, riconoscono la loro responsabilità. Ma oltre a un
LA NOTTE DI ISRAELE

piano per Gaza, serve una visione comune per il futuro. Stiamo lavorando a stretto
contatto, coordinandoci con loro. Questi paesi possono usare la loro influenza af-
finché americani ed europei premano sugli israeliani e parlino con noi del futuro.
LIMES Il 20 luglio 2024 la Corte internazionale dell’Aia ha dichiarato illegali l’occu-
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pazione israeliana e la colonizzazione dei Territori palestinesi. Ritiene che il parere,


anche se solo consultivo, possa produrre effetti concreti?
AL-MĀLIKĪ Quel pronunciamento ha una grande valenza politica. Cito quanto affer-
mato dal presidente della Corte Nawwåf Salåm leggendo le conclusioni di un col-
legio di quindici giudici certo non affiliati a Õamås, a Fatõ o all’Autorità nazionale
palestinese: «Gli insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, e il
regime a essi associato, sono stati creati e vengono mantenuti in violazione del
diritto internazionale». È ora di porre fine ai doppi standard e di far rispettare le
leggi internazionali a tutti i paesi, senza eccezioni.
LIMES Dopo Gaza, il Libano. C’è il rischio di una guerra regionale?
AL-MĀLIKĪ Più che un rischio, è una certezza. Agitando il diritto alla difesa, Israele
ha invaso il Libano provocando centinaia di morti in pochi giorni e oltre un milio-
ne di sfollati. Una nuova Gaza. L’ex capo della Cia, Leon Panetta, ha definito «atto
di terrorismo» gli attacchi con i cercapersone perpetrati da Israele. Ben prima del 7
ottobre 2023 Israele ha bombardato a più riprese la Siria e ha effettuato assassinî
mirati, colpendo anche ambasciate in altri paesi. Alle Nazioni Unite, Netanyahu ha
rivolto minacce e insultato l’Assemblea Generale: proprio nel giorno dell’attacco
israeliano al quartier generale di Õizbullåh a Beirut, con l’uccisione di Õasan
Naârallåh. Agendo in questo modo Israele destabilizza anche paesi, come la Gior-
dania, che non sono in guerra con esso. Israele vede solo nemici e parla il linguag-
gio della forza. Ma così non sarà mai accettato nella regione. Un Medio Oriente
stabilizzato passa per uno Stato palestinese.
LIMES C’è ancora spazio per la soluzione dei due Stati?
AL-MĀLIKĪ Non ne vedo altre. I ministri più estremisti di Israele evocano la deporta-
zione in massa di milioni di palestinesi in Giordania. Cosa impossibile, oltre che
orrenda. Chi predica la supremazia ebraica non potrà mai prendere in considera-
zione uno Stato paritario binazionale. Ma nessun dirigente palestinese, neanche il
più dialogante, potrà mai rinunciare all’autodeterminazione nazionale. Mai. So be-
ne che è una strada in salita e che il sogno è lungi dall’essere realizzato, ma la
soluzione a due Stati che per decenni Israele ha cercato di ostacolare resta l’unica
praticabile. Per impiantarla serve una forte volontà internazionale: mi auguro che
l’Europa faccia la sua parte.

97
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LA NOTTE DI ISRAELE
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Parte II
ISRAELE
contro IRAN
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LA NOTTE DI ISRAELE

H. IZBULLĀH VENDERÀ Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

CARA LA PELLE di Lorenzo


TROMBETTA
Il Partito di Dio accusa il duro colpo politico, militare e (forse)
finanziario. Ma conserva risorse, consenso e volontà di combattere.
Gli scenari bellici nel Sud, ‘cuscinetto’ agognato da Israele. Le
manovre del dopo-Naârallåh. La guerra civile non sembra imminente.

1. U NA GUERRA INTESTINA E FRATRICIDA IN


Libano, dal quale i caschi blu di Unifil si sarebbero già ritirati sotto i colpi dell’eser-
cito israeliano, con Õizbullåh fortemente indebolito nelle sue strutture e nella sua
presenza sul terreno e impegnato a guardarsi le spalle dal fuoco di altre forze liba-
nesi, è lo scenario che sembrerebbe più favorire il governo israeliano nel medio
termine e che più nuocerebbe agli interessi iraniani nel paese e altrove. Ma il Liba-
no, dove per il momento Unifil e i suoi mille soldati italiani rimangono nonostante
l’ultimatum di Israele, non è «sull’orlo della guerra civile» temuta da molti libanesi
ed evocata da media e cancellerie di mezzo mondo, perché Õizbullåh non è stato
ancora indebolito militarmente e politicamente tanto da poter essere azzannato dai
suoi rivali interni. Solo in questo caso il partito armato reagirebbe in maniera vio-
lenta, sentendosi con le spalle al muro e senza altre opzioni valide per mantenere
il dominio.
Questo spettacolo è già andato in scena, seppur per un tempo brevissimo, nel
maggio 2008. Al culmine di quella crisi scoppiata quattro anni prima tra i fronti fi-
lo-occidentale e filo-iraniano, Õizbullåh e i suoi alleati non esitarono a scendere in
armi nelle strade di Beirut e a prendere d’assalto le zone della montagna drusa a est
della capitale per ristabilire lo status quo e imporsi con determinazione quale entità
dominante capace di dettare decisioni strategiche per la politica estera e di difesa
del paese. Õizbullåh non è soltanto una struttura militare. La sua dimensione arma-
ta è organica a quella politica, sociale, finanziaria e culturale. Analizzare quanto sta
avvenendo ora sul terreno dello scontro bellico può aiutare a comprendere le riper-
cussioni politiche nel medio e lungo periodo. Analogamente, l’analisi delle prospet-
tive politiche può fornire indicazioni per leggere i movimenti tattici sul terreno. Il
qui e ora della trincea serve a cercare di capire come sarà l’agorà di domani, deter-
minata anche dal tempo breve dell’implosione sorda di un bunker sotterraneo. 101
102
CONFINE INCANDESCENTE

(
Attacchi ai campi

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profughi palestinesi al-Qusayr
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Alture e ancora oggi sotto il suo controllo)
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CONFINI MARITTIMI RIVENDICATI DA: del Confini governatorati


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Israele Golan
Libano (prima del 2022) Giacimenti Principali attacchi israeliani
Libano (a partire dal 2022) di gas I S R A E L E Primi tentativi d’incursione via terra
LA NOTTE DI ISRAELE

Lo scontro armato tra Õizbullåh e Israele ha subìto un’accelerazione da metà


settembre in un contesto di graduale inasprimento dei quotidiani scambi a fuoco
in corso dall’8 ottobre 2023. La sequenza degli attacchi israeliani, già avviata nei
primi mesi del 2024, si era intensificata ad aprile con l’attacco al consolato iraniano
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di Damasco. A fine luglio, l’assassinio nella periferia meridionale di Beirut di un


alto comandante militare di Õizbullåh era servito da introduzione al repentino
cambio di passo segnato dagli attacchi ai cercapersone e ai walkie-talkie. Culmina-
to con l’uccisione del leader Õasan Naârallåh, tra i molti assassinî di personalità
eccellenti del partito e di ufficiali iraniani, nella cornice degli incessanti bombarda-
menti aerei in aree dove Õizbullåh e l’Iran sono da tempo dominanti: il Sud del
Libano, la valle della Biqå‘, la periferia meridionale di Beirut e diverse altre zone
della cintura sud-orientale e orientale della capitale; la Siria centrale – per lo più
attorno al confine con il Libano – e quella sud-orientale al confine con l’Iraq, lungo
quello che è stato definito il «corridoio iraniano» tra Iraq, Siria e Libano.
Gli attacchi in Libano si sono poi concentrati lungo tutta la Linea blu di demar-
cazione, in particolare in corrispondenza della località costiera di Nåqûra e dei
distretti di Bint Ãubayl e di Marã‘uyûn, rispettivamente nel settore centrale e orien-
tale del fronte di guerra. In questi due tratti si sono registrati all’1° ottobre i primi
tentativi d’incursione terrestre da parte dell’esercito israeliano, nell’ambito di una
più ampia offensiva militare che stando agli obiettivi indicati dal governo dovrebbe
mirare alla distruzione dell’infrastruttura militare di Õizbullåh almeno fino al fiume
Lø¿ånø. Il corso d’acqua, da decenni strategico per il Libano e per Israele, costituisce
anche un confine bellico: a sud un territorio intensamente colpito dai raid israelia-
ni, tanto da essere ormai saturo di obiettivi colpiti; a nord un’area investita «solo» a
macchia di leopardo dalla campagna aerea israeliana. Qui la zona più colpita è
l’area di Naba¿iya, a nord di Marã‘uyûn, poi il crinale del Monte Libano fino a Ãiz-
zøn. Da lì il fronte aereo israeliano si è concentrato sulla sponda meridionale di un
altro fiume, l’Awwålø, che da est a ovest corre parallelo al Lø¿ånø e costituisce una
seconda linea strategica per Israele.
Lo Stato ebraico aveva invaso il Libano per la prima volta nel 1978 attestan-
dosi lungo il Lø¿ånø, a 40 chilometri dall’attuale Linea blu. Nelle successive inva-
sioni si era spinto verso nord, superando l’Awwålø (80 km dalla Linea blu) e
raggiungendo Beirut nel 1982. Nel periodo di transizione, dal 1985 fino al ritiro
del maggio 2000, la linea del Lø¿ånø era parzialmente servita per consolidare quel-
la che allora veniva chiamata da Israele «fascia di sicurezza»: una zona cuscinetto
che proteggesse il Nord di Israele. Questa sicurezza, nuovamente rivendicata da
Israele e dal suo governo nell’ultimo anno, potrebbe essere garantita dalla crea-
zione di una nuova zona cuscinetto che ricalchi la precedente. A settembre l’e-
sercito israeliano ha dunque esortato a più riprese la popolazione libanese a
evacuare prima le località a sud del Lø¿ånø, poi le zone a sud dell’Awwålø. A testi-
moniare la volontà di «bonificare» il Sud dalla presenza militare di Õizbullåh lun-
go le direttrici fluviali. Già nel 1919, alla Conferenza di Parigi, i membri della
delegazione sionista rivendicavano il Lø¿ånø come confine settentrionale del pro- 103
H.IZBULLAˉH VENDERÀ CARA LA PELLE

getto coloniale (il futuro Stato di Israele) da realizzare nei territori mandatari
sotto autorità britannica.
Eppure, nei mesi scorsi l’inamovibile presidente del parlamento Nabih Berri
(Nabøh Barrø), alleato tattico di Õizbullåh ma pronto a dissociarsi da esso qualora
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si mostri alle corde, aveva ribadito al negoziatore americano Amos Hochstein l’im-
possibilità di ricacciare i combattenti a nord del Lø¿ånø. «Sarà più facile portare il
Lø¿ånø sulla Linea blu», aveva detto Berri.

2. È possibile annientare Õizbullåh nel Sud del Libano e «bonificare» questa


zona (almeno) fino al Lø¿ånø? Per rispondere occorre tener conto del fatto che
Õizbullåh è parte integrante della società del Sud, della Biqå‘ e di ampie zone di
Beirut. La sua sconfitta può essere militare nel breve e medio termine, ma non
potrà essere ideologica, culturale e politica alla lunga. In questo primo mese e
mezzo di guerra israeliana in Libano, gran parte della popolazione civile – centi-
naia di migliaia di persone – ha abbandonato l’area tra la Linea blu e il Lø¿ånø. Le
città di Sidone e di Tiro restano luogo di rifugio, come lo erano state nella prima
invasione israeliana del 1978 e nell’assestamento dell’occupazione militare tra il
1985 e il 2000.
Oggi come allora Israele si concentra lungo la strada costiera Nåqûra-Tiro,
nell’entroterra rurale, nel Ãabal ‘Åmil attorno a Bint Ãubayl, nella piana di Marã‘uyûn
e nel costone montano di Naba¿iya e Ãizzøn, fino a scendere lungo le vallate che
portano sulla costa a nord di Sidone. Ma sebbene la popolazione locale – la «gente
di Õizbullåh» – sia ora fisicamente rimossa, sarà difficile a conflitto finito impedirle
di rientrare in quel che rimane delle abitazioni e dei terreni agricoli. Motivo ulterio-
re per considerare assai arduo l’«annientamento» di Õizbullåh perseguito da Israele
nel Sud del Libano.
Dopo la prima settimana di tentativi di incursioni terrestri, Israele ha deliberata-
mente e ripetutamente aperto il fuoco contro basi Unifil, inclusi due basi italiane
(1-31 e 1-32A), una del Ghana (5-42), e il quartier generale di Nåqûra e ferendo
caschi blu indonesiani e dello Sri Lanka. Gli attacchi contro Unifil sono stati diretti
contro i suoi «occhi», le torrette di osservazione delle basi, e contro i sistemi di co-
municazione. L’obiettivo, secondo la stessa Unifil, è stato quello di spingere il con-
tingente multinazionale ad abbandonare il teatro di guerra. Il governo israeliano ha
prima intimato ai caschi blu di lasciare le basi entro cinque chilometri dalla Linea blu
e, poi, il premier Binyamin Netanyahu ha chiesto esplicitamente a tutta la missione
di andarsene dal sud del Libano. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres,
ha respinto le pressioni: Unifil rimane. Almeno per ora.
In ogni caso, per l’avanzata israeliana via terra sono tre le direttrici principali: a
ovest, la via costiera che da Capo Nåqûra sale verso Tiro seguendo la strada princi-
pale, asfaltata e a due corsie; a est, la piana di Marã‘uyûn, partendo dall’insediamen-
to israeliano di Metulla, proseguire verso nord passando per Qula‘ya e arrivando a
Marã‘uyûn; al centro, addentrarsi da Bint Ãubayl e risalire verso nord in una zona
104 collinare ma senza troppi avvallamenti.
LA NOTTE DI ISRAELE

Per il momento, nonostante la massiccia campagna aerea e l’intensificarsi del-


le incursioni terrestri a ridosso della Linea blu, il Partito di Dio non appare alle
corde. Continua a lanciare razzi, missili e droni contro obiettivi militari e località
nelle zone a sud della Linea blu e in Galilea, fino a colpire una base militare a
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Haifa, uccidendo 4 soldati e ferendone più di 60 (13 ottobre). La sua struttura mi-
litare è dotata di un’intricata rete di tunnel e di bunker sotterranei in tutto il Sud del
Libano e nella periferia meridionale di Beirut, probabilmente anche nella valle
della Biqå‘ collegata alla vicina Siria. Questi tunnel sono stati presi di mira in ma-
niera sistematica dall’Aeronautica israeliana, per lo più nella capitale ma anche in
zone del distretto di Marã‘uyûn dove si pensa vi siano diversi cunicoli e piattaforme
di lancio sotterranee.
Nelle prime due settimane di offensiva terrestre, il servizio di propaganda
dell’esercito isreliano ha ripetutamente mostrato immagini dei suoi uomini in terri-
torio libanese, in alcuni casi all’interno o in prossimità di abitazioni, pubblicando
filmati e foto di armi leggere «di Õizbullåh» all’interno di edifici. L’esercito israeliano
ha anche affermato di aver scoperto ingressi di alcuni tunnel e bunker sotterranei,
mostrando video di queste scoperte. In un caso ha annunciato (13 ottobre) di aver
catturato un soldato di Õizbullåh, «un terrorista». Nei suoi comunicati, l’esercito
israeliano non ha finora (14 ottobre) mai precisato le località in cui ha ripreso le
immagini delle sue operazioni a ridosso della linea di demarcazione.
La presenza dei tunnel di Õizbullåh è questione annosa. Il Partito di Dio non
ha mai nascosto di aver cominciato a costruirli alla fine degli anni Ottanta, prose-
guendo negli anni della resistenza all’occupazione israeliana. Nel 2018 Israele ave-
va denunciato la presenza di una serie di cunicoli che dal Sud del Libano raggiun-
gevano l’Alta Galilea. Allora aveva persino invitato i vertici di Unifil, la missione
militare Onu di cui fa parte l’Italia con circa mille soldati, a scendere insieme agli
ufficiali israeliani in alcuni tunnel partendo dal lato israeliano. Questi cunicoli era-
no stati chiusi e cementati dalle unità del genio delle Idf (Forze di difesa israeliane).
Ma è verosimile che a nord della Linea blu Õizbullåh sia riuscito a mantenersi atti-
vo e vitale grazie soprattutto a questa rete.
Il sistema sotterraneo di cunicoli e bunker sembra essere la causa principale
della cautela finora mostrata dall’esercito israeliano nel condurre operazioni di ter-
ra nel Sud del Libano. Memori delle cocenti sconfitte subite nell’estate del 2006, gli
israeliani agiscono questa volta saggiando il terreno con operazioni limitate a peri-
metri vicini alla linea di demarcazione. Mini incursioni terrestri a sud-est di Bint
Ãubayl, nella zona di Yårûn e a sud di Marã‘uyûn, nella zona di ‘Udaysa , e in
quella di Nåqûra. Come già accennato, queste tre aree costituiscono per gli israe-
liani tre diverse rampe di lancio per una più massiccia offensiva terrestre, necessa-
ria per tentare di «annientare» Õizbullåh – almeno la sua dimensione militare, la più
superficiale. A tal fine serve anche continuare a colpirne il cervello politico (la
periferia meridionale di Beirut) e il retrovia logistico (la valle della Biqå‘).
A parte due attacchi aerei in zone molto centrali della capitale libanese, fino al
7 ottobre 2024 a essere massicciamente bersagliata è stata la periferia meridionale. 105
106
IL PERCORSO DEL LIBANO E DI HIZBULLĀH escalation di
. Israele contro H. izbullāh
H. izbullāh
sostiene H. amās
Scontri armati a Beirut contro
rivali filo-occidentali 20
H 20
24
Ā
L 20 23 20
L H. izbullāh difende il Libano 21 24
U dai “terroristi” islamici 20
B 20 23 3ª guerra
1 5 20 di Israele
H. izbullāh interviene nella guerra di Siria 2 attacco H. amās
IZ 01 19 a H. izbullāh
H.IZBULLAˉH VENDERÀ CARA LA PELLE

H. 2 -2 contro Israele
0
Scontri armati a Beirut e nel Monte Libano 2 20 crisi finanziaria
00 1 1 in Libano, esplosione
8 nel porto di Beirut
2ª guerra con Israele 2 20 Scoppiano violenze in Siria
00 08
6
20 Scontri armati interni tra H. izbullāh e i rivali filo-occidentali
6 0
20 Grande guerra di Israele in Libano
H. izbullāh costringe Israele 05
al ritiro militare 20
20 04 Assassinio di Harīrī padre
00 20 T E
H. asan Nas. rallāh 03 Braccio di ferro Usa/Francia vs Siria/Iran N
eletto seg. generale del partito 20 Invasione anglo-americana dell’Iraq
I E
00 R
Ritiro militare israeliano
O
I O
H. izbullāh 19 D
nasce come forza di 19 96 E
resistenza a Israele 92 M
Mini-guerra israeliana a H. izbullāh
19 E
82 19
-8 19 91
Guerra del Golfo, ripercussioni in tutta l’area O
5 1 89
9 - Crollo dell’Urss. Tutela siriana in Libano N
19 85 91 A
8 Israele occupa il Sud del Libano
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19 2
2ª invasione israeliana
I
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19 79
Rivoluzione iraniana
L

19 78
75 1ª invasione israeliana del Libano
Inizio guerra civile in Libano
LA NOTTE DI ISRAELE

Da metà a fine settembre il raggio dell’offensiva aerea israeliana si è allargato a


quartieri nella periferia sud-orientale, confinante con la zona montagnosa di Ba‘b-
da e di ‘Ålay. Sono stati presi di mira anche esponenti e infrastrutture di gruppi
armati libanesi e palestinesi satelliti di Õizbullåh, per lo più nei campi profughi
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vicino a Tiro, Sidone e finanche Tripoli (90 km a nord di Beirut).


L’altra zona massicciamente colpita è la Biqå‘ settentrionale, dalla città di Zaõla
fino al confine con la Siria nei pressi di Hirmil. Ba‘labakk è il fulcro degli attacchi
israeliani in questa zona, concentrati sulle pendici occidentali dell’Antilibano e in
particolare lungo il corridoio logistico con la vicina Siria: Quâayr-Hirmil a nord,
Nabø Šøñ a est, Maâna‘ a sud-est. L’autostrada Beirut-Damasco nei pressi di Maâna‘ è
stata colpita due volte ai primi di ottobre, il suo traffico interrotto con forti disagi
alle decine di migliaia di persone (siriani e libanesi) dirette nella martoriata Siria in
cerca di rifugio. Israele ha affermato di aver colpito quel tratto di strada per distrug-
gere tunnel sotterranei collegati con la periferia di Damasco, dove Õizbullåh ha
una delle sue roccaforti regionali.
I bombardamenti nella Biqå‘ sono parte del tentativo israeliano di colpire ogni
articolazione della struttura militare e logistica di Õizbullåh, anche quelle più lon-
tane e apparentemente sconnesse dal Sud del Libano. Condurre raid aerei su basi
militari, piattaforme di lancio di droni e depositi di missili nelle regioni siriane di
¡ar¿ûs, Õims, Õama e Damasco serve a impedire che il Partito di Dio possa conti-
nuare a minacciare il Nord di Israele dal territorio libanese. La dispersione geogra-
fica di questi obiettivi e il loro legame organico con il sistema di Õizbullåh attesta-
no la capacità dei suoi membri di comunicare a distanza.

3. Gli attacchi ai cercapersone e ai walkie-talkie costituiscono al contempo il


punto di arrivo e di partenza della sofisticata abilità israeliana di monitorare le
comunicazioni del nemico, conoscendone in profondità caratteristiche ed esten-
sione, e di colpirle al momento giudicato opportuno. Non è ancora noto se il
duplice attacco alla rete di Õizbullåh sia stato tanto massiccio e decisivo da costrin-
gere i suoi vertici – soprattutto Naârallåh e possibili successori – a uscire allo sco-
perto, esponendosi ai letali attacchi di Israele. Di certo, a essere stati gravemente
feriti negli attacchi ai cercapersone sono stati migliaia tra membri amministrativi e
quadri militari.
Ciò ha causato un primo danno immediato alla capacità di Õizbullåh di esse-
re efficace sul terreno, probabilmente anche sul fronte di guerra in Libano. Ma ha
determinato un danno di più lungo periodo, rendendolo meno certo delle proprie
capacità e meno abile nel trovare soluzioni di comunicazione altrettanto funzio-
nali. Soprattutto, questi e altri attacchi compiuti dal luglio 2024 hanno minato
l’incrollabile fiducia dei suoi membri: testimonianze confidenziali confermano
quanto Israele sia stato capace negli anni di infiltrare informatori ai livelli più alti
dell’organizzazione.
A questo si aggiunge un aspetto indirettamente legato alla questione militare:
la potenziale distruzione nei bombardamenti israeliani di ingenti depositi di con- 107
H.IZBULLAˉH VENDERÀ CARA LA PELLE

tanti, in dollari statunitensi, stipati negli anni in bunker sotterranei nella Biqå‘, in
Siria e nella periferia meridionale di Beirut. Non è possibile verificare quanto
emerso da alcune fonti di stampa, secondo cui parte dei «miliardi di dollari» asse-
ritamente nascosti sull’Antilibano sarebbe stata incenerita dai raid di Israele. È ve-
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rosimile che il movimento libanese, dotato di ampi mezzi per accumulare capitali
in Libano, Siria, Medio Oriente, Europa, America e Africa, nascondesse – e possa
ancora nascondere – parte delle sue finanze in casseforti sotterranee. L’eventuale
perdita delle stesse potrebbe indebolirne ulteriormente le capacità nel Sud, a Bei-
rut e nella Biqå‘.
Pur colpito al cuore in diversi centri del suo potere militare, politico, di sicu-
rezza e forse finanziario, Õizbullåh non è stato tuttavia annientato. Non nel Sud del
Libano, né in altre aree del paese e del Medio Oriente. L’eventuale resistenza ar-
mata che le sue linee potranno opporre sul terreno agli israeliani offrirà al movi-
mento sciita un’opportunità cruciale per tentare di contenere, nella prassi e nella
retorica, la fulminea e inaspettata débâcle subita a settembre. La partita nel Sud del
Libano – il «corpo a corpo» di cui ha parlato pubblicamente il numero due di
Õizbullåh, Naøm Qåsim, qualche giorno dopo l’uccisione di Naârallåh – sembra
dunque decisiva per determinare la sorte militare e politica del Partito di Dio. Non
soltanto in Libano, ma nella regione. Se Õizbullåh si dimostrasse capace di resiste-
re al nemico israeliano, rallentandone l’avanzata verso il Lø¿ånø e l’Awwålø e inflig-
gendogli perdite significative, darebbe senso all’espressione: «il Sud del Libano sarà
il Vietnam d’Israele». Così potrebbe mantenere una posizione dominante nei deli-
cati equilibri politico-istituzionali del paese e scacciare il suo incubo peggiore: la
creazione di un fronte libanese ostile all’Iran, vicino agli Stati Uniti e a Israele. In
tal caso il Partito di Dio non esiterebbe a imbracciare le armi per tentare di ripor-
tare il suo ordine in Libano, aprendo scenari imprevedibili incluso quello di una
nuova guerra civile.
A Beirut c’è chi lavora a una transizione meno cruenta, ma non meno rivolu-
zionaria. La scomparsa di Õasan Naârallåh ha creato un vuoto inaspettato. Nabih
Berri, da decenni figura centrale in tutti i negoziati tra forze occidentali e medio-
rientali, è alleato di Õizbullåh ma non ha mai troncato i legami con Hochstein,
l’inviato statunitense legato a doppio filo a Israele. Dai primi di ottobre Berri è al
centro di manovre politiche: ufficialmente si muove per «costruire il percorso del
cessate-il-fuoco», ma il suo disegno va oltre la sospensione delle ostilità. Il leader
del partito armato Amal (nessuno dei cui quadri è stato finora colpito da Israele) si
muove per sondare il terreno in vista di una possibile sterzata in senso filo-occi-
dentale della politica estera e di difesa del Libano.
Con Õizbullåh impegnato in una lotta senza quartiere per la sopravvivenza, la
fase è propizia per tentare il ribaltone. Ma il tempo stringe, perché è possibile che
il Partito di Dio rialzi la testa e costringa la campagna militare israeliana a rallenta-
re drasticamente. La manovra di Berri, condotta assieme al premier uscente Naãøb
Miqåtø, consiste nel creare un consenso trasversale ai rimanenti leader politico-con-
108 fessionali libanesi per consegnare il Libano alla coalizione occidentale e filo-israe-
LA NOTTE DI ISRAELE

liana, capeggiata dagli Stati Uniti e di cui fanno parte Francia, Regno Unito e Arabia
Saudita. Questi paesi sono da anni i principali finanziatori dell’esercito libanese,
che dal 2000 non è mai stato dispiegato a sufficienza nel Sud e da tempo svolge
più compiti di polizia che militari. Il suo comandante, generale Joseph Aoun, è da
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tempo candidato alla presidenza della Repubblica, carica vacante da due anni.
Aoun (da non confondere con l’ex presidente e generale Michel Aoun) rimane in
silenzio, ma incontra i vertici istituzionali libanesi. E attende. Intanto Berri lavora
alacremente per far sì che l’élite politica libanese cambi casacca per mantenere il
dominio sulla società.
Con Joseph Aoun presidente, il «nuovo» esercito libanese regolare sarebbe di-
spiegato in un Sud «bonificato» dalla presenza militare di Õizbullåh. La risoluzione
Onu 1701 del 2006 sarebbe applicata, almeno nei paragrafi che meglio di altri as-
sicurano a Israele la creazione della tanto attesa fascia di sicurezza estesa dal Lø¿ånø
alla Linea blu. Persino quest’ultima potrebbe cambiare perché Libano e Israele,
tramite Berri e Hochstein, potrebbero raggiungere uno storico accordo per la deli-
mitazione della frontiera terrestre, dopo quello del 2022 – benedetto da Õizbullåh
– per la delimitazione della frontiera marittima e la conseguente spartizione delle
risorse energetiche offshore. Immaginare che questa sequenza si realizzi è per il
momento un puro esercizio di logica deduttiva, a partire dall’analisi di diverse ini-
ziative intraprese dentro e fuori il Libano in un contesto assai mutevole, dove s’in-
trecciano molteplici interessi e variabili.

4. Per la prima volta in circa due decenni l’equazione di potere in Libano po-
trebbe dunque mutare in maniera drastica, con ripercussioni tutte da misurare. Dal
ritiro israeliano del 2000 a oggi il partito armato libanese e il suo alleato iraniano
hanno imposto sempre più la loro visione strategica sulle scelte di politica estera e
di difesa, in contrasto con gli interessi di Israele e degli Stati Uniti.
Non è stato sempre così. Sin dalla sua nascita la Repubblica libanese emersa
dopo il ventennio di mandato francese (1920-1943), è stata caratterizzata dal domi-
nio di élite locali strettamente connesse alle potenze occidentali (prima la Francia,
poi gli Stati Uniti). Questo legame di dipendenza ha determinato a lungo la strut-
turale debolezza istituzionale dello Stato libanese e delle sue Forze armate: nel Li-
bano postcoloniale non doveva esserci spazio per una forma statuale di resistenza
allo Stato di Israele. Una delle cause principali della guerra civile libanese (1975-90)
è stata la crisi di questo status quo seguito all’indipendenza del 1943. L’ordine liba-
nese filo-occidentale era stato scosso profondamente con il primo massiccio esodo
di palestinesi (1948). Era stato poi restaurato, temporaneamente, con lo sbarco dei
marines nel 1958 in quella che molti chiamano «prima guerra civile» libanese. Gli
accordi del Cairo (1969), dopo la guerra del 1967, sancirono il compromesso tra lo
Stato (sotto tutela occidentale) e le forze della resistenza palestinese.
La dinamica discendente verso il baratro era però irreversibile. Con l’intervento
delle truppe siriane (1976) e l’invasione israeliana (1978), il Libano fu di fatto spar-
tito in due zone d’influenza. In questo contesto di occupazione militare israeliana 109
H.IZBULLAˉH VENDERÀ CARA LA PELLE

del Sud nasce Õizbullåh (1979), con il sostegno decisivo del neonato Iran khomei-
nista. Il crollo dell’Urss (1989) e la guerra del Golfo (1990-1991) aprirono nuovi
scenari e spinsero gli Stati Uniti ad affidarsi alla Siria di Õåfi‰ al-Asad, per decenni
alleato di Mosca, come nuovo arbitro del Libano. Lo Stato libanese rimase, ancora
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una volta, senza autonomia nella definizione della sua politica estera e di difesa.
Con il ritiro israeliano (maggio 2000), determinato soprattutto dall’incessante
azione di resistenza di Õizbullåh, si assistette a una nuova revisione degli equilibri
regionali. La morte di Assad padre (giugno 2000) e l’invasione anglo-americana
dell’Iraq accelerarono il processo: Francia e Stati Uniti premettero affinché Dama-
sco uscisse dal Libano (2004) e cercarono di imporre direttamente una nuova tute-
la occidentale sul paese. L’alleanza tra Õizbullåh e il partito cristiano maronita del
generale Michel Aoun (2005), la guerra tra Õizbullåh e Israele (2006) e gli scontri
armati interni in Libano (2008) sancirono l’emergere del Partito di Dio come forza
politica, istituzionale (con ministri, deputati, sindaci) e militare dominante.
Da allora Õizbullåh e il suo sostenitore iraniano sono stati gli arbitri della po-
litica estera e di difesa del Libano. Un dato attestato dall’impegno dei combattenti
sciiti nella guerra siriana (2012) e nella lotta al «terrorismo» (2014), fino all’8 ottobre
scorso quando nel Sud del Libano è stato aperto il «fronte di appoggio a Gaza». Le
carte sembrano ora quasi tutte sparigliate, ma la storia non finisce nell’ottobre 2024.
La guerra dei cent’anni in Medio Oriente è destinata a continuare a lungo.

110
LA NOTTE DI ISRAELE

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‘Ridisegniamo
il Medio Oriente’
Conversazione con Meir ELRAN, generale di brigata a riposo delle Forze di difesa
israeliane e direttore della ricerca domestica all’Institute for National Security Studies
a cura di Federico PETRONI

LIMES Quali sono gli obiettivi strategici di Israele nell’allargare la guerra?


ELRAN L’obiettivo è molto semplice: difendere il nostro paese dai feroci attacchi su
due fronti lanciati da Õamås e Õizbullåh il 7 e 8 ottobre. Israele ha subìto un de-
vastante colpo col brutale attacco a sorpresa dalla Striscia di Gaza. Oltre 1.200
persone – soprattutto civili, fra cui donne, bambini, anziani – sono state massacra-
te in un giorno, 250 prese in ostaggio, di cui 101 ancora nelle mani di Õamås. Il
giorno dopo, Õizbullåh, su richiesta di Õamås, ha dato avvio a una guerra di attri-
to da nord contro Israele. Con Õamås, l’obiettivo è stato espresso chiaramente:
smantellare militarmente e politicamente l’organizzazione a Gaza, per escluderla
da qualsiasi futuro reinsediamento nella Striscia e dalle complesse relazioni tra
israeliani e palestinesi. È interessante che l’obiettivo finale riguardo a Õizbullåh
non sia stato formulato in modo simile. Solo recentemente è stato ufficialmente
dichiarato che lo scopo delle operazioni è permettere il ritorno nelle proprie case
delle decine di migliaia di sfollati costretti a fuggire dai lanci di missili, razzi e dro-
ni dal Libano sul Nord di Israele. Al di là di questo, non è stato formulato altro
obiettivo strategico nei confronti di Õizbullåh.
LIMES Che cosa vuole realisticamente ottenere il governo israeliano in Libano?
ELRAN Anzitutto, indebolire il più possibile Õizbullåh dal punto di vista militare e
creare una nuova situazione strategica in cui il governo libanese sia libero dal con-
trollo dei terroristi. Poi, raggiungere un cessate-il-fuoco di lungo periodo con un
nuovo assetto della sicurezza nel Sud del Libano che garantisca l’assenza di terro-
risti o di minacce militari in prossimità dei confini di Israele. Realisticamente mi
aspetto un rilevante ridimensionamento di Õizbullåh sotto tre aspetti. Primo, una
diminuzione significativa del suo arsenale di razzi, droni, missili e delle sue strut- 111
‘RIDISEGNIAMO IL MEDIO ORIENTE’

ture di comando e controllo. Secondo, le sue forze di terra devono essere respinte
a nord del fiume Lø¿ånø; il territorio a sud deve essere presidiato dall’esercito liba-
nese e da un contingente internazionale. Una rinnovata missione Unifil deve fare
parte della nuova architettura di sicurezza. Terzo, Õizbullåh deve accettare ispezio-
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ni israeliane e internazionali su quanto detto sopra. Sono obiettivi molto difficili e


ci vorrà tempo per raggiungerli.
LIMES Israele ha un piano per il dopo o il piano è la guerra e poi si vedrà?
ELRAN Abbiamo bisogno di cambiare drammaticamente i rapporti di forza in Medio
Oriente con i nostri più importanti avversari, cioè l’Iran e i suoi clienti. Dobbiamo
decostruire l’attuale struttura geostrategica e costruirne un’altra che ci permetterà di
vivere in pace e in stabilità, insieme ai nostri vicini. In questo contesto, Israele sarà
riconosciuto come un partner legittimo dai paesi arabi pragmatici (Arabia Saudita
e altre monarchie del Golfo) per opporsi alle sfide strategiche e militari, sia con-
venzionali sia nucleari, dell’Iran. La Repubblica Islamica deve smettere di cercare
l’egemonia regionale.
LIMES Come pensa di arrivarci Israele?
ELRAN Non siamo soli in questa battaglia per ricostruire l’area secondo i princìpi
della stabilità e della prosperità. Gli Stati Uniti condividono questa visione e difen-
dono risolutamente la sicurezza di Israele. Dall’inizio della guerra, Washington ha
sostenuto una soluzione diplomatica in linea con gli interessi di Israele. I paesi
europei, la Nato e il mondo occidentale sono in generale a favore di questa nuova
architettura regionale. L’Iran, Õizbullåh e Õamås, assieme agli altri clienti di Tehe-
ran in Siria, Iraq e Yemen, si oppongono con veemenza e violenza. È il motivo
principale per cui siamo stati attaccati il 7 e l’8 ottobre dell’anno scorso. La via
migliore per raggiungere questo obiettivo strategico sarebbe la diplomazia. Sfortu-
natamente l’unica per trasformare quella visione in realtà è la forza militare. Israele
deve assolutamente vincere questa guerra d’attrito su sette fronti contro i nemici
che l’hanno attaccato per primi. Se la nostra risposta militare sarà sufficiente a cau-
sare almeno un parziale collasso di Õamås e Õizbullåh, questo incoraggerà il pro-
cesso di normalizzazione tra Israele e i paesi arabi pragmatici, contrari alle politiche
iraniane in Medio Oriente. Potrebbe volerci molto tempo, forse anni. Ma è possibi-
le. E per farlo sono necessari alcuni passi. Primo, smantellare o indebolire i clienti
dell’Iran. Secondo, mantenere i paesi occidentali al nostro fianco per fornirci un
ombrello militare e diplomatico. Terzo, i paesi arabi pragmatici devono essere di-
sposti a realizzare attivamente la struttura geopolitica che ho esposto.
LIMES L’obiettivo finale è un cambio di regime in Iran?
ELRAN Le possibilità che Israele da solo inneschi un cambio di regime a Teheran
nel prossimo futuro sono scarse. Nonostante i suoi ingenti problemi economici,
sociali, politici e culturali, il governo ha trovato un equilibrio che gli permette di
mantenere una posizione di forza rispetto all’opposizione e alla popolazione. Ciò
non significa che resisterà alle sfide future. Ma un attacco militare in sé e per sé
non porterà direttamente a un cambio di regime in Iran. Semmai, Israele può ero-
112 dere la posizione di forza degli estremisti islamici attraverso un processo lungo e
LA NOTTE DI ISRAELE

LA POTENZA DIGITALE DI ISRAELE


Sidone Damasco Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

LIBANO
Monte Hermon
Tiro
Monte Bental SIRIA
Monte Avital

GOLAN
Haifa
Mar
Mediterraneo Nazaret
Dar)ā
Irbid

Netanya
al-Mafraq
Nāblus
Hertzliya
Tel Aviv Glilot SEDI E BASI INTELLIGENCE
Glilot quartier generale del Mossad
Herzliya attuale sede dell’intelligence militare
Ashdod Gerusalemme e dell’accademia del Mossad (Midrasha)
Kiryat Gat Ora Kibbutz Urim nel deserto del Negev, principale
base di spionaggio SatCom dell’Unit 8200
Gaza Hebron Mar Ora base congiunta Nsa/Unit 8200
Morto Alture del Golan stazioni d’intercettazione
Hān Yūnis elettronica sui monti Avital, Bental e Hermon
Kibbutz Urim Beer Sheva nuova sede dell’intelligence
Beer Sheva militare

ISRAELE
POLI TECNOLOGICI
Tel Aviv
Haifa
Kiryat Gat principale stabilimento israeliano Intel
Herzliya sede di importanti aziende della
cybersecurity, tra le quali il colosso Verint
Beer Sheva capoluogo del Negev e capitale
EGITTO cibernetica d’Israele

GIORDANIA
Territorio israeliano
più Gaza e Cisgiordania
Golan
ARABIA
Confini attuali
Confini di Gaza,
S AU D I TA
Cisgiordania e Golan 113
‘RIDISEGNIAMO IL MEDIO ORIENTE’

graduale. Il cuore di questo processo potrebbe essere l’architettura regionale con-


tro l’Iran cui accennavo poc’anzi. Questo dovrebbe essere il nostro principio guida
strategico. Per esempio, ci sarà senza dubbio un’importante risposta all’attacco
missilistico dell’Iran del 1° ottobre, serio e senza precedenti. Ma la magnitudine e
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la natura della risposta dovranno essere molto misurate e correlate alla nostra idea
di futuro.
LIMES L’Iran come nemico assoluto è servito a Israele a compattare il fronte interno.
Che succede se sparisce?
ELRAN Creare una coalizione regionale contro l’Iran non vuol dire che l’Iran diven-
terà un paese moderato e disposto a collaborare pacificamente coi suoi vicini. Af-
finché ciò accada dovrebbe verificarsi un cambio di regime sostenibile. Ma non
credo che sia uno scenario rilevante al momento. Adesso abbiamo una serie di
obiettivi da raggiungere piuttosto chiari: vincere la guerra contro Õamås e Õizbul-
låh; lavorare coi nostri vicini pragmatici per avviare la ricostruzione post-bellica;
creare la nuova coalizione contro la Repubblica Islamica. Se avremo successo,
potremo fare un passo successivo e considerare come rendere l’Iran un attore me-
no ostile e più costruttivo. Per ora limitiamo la nostra immaginazione a sviluppi più
realistici.
LIMES Ha parlato di sette fronti. Uno importante è lo Yemen. Israele pensa di repli-
care con gli õûñø quello che sta facendo con Õizbullåh?
ELRAN Gli õûñø sono un’altra manifestazione del tentativo dell’Iran di egemonizzare
il Medio Oriente. Nonostante non siano del tutto al servizio di Teheran, stanno
facendo un lavoro significativo, colpendo Israele e ostacolando il traffico marittimo
globale. Noi diamo il nostro contributo, ma sono soprattutto americani, inglesi e
altri europei a partecipare alla guerra contro gli õûñø. Anche questo problema dovrà
essere gestito dalla futura coalizione di cui parlavo prima. Israele non può occu-
parsi degli õûñø da solo. Se ora li colpiamo è perché fa parte della più ampia rispo-
sta a Teheran. Gli iraniani devono capire che nonostante le loro significative capa-
cità siamo più forti di loro e che pure noi siamo parte di una coalizione. Molti
paesi amici hanno aiutato Israele a difendersi ad aprile e a ottobre dai due attacchi
diretti dell’Iran. Anzi, la coalizione degli iraniani si sta deteriorando e la nostra sta
crescendo. Se continueranno a sfidarci, ne andrà dei loro interessi geostrategici.
LIMES È davvero possibile eliminare Õamås da Gaza?
ELRAN Õamås è stato in gran parte smantellato militarmente. In questo momento la
questione principale è assicurarci che non possa controllare la popolazione civile
e il territorio in futuro. Non possiamo ottenerlo da soli e solo con mezzi militari: è
necessario introdurre a Gaza elementi civili e di sicurezza arabi, internazionali e
pure palestinesi. Al momento c’è una controversia in Israele su questo aspetto.
Alcuni sostengono che non è solo Õamås a non avere la legittimità di partecipare
alla futura ricostruzione, ma pure l’Autorità nazionale palestinese. Penso sia un
approccio sbagliato. È nel maggiore interesse di Israele incoraggiare le forze prag-
matiche palestinesi intenzionate a far parte della coalizione con Arabia Saudita,
114 Giordania, Egitto e altri paesi degli accordi di Abramo.
LA NOTTE DI ISRAELE

LIMES La guerra ha accentuato le divisioni fra le tribù di Israele?


ELRAN Dal 2018 Israele vive un periodo di grande instabilità interna, che continua
tuttora ed è ancora molto grave. Nei primi mesi di guerra la popolazione compren-
deva quanto fosse importante unirsi contro i nostri nemici. Si è chiaramente radu-
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nata attorno alla bandiera. Dal febbraio 2024, l’Insitute for National Security Stu-
dies, che monitora attentamente le tendenze sociopolitiche interne al paese, ha
registrato che siamo tornati ai precedenti livelli di conflitto domestico. È un fatto
rilevante che tutti dovrebbero tenere in considerazione. È fondamentale per Israe-
le rinnovare il sistema politico, mediante nuove elezioni, e ricostruire la sua politi-
ca domestica, estera e di sicurezza. Il tutto deve avvenire prima di impegnarci nel
processo regionale di ristrutturazione strategica.
LIMES Israele ha la forza per condurre questa guerra trasformatrice se è diviso al
suo interno?
ELRAN Israele è uno Stato resiliente e robusto dal punto di vista economico e mili-
tare. Siamo determinati a rispondere con la forza alle sfide lanciate dai nostri nemi-
ci. Ciò non significa che non abbiamo problemi interni. Oltre il 70% della popola-
zione, non solo ebraica ma anche araba, pensa che questa guerra sia giustificata,
vada combattuta in modo corretto e vada vinta. C’è un forte sostegno ai militari.
Allo stesso tempo, esistono divisioni e controversie sociali e politiche. Questo può
confondere le persone che non comprendono lo spirito di questo paese. Finché
continueremo a combattere, saremo uniti pur restando in conflitto su questioni non
necessariamente legate direttamente alla guerra.
LIMES Però le divisioni riguardano gli obiettivi geopolitici di Israele, come i confini
e l’identità del paese. Riguardano la guerra.
ELRAN È vero, i partiti dell’ultradestra radicale sono totalmente contrari alla parteci-
pazione di elementi palestinesi al futuro governo di Gaza. È un ostacolo rilevante.
A loro sono allineati gli ultraortodossi, gli haredim. In totale questi gruppi costitui-
scono il 25% circa della popolazione, una quota significativa. Il conflitto interno a
Israele è una grande sfida. È per questo che la guerra deve finire il prima possibile.
Dobbiamo concluderla per avviare un grande cambiamento nel governo. La que-
stione della ricostruzione strategica non riguarda solo l’ambiente esterno, ma pure
quello domestico.
LIMES Si aspetta un rilevante cambio di approccio degli Stati Uniti dopo le elezioni?
ELRAN L’America ha una lunga tradizione di significativo supporto strategico per
Israele e i suoi interessi. Repubblicani e democratici accettano il principio di legit-
tima autodifesa. Tuttavia c’è una differenza fra loro. Se vince Donald Trump, sarà
un presidente imprevedibile, come lo è stato in passato. Se chiediamo agli israelia-
ni, almeno il 60% pensa che Trump sia meglio di Harris per noi. Anche i democra-
tici però hanno una grande tradizione di sostegno alla difesa di Israele, che ha
raggiunto l’apice durante la presidenza di Joe Biden. Questo potrebbe cambiare
con il prossimo presidente degli Stati Uniti, almeno su aspetti tattici.
LIMES Perché Kamala Harris sosterrebbe meno Israele rispetto a Biden?
115
‘RIDISEGNIAMO IL MEDIO ORIENTE’

ELRAN Io le credo quando dice di essere un’autentica sostenitrice di Israele. Ma


Biden si descrive come sionista dichiarato. Un sionista è una persona che crede
che gli ebrei costituiscano un popolo che merita e necessita di uno Stato sovrano
per vivere in pace. Biden lo capisce molto bene perché appartiene a una genera-
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zione nata subito dopo le guerre mondiali e l’Olocausto. L’America è cambiata, ha


valori e istinti diversi. Spero che Israele sarà capace di convincere i leader occiden-
tali e statunitensi del merito e dell’opportunità di mantenere lo stesso dialogo pro-
fondo e sincero avuto con le amministrazioni americane negli ultimi decenni. E che
Israele è importante per gli interessi degli Stati Uniti e dell’Occidente nel mondo.
Non è una sfida da poco nell’America odierna, che sta attraversando un processo
di drammatica trasformazione. Gli estremi di entrambi i partiti stanno diventando
più forti e dunque sempre più influenti nel sistema politico, tradizionalmente più
conservatore. Dal punto di vista di Israele, ciò che ci interessa è che queste estre-
mità non sono favorevoli alla visione descritta per un Medio Oriente stabile, bensì
per un’America concentrata sugli interessi domestici e che prova a ricondurre le
proprie energie a casa. Io sono per un’America che guida il mondo occidentale e
percepisce il Medio Oriente come uno snodo cruciale degli affari globali.

(traduzione di Camilla Grimaldi)

116
LA NOTTE DI ISRAELE

I numeri di un anno di guerra Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

di Michelangelo GENONE
Il 7 ottobre 2023 comincia l’Operazione Diluvio di al-Aqâå, i miliziani di Õamås
provocano la morte di 1.163 persone. Vengono uccisi 739 civili, 357 membri delle
forze di sicurezza e 52 stranieri. All’anniversario dell’inizio dei combattimenti le
vittime nello Stato ebraico salgono complessivamente a 1.698 delle quali 826 tra i
civili, 804 tra le forze di sicurezza e 68 tra gli stranieri (grafico 1). La maggior parte
delle vittime israeliane (1.580) proveniva dal Sud, dove sono avvenuti i massacri
perpetrati dalle milizie del gruppo armato palestinese. Al Nord si contano 63 mor-
ti e in Cisgiordania 52, mentre nel resto dei paesi dell’asse della resistenza filo-ira-
niana hanno perso la vita tre israeliani.
Al 7 ottobre 2024 il numero di feriti tra le Forze di difesa israeliane (Idf) am-
monta a 4.590. Di questi, 2.746 sono stati classificati come feriti lievi, 1.149 con
ferite moderate e 695 con ferite gravi (grafico 2). Tra la popolazione civile israelia-
na si contano 19.019 feriti. Quelli lievi sono 15.091, mentre 1.577 hanno subìto
ferite moderate e 894 gravi. Inoltre, 152 persone sono morte a seguito delle lesioni

Grafico 1 - LE VITTIME ISRAELIANE (7/10/2023-7/10/2024)

1.698
Vittime
804
68 Forze di sicurezza
Stranieri

826
Civili

1.163 Vittime dell’attacco del 7 ottobre 2023


Vittime dell’attacco del 7 ottobre 2023 per provenienza geografica

52
Stranieri
739 63
Civili Nord
1.580
357 Sud
Forze di sicurezza
52
3 Cisgiordania
Iran e asse sciita
1. Cfr. Kathimerinì, 20/12/1994, p. 3.
2. S.Idf,PShin
Fonte: Bet, Swords,ofAndepithesi,
APATHEMELIS (Contrattacco),
Iron Knowledge and Information Center Thessaloniki 1992, ed. Paratiritis, p. 9. 117
‘RIDISEGNIAMO IL MEDIO ORIENTE’

Grafico 2 - FERITI, OSTAGGI E SFOLLATI


TRA GLI ISRAELIANI (7/10/2023-7/10/2024)
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

4.590 19.019
Feriti delle Idf Civili israeliani feriti
554 Non specificato
695 751
Feriti gravi Stress emotivo 15.091
2.746 Feriti lievi
Feriti lievi 152
Morti in seguito alle ferite
894
1.149 Feriti gravi
Feriti di media gravità 157 Feriti di media gravità

255 143.000
Ostaggi Sfollati

66 37
Tutt’ora ostaggi Salme recuperate

67.500
Rientrati nelle loro case 68.500
Dal Nord
117
35 Tornati vivi
Salme non recuperate
7.000
Dal Sud

Fonte: Idf, Shin Bet, Swords of Iron Knowledge and Information Center

riportate. Altre 751 hanno manifestato stress post-traumatico, mentre per 554 casi
le condizioni non sono state specificate. All’anniversario dell’attacco, dei 255 pri-
gionieri fatti il 7 ottobre da Õamås 117 sono tornati a casa; rimangono ancora 66
persone in ostaggio.
Dei 72 ostaggi uccisi, 37 salme sono state restituite alle famiglie. Infine, il nu-
mero di israeliani che hanno abbandonato le proprie case a causa del conflitto ha
raggiunto quota 143 mila. Gli sfollati provenienti dal Nord di Israele sono 68.500,
dal Sud 7 mila. Al momento, 67.500 persone hanno già fatto ritorno alle loro abita-
zioni. Secondo i dati dell’esercito israeliano, i palestinesi che hanno perso la vita
nell’ultimo anno sono invece circa 24 mila, ai quali vanno sommati i 17 mila mem-
bri di Õamås uccisi, pari a circa la metà degli operativi dell’organizzazione. Venti-
due su ventiquattro battaglioni del gruppo islamista sarebbero stati neutralizzati e
il 90% del suo arsenale missilistico distrutto.
Dal 7 ottobre 2023 sono stati lanciati da Gaza 13.200 missili contro Israele
(grafico 3). In un anno di combattimenti le Forze di difesa israeliane hanno con-
118 dotto complessivamente 10.900 attacchi sul Libano, la maggior parte dei quali,
LA NOTTE DI ISRAELE

Grafico 3 - I MISSILI LANCIATI DA GAZA


SU ISRAELE (7/10/2023-7/10/2024)

TOTALE 13.200
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

500

400 452
Frequenza dei lanci

300 357

200 216
205
165
100 113 116
104
0
1/2024 2/2024 3/2024 4/2024 5/2024 6/2024 7/2024 8/2024

Fonte: Idf, Shin Bet, Swords of Iron Knowledge and Information Center, ministero della Sanità palestinese

Grafico 4 - GLI ATTACCHI DELLE IDF IN LIBANO E QUELLI


DI HIZBULLĀH IN ISRAELE (7/10/2023-7/10/2024)

1396

829 825 749


680 728 718 685
636 612 641
423
82 120 175 145 143 153 136 156 147 204 220 331
10/2023 11/2023 12/2023 1/2024 2/2024 3/2024 4/2024 5/2024 6/2024 7/2024 8/2024 9/2024

Attacchi delle Idf Attacchi di Hizbullāh

Fonte: Idf, Shin Bet, Swords of Iron Knowledge and Information Center, minister della Sanità libanese,
dichiarazioni di Hizbullāh, Acled (Armed Conflict Location and Event Data) Project

circa 7.851, è stata diretta verso il Sud del paese. I missili e i razzi lanciati da
Õizbullåh su Israele sono 12.400. Il ministero della Sanità libanese ha registrato
2.036 vittime. In base ai dati delle Idf sarebbero stati uccisi 515 combattenti del
Partito di Dio ed eliminata gran parte delle figure di comando dell’organizzazione
(grafico 4). Secondo il ministero della Sanità palestinese dal 7 ottobre 2023 sono
742 i palestinesi uccisi in Cisgiordania. Gli attacchi terroristici che hanno colpito
Israele e i Territori occupati palestinesi hanno sono stati circa 5.500 (grafico 5). In
risposta, le forze di sicurezza israeliane hanno arrestato 5.250 terroristi, tra cui 2.050
operativi di Õamås.
In base ai dati forniti dall’Armed Conflict Location & Event Data (Acled) e dal
portavoce ufficiale delle Idf, sul fronte siriano sono stati condotti approssimativa-
mente 235 attacchi israeliani che hanno causato la morte di circa 250 siriani. Dalla
Siria, invece, nel corso dell’ultimo anno sono stati lanciati contro lo Stato ebraico 119
‘RIDISEGNIAMO IL MEDIO ORIENTE’

Grafico 5 - LE VITTIME ISRAELIANE DI TERRORISMO


IN CISGIORDANIA E A GERUSALEMME (7/10/2023-7/10/2024)

40 Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

30

20

10
4 3 3
1 18 2 1 28 2
7 20 0 31 41 5 24 30 12 25 27 5 29
0
10/2023 11/2023 12/2023 1/2024 2/2024 3/2024 4/2024 5/2024 6/2024 7/2024 8/2024

Israeliani uccisi Israeliani feriti

Fonte: Idf, Shin Bet, Autorità carceraria, ministero della Sanità palestinese

circa 60 missili. Nello stesso lasso di tempo, i vettori missilistici provenienti dallo
Yemen sono stati 180. Gerusalemme ha risposto agli attacchi del gruppo sciita õûñø
con due massici raid aerei sul porto di al-Õudayda, uccidendo almeno nove com-
battenti yemeniti. Infine c’è l’Iran, che in reazione all’invasione di Gaza, prima, e a
quella del Libano, poi, ha sferrato contro Israele due ondate di razzi, droni e mis-
sili da crociera, per un numero complessivo di 521 ordigni.

120
LA NOTTE DI ISRAELE

PADELLA O BRACE Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

IL DILEMMA DI TEHERAN PEDDE di Nicola

L’offensiva israeliana ha posto l’Iran di fronte a un bivio: restare


‘paziente’ esibendo debolezza o reagire offrendo a Israele il casus
belli. L’escalation emargina i riformisti, mentre la Guida tradisce
debolezza. L’atomica, ultima spiaggia della deterrenza.

1. L A PERCEZIONE IRANIANA DELLE DINAMICHE


di crisi che interessano il Medio Oriente ha determinato profondi effetti sul sistema
politico e di sicurezza della Repubblica Islamica, favorendo mutamenti sostanziali
letti tuttavia da Israele e dai paesi occidentali attraverso il ricorso al tradizionale ste-
reotipo interpretativo, che spesso impedisce di coglierne il reale significato. Ai verti-
ci dell’Iran è chiaro che il mutamento di paradigma israeliano nella gestione del
conflitto con Õamås e con Õizbullåh abbia determinato effetti catastrofici per gli
interessi della Repubblica Islamica. Questa si trova ora nella scomoda posizione di
dover prendere decisioni entro uno spettro alquanto ristretto, potendo sostanzial-
mente scegliere solo tra alternative estremamente rischiose. Svanita nell’aprile 2024
la speranza di esercitare una forma di deterrenza verso Israele attraverso la condu-
zione di un attacco di ampia portata ma di scarso impatto, l’Iran è entrato in una
fase di profonda incertezza caratterizzata da numerosi fattori esogeni ed endogeni al
sistema politico nazionale.
Le elezioni che hanno condotto alla vittoria le forze riformiste guidate dal presi-
dente Masoud Pezeshkian hanno determinato una profonda spaccatura nel sistema
politico di area conservatrice, dove una parte dei tradizionalisti (o principialisti) si è
apertamente schierata a favore dei riformisti ritenendoli il male minore rispetto all’i-
potesi di un governo a guida ultraradicale. Il programma politico di Pezeshkian,
imperniato sulla ripresa del dialogo con l’Occidente sul programma nucleare, è stato
cautamente e pragmaticamente sostenuto dalla Guida suprema Ali Khamenei, apren-
do alla possibilità di una svolta. Lo stesso giorno dell’insediamento del nuovo presi-
dente, tuttavia, Ism呸l Haniyya veniva assassinato a Teheran: ciò ha causato grave
imbarazzo all’Iran, che tuttavia non ha reagito militarmente nella prospettiva di una
ripresa dei colloqui sul nucleare e sulla riduzione delle sanzioni 1.
121
1. P. WINTOUR, B. MCKERNAN, «Iran may rethink reprisals against Israel over killing of Hamas leader»,
The Guardian, 8/8/2024.
PADELLA O BRACE, IL DILEMMA DI TEHERAN

Sebbene fosse chiaro come nessuna iniziativa concreta potesse essere avviata
prima delle elezioni presidenziali statunitensi, è apparso ben presto palese all’Iran
come gli Stati Uniti intendessero riprendere il negoziato in una nuova cornice che
oltre al programma nucleare abbracciasse il più ampio novero dell’industria milita- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

re iraniana, soprattutto quella missilistica. Un’evoluzione inaccettabile per l’Iran, in


quanto rappresenterebbe la resa incondizionata della sua capacità di deterrenza. È
stata una pesante battuta d’arresto per il presidente Pezeshkian, che si accingeva a
partecipare ai lavori di apertura dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dicen-
dosi pronto ad avviare colloqui formali e informali per rilanciare il negoziato 2.
Negli stessi giorni, Israele scagliava inoltre una poderosa offensiva militare contro
le milizie sciite libanesi, uccidendo il segretario generale di Õizbullåh Õasan
Naârallåh e un alto ufficiale dei Guardiani della rivoluzione (o pasdaran, il corpo
d’élite delle Forze armate iraniane). Appariva allora evidente che il modello strate-
gico dell’«asse della resistenza» era entrato in profonda crisi, scardinato dal cambio
di passo di Israele che ha trasformato il conflitto da asimmetrico in convenzionale
portandolo da bassa a elevata intensità.
La decapitazione in pochi giorni dei vertici di Õizbullåh in Libano, attraverso
operazioni spettacolari condotte con una velocità e una capacità che hanno sor-
preso l’Iran, pone al vertice della Repubblica Islamica la necessità di assumere
decisioni urgenti e del tutto inedite. L’iniziativa israeliana e il mutamento nella
natura del conflitto hanno ristretto il ventaglio delle opzioni per l’Iran a sole due
ipotesi di risposta, entrambe pericolose. La prima sarebbe stata non intervenire,
tenendo fede al principio della «pazienza strategica» e cercando di ottenere mag-
giori benefici negoziali con i paesi occidentali, ma aprendo al concreto rischio di
una percezione di debolezza e soprattutto alla dimostrazione dell’inconsistenza
del vincolo informale che lega i paesi dell’«asse della resistenza». Ha quindi pre-
valso la seconda opzione: inviare un segnale di deterrenza nei confronti di Israe-
le. Il 1° ottobre Teheran lanciava così un attacco missilistico, questa volta senza
preavviso (o più probabilmente con un preavviso brevissimo), impiegando missi-
li balistici e ipersonici e selezionando obiettivi più significativi rispetto a quelli di
aprile.
La decisione, tuttavia, ha causato una profonda lacerazione della politica inter-
na iraniana, dove l’esecutivo del presidente Pezeshkian e la sua cautela sono stati
commissariati dall’apparato militare, sostenuto dalle forze più radicali. La Guida,
come già lo scorso aprile, è stata quindi costretta ad accettare una postura che i
vertici militari ritengono come l’ultima possibilità per scoraggiare Israele dal con-
durre un nuovo e più massiccio attacco contro l’Iran e i suoi alleati, ben consape-
voli che un confronto militare diretto con Israele – e potenzialmente con gli Stati
Uniti – è insostenibile. La pur razionale decisione assunta dall’Iran è però basata su
un profondo errore di calcolo nell’interpretare la politica di Israele, il cui governo
2. P. HAFEZI, «Iran’s Pezeshkian says Tehran ready to work with world powers to resolve nuclear stan-
122 doff», Reuters, 25/9/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

LA PIRAMIDE DEL POTERE

LA GUIDA È PRIMUS INTER PARES,Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

NON SOVRASTA
GUIDA
CONSIGLIO DEL DISCERNIMENTO
Patriarchi ASSEMBLEA DEGLI ESPERTI
CONSIGLIO DEI GUARDIANI
NE
ZI O PRESIDENTE
I GENERA

PARLAMENTO
GOVERNATORATI
Tecnocrati - Militari AMMINISTRAZIONE PUBBLICA
N FORZE ARMATE

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LE PRINCIPALI ISTITUZIONI SONO


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Giovani - Società civile PRESIDIATE DALLA PRIMA GENERAZIONE


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LA SECONDA GENERAZIONE PRESIDIA IL


PARLAMENTO, L’AMMINISTRAZIONE,
L’INDUSTRIA, LE FORZE ARMATE E
LA FINANZA
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CON LA TERZA GENERAZIONE NON PARTECIPA
PRAGMATISMO
A NULLA, MA È IN NETTA CRESCITA
3 PIL A S
TRI IDEOLOGICI DEMOGRAFICA

appare determinato a sfruttare l’iniziativa iraniana per legittimare un confronto su


più ampia scala contro quella che considera la «testa del serpente» 3. L’Iran ha quin-
di fatto il gioco di Israele, che è riuscito ad affossare le speranze di una svolta po-
litica guidata dall’amministrazione riformista prima che questa potesse anche solo
avviare il proprio programma.

2. Il 4 ottobre Ali Khamenei è tornato a guidare un sermone pubblico nella


Grande moschea di Mosalla a Teheran, per l’occasione gremita di partecipanti in
una coreografia studiata minuziosamente per trasmettere l’eccezionalità dell’evento
e la gravità del momento 4. I sermoni pubblici di Khamenei sono eventi ormai piut-

3. D. DE PETRIS, «Should Israel weight strikes on Iran’s nuclear program?», Newsweek, 3/10/2024.
4. P. BEAUMONT, P. WINTOUR, «Iran’s Ali Khamenei vows Hezbollah and Hamas will not back down», The
Guardian, 4/10/2024. 123
PADELLA O BRACE, IL DILEMMA DI TEHERAN

tosto rari; il precedente era stato in occasione dei funerali del generale Qasem
Soleimani, nel 2020. La decisione di guidarne uno in questo frangente riflette la
volontà della Guida di trasmettere un chiaro messaggio: l’Iran non intende subire
passivamente l’evoluzione della crisi regionale, che sempre più rischia di investirne Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

i confini. Presentatosi sul palco con un fucile in mano, a dispetto dei toni aggres-
sivi e della retorica fortemente anti-israeliana il discorso di Khamenei è apparso
mostrare la fragilità del sistema iraniano più che la sua forza, evidenziando i pro-
fondi timori che ne attraversano la dirigenza.
Tra i molti i messaggi inviati attraverso la cerimonia, tre meritano particolare
attenzione. Il primo è la volontà iraniana di onorare le celebrazioni funebri dell’al-
leato Õasan Naârallåh, ancora non tenutesi in Libano nel timore di nuovi attacchi,
mentre il più fitto riserbo circonda le informazioni in merito alla sorte della salma
dell’ex segretario generale di Õizbullåh, che potrebbe essere stato sepolto tempo-
raneamente in una località segreta 5. Il secondo è la sfida a Israele circa la sicurezza
fisica del capo della Repubblica Islamica, dato per giorni dalla stampa internazio-
nale come rifugiato in un bunker segreto e mostrato invece in pubblico al fianco
di numerosi ospiti stranieri in rappresentanza delle formazioni che compongono
l’informale «asse della resistenza». Il terzo è il mutamento di postura strategica dell’I-
ran, che dichiara terminata la fase della «pazienza strategica» e della disponibilità a
non rispondere alle provocazioni militari di Israele: da qui l’attacco missilistico del
1° ottobre e il dichiarato proposito di rispondere a ogni futura minaccia 6.
Un altro elemento di particolare interesse del sermone di Khamenei è il tenta-
tivo di promuovere una solidarietà musulmana come baluardo contro quello che
la Guida definisce il tentativo israeliano di distruggere i paesi della regione e sot-
tometterli al potere occidentale. A tal fine Khamenei ha tenuto la seconda metà del
suo sermone in lingua araba, rivolgendosi alla comunità regionale musulmana e
sostenendo come le differenze settarie non debbano dividere popoli accomunati
dallo stesso credo e dagli stessi obiettivi. Ha quindi auspicato il superamento di
ogni divergenza tra sunniti e sciiti nel nome di una comunanza di visione e di
obiettivi che deve promuovere la coesistenza pacifica e la difesa comune dalla
minaccia israeliana 7.
Proprio questa parte del discorso, tuttavia, tradisce una delle maggiori preoc-
cupazioni della Repubblica Islamica, che invoca la solidarietà musulmana perché
scettica sulle reali intenzioni delle monarchie del Golfo le cui relazioni con l’Iran e
con Israele sono migliorate negli ultimi quattro anni, pur restando in un perimetro
che Teheran continua a ritenere ambiguo. L’Iran manifesta così il peso del proprio
isolamento internazionale, cercando di sollecitare un’improbabile solidarietà regio-
nale attraverso il ricorso alla comune radice religiosa, che pur gravata dalle frizioni
settarie dovrebbe rappresentare un baluardo contro la crescente egemonia di Isra-
ele. La maggior parte dei paesi in questione non condivide però tale sentimento,
5. R. ABDELNOUR, «Why is Hassan Nasrallah’s funeral so delayed?», L’Orient Today, 4/10/2024.
6. «Iran’s strategic patience is over, Khamenei warns in rare Tehran sermon», The Cradle, 4/10/2024.
124 7. I. AIKMAN, C. HAWLEY, «Iran’s leader defends strikes on Israel in rare public speech», Bbc, 4/10/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

preferendo assumere una posizione di equidistanza tra Iran e Israele stante l’incer-
tezza sugli esiti dell’attuale crisi e la consapevolezza delle conseguenze, soprattutto
economiche, che ne deriveranno. L’appello alla coesione musulmana appare per-
tanto manifestazione dei gravi timori che attanagliano la Repubblica Islamica, la cui
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priorità al momento è garantire la sopravvivenza di un sistema istituzionale mai


così sotto attacco dall’interno e dall’esterno. Un improbabile tentativo di evitare in
extremis il conflitto diretto con Israele, quindi, al momento principale minaccia
esistenziale per la continuità della Repubblica Islamica.
L’evoluzione della crisi regionale, della quale l’Iran è corresponsabile, ha de-
terminato un’escalation che pone gravi interrogativi e minacce esistenziali per
Teheran. Come sempre in queste circostanze, dinanzi all’incremento della minaccia
lo spirito di autoconservazione del regime prevale su ogni altra dimensione, deter-
minando un rafforzamento delle componenti militari e delle forze più radicali del
tessuto politico nazionale.
La prima e più importante conseguenza di questa evoluzione è il commissaria-
mento di fatto del programma politico del presidente Pezeshkian, superato dagli
eventi e ormai impercorribile sul piano pratico. La speranza di avviare una nuova
fase dominata dalle forze riformiste sembra al momento inesorabilmente tramonta-
ta in conseguenza delle più gravi e urgenti priorità strategiche. Allo stato attuale un
sostanziale miglioramento della situazione complessiva appare infatti improbabile.
Molto dipenderà da come Israele intenderà condurre un eventuale confronto diret-
to con l’Iran, con la concreta possibilità di un’affermazione a Teheran delle prero-
gative politico-strategiche della seconda generazione rivoluzionaria (quella domi-
nata dai militari) e il contestuale avvio di una fase emergenziale che lasci poco
spazio all’agenda socioeconomica promossa dal governo in campagna elettorale.
Il rischio di un’escalation militare che metta direttamente in discussione la si-
curezza del paese apre alla prospettiva di una profonda revisione della dottrina
strategica nazionale, dove in modo sempre più insistente si chiede il superamento
del divieto allo sviluppo di armi nucleari, considerate l’unica reale possibilità di
esercitare una credibile deterrenza verso Israele e Stati Uniti. L’eventualità di un
abbandono da parte iraniana del trattato di non proliferazione costituisce forse l’i-
potesi più grave di evoluzione della crisi, aprendo a scenari inesplorati e certamen-
te drammatici sotto il profilo della sicurezza regionale.

125
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LA NOTTE DI ISRAELE

COME RIPRENDERCI Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

LA GALILEA di Yochanan
TZOREF
Il Partito di Dio è caduto nella nostra trappola. E sta pagando un
conto salato. Perché un anno fa abbiamo iniziato con Gaza. Per
affrontare l’Iran ci servono Usa e paesi arabi. Il riscatto delle Idf.
Ma il conflitto non ha sanato le divisioni nella società israeliana.

1. L A PARTECIPAZIONE DI ÕIZBULLÅH AL
conflitto tra israeliani e palestinesi a Gaza, ormai una guerra di attrito, ha preso
avvio quando ad aprile lo Stato ebraico ha evacuato oltre 60 mila cittadini lungo il
confine che lo divide dal Libano. L’azione ha temporaneamente espulso la popo-
lazione israeliana dalla Galilea: un fatto senza precedenti, che i nemici di Israele e
molti altri paesi hanno interpretato come un segno di debolezza. L’evacuazione ha
effettivamente privato Gerusalemme del pieno esercizio della propria sovranità sul
Nord, fatto anch’esso inedito. Chi ha preso la decisione intendeva proteggere pri-
ma di tutto la popolazione, ma è probabile che abbia anche pensato alla necessità
di garantire libertà d’azione alle Forze armate (Idf) per l’operazione che sarebbe
iniziata soltanto molti mesi dopo.
Il 7 ottobre, di fronte all’attacco di Õamås, all’interno del governo israeliano si
è svolto un dibattito – successivamente reso pubblico – per stabilire se aprire un
fronte a nord o a sud. Dopo molte esitazioni Gerusalemme ha deciso di iniziare
con Gaza, poiché un’immediata azione militare contro Õizbullåh avrebbe costretto
Israele a subire contemporaneamente attacchi massicci da due direzioni. Ai missili
provenienti da nord si sarebbe aggiunta una costante pioggia di razzi dalla Striscia.
Õizbullåh avrebbe potuto provocare il danneggiamento o perfino la distruzione di
molti impianti strategici mettendo a rischio, sotto certi punti di vista, le capacità
militari di Israele.
Combattere simultaneamente su due fronti sarebbe stato pericoloso e forse ad-
dirittura impossibile. Per questo motivo abbiamo scelto di occuparci prima della
minaccia meridionale. Abbiamo fatto di tutto per evitare una guerra totale con
Õizbullåh, presumendo che anche loro desiderassero portare avanti uno scontro a
bassa intensità. Non abbiamo offerto a Naârallåh il pretesto per ampliare il conflitto.
L’obiettivo era colpirlo sempre poco più di quanto ci colpisse lui, senza spingerci
127
troppo oltre.
COME RIPRENDERCI LA GALILEA

Col senno del poi, si può affermare che è stata presa la decisione più giusta.
Siamo riusciti a liberare le forze necessarie per operare nella Striscia di Gaza, poi-
ché una guerra su più fronti avrebbe aumentato vertiginosamente il numero di
morti e feriti – fattore che avrebbe aggravato le tensioni interne a Israele. Inoltre,
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siamo riusciti a volgere a nostro favore la ben nota logica delle «equazioni» di
Naârallåh, danneggiandolo ogni giorno un po’ più in profondità e provocando
danni notevoli, ma facendo sempre molta attenzione a non superare il limite. Ge-
rusalemme ha puntato a colpire in Libano soltanto le milizie e le strutture utilizzate
da Õizbullåh per attaccare il nostro esercito e la popolazione civile.
Questo piano è valso finché Israele ha deciso di cambiare le regole del gioco.
Non so se un anno fa fossero già state pianificate le operazioni dei cercapersone e
dei walkie-talkie, oltre a tutto il resto. In ogni caso dare la precedenza alla guerra
a Gaza è stata la scelta migliore. Ci ha permesso di spostare in un secondo momen-
to tutta la nostra attenzione verso il confine con il Libano, dove da anni la situazio-
ne era insostenibile. Non si può avere nozione della propria forza senza conoscer-
ne i limiti.
Non c’è alcun dubbio: quello del 7 ottobre è il colpo più duro subìto da Isra-
ele nella sua storia, dal 1948 a oggi. Certo, l’attacco a sorpresa che ha dato avvio
alla guerra dello Yom Kippur nel 1973 è stato per molti versi traumatico. Ma
quell’attacco non è penetrato fin dentro le mura di casa dei civili. Il suo obiettivo
non era soltanto fare una carneficina. Il 7 ottobre i terroristi hanno ucciso a sangue
freddo, torturato e violentato, spesso documentando i loro atti in diretta sui canali
social. Inoltre, il mondo di oggi è diverso da quello degli anni Settanta. Sono stati
stipulati accordi di pace con diversi paesi arabi. E benché il rapporto con i palesti-
nesi sia in stallo da lungo tempo, sappiamo che è necessario cercare una soluzio-
ne. Prima del 7 ottobre, molti in Israele speravano che questa potesse arrivare dai
paesi arabi o dagli organismi internazionali. Nessuno si aspettava un attacco così
terribile. Ci siamo fatti cogliere di sorpresa.
Per spiegare cosa è accaduto occorre rivolgere lo sguardo al mondo arabo,
che presenta oggi due campi ben definiti. Il primo è composto dai moderati che
desiderano una normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico e intendono
destinare le proprie risorse allo sviluppo sociale ed economico allo scopo di ab-
battere barriere desuete e instaurare relazioni con Israele e l’Occidente tutto. Il
secondo campo presenta invece gli oppositori di tale visione – radicali, conserva-
tori e in certi casi fondamentalisti. Questi non accettano l’avvicinamento allo Stato
ebraico. L’ingresso di Teheran in questo schema ha creato un asse della resistenza.
L’Iran è un paese importante e ciò gli permette di supportare, finanziare e organiz-
zare reti di opposizione, operando su una scala che sarebbe preclusa alle singole
organizzazioni. Gli iraniani sono riusciti così a creare un contrappeso alle tenden-
ze moderate.
Qual era quindi il calcolo dietro l’attacco del 7 ottobre? Õamås puntava a con-
ciliare le differenze nel mondo arabo in proprio favore, generando un’onda d’urto
128 che avrebbe potuto minacciare persino l’esistenza stessa dello Stato ebraico. I mi-
LA NOTTE DI ISRAELE

liziani palestinesi erano certi che Õizbullåh avrebbe colto l’occasione per attaccare
da nord gli insediamenti al confine col Libano. Non c’è dubbio che quanto è acca-
duto al fronte settentrionale rappresenti un trauma nazionale per gli israeliani –
d’altronde si tratta di uno dei disastri più pesanti di cui lo Stato ebraico abbia mai
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fatto esperienza. Eppure in quel caso non ci sono stati massacri. I danni agli edifi-
ci e agli altri generi di proprietà sono stati ingenti, ma il numero di morti è stato
contenuto. Ora la realtà sta cambiando e il centro di gravità militare dello scontro
si sta spostando verso il Libano. La pressione esercitata dalle Idf sul fronte setten-
trionale è significativa e Õizbullåh sta pagando un prezzo molto alto non solo per
tutto ciò che è accaduto nell’ultimo anno, ma anche per la sua decisione di legare
il proprio destino a quello di Gaza.

2. Nelle ultime settimane l’esercito e l’intelligence israeliani hanno ottenuto


successi straordinari contro Õizbullåh. C’è stato però anche un attacco iraniano
molto pesante, il secondo dopo quello di aprile. A questo punto il conflitto potreb-
be prendere strade molto diverse. L’escalation potrebbe portare a una guerra regio-
nale. Ma è anche possibile che Israele, trovandosi attualmente in una posizione di
forza e con l’intento di riportare a casa gli ostaggi, possa accettare di sedersi al ta-
volo delle trattative per porre fine alle ostilità.
L’Iran oggi si trova in una situazione peggiore rispetto a un anno fa. Anzitutto
perché Õamås è stato quasi smantellato e Õizbullåh risulta nettamente indebolito.
Date queste condizioni, Teheran non può più contare sui suoi proxies per il «lavo-
ro sporco» contro Israele. Poi bisogna considerare che, entrando direttamente nel
conflitto, l’Iran è diventato un obiettivo a tutti gli effetti. Alcuni sostengono che ciò
offra l’occasione per attaccarlo e neutralizzarne le capacità nucleari. Per certi versi
potrebbe essere un’idea sensata. Ma a mio avviso Israele non ha mai pensato di
poter affrontare l’Iran in autonomia, perché il risultato sarebbe una guerra che
coinvolgerebbe tutto il Medio Oriente e non solo.
Occorre tenere conto di molti fattori. Avremmo di certo bisogno di una coali-
zione, incardinata sul sostegno americano e sull’appoggio dei paesi arabi, che
dovrebbero schierarsi al nostro fianco o perlomeno astenersi dal metterci i bastoni
tra le ruote. Israele è in grado di rispondere agli attacchi subiti, ma non vuole – o
forse non può – affrontare Teheran in una guerra totale. Dovremmo rivolgerci ad
altri attori. Significa che se gli Stati Uniti proponessero soluzioni diverse e preferis-
sero rinviare tutto a dopo le elezioni, Israele dovrebbe prenderli sul serio. Se altri
paesi disposti a sostenere la causa israeliana presentassero delle considerazioni
operative, non potremmo permetterci di far finta di nulla. Al momento opportuno,
l’aspetto più determinante sarà la valutazione delle prospettive di successo, ovvero
dei risultati che tale operazione potrebbe effettivamente raggiungere. E soprattutto,
una coalizione di questo tipo dovrà essere costruita con un impegno diplomatico
e politico. Bisogna organizzarla e coltivarla. È un’opzione da considerare, ma ri-
chiede di agire senza fretta.
129
COME RIPRENDERCI LA GALILEA

3. Per quanto riguarda il Libano, le Idf e il governo israeliano hanno definito


la guerra un’operazione «limitata». Credo che si tratti di una scelta derivante dall’e-
sperienza. Israele non vuole restare di nuovo bloccato sul territorio libanese per
molti anni. Vuole eliminare o almeno ridurre la minaccia di Õizbullåh il più inCopia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

fretta possibile. Per questo ha fissato in anticipo una breve – si parla di alcune
settimane – finestra operativa per distruggere il maggior numero di infrastrutture
pertinenti al Partito di Dio e per eliminare chi deve essere eliminato. Il messaggio
è chiaro: «Non abbiamo alcuna intenzione di restare impantanati». Da quello che
vedo e sento, gran parte dei libanesi crede a Israele. D’altronde, non è un segre-
to che la maggior parte di loro desideri un indebolimento di Õizbullåh, da un
punto di vista politico e militare, poiché ciò diminuirebbe la sua influenza sulla
vita pubblica nel paese. Oggi è impossibile prevedere se questo approccio avrà
successo. Le guerre non offrono certezze: sai come ci entri, non sai mai come
finiscono.
Ritorniamo all’inizio. Quindi ai circa 60 mila residenti israeliani costretti a scap-
pare dalle loro abitazioni nei pressi del confine con il Libano. Si tratta di un nume-
ro altissimo dal punto di vista israeliano, soprattutto se lo si somma agli altri circa
100 mila evacuati dai moshavim e dai villaggi vicini alla Striscia di Gaza. Ciò solle-
va alcune questioni di carattere umano, sociale, economico e di sicurezza. Molti
abitanti del Nord provano sentimenti contrastanti. Sono risentiti per il prolungarsi
del loro «esilio» dentro i confini del paese, ma sono anche sollevati. Poiché, dopo
decenni di richieste d’aiuto e denunce dell’insostenibilità della situazione, final-
mente Israele sta affrontando di petto il problema. Echeggiano in particolare alcu-
ne domande: Riusciranno gli abitanti delle regioni di confine a tornare nelle pro-
prie case? E a quali condizioni? E poi, cosa otterrà il governo in una futura trattativa?
Nodi non semplici da sciogliere.
Difficile prevedere se queste persone decideranno di tornare a casa o inizie-
ranno altrove una nuova vita. Mi limito a prendere atto di quello che sta accadendo
ai residenti dei kibbutzim nel Sud, coinvolti più o meno direttamente nel massacro
del 7 ottobre. Molti abitanti sono già tornati. Soprattutto gli anziani, che non devo-
no crescere i bambini e mandarli a scuola. Alcuni sono riusciti a riprendere una
routine quotidiana. Certo, il paragone fra Sud e Nord calza solo in parte. Nelle
terre di frontiera settentrionali la situazione è più complessa: c’è ancora la guerra,
c’è ancora fuoco vivo. I fattori che non permettono di tornare alle vecchie abitudi-
ni sono molti.
Tuttavia, Israele ha dimostrato ai propri cittadini la volontà di affrontare il pro-
blema militarmente, con l’obiettivo di allontanare la minaccia da nord. Non c’è
dubbio, il governo israeliano e le Idf dovranno assicurare alla popolazione locale
una lunga lista di condizioni per convincerla a tornare nella regione una volta fini-
ta la guerra. Soprattutto, dovranno distruggere tutte le infrastrutture di Õizbullåh
vicine al confine e smantellare il Partito di Dio da un punto di vista direttivo, mili-
tare e logistico, riducendone drasticamente le capacità operative. I cittadini voglio-
130 no garanzie che gli arsenali di armi siano stati distrutti. Se questi obiettivi militari
LA NOTTE DI ISRAELE

saranno raggiunti e il risultato sul campo sarà supportato da accordi internazionali


siglati con il governo libanese, in molti faranno ritorno a casa.
Israele dovrà a quel punto elaborare un serio piano di riabilitazione della re-
gione: ricostruire quanto è stato distrutto e aiutare i residenti a rimettere in moto la
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propria vita. La popolazione non si aspetta di ricevere una «sensazione di sicurez-


za», ma sicurezza a tutto tondo. A tal fine contribuirà in maniera determinante an-
che la presenza di molte forze lungo il confine anche dopo la fine della guerra.
Israele deve contare prima di tutto sulle proprie forze e capacità. Nonostante
il tragico fallimento del 7 ottobre, le Idf stanno dimostrando il loro reale valore:
compiono il loro dovere, agiscono contro tutte le minacce nel nostro intorno, man-
tengono il controllo dei territori. In questa fase le fonti interne all’esercito e alle
agenzie di intelligence sono di gran lunga le più attendibili. Se oggi esse sostenes-
sero che la minaccia è stata sradicata e che si può procedere alla ricerca di accordi,
la loro posizione dovrebbe essere presa in seria considerazione. In generale sia
l’esercito sia i servizi segreti sono riusciti a riconquistare gran parte del credito per-
so un anno fa. Certo, ci vorrà ancora tempo e sarà comunque necessario portare a
termine il processo di individuazione delle responsabilità soggettive per il 7 ottobre
– ciò che la leadership politica non ha neppure iniziato a fare.

4. Il 7 ottobre Israele si è fatto cogliere in un momento di debolezza politica,


sociale e identitaria – non è da escludere che questa fragilità abbia contribuito alla
decisione dei nostri nemici di attaccarci. Nonostante i molti proclami, oggi l’oriz-
zonte non sembra cambiato. L’opinione pubblica israeliana non è realmente unita
e le fratture domestiche hanno già raggiunto profondità molto pericolose. Non è
chiaro se la guerra stia favorendo l’unione o la divisione nel paese: inizialmente si
è pensato che potesse saldare le crepe messe in evidenza dall’enorme protesta
sulla riforma giuridica, ma con il tempo la società è tornata a essere esattamente
come prima. Insomma, le posizioni sul conflitto ricalcano le eterogenee sensibilità
politiche israeliane. Coloro che mesi fa si opponevano alla rivoluzione giuridica
chiedono oggi che venga siglato un accordo per la liberazione degli ostaggi a qual-
siasi costo. Chi invece era a favore della riforma pensa che l’ampliamento delle
operazioni militari abbia la precedenza sugli ostaggi. La mappa politica si sta rior-
ganizzando. Ma i blocchi restano gli stessi.
La divisione interna è il prodotto di questioni strutturali, che la società israelia-
na ha finora evitato di affrontare. Questi contrasti hanno ricadute sull’approccio ai
palestinesi. Esiste all’interno di Israele un gruppo molto forte, anche se non mag-
gioritario, che ritiene necessario continuare a controllare i Territori costruendovi
sempre più insediamenti e che non è disposto a scendere a compromessi. I suoi
appartenenti si ritengono incaricati di una missione divina: portare a termine il ri-
torno della Terra dei padri alla popolazione ebraica.
La questione palestinese è uno spartiacque nella visione politica degli israelia-
ni. Meglio: è un magnete. Poiché attira un polo e respinge l’altro. L’opinione pub-
blica dello Stato ebraico si sta radicalizzando – secondo alcuni, in conseguenza 131
COME RIPRENDERCI LA GALILEA

della radicalizzazione del campo palestinese. Occorre allora domandarsi se siamo


di fronte a rette parallele che non potranno più incontrarsi. Di sicuro il problema
non potrà essere risolto se si evita di affrontarlo. Dal 2009 a oggi non ci sono state
svolte concrete. Israele spiega questa inerzia sostenendo che i palestinesi non vo-
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gliono la pace, che non esiste veramente un interlocutore rappresentativo in grado


di concludere e implementare un’eventuale intesa.
Anche per questa ragione, negli ultimi anni Gerusalemme ha preferito avvici-
nare gli Stati arabi attraverso la stipulazione degli accordi di Abramo e la normaliz-
zazione dei rapporti con gli Stati del Golfo. Fino a quello che poco prima del 7
ottobre sembrava delinearsi come un patto storico con l’Arabia Saudita, nel quale
la questione palestinese era trattata nei termini di una «visione» a lungo termine,
senza alcun piano operativo. Al pubblico israeliano è stato comunicato: «Ecco, ve
l’avevamo detto! Si può fare la pace solo in cambio della pace, non la si può paga-
re con rinunce territoriali o di altro genere. Non c’è bisogno dei palestinesi. Anzi,
non c’è proprio una questione palestinese». Ma il 7 ottobre quest’ultima ha fatto
drammaticamente irruzione nella vita sociale e politica israeliana. Lanciando un
chiaro messaggio: «Non solo esisto, ma scalcio e faccio male, terrorizzo. Tenetemi
in considerazione, sono qui, non ignoratemi».
L’attacco di Õamås sembra aver allontanato la possibilità di sedersi intorno a
un tavolo per trovare un modus vivendi. Molti tra coloro che credevano nella pos-
sibilità di trovare una via per la pace sono oggi riluttanti e per certi versi hanno
addirittura fatto un passo indietro. Ne è uscita rafforzata la corrente che si oppone
a qualsiasi accordo. In ogni caso, penso che arriverà il momento in cui la popola-
zione capirà che non c’è altra scelta: dobbiamo trovare un accordo, e purtroppo
ciò richiederà di sederci a un tavolo, faccia a faccia, con il nemico che ci odia – a
patto chiaramente che questo rinunci all’idea di annientarci.
Õamås ha sempre accusato Abu Mazen di non avere alcun potere di fronte agli
israeliani: «Parli solo in termini di processi politici, non eserciti alcuna forza. Con le
buone non otterrai mai nulla, perché Israele capisce soltanto la lingua della violen-
za». In passato concordare con questa posizione poteva essere problematico. Ma
oggi, alla luce dei tragici risultati della guerra sulla popolazione palestinese, c’è
ancora qualcuno che si senta di constatare che Õamås aveva ragione? Al contrario,
risuona la risposta di Abu Mazen all’organizzazione. «Ve l’ho sempre detto: la lotta
armata che state conducendo non ha senso. E i vostri missili creano solo problemi,
sono missili vuoti, non c’è nulla al loro interno. State causando solo danni gravi. La
distruzione che create non porta ad alcun progresso». In effetti, se guardiamo agli
ultimi trent’anni, la lotta armata non ha fatto progredire di un millimetro la causa
palestinese. I palestinesi oggi non si sentono più vicini all’indipendenza. Mentre
l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) ha firmato gli accordi di
Oslo, ha portato persone a vivere qui, ha creato nuove istituzioni, è riuscita a far
assaporare a molti il sapore di una vita normale o quasi.
Questo è al momento il destino della regione. Una regione in cui il desiderio
132 di pace – che io continuo a credere sia condiviso dalla maggioranza delle persone
LA NOTTE DI ISRAELE

su entrambi i fronti – non riesce ad abbattere le barriere fisiche e mentali erette dai
radicali – anche in questo caso, di entrambi i fronti. Le correnti più intransigenti
riescono sempre a sabotare ogni iniziativa volta alla soluzione del conflitto. Da
parte mia, quando sento qualcuno sostenere che dopo il 7 ottobre non possiamo
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e non dobbiamo cercare la strada per la pace, gli chiedo di riconsiderare seriamen-
te le sue parole, pensando meglio a quale futuro vuole per il nostro paese.

(traduzione di Cesare Pavoncello)

133
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LA NOTTE DI ISRAELE

GLI H. ŪTĪ HANNO


ˉ
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GIÀ VINTO di Eleonora


ARDEMAGNI
Fazione esigua e ancora avversata nel caotico scenario yemenita, il
gruppo si è intestato un paradossale ma efficace ‘nazionalismo’ in
anni di guerra contro sauditi, americani e ora israeliani. Il puzzle
tribale. La variabile russo-iraniana non promette bene.

1. L A POLITICA YEMENITA È OSTAGGIO DI CIÒ


che succede a Gaza, in Libano e ora direttamente tra Iran e Israele. Gli attacchi
degli õûñø (Anâår Allåh il nome del loro movimento politico) contro le navi com-
merciali nel Mar Rosso, nello stretto di Båb al-Mandab e nel Golfo di Aden, insie-
me ai missili e ai droni contro Israele, hanno permesso al gruppo armato sostenu-
to dall’Iran di guadagnare visibilità e prestigio nel cosiddetto asse della resistenza.
Da una posizione che però era e rimane laterale, perché non subordinata agli
ordini di Teheran. La crescente integrazione degli õûñø nella costellazione armata
filo-iraniana si accompagna a una strategia transregionale di diversificazione delle
alleanze: obiettivo principale del movimento è conservare l’autonomia decisiona-
le, anche costruendo un proprio marchio.
In dieci anni gli õûñø sono stati bombardati dall’Arabia Saudita, poi dagli Stati
Uniti e ora da Israele: a ben guardare, il gruppo guidato da ‘Abd al-Malik al-Õûñø
ha già vinto perché è sin qui riuscito a sfruttare contesto e interferenze esterne per
rafforzarsi internamente. Con la stessa disinvoltura gli õûñø maneggiano la retorica
nazionalista ergendosi a «difensori dello Yemen», paese in cui la cornice nazionale
della politica e della guerra è scomparsa, frammentata in micropoteri locali che
perseguono agende rivali.
L’offensiva di Israele contro Õamås a Gaza seguita al massacro del 7 ottobre
ha indirettamente offerto agli õûñø la possibilità di rafforzarsi come attore regionale.
Dal pubblico arabo e anche islamico gli attacchi nel Mar Rosso sono stati percepi-
ti come l’unico atto dirompente da parte del campo pro Iran. Non soltanto contro
Israele e la sua campagna militare nella Striscia, ma anche verso i paesi occidenta-
li, colpevoli per alcuni di continuare a difendere il diritto dello Stato ebraico all’au-
todifesa. Gli õûñø hanno potuto farlo perché, a differenza del nucleo delle Forze di
mobilitazione popolare in Iraq e delle milizie sciite filo-iraniane in Siria, non hanno 135
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˘

nulla da perdere: già immersi in un contesto di guerra (meglio, di tregua scaduta),


soli in un governo non riconosciuto e dunque senza la necessità di compromessi
politici o il rischio di perdere vantaggi economici acquisiti.
Sfruttando il tradizionale senso di vicinanza degli yemeniti ai palestinesi, il Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

fronte marittimo ha così permesso agli õûñø di aumentare il reclutamento nelle aree
nord-occidentali da essi controllate, distraendo per il momento la popolazione lo-
cale dai fallimenti del governo di Anâår Allåh, sempre più inefficiente e repressivo,
con la lotta contro Israele e Stati Uniti. Il protagonismo regionale degli õûñø ha ge-
nerato una dinamica politica nuova: il movimento armato è oggi più integrato di
prima nella galassia di attori filo-iraniani, ma al contempo sta provando a diversifi-
care le alleanze in chiave strategica, anche oltre i confini mediorientali 1. Ciò non
sarebbe stato possibile se con i loro attacchi gli õûñø non fossero andati al di là
dell’asse guidato da Teheran, rivolgendosi a un pubblico più vasto, transregionale
e non settario, non sovrapponibile a quello che tradizionalmente ascolta la propa-
ganda dei pasdaran. È a tale audience che si rivolgono i video del sequestro della
Galaxy Leader, la nave cargo di proprietà israeliana della quale gli õûñø hanno
preso il controllo nel novembre 2023, divenuta un trofeo della lotta a Israele tra
selfie, bandiere con il volto di al-Õûñø e del defunto Qasem Soleimani, visite guida-
te per i simpatizzanti. O quelli della petroliera greca Sounion in fiamme a causa
delle cariche esplosive lanciate dai miliziani.

2. Diversificare le alleanze ha un triplo obiettivo. Ottenere altri canali di finan-


ziamento e di fornitura di armi. Allargare il raggio geografico d’azione. Soprattutto
assicurarsi la possibilità, anche in futuro, di agire da battitori liberi in Medio Orien-
te ribadendo che gli õûñø sono alleati ma non clientes dell’Iran. Anche adesso che
scalano posizioni nell’asse in crisi, specie dopo la decimazione dei quadri di Õamås
e di Õizbullåh. In quest’ottica va contestualizzato l’annuncio del coordinamento
operativo fra gli õûñø e le milizie sciite della Resistenza islamica in Iraq, le più ec-
centriche dello scenario iracheno (Katå’ib Õizbullåh), per colpire la costa mediter-
ranea di Israele; così come i contatti tra õûñø e šabåb somali, sunniti e affiliati di
al-Qå‘ida, cui gli õûñø vorrebbero fornire droni con lo sguardo ai potenziali target
marittimi nell’Oceano Indiano occidentale.
Poi c’è la Russia. Delegazioni õûñø e russe si sono incontrate diverse volte nel
2024, tra Mosca e Mascate. Secondo l’intelligence americana, non soltanto uomini
dei servizi militari russi si troverebbero nei territori yemeniti del Nord-Ovest, ma vi
sarebbe una trattativa mediata dall’Iran per la fornitura di missili antinave russi agli
õûñø 2, nel nome del comune intento di colpire interessi occidentali. Per gli õûñø
questa congerie di alleati nuovi o potenziali non si pone in contrasto con l’Iran,
1. E. ARDEMAGNI, «Oltre l’Asse: gli Houthi e la diversificazione strategica delle alleanze», Fondazione
Med-Or, 9/9/2024.
2. S. MATHEWS, «Exclusive: US intelligence suggests Russian military is advising Houthis inside Yemen»,
Middle East Eye, 2/8/2024; J. IRISH, P. HAFEZI, J. LANDAY, «Exclusive: Iran brokering talks to send advan-
136 ced Russian missiles to Yemen’s Houthis, sources say», Reuters, 24/9/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

dato che tali attori – statali e non – si muovono tutti nel campo pro Teheran, come
testimoniato dal sempre più stretto partenariato di difesa fra Iran e Russia.
Insieme al movimento armato guidato da Õusayn al-Õûñø, i fatti di Gaza stanno
però cambiando lo Yemen e ne tengono in ostaggio il destino politico. Dopo un Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

anno di attacchi nel Mar Rosso gli õûñø non sembrano più interessati a concludere
un accordo con l’Arabia Saudita. Eppure i sauditi stavano mettendo sul tavolo mi-
sure economiche generose per Anâår Allåh, come il pagamento temporaneo di
tutti gli stipendi pubblici, i fondi per la ricostruzione del Nord-Ovest e una quota
di proventi petroliferi yemeniti da redistribuire nel «quasi-Stato» õûñø. In più, nessun
rappresentante del governo riconosciuto né del Consiglio della leadership presi-
denziale (Plc, istituzione presidenziale di otto membri) è stato finora invitato a
partecipare ai colloqui fra sauditi e õûñø. Questa scelta di Riyad mirante a privilegia-
re la messa in sicurezza del confine ha generato malcontento e diffidenza tra gli
attori riconosciuti dello Yemen.
Il movimento sciita zaidita ha comunque scelto l’escalation marittima e contro
Israele, mettendo Riyad in una posizione assai scomoda: niente accordo possibile
in Yemen fino a quando non vi sarà intesa su Gaza e dintorni, con il rischio che gli
õûñø ricomincino gli attacchi con droni e missili contro il territorio saudita e gli
obiettivi marittimi. Per il principe ereditario Muõammad bin Salmån (MbS) sarebbe
il ritorno a quell’insostenibile realtà che ha scandito la quotidianità tra il 2016 e il
2022, convincendolo infine ad aprire la trattativa.
Senza un’intesa sauditi-õûñø, però, le possibilità di un cessate-il-fuoco in Ye-
men (tra yemeniti) sono ancora più scarse, al netto della roadmap negoziale che
le Nazioni Unite cercano di tenere in vita. Non sono soltanto gli õûñø, infatti, a
strumentalizzare la crisi mediorientale per massimizzare i guadagni politici. Dall’i-
nizio degli attacchi nel Mar Rosso gli attori politico-militari dei governatorati me-
ridionali e dell’area del Båb al-Mandab lanciano messaggi pubblici sempre meno
cifrati a Stati Uniti, Regno Unito e paesi europei. Scopo: ricevere aiuti militari per
ricostruire la Guardia costiera yemenita e per combattere gli õûñø anche con of-
fensive di terra, sfruttando la crescente e tardiva consapevolezza occidentale dei
rischi posti alla sicurezza marittima e regionale dalla spregiudicata strategia del
movimento 3.
‘Aydarûs al-Zubaydø, leader del secessionista Consiglio di transizione del Sud
(Stc) i cui rappresentanti integrano tuttavia il governo riconosciuto che difende
l’unità nazionale, ha invitato gli attori yemeniti, mediorientali e internazionali a
«trovare una nuova strategia» 4 per contrastare gli õûñø. L’Stc sta provando con in-
contri e nomine a raggruppare le forze del Sud e del Sud-Ovest sostenute dagli
Emirati Arabi Uniti: i secessionisti, i nazionalisti della Resistenza nazionale yeme-
nita di ¡åriq Âåliõ (nipote dell’ex presidente che ha il suo feudo ad al-Muœå) e i
salafiti delle Brigate dei giganti di ‘Abd Raõmån al-Muõarramø, i più efficaci nelle

3. E. ARDEMAGNI, «As Western options narrow, Yemen’s anti-Houthi forces vie for US military support»,
Middle East Institute, 5/3/2024.
4. J. IRISH, «New strategy needed to contain Houthis, says Yemen VP», Reuters, 24/9/2024. 137
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GLI H.U
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campagne di terra 5. Convergenze tattiche, non strategiche, dettate dall’opportuni-


tà politica e non certo dalla convinzione dato che ognuno conserva la sua agenda
per il futuro dello Yemen, spesso confliggente con quella del possibile alleato. Al
momento nel variegato fronte anti-õûñø prevale quindi la tendenza unitaria, anche Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

per mostrarsi interlocutori credibili agli occhi degli Stati Uniti.

3. Nel 2014, con il documento finale della Conferenza di dialogo nazionale


(2013-2014) incaricata di riscrivere la costituzione yemenita, i rappresentanti dei
principali movimenti politici e associazioni del paese (Anâår Allåh compreso) si
accordarono sull’introduzione del principio federale. Le istituzioni prodotte dal
processo di transizione sarebbero dovute essere unitarie ma federali per risolvere
la tradizionale disputa politico-economica fra centro e periferia che tanti conflitti
ha generato, nel Nord come nel Sud 6. Dieci anni e una guerra dopo, lo Yemen è
ancora più lontano da quell’obiettivo: esistono molti micropoteri locali fondati
sulla capacità coercitiva, finanziaria e identitaria dei gruppi armati, ma nessun
centro istituzionale condiviso 7. La cornice nazionale è insomma collassata, al
pari dei partiti politici; la politica yemenita si gioca sull’asse diretto fra poteri lo-
cali e alleati o sponsor esterni (Arabia Saudita, Iran, Emirati). La guerra di Gaza
ha accentuato l’uso strumentale del nazionalismo, mentre di nazionale non c’è
neanche più la Banca centrale, anch’essa divisa fra Âan‘å’ (õûñø) e Aden (governo
riconosciuto).
Nello Yemen attuale vi sono infatti due contraddizioni identitarie. La prima è
che gli õûñø si sono appropriati della retorica nazionalista, sebbene il nazionalismo
yemenita contemporaneo sia nato con la rivoluzione repubblicana del Nord,
quando nel 1962 la Repubblica Araba dello Yemen chiuse la lunga esperienza
dell’imamato (il governo dell’imam degli sciiti zaiditi). L’imamato come governo
degli antenati degli õûñø, dunque, che tuttavia sono sempre rimasti ambigui circa
la sua restaurazione. In seguito i såda (l’élite religiosa e non tribale di cui la fami-
glia Õûñø e la cerchia più ristretta del movimento fa parte) furono esclusi dalla
repubblica dei militari, per il timore di insurrezione. Il nazionalismo yemenita fu
dunque un artificio politico costruito contro gli sciiti zaiditi più legati all’esperien-
za dell’imamato, quelli che non vennero cooptati dalla repubblica.
La seconda contraddizione è che gli õûñø usano la retorica nazionalista da una
posizione di minoranza, in un paese mai così frammentato. Dal momento che solo
una parte degli sciiti zaiditi dello Yemen (il 30-40% della popolazione) sostiene e/o
fa parte del movimento o della sua milizia, gli õûñø rappresentano la minoranza di
una minoranza. Nonostante l’autonomia religiosa e politica delle terre del Nord sia

5. E. ARDEMAGNI, «UAE-Backed Forces Regroup in Yemen», Sana’a Center For Strategic Studies, The Ye-
men Review, (in corso di pubblicazione).
6. S.W. DAY, Regionalism and Rebellion in Yemen. A Troubled National Union, Cambridge University
Press, 2012.
7. E. ARDEMAGNI, «Beyond Yemen’s Militiadoms: Restarting from Local Agency», European Union Insti-
138 tute for Security Studies (Euiss), Conflict Series Brief, 21/4/2020.
LA NOTTE DI ISRAELE

il fulcro originario della loro rivendicazione 8, gli õûñø hanno abilmente carpito il
vessillo del nazionalismo yemenita.
In questo processo i bombardamenti sauditi, americani e ora israeliani in Ye-
men hanno svolto un ruolo determinante. Quando l’Arabia Saudita e la sua coali- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

zione militare iniziarono a bombardare i territori controllati da Anâar Allåh nel


2015, dopo il colpo di Stato del movimento a Âan‘å’, gli õûñø gridarono all’aggres-
sione esterna ergendosi a «difensori della nazione». Il discorso nazionalista õûñø è
ritornato dal gennaio 2024, quando Stati Uniti e Regno Unito hanno iniziato raid
mirati contro siti militari del Nord-Ovest con l’obiettivo (fallito) di bloccare gli at-
tacchi alla navigazione commerciale. Gli õûñø si presentano via radio alle navi in
transito nel Mar Rosso meridionale come Forze armate dello Yemen e Marina dello
Yemen 9 e adesso che Israele colpisce direttamente il territorio yemenita, hanno di
nuovo gioco facile ad aizzare la retorica nazionalista contro i nemici esterni. Ciò
mette in ulteriore difficoltà le deboli istituzioni del paese che hanno condannato gli
attacchi õûñø alla navigazione, ma devono pubblicamente condannare anche i bom-
bardamenti delle potenze straniere.

4. La parabola della guerra in Yemen sintetizza efficacemente cosa può acca-


dere quando un conflitto protratto, considerato periferico soltanto da europei e
statunitensi, interseca una dimensione regionale. Dal 2015 l’intervento militare del-
la coalizione a guida saudita contro gli õûñø ha indirettamente rafforzato il sostegno
militare iraniano al movimento armato, accentuando in loco l’insidiosa varabile
della competizione regionale. Variabile che ha coinvolto e continua a coinvolgere
anche il campo avverso agli õûñø, data la mai spentasi rivalità nel paese tra Arabia
Saudita ed Emirati, che ormai possono contare su aree d’influenza, alleati e addirit-
tura proxies dal Båb al-Mandab a Aden, da Mar’ib all’Õaîramawt, da Mahra fino
all’arcipelago di Socotra.
Gli attacchi degli õûñø nel Mar Rosso e contro Israele stanno inserendo una
nuova, pericolosa dimensione nel conflitto: quella internazionale. Il fallimento del-
le misure di deterrenza messe in atto soprattutto dagli Stati Uniti contro gli õûñø
dopo il 7 ottobre – dal rafforzamento delle sanzioni al dispiegamento della missio-
ne navale difensiva Prosperity Guardian, fino ai bombardamenti mirati contro i siti
militari – delinea uno scenario di crisi di medio-lungo termine in cui il movimento
yemenita continuerà ad attaccare. Lo farà galvanizzato anche dalla possibilità di
affrontare direttamente quei «nemici» additati già nello slogan fondativo del gruppo:
«Dio è grande, morte all’America, morte a Israele, maledizione sugli ebrei, vittoria
all’islam».
L’intensificazione dei rapporti fra õûñø e Russia, facilitati dalla cooperazione
sempre più stretta fra Teheran e Mosca, potrebbe rafforzare il posizionamento in
8. S. DORLIAN, La mouvance zaydite dans le Yémen contemporain: une modernisation avortée, Paris
2013, L’Harmattan.
9. R. MALTEZOU, J. SAUL, «Houthis’ email alert to Red Sea ships: Prepare for attack, with best regards»,
Reuters, 3/10/2024. 139
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Yemen della Federazione Russa, che con gli õûñø trova una convergenza d’interessi
nel Mar Rosso in chiave anti-occidentale. A quel punto gli Stati Uniti sarebbero più
stimolati a ripensare la loro strategia in Yemen, magari ascoltando le sirene del Sud
e del Sud-Ovest che vorrebbero affrontare gli õûñø anche con una assai rischiosa
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operazione di terra, bloccata nel 2018 dall’Onu con gli accordi di Stoccolma per il
cessate-il-fuoco ad al-Õudayda. Di certo il coinvolgimento di nuovi attori medio-
rientali ed extraregionali nel paese modificherà ancora le dinamiche di una guerra
iniziata dieci anni fa come uno scontro politico interno per il potere e le risorse.
Allontanando ancor più le già flebili prospettive di stabilizzazione dello Yemen.

140
LA NOTTE DI ISRAELE

IN MORTE DI SUEZ?
I PROGETTI DI LAND BRIDGE Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

PER EVITARE IL CANALE


Il choke point egiziano dimostra la sua vulnerabilità, che ne
comporta il serio ridimensionamento. Come sopperire alla crisi via
collegamenti terrestri. Le iniziative israeliane, tra cui spicca l’idea
di connettere Eilat ad Ashkelon, e quelle turco-irachene.
di Francesco ZAMPIERI e Isabella CHIARA

N EGLI ULTIMI ANNI (2021 E 2023-24) IL


choke point rappresentato dal Canale di Suez ha mostrato tutta la propria vulne-
rabilità, dapprima a causa dell’incidente occorso alla portacontainer Ever Given
– che ha comportato anche il danneggiamento del Canale, dal momento che la
nave ha impattato pesantemente contro le pareti dello stesso – e, in un secondo
momento, a causa degli attacchi perpetrati dagli õûñø contro il traffico mercantile
transitante per Båb al-Mandab. Questi ultimi si sono rivelati un vero flagello per
il Canale egiziano, attraverso cui transita il 12% del traffico marittimo globale in
termini di volumi di merci 1. Nel periodo giugno 2023-giugno 2024 le navi transi-
tate attraverso Suez sono state 20.148 contro le 25.911 dell’anno precedente,
mentre nel primo trimestre del 2024 il dato è ancora più drammatico: -42,9% ri-
spetto all’analogo periodo dell’anno precedente ovvero solo 3.597 navi, di cui
1.238 petroliere (-40%) e 2.359 altre navi (-44,4%); il tonnellaggio netto Scnt
(Suez Canal Net Tonnage) globale delle navi transitate è stato pari a 150,3 milio-
ni di tonnellate (-59%). Per il governo egiziano – che ricava circa il 2% del pro-
prio pil dalle tasse applicate alle navi che percorrono il Canale – le rendite rela-
tive ai primi tre mesi del 2024 non hanno superato i 39,1 miliardi di sterline egi-
ziane (-45,2%) 2. I dati non sono migliorati nei mesi seguenti: a luglio le navi che
hanno risalito o disceso il Canale di Suez sono state solo 1.047, con un calo del
51,5% rispetto al luglio 2023, mentre il tonnellaggio netto Scnt è risultato minore
del 68,8%. Anche allargando l’analisi ai primi sette mesi del 2024 il risultato non

1. P. KAMALI, R. KOEPKE, A. SOZZI, J. VERSCHUUR, «Red Sea Attacks Disrupt Global Trade», International
Monetary Fund, Blog, 7/3/2024.
2. «In the first quarter of 2024, ship traffic in the Suez Canal plummeted by -42.9%», InforMARE,
14/5/2024 (anno XXVIII). 141
IN MORTE DI SUEZ? I PROGETTI DI LAND BRIDGE PER EVITARE IL CANALE

cambia: il Canale di Suez è stato attraversato da 7.922 navi (-48,3% sul corri-
spondente periodo del 2023): 2.930 navi cisterna (-41,7%) e 4.992 unità di altra
tipologia (-51,5%). Gli introiti derivanti dai diritti di transito sono ammontati a
124,1 miliardi di sterline egiziane (-38,4%) 3. Tradotto in dollari e parametrato Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

sull’anno finanziario giugno 2023-giugno 2024, questo dato significa che le en-
trate sono state pari a 7,2 miliardi di dollari a fronte dei 9,4 miliardi incassati
nell’anno finanziario precedente 4.
Il traffico container è risultato particolarmente penalizzato: tra i leader in que-
sto settore del trasporto marittimo, solo Cma Cgm ha continuato a utilizzare il Ca-
nale, impiegando undici navi da 9-11 mila container, insieme a pochi altri operato-
ri che controllano piccole fette di mercato. La conseguenza di tutto ciò è stata che
solo il 4% dei 7,48 milioni di teu normalmente impiegati lungo la rotta Asia-Europa
ha continuato a transitare nelle acque del Mediterraneo via Mar Rosso e Suez 5.
Tutto ciò si traduce anche nella riduzione degli approdi di navi portacontainer nei
porti della regione, innanzitutto quelli del Mar Rosso e del Mediterraneo orientale.
Nel caso dei porti del Mediterraneo orientale (Pireo e Porto Said) e in quelli del
Golfo di Aden, nei primi sei mesi del 2024 la diminuzione degli scali di navi por-
tacontainer è stata del 33% rispetto all’analogo periodo del 2023; nel Mar Rosso,
invece, l’impatto è stato ancor più devastante, giacché il numero medio di scali è
crollato dell’85%, colpendo in modo particolare il porto di Gedda (-74% fra dicem-
bre 2023 e gennaio 2024) e Âalåla nel Golfo di Aden (-50% nel periodo genna-
io-febbraio 2024) 6.
Quel che è peggio è il fatto che gli õûñø hanno dimostrato significative capaci-
tà nell’intero ciclo Isr delle loro azioni contro il traffico mercantile: in altre parole,
non basta solo saper sparare qualche missile o razzo contro un bersaglio navale
– cosa, peraltro, non alla portata di tutti i gruppi insorgenti – ma bisogna anche
saperlo identificare e tracciare. Ebbene, gli õûñø sono stati e sono abilissimi nel ri-
cavare informazioni su compagnie di navigazione, rotte e navi da carico, consul-
tando i database presenti in rete o le informazioni raccolte da loro o da altri attori
anche negli anni che hanno preceduto la crisi attuale. Anche la contromisura adot-
tata da alcune compagnie – ad esempio, spegnere l’Automatic Identification Sy-
stem in corrispondenza dello Stretto di Båb al-Mandab – non si è rivelata sufficien-
te a evitare gli attacchi e questo ne ha favorito il successo 7.
Per l’Italia, la minaccia õûñø contro il traffico transitante per Båb al-Mandab è
insostenibile se protratta nel tempo. Per noi il 28% del valore degli scambi è via
nave e di questo 28% ben il 38% transita attraverso il Mar Rosso 8.

3. «A luglio il traffico navale nel canale di Suez è diminuito del 51,5%», InforMARE, 12/9/2024.
4. «Suez Canal revenue drops as some shippers shun Red Sea», Reuters, 18/7/2024.
5. N. SAVVIDES, «Red Sea crisis reaches peak impact on box ships», Seatrade Maritime News, 23/7/2024.
6. A. MURPHY, «Regional impact of the Red Sea crisis», Sea Intelligence-Press Release, 12/9/2024.
7. «Risks impacting global shipping in Q1 2024», Inchcape Shipping Services, 9/4/2024.
8. M. DEANDREIS (a cura di), Italian Maritime Economy. 11° Rapporto annuale (2024), Centro Studi e
142 Ricerche sul Mezzogiorno, Napoli 2024, Giannini Editore.
LA NOTTE DI ISRAELE

I progetti israeliani di land bridge


La vulnerabilità del Canale di Suez ha indotto un certo numero di attori –
innanzitutto quelli regionali – a studiare delle alternative. Israele, ad esempio, Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

ha ripreso gli studi per la realizzazione di un land bridge in grado di collegare


Eilat (Golfo di ‘Aqaba) con Ashdod (Mediterraneo). Le ipotesi sul tavolo sono
due, non necessariamente in competizione l’una con l’altra. La prima prevede di
collegare Eilat con Ashdod via ferrovia, così da evitare i due giorni di navigazione
necessari per il transito attraverso il Canale di Suez. Nel 2012, il ministero dei
Trasporti israeliano aveva già invitato varie imprese costruttrici a presentare
offerte per la realizzazione di un porto-canale a nord-est della Baia di Eilat, così
da incrementarne la capacità ricettiva, in ciò configurandosi il primo passo per
l’eventuale realizzazione di un land bridge che avesse origine da quello scalo. Il
porto di Eilat è stato creato nel 1952 ed è fondamentale per i commerci tra Israele
e i paesi dell’Oceano Indiano e già consente l’aggiramento del Canale di Suez.
Tuttavia, la mancanza di una connessione ferroviaria ne limita fortemente
l’attrattività e l’operatività, senza dimenticare che, dopo l’ottobre 2023, esso si tro-
va nel raggio d’azione dei missili degli õûñø; anche se le difese sono state sempre
in grado di neutralizzare la minaccia proveniente dallo Yemen, l’operatività del
porto è calata dell’85%. Ancor prima delle crisi più recenti, il governo israeliano
aveva elaborato il piano Southern Gate, finalizzato a rilanciare il ruolo mercantile
di Eilat. Era previsto lo spostamento del porto più a nord, nell’entroterra, realizzan-
do una sorta di grande porto-canale che sarebbe stato collocato in prossimità del
confine con la Giordania. La presenza di un nuovo aeroporto (inaugurato nel
2019) e un’estensione della linea ferroviaria avrebbero dovuto trasformare Eilat in
uno hub regionale. Il progetto aveva suscitato l’attenzione di alcuni investitori in-
ternazionali, tra i quali anche quelli dell’imprenditore Donald Trump 9. Il progetto
volto a potenziare Eilat era piuttosto ambizioso, sia per la condizione di partenza
di quel porto – di fatto, equipaggiato solo per il traffico di rinfuse e per l’importa-
zione di autovetture provenienti dall’Estremo Oriente – sia per la mancanza di
adeguate reti di comunicazione per la connessione tra lo scalo e i porti del Medi-
terraneo. I costi del trasporto su gomma da Eilat ad Ashdod ammontano a circa
1.300 dollari. Ad ogni modo, negli ambiziosi piani che avevano portato a proget-
tare il Southern Gate, erano previsti investimenti per incrementare la linea ferro-
viaria da Zin fino a Eilat, per un totale di 200 km, collegando tra loro, in direzione
Nord-Sud, l’aeroporto di Timna, il progettato terminal logistico e, per l’appunto, il
porto di Eilat.
Il porto di Eilat avrebbe dovuto essere aggiornato per consentire di superare
le limitazioni esistenti, quali una profondità delle acque inferiore ai 12 metri,
un’ampiezza piuttosto limitata (mezzo chilometro) e una capacità di gestione dei
container non eccedente i 150 mila teu. Il piano elaborato dall’economista Yaakov
9. «Top 3 Israel Ports: Critical Maritime Hubs and Their Pivotal Role», GoComet, 20/2/2024. 143
IN MORTE DI SUEZ? I PROGETTI DI LAND BRIDGE PER EVITARE IL CANALE

Sheinin e dalla Israel Ports Development & Assets Company Ltd., prevedeva un
intervento in tre fasi. Dapprima (2013-15) doveva essere attuata una completa
privatizzazione dello scalo e si doveva attrezzare Eilat per la gestione dei contai-
ner; poi (2019) si doveva realizzare una connessione ferroviaria; infine (2025) la Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

zona logistica e le banchine dovevano essere ricollocate 5 km più all’interno,


nell’area del deserto di Arava, verso il confine con la Giordania (‘Aqaba). In so-
stanza, si doveva scavare un canale di accesso a uno specchio acqueo interno,
lungo almeno 4 km, largo circa 100 metri e con una profondità di 18-19 metri.
Questo canale avrebbe consentito l’accesso a un’area logistica banchinata lunga
almeno 1,5 km e larga 600 metri, con uno spazio circolare di almeno 600 metri di
diametro per consentire la manovra per le navi. Così attrezzato, il porto di Eilat
avrebbe consentito l’operatività di navi in grado di trasportare almeno 12.500 teu
(Suezmax) e di gestire circa 3 milioni di teu all’anno, oltre a carichi alla rinfusa e
navi ro-ro. L’idea non era certo quella di creare un’alternativa a Suez ma solo di
decongestionare quello scalo e di fare del Sud di Israele un’area di sviluppo eco-
nomico, grazie anche all’istituzione di una free zone 10. Il tutto avrebbe avuto un
costo di almeno 3 miliardi di dollari per l’adeguamento del solo porto di Eilat – 1
miliardo di dollari era il costo stimato del dragaggio di non meno di 140 milioni
di metri cubici di terra e sabbia – mentre altri 2 miliardi di dollari sarebbero servi-
ti al collegamento ferroviario da Eilat al Mediterraneo 11. Al di là dei costi, era l’idea
del collegamento ferroviario che appariva poco vantaggiosa in termini di quantità
di merci trasportabili. Secondo i calcoli, sarebbero serviti almeno di dieci treni
giornalieri, ciascuno dei quali lungo centinaia di vagoni a due livelli, per traspor-
tare, ogni anno, oltre due milioni di teu da Eilat ad Ashdod. Una goccia in mezzo
al «mare di container» che, invece, transita attraverso Suez, pari a circa il 30% del
traffico globale.
Indipendentemente da questi faraonici piani, nell’ottobre 2024 il porto di Eilat
risulta in bancarotta, piegato da otto mesi di completa paralisi di ogni attività com-
merciale e di interruzione del traffico navale, causata dalla minaccia di attacchi
degli õûñø. Questi ultimi hanno provocato una riduzione del traffico nel Mar Rosso
e verso Eilat dell’85%, arrecando interruzioni ai commerci con la Cina, l’India, la
Repubblica di Corea, Singapore e gli altri paesi del Golfo 12.
Decisamente migliore, invece, è la situazione del terminal mediterraneo di un
ipotetico land bridge israeliano dal Mar Rosso all’ex mare nostrum. Qui, il campio-
ne commerciale è il porto di Ashdod, collocato a una quarantina di chilometri a
sud di Tel Aviv. Esso fu realizzato tra il 1962 e il 1965 come secondo moderno
porto ad acque profonde del paese, in aggiunta al vecchio porto di Haifa che, co-
munque, resta uno dei più importanti scali marittimi di Israele. Tra il 2000 e il 2004
10. «Israel Southern Gateway», Israel Ports Development & Assets Company Ltd.
11. N. SANDLER, «Israel Weighs $3-Billion Remake of Port of Eilat», Engineering News-Record, 23/3/2012;
A. BARKAT, «Work begins on new Eilat inland port», Globes, 18/1/2012.
12. M. ABDUSALAM, «Eilat Port declares bankruptcy: What awaits the Occupying state?», Middle East
144 Monitor, 19/7/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

il porto fu ampliato con la realizzazione del terminal Hayovel e adattato alle esi-
genze di un traffico mercantile aumentato.
Nel 2015 l’Autorità portuale di Israele diede il via alla costruzione di un nuovo
terminal (Hadarom) nel porto di Ashdod, completata nel 2021 con la realizzazione Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

di una nuova infrastruttura in grado di gestire navi portacontainer con carichi fra i
18 mila e i 24 mila teu e una lunghezza di circa 400 metri, dotata anche di collega-
mento ferroviario. La realizzazione di questo nuovo terminal (Hadarom Container
Terminal, Hct) ha comportato l’escavazione di 7,22 milioni di metri cubici di fon-
dale marino, la costruzione di nuove dighe frangiflutti (sia un’estensione delle
precedenti per almeno 600 metri sia la costruzione di una nuova linea della lun-
ghezza di 1.480 metri) che hanno permesso di completare una piattaforma estesa
780 mila metri quadrati (63 ettari) per la movimentazione e lo stoccaggio dei con-
tainer, il tutto per un costo di non meno di 3 miliardi di shekel 13. Il nuovo terminal
– completamente automatizzato per quanto riguarda la gestione dei cancelli di in-
gresso e uscita, delle gru (nove Zpmc Sts) e dei piazzali – è in grado di movimen-
tare fino a 1,7 milioni di teu ed è circondato da acque aventi una profondità com-
presa tra i 14,5 e i 16 metri, che lo rendono adatto ad accogliere non solo le navi
portacontainer ma anche le portarinfuse 14.
Il porto di Ashdod, però, non è solo uno scalo marittimo ma anche un volano
per lo sviluppo di altre iniziative imprenditoriali. Sin dal 2021 esso ospita un certo
numero di start-up che sono impegnate nello studio e nella progettazione di nuove
soluzioni per l’efficientamento dei porti, dalla protezione cibernetica delle attrezza-
ture e dei sistemi di sicurezza fino alla valutazione dei possibili cambiamenti nel
mercato trasportistico globale 15.
A oggi, il porto di Ashdod – il più importante dei sei porti commerciali di
Israele – è l’unico a non essere stato completamente privatizzato, nonostante i
debiti che ha accumulato. Ciò dipende dal suo valore strategico – confermato du-
rante il conflitto con Õamås – che ha visto il porto continuare a funzionare anche
durante i lanci di razzi e missili da parte dei miliziani presenti nella Striscia di Gaza,
che si trova solo 20 km più a sud. Attraverso Ashdod, Israele ha continuato a im-
portare prodotti strategici e il 45% di tutto ciò che riceve dall’estero 16. Per tutti
questi motivi, qualsiasi ipotesi di privatizzazione non potrà eccedere il 49% del
valore della struttura, mantenendo nelle mani dello Stato il restante 51% e facendo
di Ashdod il punto fermo di qualsiasi progetto di sviluppo strategico della portua-
lità nazionale 17.
13. «Ashdod Port Expansion-South Port», Yaron-Shimoni-Shacham, Consulting Engineers Ltd., 2024;
XIAN-DAO FENG, RAN TAO, RUI-YI HUANG, ZHI-WU XUE, «Engineering Solution to Piling Works under Extre-
me Wave Condition», Proceedings of the Thiertieth (2020) International Ocean and Polar Engineering
Conference, Shanghai, October 11-16, 2020, International Society of Offshore and Polar Engineers.
14. «New project: Hadarom Container Terminal (Israel)», Camco Technologies, 31/10/2020; Z. HRVACE-
VIC, «Ashdod Port’s Quay 21 upgrade project complete», Dredging Today, 15/2/2022.
15. «Ashdod Port start-up strategy», PierNext, 9/1/2022.
16. Y. KARRA, «Israel’s Largest Seaport Resolves to Stay Afloat Through War», Israel 21c, 5/11/2023.
17. I. ERETZ, «Ashdod Port CEO reveals IPO plans», Globes, 20/3/2024. 145
IN MORTE DI SUEZ? I PROGETTI DI LAND BRIDGE PER EVITARE IL CANALE

La seconda ipotesi per la realizzazione di un land bridge israeliano è rappre-


sentata dal rilancio di una vecchia idea risalente agli anni Sessanta del secolo scor-
so: il progetto del Canale Ben-Gurion o Canale Israele. Nel luglio 1963 il diparti-
mento dell’Energia americano e il Lawrence Livermore National Laboratory aveva- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

no approntato un documento – rimasto segreto sino al 1993 – con il quale si ipo-


tizzava la detonazione sotterranea di non meno di 520 testate nucleari per aprire
un canale navigabile che attraversasse il deserto del Negev 18. Se realizzato, il cana-
le avrebbe consentito il collegamento tra il Golfo di ‘Aqaba e il Mediterraneo e
avrebbe avuto una lunghezza di 292,9 km (circa 160 miglia), risultando quasi un
terzo più lungo del Canale di Suez (193,3 km), il tutto per un costo realizzativo
oscillante tra i 16 e i 55 miliardi di dollari di allora. Il canale avrebbe avuto inizio
nel porto di Eilat, si sarebbe dipanato lungo la Valle Araba (Arava) per almeno 100
km tra le montagne del Negev e le colline giordane per poi piegare più a ovest,
verso il Mar Morto (collocato 430,5 metri sotto il livello del mare) e da qui verso le
alture del Negev per poi proseguire ancora più a nord, fino a sfociare nel Mediter-
raneo, all’altezza del porto israeliano di Ashkelon, poco sopra la Striscia di Gaza.
L’impresa sarebbe stata assai complicata anche sul piano ingegneristico giacché
avrebbe richiesto l’escavazione di un terreno roccioso, ben più difficile da frantu-
mare rispetto a quello sabbioso di Suez. A fronte delle difficoltà tecniche, il nuovo
canale sarebbe stato insostituibile sul piano geopolitico, in quanto avrebbe fatto
diminuire del 50% i proventi che l’Egitto ricavava dal passaggio attraverso Suez 19.
Naturalmente, il progetto va analizzato alla luce della particolare situazione
che Israele stava vivendo negli anni Sessanta. Sin dalla sua nascita, lo Stato ebraico
si era visto interdetto l’utilizzo del Canale di Suez e, dalla guerra del 1967 sino al
1975, questo rimase comunque chiuso a tutto il traffico internazionale, con gravi
ricadute su operatività e fortuna economica del porto di Eilat; vero è che quest’ul-
timo, dal 1957 al 1967, era stato interessato da un traffico marittimo straordinaria-
mente basso.
L’ambizioso progetto elaborato negli anni Sessanta tornò a manifestarsi il 2
aprile 2021, quando Israele annunciò che i lavori per la realizzazione del Canale
Ben-Gurion avrebbero avuto inizio entro il giugno dello stesso anno, situazione
peraltro mai verificatasi 20. Eppure, le motivazioni per procedere con il progetto
– il cui costo è stato nel frattempo ricalcolato in 100 miliardi di dollari, presumi-
bilmente recuperabili in dieci anni di attesi ricavi per 10 miliardi di dollari all’anno
– non mancherebbero. Innanzitutto, il Canale di Suez ha dimostrato tutta la pro-
pria vulnerabilità nel 2021, in occasione dell’incidente occorso alla portacontainer
Ever Given. In secondo luogo, l’ipotizzato canale israeliano sarebbe decisamente
più funzionale di quello egiziano perché scavato nella roccia e, dunque, meno
18. H.D. MACCABEE, «Use of Nuclear Explosives for Excavation of Sea-Level Canal Across the Negev
Desert (Canal Studies Filefolder)», osti.gov.1/7/1963.
19. R.C. PATIAL, «Alternate Suez Canal (The Israeli Ben Gurion Canal)», Eurasia Review, 7/11/2023.
20. M. ŠERI©, «The Ben Gurion Canal: Israel’s Potential Revolutionary Alternative to Suez – Analysis»,
146 Eurasia Review, 17/11/2023.
LA NOTTE DI ISRAELE

bisognoso di continua manutenzione, senza dimenticare il fatto che avrebbe di-


mensioni significative, essendo stata ipotizzata una profondità di almeno 50 metri
e una larghezza di circa 200, tali da consentire il traffico navale contemporanea-
mente in entrambi i sensi di marcia. In terzo luogo, la realizzazione di un’alterna- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

tiva a Suez indebolirebbe l’Egitto – come maliziosamente è stato fatto notare da


fonti iraniane – in termini sia economici sia geopolitici, con ricadute anche sugli
interessi locali della Cina, che conta sulla piena fruibilità del Canale per dare con-
cretezza alla propria Belt and Road Initiative 21. Infine, non va dimenticato che la
realizzazione del Canale e soprattutto il suo approdo nel Mediterraneo sarebbero
potenzialmente oggetto di attacchi provenienti dalla Striscia di Gaza o dallo Ye-
men, a meno che tali minacce non venissero preventivamente poste nelle condi-
zioni di non nuocere. Tutte considerazioni che hanno indotto alcuni osservatori
ad associare la crisi di Gaza e le iniziative volte alla sua distruzione con il proget-
to del nuovo canale 22.
Tuttavia, per quanto sia noto il favore di Netanyahu e del suo governo per
questa iniziativa infrastrutturale, pretendere di spiegare la guerra nella Striscia di
Gaza come propedeutica alla realizzazione del Canale Ben-Gurion appare più una
speculazione che una argomentazione convincente, senza omettere il fatto che
essa tradisce anche una lettura banalmente cospirazionista e, cosa ancor più grave,
riecheggiante vecchie e tetre accuse antisemite 23. Ciononostante, è fuori discussio-
ne che gli accordi di Abramo abbiano modificato le geometrie dei rapporti tra
Israele e alcuni paesi arabi (su tutti, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti) e che
nuove potenziali connessioni trasportistiche sarebbero ben accolte, soprattutto lad-
dove esse potessero venire integrate nelle reti – progettate o già realizzate – che
uniscono l’India ai paesi arabi e, tramite Israele, questi ultimi al Mediterraneo 24.
Indipendentemente dalla realizzabilità o meno di faraonici progetti per la co-
struzione di canali o di altre megastrutture, Israele ha comunque potenziato il
proprio sistema di trasporti terrestri. La recente minaccia degli õûñø contro il traffico
mercantile transitante per Båb al-Mandab e il Mar Rosso ha favorito la nascita di
soluzioni innovative e interessanti. La israeliana Trucknet, ad esempio, ha realizza-
to un land bridge che consente di trasferire carichi containerizzati dai porti arabi di
Ãabal ‘Alø (Emirati Arabi Uniti) e Mønå’ Salmån (Bahrein) a quelli di Porto Said
(Egitto) o di Haifa (Israele) esclusivamente via terra, attraversando l’Arabia Saudita
e la Giordania. Trucknet è stata fondata nel 2016 e si basa sull’efficientamento del
trasporto su gomma. In altri termini, poiché è stato calcolato che il 30% dei camion
in operatività sulle strade del mondo viaggia vuoto, l’idea che ha ispirato i fonda-
tori dell’azienda israeliana è stata quella di eliminare questo margine di improdut-
tività, creando un sistema di trasporto intelligente – impiegante soluzioni di calcolo
21. A. BASSAM, «The second coming of Ben-Gurion», Tehran Times, 5/4/2021.
22. S. KHALIL, «What is Israel’s Ben Gurion canal plan and why Gaza matters», The New Arab, 17/11/2023;
F. MUSMAR, «The Ben Gurion Canal project», Israel HaYom, 12/5/2024.
23. J. HESSENAUER, «The “Ben Gurion Canal”: A new crazy anti-Israeli conspiracy theory is doing great
business on the internet while the social media platform do nothing», Fathom news, dicembre 2023.
24. B. LEVI PEZZULLI, «The Ben Gurion Canal: Vision Amidst Upheaval», Times of Israel, 26/2/2024. 147
148
NUOVI EQUILIBRI
AZERB.
NEL CAUCASO DEL SUD
Partner Quattro villaggi ceduti
dell’Azerbaigian FED. RUSSA
(Daghestan) Derbent dall’Armenia all’Azerbaigian
ISRAELE
Bağanis (armeno) - Bağanis Ayrım (azero)
TURCHIA Rapporto Voskepar (armeno) - Aşağı Eskipara (azero)
GEORGIA
ai minimi Kirants (armeno) - Heyrimli (azero)
storici Tbilisi Zaqatala Berkaber (armeno) - Kızılhacılı (azero)

Gruppo storico
ebraico nella zona Siyäzän
Şaki
montuosa azera Penisola di Abșeron
ARMENIA
Ganja
Oleodotto B
tc Nardardan
Baku
Lago A Z E R B A I G I A N
Erevan di Sevana
TURCHIA
IN MORTE DI SUEZ? I PROGETTI DI LAND BRIDGE PER EVITARE IL CANALE

Qobustan
Sabirabad
Ağdam
Shirvan
r MAR CASPIO
S äru
İğdir . Corridoio Horadiz Giacimenti
E RB n extraterritoriale petrolio
a di Zangezur
AZ xçıv gas
Na ad
fa ub Gruppi etnici Scontri
Antica ferrovia sovietica Jul Ord in Azerbaigian (%)
Ağbend RELIGIONI (%)
Ferrovia pianificata Azeri 91,6
IRAN Lesghi 2,0 Musulmani 96
Corridoio di trasporti che dovrebbe Provincia
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Provincia Armeni 1,4 Sciiti (63%)


connettere l’Armenia con la Fed. Russa di Azerbaigian Russi
di Azerbaigian 1,4 Sunniti (33%)
Corridoio di trasporti che dovrebbe occidentale Talishi 1,3 Ebrei 0,2
connettere l’Azerbaigian con la Turchia orientale Altri 2,3 Altri 3,8
Fonti: dati su etnie e religioni, Calendario Atlante De Agostini 2024, autori di Limes, Mdia Report, Petroleum Economist
LA NOTTE DI ISRAELE

basate sull’intelligenza artificiale e su sofisticati algoritmi – che consenta di combi-


nare tra loro, nel migliore dei modi, i dati dei beni da trasportare con gli automez-
zi disponibili. Naturalmente, i volumi di merci così trasferiti dal Golfo Persico al
Mediterraneo non consentono di sostituire la rotta passante per Suez ma questa Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

soluzione assicura un ininterrotto flusso logistico anche in tempi di crisi e fa viag-


giare determinate tipologie di carico più velocemente di quanto non avvenga con
le navi. Ad esempio, mentre un container spedito dagli Emirati Arabi Uniti ad Hai-
fa impiega non meno di due settimane per giungere a destinazione – in virtù del
fatto che il trasporto marittimo non va concepito in termini di trasferimento da un
«punto A» a un «punto B» ma come fortemente dipendente dai guadagni che ven-
gono assicurati dagli scali intermedi – l’utilizzo dei servizi di Trucknet richiede per
lo stesso viaggio circa quattro giorni, consentendo quindi un imbarco di quei con-
tainer nei porti israeliani del Mediterraneo con un anticipo di 10-12 giorni rispetto
al viaggio via mare, attraverso Suez 25. I costi del servizio non sono modici, però la
crescita del prezzo dei noli marittimi, conseguente agli attacchi õûñø, rende vantag-
giosa la soluzione elaborata 26.

Il land bridge fra Iraq e Turchia: il progetto Development Road

Nel 2010, un articolo del Meed (Middle East Business Intelligence) aveva sen-
tenziato che nel 2020 una serie di ferrovie regionali colleganti il Golfo Persico
all’Europa, tramite antiche vie commerciali che attraversano l’Iraq e il Levante,
avrebbe messo in discussione lo status di preminenza del Canale di Suez 27. Sebbe-
ne gli anni seguenti abbiano dimostrato che a essere messa in discussione non è
stata l’importanza del Canale bensì la sua sicurezza, l’ipotesi dello sviluppo di un
land bridge alternativo a Suez si è rivelata fondata. Alla fine del maggio 2023, il
primo ministro iracheno Muõammad Šiyå‘ al-Sûdånø ha annunciato l’avvio del pro-
getto Development Road (Strada dello sviluppo), iniziativa che prevede la creazio-
ne di una linea di collegamento – costituita da un’autostrada e una linea ferroviaria
a doppio binario – fra il porto di al-Fåw, situato sulle sponde dell’omonima peni-
sola, e il porto turco di Mersin. Snodandosi per circa 1.200 chilometri, e attraver-
sando le principali città irachene – Døwåniyya, Naãaf, Karbalå’, Bassora, Baghdad
e Mosul – la nuova linea seguirebbe la preesistente ferrovia che da Bassora arriva
a Baghdad, Tikrøt e Mosul. Da qui, proseguirebbe fino al valico di frontiera di
Rabø‘a, da dove poi verrebbe costruito un nuovo tracciato fino al valico di frontiera
turco di Ovaköy, aggirando il percorso esistente che passa attraverso la Siria 28. Un
25. D. MONBLATT, «Logistics “Tinder” Offers Alternative for Cargo To Bypass Houthi Threat», The Media
Line, 3/1/2024.
26. S. WROBEL, «Israel logistics startup forges overland trade route to bypass Houthi Red Sea crisis»,
Times of Israel, 27/12/2023.
27. «Baghdad’s new route to Europe», Meed, 5/5/2010.
28. «Turkey, Iraq, Qatar and UAE to develop Gulf to Europe rail corridor», Railway Gazette Interna-
tional, 6/5/2024. 149
IN MORTE DI SUEZ? I PROGETTI DI LAND BRIDGE PER EVITARE IL CANALE

progetto importante, dunque, soprattutto se si pensa che, secondo quanto afferma-


to da Nåâir al-Asadø, consulente per i Trasporti del primo ministro iracheno, questa
linea sarà caratterizzata da tecnologie «all’avanguardia» 29. Costo stimato del proget-
to: 17 miliardi di dollari 30. Tuttavia, nello sviluppare questa iniziativa Baghdad non Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

sarà sola: Development Road, sebbene sia a guida irachena, prevede infatti la co-
operazione di Turchia, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Per metterla nero su bianco, il
22 aprile 2024 i quattro paesi hanno firmato un memorandum d’intesa 31.
Presupposto fondamentale per la realizzazione del progetto è il porto di al- Fåw.
La penisola su cui esso si trova costituisce non solo l’estremità meridionale di questo
land bridge turco-iracheno, ma anche una zona di frontiera storicamente significati-
va: teatro di alcuni dei più feroci combattimenti della guerra fra Iraq e Iran (1980-88),
nonché dell’invasione da parte delle forze iraniane nel 1986, la penisola di Fåw tra-
suda un’aura di vulnerabilità che giustifica la volontà di rafforzare il suo legame con
l’entroterra, potenziandone anzitutto l’infrastruttura più rilevante, ovvero il porto. Il
piano regolatore di questo impianto, stilato ormai un decennio fa, è ambizioso. Esso
prevede infatti la costruzione di ampi terminal per container, rinfuse secche e petro-
lio, oltre a un bacino di carenaggio e a una base navale. Se sviluppato completamen-
te, quello di al-Fåw sarebbe uno dei porti più grandi del mondo 32, sorpassando an-
che Ãabal ‘Alø, attualmente il più grande porto del Medio Oriente 33.
Il piano di sviluppo del porto di al-Fåw si articola in tre fasi: durante la prima,
già avviata e prossima alla conclusione (prevista per il 2028), Baghdad si è appog-
giata alla compagnia sudcoreana Daewoo Engineering and Construction, con la
quale aveva firmato nel 2020 un contratto da 2,6 miliardi di dollari 34. L’accordo
prevedeva la realizzazione di cinque stazioni per lo scarico delle navi, oltre a lavo-
ri di dragaggio per creare un canale navigabile per l’accesso al porto 35. Quest’ulti-
mo sarà largo 400 metri e lungo 24 chilometri e sarà dotato di banchine in grado
di accogliere la nuova generazione di navi portacontainer grazie a una profondità
delle acque piuttosto generosa 36. La seconda fase del progetto, che non è ancora
iniziata, include lo sviluppo di un’area industriale che comprenderà una raffineria,
un’acciaieria e altre strutture industriali, mentre la terza e ultima – da completare
entro il 2050 – prevede la creazione, nei pressi del porto, di un complesso econo-
mico e di uno residenziale 37. Una volta finalizzato, il porto di al-Fåw vedrà conflu-
29. M. SIMMONS, «Iraq-Turkey Development Road designs complete», International Railway Journal,
17/9/2024.
30. «Iraq Unveils $17 B Transport Project Linking Europe and Mideast», Voice of America, 27/5/2023.
31. «Turkey, Iraq, Qatar and UAE ink initial Development Road transit corridor agreement», Bne Intel-
liNews, 24/4/2024.
32. J. CALABRESE, «Iraq’s “Development Road”: Rough Terrain Abroad», The Diplomat, 4/5/2024.
33. B. DUMAN, M. ALACA, «Basra-Turkey «Dry Canal» Project: Ambitious Vision or Pipe Dream?», The
Arab Gulf States Institute in Washington, 22/2/2023.
34. «Iraq signs $2.6 billion deal with S. Korea’s Daewoo to build first phase of Faw port», Reuters,
30/12/2020.
35. A. MOHAMMED, «Iraq to sign $2.625 billion Grand Faw port contract with S.Korea’s Daewoo», Reu-
ters, 23/12/2020.
36. «Design services and works supervision for the Al Faw Grand Port (Iraq)», Technital.
150 37. «AD Ports to run new Iraqi mega-port», Italian Trade Agency, 23/4/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

ire nei suoi terminal petrolio, gas, prodotti alimentari e chimici, il cui trasporto
verso l’Europa potrebbe essere ridotto, in termini di durata del viaggio, di ben
undici giorni 38.
A questo fine, sarà di vitale importanza la realizzazione dell’altra grande infra-
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

struttura che permetterà il trasporto di persone e merci nell’entroterra: la ferrovia.


Per far fronte ai 1.200 km di collegamento, il ministero dei Trasporti iracheno ha
già annunciato l’intenzione di acquistare, da alcuni produttori stranieri, 50 moderni
treni passeggeri ad alta velocità e 50 nuove locomotive, sviluppando al contempo
progetti di ammodernamento della flotta di locomotive nazionali 39. Dotata di questi
mezzi, la linea ferroviaria fra il porto di al-Fåw e la Turchia avrà capacità notevoli,
per il trasporto sia di passeggeri sia di merci. Se per i primi le stime ipotizzano il
trasporto di 13,8 milioni di passeggeri all’anno 40, i dati relativi alle merci sono più
consistenti: entro il 2028, si prevede infatti che la capacità di trasporto dei treni
merci raggiungerà 3,5 milioni di container e 22 milioni di tonnellate di merci sfuse
all’anno 41; nel 2038, la cifra salirà a 7,5 milioni di container e a 33 milioni di ton-
nellate di carico, toccando i 40 milioni di tonnellate nel 2050.
Il progetto Development Road si presenta quindi come un megaprogetto all’a-
vanguardia, destinato a rivoluzionare il ruolo geopolitico dell’Iraq nel sempre più
affollato scacchiere globale.
Tuttavia, come recita l’antico adagio, «tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare».
E il mare, in questa storia, c’entra parecchio. Le radici del progetto Development
Road affondano, infatti, nella ricorrente ambizione irachena di espandere il proprio
accesso al mare e sfruttarne la posizione geografica. Già negli anni Ottanta circola-
va un’idea simile: si ipotizzava la creazione del Dry Canal 42 – nome che tutt’oggi
viene accostato a Development Road – un collegamento via terra che avrebbe reso
l’Iraq uno svincolo commerciale tra Asia, Medio Oriente ed Europa. Ma lunghi
anni di guerra, sanzioni economiche, isolamento internazionale e instabilità politi-
ca ne hanno impedito la realizzazione.
Tuttavia, la fine delle lotte settarie e la sconfitta di al-Qå‘ida in Iraq nel 2008,
unitamente all’inizio di un periodo di relativa stabilità nel paese e all’aumento del
prezzo del petrolio, hanno fatto riaffiorare, negli anni Dieci del Duemila, questa
idea. L’obiettivo era quello di concentrarsi principalmente sulla costruzione di un
nuovo grande porto nel distretto di Fåw, l’unico punto in Iraq ad avere un fondale
che consente l’attracco di grandi navi cargo 43. Il paese deve fare i conti con un
problema che ha tormentato – e continua a tormentare – i vari governi che nel
tempo si sono succeduti: la limitatezza della linea di costa che con i suoi 58 chilo-
38. S. AL-HARITHY, «The Faw Grand Port and regional implications», Iraqi Thoughts, 8/3/2024.
39. «Iraq: Procurement of 50 modern passenger trains and 50 locomotives», Railway Supply, 8/4/2024.
40. H. HASAN, «Iraq’s Development Road: Geopolitics, Rentierism, and Border Connectivity», Carnegie
Endowment for International Peace, 11/3/2024.
41. K. TOLBA, «Iraq to Launch Rail Link with Turkey in 2024», Logistics Middle East, 20/4/2023.
42. G.H.A. HADI, T. GANGYI, D.G. HASSAN, G. SADEGHI, «The Dry Canal Project; An Overview for a
Land-based New Connection over Iraq for the International Commercial Transportation», International
Institute for Science, Technology and Education, 29/6/2015.
43. H. HASAN, op. cit. 151
IN MORTE DI SUEZ? I PROGETTI DI LAND BRIDGE PER EVITARE IL CANALE

metri scarsi priva l’Iraq dei vantaggi offerti da un ampio accesso al mare. Un pro-
blema non da poco, soprattutto per un paese esportatore di petrolio che non
vuole dipendere completamente dagli oleodotti che attraversano altri Stati.
Il petrolio costituisce un altro tassello che aiuta a comprendere l’importanza Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

che il progetto Development Road riveste per l’Iraq. La costruzione di una rete di
trasporto che colleghi il Golfo Persico alla Turchia rafforzerebbe lo status geopoli-
tico dell’Iraq come corridoio commerciale e fornirebbe importanti ritorni economi-
ci (si parla di circa quattro miliardi di dollari all’anno 44), creando nuovi posti di
lavoro e mitigando, al contempo, le conseguenze dannose di un’economia di
rendita 45. Quest’ultimo aspetto è fondamentale. L’Iraq risulta essere uno dei paesi
al mondo più dipendenti dal petrolio: basti pensare che nell’ultimo decennio le
entrate petrolifere hanno rappresentato oltre il 99% delle esportazioni, l’85% del
bilancio del governo e il 42% del pil 46. Da circa vent’anni, tuttavia, il sistema di
redistribuzione delle entrate petrolifere irachene è viziato. Un’ampia fetta delle
entrate è utilizzata principalmente per ridurre la disoccupazione e ampliare le reti
clientelari dei partiti al potere, aumentando continuamente il numero dei dipen-
denti pubblici. Questa è la prassi dal 2003, anno in cui il numero di dipendenti del
pubblico impiego è passato da 850 mila a oltre 4,5 milioni, sommandosi ai milioni
di pensionati iracheni e ai beneficiari di sussidi pubblici 47. Development Road si
colloca perfettamente all’interno di questa prassi, senza però rappresentarne un
superamento. Esso può aiutare a limitare l’improduttività del paese, in quanto rap-
presenta un progetto economico alternativo alla sola rendita petrolifera, però con-
sente di preservare lo status quo, assicurando ancora la centralità del pubblico
impiego o, comunque, l’intervento dello Stato nell’economia 48.
Tuttavia, Development Road ha davanti a sé numerose sfide, molte delle qua-
li derivanti dal paese stesso. Ci sono, innanzitutto, i costi elevati. Il governo ha af-
fermato che finanzierà le principali infrastrutture del progetto – il porto di al-Fåw,
le connessioni ferroviarie e le autostrade – mentre i servizi «accessori» distribuiti
lungo la linea (hotel, ristoranti eccetera) verranno coperti da investimenti privati.
Tra i due punti, a sollevare maggiori perplessità è senz’altro il primo, dato che non
ci sono certezze sul fatto che il governo avrà liquidità sufficiente per finanziare il
progetto. Il fatto che il bilancio del 2023 non vi faccia alcun riferimento 49 non è un
segnale incoraggiante.
Oltre ai costi, il progetto potrebbe risentire dell’inefficienza e della corruzione
ormai dilaganti in Iraq. In primo luogo, la mancanza di sincronizzazione tra le isti-
tuzioni statali può impedire un piano d’azione ben strutturato e integrato. Non è
ancora chiaro se il parlamento iracheno, controllato da fazioni che cercano di mas-
44. B. OZTURK, «Development Road Project: Transforming Türkiye-Iraq Relations», Osservatorio Tur-
chia – Centro Studi di Politica Internazionale, Brief n. 61, luglio 2024.
45. H. HASAN, op. cit.
46. «Iraq overview», The World Bank Group.
47. A. Al-MAWLAWI, «Public Sector Reform in Iraq», Chatham House, giugno 2020.
48. H. HASAN, op. cit.
152 49. Ivi.
LA NOTTE DI ISRAELE

simizzare i propri profitti nello Stato, autorizzerà stanziamenti sufficienti per con-
sentire al governo di procedere con le fasi del progetto. Se si guarda al passato,
inoltre, si nota che i governi susseguitisi dal 2003 non hanno avuto un grande
successo nella gestione di megaprogetti infrastrutturali. Si pensi alla cronica crisiCopia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

della rete elettrica, che rimane inefficiente nonostante i circa 15 miliardi di dollari
spesi nell’arco di un decennio per sistemarla 50.
Un altro fattore che potrebbe minare la fattibilità di Development Road è l’insta-
bilità che caratterizza il paese, esemplificata dalla componente curda e dalla presen-
za di gruppi armati come Katå’ib Õizbullåh, Õarakat Õizbullåh al-Nuãabå’ e Stato
Islamico. Oltre a rappresentare una fonte di insicurezza interna che scoraggia poten-
ziali investitori, questi gruppi potrebbero opporsi attivamente al progetto nel caso in
cui i loro interessi non venissero presi in sufficiente considerazione 51.
Allargando il focus, non si possono non citare anche le sfide derivanti dagli
attori regionali, a partire dalla Turchia, «terminal» settentrionale del land bridge
iracheno. Ankara appare entusiasta del progetto. Ciò non sorprende, dato che
esso rappresenterebbe un significativo passo in avanti verso l’obiettivo dichiarato
di rendere la Turchia uno hub geoeconomico che colleghi Asia, Europa e Africa.
A questo fine, la Turchia sta cercando di promuovere anche il corridoio di Zange-
zur, land bridge che, partendo dal Mar Caspio, raggiungerebbe il territorio turco
attraverso l’Azerbaigian 52: ciò incrementerebbe gli scambi commerciali con l’Asia
centrale, il Caucaso e la Russia, rafforzando, di concerto, i legami panturchi. Il
progetto Development Road, dunque, rientra perfettamente in questo quadro,
dato che consentirebbe ad Ankara di potenziare gli scambi commerciali con la
regione del Golfo e il Medio Oriente. Il sostegno turco a Development Road – es-
senziale per la sua riuscita – appare quindi chiaramente subordinato alla possibi-
lità di Ankara di trarne beneficio. È proprio per questo motivo che Erdoãan non
ha gradito l’iniziativa statunitense del Corridoio economico India-Medio Orien-
te-Europa (Imec) 53 che, avendo come punto d’arrivo Israele, esclude la Turchia.
Uno smacco notevole, che ha spinto Ankara a riconfermare il proprio supporto al
progetto Development Road.
Eppure, il sostegno a questa iniziativa potrebbe non essere del tutto incondi-
zionato. I fattori che rischiano di ridurre l’interesse della Turchia per il progetto
sono molteplici: tra questi, l’attrito con Baghdad in merito alle operazioni di sicu-
rezza turche nel Nord del paese contro il Pkk, denunciate dall’Iraq 54. Recentemente,
sebbene la Turchia abbia esortato Baghdad a coordinare le azioni contro la presen-
za del Pkk, l’Iraq si sarebbe limitato a etichettare il gruppo come «organizzazione
50. R. MOHAMMED, «Corruption, Incoherent Energy Plan, and Poor Management Fuel Iraq’s Power Cri-
sis», Emirates Policy Center, 21/3/2023.
51. H. HASAN, op. cit.
52. D. GÜLDOGAN, «President Erdogan Says Turkey Wants to Realize Zengezur Corridor “As Soon as
Possible”», Anadolu Agency, 26/9/2023.
53. R. SOYLU, «Turkey’s Erdogan opposes India-Middle East transport project», Middle East Eye,
11/9/2023.
54. «Iraq condemns “repeated Turkish attacks” after Kurdish officers killed», France 24, 19/9/2023. 153
IN MORTE DI SUEZ? I PROGETTI DI LAND BRIDGE PER EVITARE IL CANALE

vietata», chiaro downgrade rispetto alla definizione di «organizzazione terroristica»


tanto cara alla Turchia 55. Oltre alla spinosa questione curda, poi, i due paesi sono
in disaccordo sulla condivisione delle acque dei fiumi Tigri ed Eufrate 56 e sul tra-
sporto del petrolio dalla regione del Kurdistan iracheno attraverso un oleodotto Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

verso l’Anatolia, soluzione a cui Baghdad si oppone 57. Il progetto Development


Road, dunque, potrebbe essere un incentivo per i due paesi a cooperare, ma è
anche possibile che la sua realizzazione venga strumentalizzata – o addirittura mes-
sa a rischio – da questioni divisive come quelle accennate. Per il momento, tuttavia,
Ankara pare disposta a compartimentarle a favore dei propri obiettivi geopolitici.
Apertamente sfavorevole al progetto è invece l’Iran, che, come la Turchia per
l’Imec, mal tollera la creazione di un land bridge che lo escluda e che rappresenti
un’alternativa a quello che attraversa il suo territorio collegando gli Emirati Arabi
Uniti con l’Anatolia 58. A ciò si aggiunge l’ambizione di Teheran di rendere alcuni
suoi porti – come quello di Chabahar (all’ingresso del Golfo Persico), Bandar Ab-
bas (vicino allo Stretto di Hormuz), e Bandar Imam Khomeini (nel Golfo Persico
settentrionale) – snodi strategici per i flussi commerciali fra Cina, Asia orientale e
centrale e Medio Oriente. I piani di Teheran, beninteso, non escludono completa-
mente l’Iraq, ma tendono a considerarlo più come un attore da tenere nella propria
sfera d’influenza che come un paese totalmente indipendente. Non a caso, Tehe-
ran ha esercitato forti pressioni su Baghdad affinché realizzasse un collegamento
ferroviario tra Shalamcheh, nella provincia del Khuzestan, e il governatorato di
Bassora. Forse nella speranza di attenuare l’opposizione iraniana a Development
Road, nel maggio 2023 il governo di al-Sûdånø ha acconsentito al progetto, il che è
stato interpretato da molti come un segno di debolezza che favorirà esclusivamen-
te Teheran: il collegamento ferroviario tra Bassora e Shalamcheh sosterrà infatti i
porti iraniani, fornendo loro uno sbocco terrestre che renderà l’Iran il principale
punto di collegamento per il commercio con l’Asia.
Infine, c’è la Cina, paese del land bridge per eccellenza: la Belt and Road Ini-
tiative, di cui il progetto Development Road potrebbe rappresentare un interessan-
te complemento.
Tuttavia, sebbene Cina e Iraq godano di una sorta di partenariato strategico –
la Cina è, a tutti gli effetti, il principale partner commerciale iracheno – 59 Pechino
è molto cauta nel dare il via libera alla cooperazione. I costi elevati del progetto,
unitamente all’inefficienza e all’instabilità interna irachene, non sono prospettive
allettanti per la Cina, soprattutto se si pensa che essa può considerare altre alterna-
tive. Tra queste, la ferrovia che passando attraverso il Kirghizistan meridionale
collegherà Kashgar, nel Xinjiang, all’Uzbekistan orientale, per poi congiungersi alle

55. E. AKIN, «Iraq bans PKK as security ties with Turkey gain momentum», Al-Monitor, 14/3/2024.
56. A. CHIBANI, «Water Politics in the Tigris-Euphrates Basin», Arab Center Washington D.C., 30/5/2023.
57. M. EL DAHAN, A. RASHEED, «Explainer: What is Stopping the Iraq-Turkey Oil Pipeline Restarting?»,
Reuters, 9/10/2023.
58. «New UAE-Turkey TIR Trade Route Two-Thirds Faster than by Sea», International Road Transport
Union, 20/10/2021.
154 59. S. ZE YU, «Why China dares to tread on Iraq’s Development Road to Turkey», Al Majalla, 3/9/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

reti ferroviarie esistenti verso la Turchia e l’Europa occidentale. Questa nuova linea
– la cui costruzione è stata concordata a giugno fra Cina, Uzbekistan e Kirghizi-
stan 60 – avrà un costo stimato di soli cinque miliardi di dollari ed eviterà regioni
più controverse dal punto di vista geopolitico, come appunto l’Iraq e il Mar Rosso. Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Una soluzione, dunque, non solo più conveniente sul piano finanziario, ma anche
meno rischiosa dal punto di vista della sicurezza.

Conclusioni
I progetti di land bridge sopra descritti hanno scopi e potenzialità tra loro diver-
sissimi. Quelli che fanno capo a Israele sono tesi a evitare l’«imbuto» di Suez ma non
possono prescindere dalla libertà di transito che deve essere assicurata all’accesso
meridionale al Mar Rosso. Ne consegue che l’improbabile infrastruttura cui sembra
mirare il governo dello Stato ebraico potrebbe funzionare sempre e solo se fosse
garantito il controllo di Båb al-Mandab, vero pivot di quell’immenso choke point – la
sua lunghezza supera i mille chilometri – rappresentato dal «sistema» Suez-Mar Ros-
so-Båb al-Mandab. Senza il controllo di Båb al-Mandab, il Canale Ben-Gurion diven-
terebbe inutile quanto il Canale di Suez e il Mediterraneo perderebbe ogni vocazio-
ne medioceanica, almeno se si ragiona in termini di solo trasporto marittimo. Dun-
que, in estrema sintesi, il Canale Ben-Gurion non rappresenta un’alternativa a Suez
– almeno sul piano trasportistico – mentre può essere un grosso problema su quel-
lo geopolitico. Se realizzato, esso farebbe diminuire le entrate dell’Egitto, ne mine-
rebbe la stabilità economica e politica e lo spingerebbe verso la collisione con
Israele e con quanti avessero appoggiato la realizzazione del canale israeliano.
Al contrario, il progetto turco-iracheno appare meritevole di maggiori conside-
razioni. Innanzitutto, ragionando in termini di trasporto multimodale, esso garanti-
rebbe di sfruttare i vantaggi del trasporto marittimo e quelli del trasporto terrestre,
unendo tra loro il Golfo Persico (Oceano Indiano) e il Mediterraneo che, in questo
modo, non perderebbe la propria vocazione medioceanica. In tal senso, il proget-
to turco-iracheno potrebbe davvero rappresentare un’alternativa alla rotta maritti-
ma incentrata sul Mar Rosso, almeno sulla carta.
Però, anche il land bridge turco-iracheno presenta numerose limitazioni. In
primo luogo, al di là delle già esaminate difficoltà geopolitico-economiche che
rendono difficile la sua realizzazione, resta il fatto che il potenziando porto di al-
Fåw presenta i medesimi rischi di Suez circa la possibilità che venga bloccato. Chi
riuscisse a chiudere lo Stretto di Hormuz impedirebbe l’accesso al Golfo Persico/
Golfo Arabico e, dunque, allo stesso porto di al-Fåw. A ben vedere, lo Stretto di
Hormuz assume per il land bridge turco-iracheno lo stesso valore strategico che
Båb al-Mandab ricopre per il «sistema» Suez-Mar Rosso-Båb al-Mandab.
In secondo luogo, non si può ipotizzare che il land bridge turco-iracheno –
come qualsiasi altro land bridge – sia equivalente al trasporto via mare. A pesare

60. «Agreement signed for China-Kyrgyzstan-Uzbekistan rail», Railway Pro, 14/6/2024. 155
IN MORTE DI SUEZ? I PROGETTI DI LAND BRIDGE PER EVITARE IL CANALE

in maniera diversa sono fattori quali peso, volumi e dimensioni dei carichi, costi,
flessibilità, prestazioni di consegna 61. Il trasporto merci marittimo non ha eguali in
termini di portata e capacità, offrendo la possibilità di spostare grandi quantità di
merci su grandi distanze, sia pure al prezzo di tempi che, per quanto siano stati Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

ridotti, sono ancora piuttosto lunghi.


Al contrario, il trasporto merci su rotaia, sebbene sia in grado di trasferire quan-
tità di merci inferiori a quelle spostabili via mare, garantisce un ritmo più veloce
rispetto al trasporto marittimo, rendendolo un’opzione interessante almeno per
certi prodotti. Dunque, il valore di un land bridge come quello turco-iracheno –
fatte salve le considerazioni sulla possibilità di accedere al suo terminale più meri-
dionale, cioè il porto di al-Fåw – resta interessante solo come soluzione comple-
mentare al passaggio attraverso il Mar Rosso, non come soluzione alternativa. Pen-
sare che questo land bridge possa assorbire i volumi di merci che sono movimen-
tati dalle gigantesche portacontainer di oggi o dalle portarinfuse è fantascienza. Il
land bridge turco-iracheno, invece, avrebbe senso se si ragionasse della possibilità
di trasferire – in regime di sicurezza rispetto all’eventuale impraticabilità del choke
point rappresentato dal Mar Rosso – quantità di merci relativamente piccole e adat-
te al trasporto ferroviario. In estrema sintesi, non c’è una valida alternativa alla sicu-
rezza del «sistema» Suez-Mar Rosso-Båb al-Mandab e questo dovrebbe essere estre-
mamente chiaro ai paesi che si affacciano solo sul Mediterraneo, in primis all’Italia,
per la quale è vitale garantire che questo mare non venga marginalizzato come,
invece, sta accadendo in conseguenza della crisi provocata dagli õûñø.
Infatti, la sicurezza marittima dell’Italia e la sua prosperità passano per la difesa
di quello spazio geopolitico, geostrategico e geoeconomico che, storicamente, viene
identificato come Mediterraneo allargato. Oggi, esso presenta un’estensione maggio-
re di quella che inizialmente veniva indicata e questo è conseguenza dell’allarga-
mento progressivo degli interessi geoeconomici, geopolitici e strategici del paese.
Tuttavia, resta valido il punto più importante ovvero che il Mediterraneo allar-
gato, nella sua porzione sud-orientale, si spinge sino a inglobare la porzione occi-
dentale dell’Oceano Indiano. Ebbene, l’elemento di raccordo tra il Mediterraneo
geografico – ivi compresa la sua naturale prosecuzione rappresentata dal Mar Nero
– e l’Oceano Indiano è rappresentato dal Mar Rosso. Ancora più correttamente, è
il «sistema» Suez-Mar Rosso-Båb al-Mandab a permettere al Mediterraneo di essere
un Medioceano e di connettere l’ex mare nostrum all’Oceano Indiano – o, se si
preferisce, la porzione più occidentale dell’Indo-Pacifico. Relativamente al «sistema»
Suez-Mar Rosso-Båb al-Mandab, il choke point più importante – quello che ha un
valore strategico assoluto e primario – non è Suez – come, troppo spesso, viene
erroneamente indicato – ma Båb al-Mandab. Senza la libertà di passaggio attraver-
so Båb al-Mandab, non esiste Mediterraneo medioceanico, non esiste Mediterraneo
allargato e non esiste un’Italia economicamente prospera 62.

61. C.B. BOZARTH, R.B. HANDFIELD, Introduction to Operations and Supply Chain Management, London
2019, Pearson.
156 62. F. ZAMPIERI, «Game over nel Mar Rosso?», Limes, 2/2024, «Una certa idea di Italia», pp. 191-207.
LA NOTTE DI ISRAELE

SE LA SIRIA SPROFONDA Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

NELLA PAX ISRAELIANA AITA di Samir

Damasco, sempre più isolata, annaspa nella guerra lanciata da


Israele per ridisegnare il Medio Oriente. Le incognite del dopo-
Naârallåh. Al-Asad tra Iran e normalizzazione con il Golfo. Il
silenzio di Mosca e le prove di riavvicinamento con la Turchia.

1. U NA NUOVA GUERRA DI PROPORZIONI


spettacolari è stata sferrata contro Õizbullåh e il Libano. E non ha risparmiato la
Siria, che ha subìto bombardamenti quotidiani. Il governo di Baššår al-Asad ha
perso il suo principale alleato, Õasan Naârallåh. Riuscirà a uscire indenne da questa
nuova conflagrazione?
Nonostante le aspre critiche rivolte contro le Nazioni Unite, culminate nella de-
signazione del segretario generale dell’Onu quale persona non grata nello Stato
ebraico, il premier israeliano Netanyahu ha scelto di precipitarsi a New York per
tenere un discorso all’Assemblea Generale, proprio nel momento più nevralgico
della sua nuova guerra contro il Libano. Cioè quando meditava di assassinare Naâral-
låh, il leader di Õizbullåh. Mentre molte delegazioni abbandonavano la sala in segno
di protesta, Netanyahu ha esibito due carte. Una era la «mappa della benedizione»,
che illustrava Israele assieme agli Stati del Golfo e all’Egitto. La seconda mappa, sta-
volta della «maledizione», evidenziava invece il nesso tra Libano, Siria, Iraq, Iran e
Yemen. Attingendo a una terminologia religiosa, Netanyahu ha di fatto proclamato
una «guerra santa» per rimodellare il Medio Oriente e imporvi una Pax Israeliana.
Il successo del recente assassinio ha ulteriormente inebriato Netanyahu, spin-
gendolo ad accelerare i suoi piani. D’altra parte, la scomparsa di Naârallåh durante
un enorme bombardamento della periferia meridionale di Beirut ha suscitato in
Libano – e in molti paesi arabi – una reazione simile a quella innescata dalle dimis-
sioni di Gamal Abdel Nasser dopo la sconfitta delle forze arabe nel 1967. I suoi
seguaci, soprattutto all’interno della comunità sciita, hanno perso un idolo e un
punto di riferimento. Ma anche i suoi detrattori hanno subìto uno shock: adesso
chi potrà salvare il Libano dallo stesso destino di Gaza? Da qui il cordoglio unani-
me per la morte di un «grande uomo» e il silenzio assordante che ha preso il posto
delle diatribe confessionali, così caratteristiche del paese. 157
SE LA SIRIA SPROFONDA NELLA PAX ISRAELIANA

Questo diffuso sentimento di impotenza e di abbandono è cresciuto con il


moltiplicarsi dei bombardamenti israeliani, che hanno arrecato sempre più distru-
zione, ed è stato alimentato dalla mancanza di qualsiasi tipo di aiuto. È in affanno
persino l’assistenza medica, complici il sovraccarico degli ospedali in seguito alle
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esplosioni dei cercapersone e lo sfollamento di un quarto della popolazione del


paese (di cui un terzo era composto da rifugiati siriani) legato ai bombardamenti.
Le reazioni inconsistenti della Francia, che pure si vorrebbe «protettore storico» del
Libano, hanno acuito tale percezione di abbandono, anche tra le fasce di popola-
zione libanese più avverse a Õizbullåh.
L’atteggiamento conciliante nei confronti degli Stati Uniti sfoggiato dal nuovo
presidente dell’Iran nella stessa Assemblea Generale dell’Onu in cui ha parlato
Netanyahu, insieme alla mancata reazione persiana all’uccisione del leader di
Õamås Ism呸l Haniyya proprio mentre era ospite a Teheran, non hanno fatto che
amplificare lo sconforto generale. Il morale dei libanesi è stato parzialmente risol-
levato dal recente attacco iraniano contro le basi militari israeliane. Ma era solo il
presagio di un peggio che doveva ancora venire. Molti hanno peraltro osservato
che la reazione di Teheran è arrivata solo in seguito al provocatorio discorso di
Netanyahu rivolto al popolo iraniano, in cui il premier israeliano lasciava trapelare
l’intenzione di operare un cambio di regime nel paese.
Il progetto della Pax Israeliana ha già regionalizzato il conflitto, conducendo-
lo verso l’ignoto. Non c’è da aspettarsi un cessate-il-fuoco a breve termine, con
buona pace dei vari e vani discorsi dei funzionari libanesi su tregue e sganciamen-
ti del Libano dalla guerra a Gaza. I due schieramenti in corsa per la presidenza
americana sgomitano per esaltare il brillante successo israeliano nell’eliminazione
di Naârallåh e il «diritto di difendersi» dello Stato ebraico, tacciando di «antisemiti-
smo» qualsiasi critica ai costi umanitari o agli obiettivi della guerra. E la maggior
parte dei paesi europei sta alimentando questo gioco al rialzo. Con l’ultimo trionfo
tattico Netanyahu si è procurato il sostegno della maggioranza della popolazione
israeliana, distogliendo l’attenzione dal destino degli ostaggi ancora in mano a
Õamås e dai sentimenti provocati dal genocidio dei palestinesi.

2. Il presidente della Siria, paese annoverato da Netanyahu tra i «dannati» del


cosiddetto asse della resistenza, ha impiegato diversi giorni per esprimere timida-
mente le sue condoglianze per Õasan Naârallåh. Eppure Naârallåh era un «amico»,
stando alle sue stesse dichiarazioni. Õizbullåh gli aveva comunque fatto un favore
durante la precedente fase del conflitto, rispettando le regole di ingaggio e bom-
bardando per un anno le basi militari nelle siriane Alture del Golan occupate da
Israele.
Ancora una volta, il presidente siriano si è mostrato debole e combattuto tra il
sostegno iraniano e la normalizzazione con gli Stati del Golfo, ora chiaramente
schierati a favore della Pax Israeliana. Finora non aveva mai risposto agli appelli
del presidente turco Erdoãan per un incontro (sostenuto anche dalla Russia), che
158 avrebbe provocato molto più imbarazzo alla Turchia – di fronte ai suoi alleati Nato
LA NOTTE DI ISRAELE

– che allo stesso al-Asad, già emarginato e sanzionato. Allo stesso tempo, è chiaro
che anche la Turchia avrebbe molto da perdere nello scenario di un Medio Orien-
te ridisegnato dalla Pax Israeliana.
A livello popolare, in Siria la sensazione di impotenza e di abbandono è stata
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avvertita con particolare intensità. La visita del ministro degli Esteri iraniano Abbas
Araghchi, che in seguito all’attacco israeliano si è recato prima a Beirut e poi a
Damasco, non è bastata a dissiparla. Quando è stato ricevuto da al-Asad, tutti han-
no visto i funzionari siriani rifiutarsi di salutarlo. Circolano anche voci per cui
al-Asad avrebbe disposto la chiusura dei centri di reclutamento allestiti da iraniani
e da Õizbullåh in Siria.
E mentre i bombardamenti israeliani uccidevano civili libanesi e siriani, un
nuovo flusso di rifugiati di entrambe le nazionalità si è riversato in Siria, giudicata
più sicura del Libano. Le autorità siriane hanno impiegato diversi giorni per so-
spendere il vincolo che obbligava i propri cittadini a cambiare 100 dollari statuni-
tensi a testa per entrare nel paese. Secondo i dati ufficiali di Beirut, sono entrati in
Siria circa 100 mila libanesi e 300 mila siriani, cioè il 20% dei rifugiati siriani che
starebbero prosciugando le risorse del Libano, in bancarotta dall’ottobre 2019.
Il massiccio movimento di ritorno dopo il 2015, che comporta per molti siriani
il rischio di ritorsioni penali per motivi politici o legati alla diserzione dal servizio
militare obbligatorio, sta segnando profondamente il contesto demografico e uma-
nitario regionale. Il rimpatrio dei siriani, aggiunto al peso dei rifugiati libanesi in
una Siria esangue, avrebbe mandato all’aria gli aiuti umanitari che, per via delle
sanzioni occidentali, venivano destinati alla Siria nord-occidentale e nord-orientale,
controllate rispettivamente da milizie sostenute dalla Turchia e da milizie curde
gravitanti attorno al Pkk (Partito dei lavoratori del Kurdistan), alleate degli Stati
Uniti. Netanyahu non ha mancato di prenderne atto, ordinando ai suoi aerei di
bombardare il principale valico di frontiera tra Libano e Siria per bloccare il flusso
di persone in uscita dal paese dei Cedri.
Nel Nord-Ovest della Siria sono stati documentati festeggiamenti in occasione
della morte di Naârallåh e dei principali leader di Õizbullåh, ritenuti responsabili
delle vittime della guerra civile siriana e di aver salvato il regime di al-Asad. Paral-
lelamente, gli agenti della Hasbara (propaganda) israeliana sostenevano di aver
«vendicato i siriani» (!). Poco prima, manifestazioni e scontri armati avevano impe-
dito l’apertura di un punto di passaggio che collegasse il Nord di Aleppo, control-
lato dai turchi, al resto della Siria, sabotando così un timido tentativo di accordo
economico tra Ankara e Damasco. Reazioni spontanee dei siriani o manipolazione
straniera? Difficile dirlo. In entrambi i casi, le immagini generalmente diffuse evita-
no accuratamente di mostrare i campi di sfollati siriani del Nord-Ovest, che rappre-
sentano più della metà della popolazione.
I bombardamenti israeliani non hanno coinvolto solo il Libano: si sono inten-
sificati anche in Siria, fino a diventare quotidiani. Ufficialmente, prendono a bersa-
glio leader, convogli e installazioni di Õizbullåh e dei Guardiani della rivoluzione
iraniani, colpendo fin nel centro di Damasco. Ma il bombardamento più sorpren- 159
SE LA SIRIA SPROFONDA NELLA PAX ISRAELIANA

dente è stato quello diretto sulla base aerea russa di Õumaymøm, vicino Latakia, in
cui è stato distrutto un deposito. All’attacco non è seguita alcuna reazione signifi-
cativa da parte della difesa aerea russa (!). Circolano anche voci sullo smantella-
mento dei punti di osservazione dell’esercito russo di fronte alle Alture del Golan
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occupate da Israele. Tutto ciò non fa che rafforzare ancora una volta la percezione
di essere stati abbandonati, questa volta da Mosca. Perché l’esercito russo, che
pure ha una forte presenza in Siria, non si oppone ai bombardamenti israeliani?
Come reagiranno, concretamente, i russi se la promessa invasione israeliana rag-
giungerà la Siria con il pretesto di eliminare Õizbullåh? La guerra in Ucraina è suf-
ficiente a spiegare la debolezza delle loro reazioni, rispetto sia a Gaza sia alla cla-
morosa guerra lanciata da Israele contro Õizbullåh e il Libano?

3. Nulla sembra ormai poter arrestare il corso della Pax Israeliana. Cresce
l’inquietudine per la portata dell’invasione militare israeliana del Libano, che po-
trebbe allargarsi fino a contemplare un’incursione in territorio siriano. Õizbullåh e
Damasco saranno in grado di contrastarla? Con ancora più apprensione si attende
la rappresaglia annunciata da Israele per l’attacco iraniano del 1° ottobre. Fino a
che punto si spingerà? Prenderà di mira le infrastrutture nucleari? E quale sarà la
risposta degli iraniani?
La guerra a Gaza dura già da un anno. La reazione militare israeliana allo sgo-
mento del 7 ottobre 2023 è stata per molti versi caotica. La guerra totale contro
Õizbullåh, invece, sembra essere stata preparata con largo anticipo. Fin dal cessa-
te-il-fuoco del 2006. Vi sono state dedicate notevoli risorse tecnologiche e di intel-
ligence. La decisione di lanciare la guerra è stata l’occasione storica per spostare
l’attenzione dalla questione palestinese, considerata chiusa sia a Gaza sia in Cisgior-
dania, alla riorganizzazione degli equilibri di potere in Libano, Siria e Iran, che po-
trebbe persino culminare nella costruzione di un nuovo ordine: la Pax Israeliana.

(traduzione di Agnese Rossi)

160
LA NOTTE DI ISRAELE

LA FONDAMENTALE
PARTITA DEGLI Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

OLEODOTTI IRACHENI di Antonella


CARUSO
L’instabilità geopolitica detta in Medio Oriente il ritmo dei progetti
vecchi e nuovi di esportazione del greggio, di cui l’Iraq è il secondo
produttore Opec. L’esiguo sbocco al mare del paese stretto fra
Turchia e Iran. L’incognita curda. La competizione sui corridoi.

1. L’ IRAQ È L’EREDE MODERNO DELL’ANTICA


Mesopotamia, «paese dei due fiumi», Tigri ed Eufrate, che originanti nella Turchia
orientale confluiscono nello Ša¿¿ al-‘Arab per poi sfociare assieme nel Golfo Persi-
co. La punta meridionale dello Ša¿¿ al-‘Arab, unico accesso iracheno al mare, chiu-
de il confine con l’Iran fino alla sua foce. Povero di acqua e ricco di idrocarburi,
il paese rimane geopoliticamente stretto tra la Turchia e l’Iran da cui dipendono
prevalentemente i suoi fabbisogni idrici e il suo export energetico. Quest’ultimo
è il pilastro fondamentale della sua economia e la fonte quasi esclusiva della sua
ricchezza.
A seguito dell’occupazione militare americana (2003-11) e della guerra inter-
nazionale contro lo Stato Islamico (2014-17), i due Stati vicini hanno poi assunto
una maggiore rilevanza per la sua sicurezza, necessaria all’espansione della pro-
duzione petrolifera e allo sviluppo delle sue reti di trasporto terrestri. Considerata
la loro natura strategica, notizie riguardanti la creazione, il ripristino e la riapertura
di oleodotti che prefigurano sbocchi alternativi alla Turchia e al Golfo Persico
suscitano grande interesse. Emergono le profonde divisioni politiche interne e la
complessa geopolitica regionale alla luce del relativo disimpegno americano dalla
regione e della quinta guerra israeliana a Gaza. In questo contesto esplosivo, lo
sviluppo dell’esportazione irachena di greggio rimane legato alla geopolitica prima
che all’economia e alla finanza.

2. Nella classifica dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec)


l’Iraq figura al secondo posto dopo l’Arabia Saudita, con una capacità produttiva
superiore alla quota di 4 milioni di b/g (barili al giorno) fissata dalla stessa orga-
nizzazione per mantenere stabile (leggasi alto) il prezzo del barile. Attualmente
esporta attorno ai 3,4 milioni b/g. Il suo piano di sviluppo energetico punta all’au- 161
LA FONDAMENTALE PARTITA DEGLI OLEODOTTI IRACHENI

mento della produzione di greggio a 7 milioni di b/g per il 2027 e il conseguente


raddoppio dell’export. Esso prevede, oltre all’espansione dei campi in produzione,
il potenziamento degli oleodotti terrestri e dei porti. Se si considera che meno del
10% del suo export trova uno sbocco terrestre verso nord e che il restante 90% Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

transita attraverso il Golfo Persico, si comprende il grave deficit infrastrutturale che


limita le ambizioni esportatrici del paese. Deficit cui hanno fortemente contribuito
sanzioni e guerre regionali, civili e internazionali, in cui il paese è piombato fin
dal 1948. I danni materiali agli oleodotti, uniti alle decisioni politiche legate all’an-
damento delle relazioni con i paesi di transito e di sbocco del greggio, ne hanno
decretato nel tempo la distruzione, l’abbandono o la riapertura.
Eppure furono proprio le scoperte petrolifere nel Nord iracheno a dare impulso
alla nascita dell’industria energetica nazionale. Fu infatti la Iraqi Petroleum Com-
pany (Ipc) 1, già Turkish Petroleum, a scoprire e a mettere in produzione nel 1927 il
grande campo di Baba Gurgur presso Kirkûk, cedendone il 23,8% alla Compagnie
Française des Pétroles, la futura Total, che svilupperà a sua volta i campi petroli-
feri di Bassora, al Sud, dopo la seconda guerra mondiale. Nella cornice coloniale
del tempo, il Regno Unito e la Francia decisero successivamente di convogliare il
greggio nel Mediterraneo attraverso un oleodotto che si biforcava a Õadøña lungo
l’Eufrate. L’oleodotto Kirkûk-Õadøña-Haifa attraversava la Palestina, anch’essa come
l’Iraq sotto Mandato britannico, mentre l’oleodotto Kirkûk-Õadøña-Tripoli arrivava al
Libano attraverso la Siria sotto mandato francese. Il progetto fu realizzato nel 1934.
L’oleodotto Kirkûk-Tripoli divenne il Kirkûk-Båniyås nel 1952. Con una capa-
cità di circa 300 mila b/g, si estendeva per 800 chilometri. Danneggiato dall’esercito
siriano nel 1956 in risposta all’attacco anglo-franco-israeliano al Canale di Suez,
fu poi riparato e infine nazionalizzato nel 1972 in risposta alla nazionalizzazione
irachena dell’Ipc. Contrasti sulle tariffe di transito spinsero il governo iracheno a
costruire nel 1975 un oleodotto alternativo attraverso l’Arabia Saudita, così inter-
rompendo il flusso di greggio alla Siria fino al 1979. La decisione del presidente
siriano Õåfi‰ al-Asad di sostenere l’Iran nel conflitto con l’Iraq (1980-88) provocò
la chiusura dell’oleodotto. Nel corso dell’ultimo ventennio, il crescente coinvolgi-
mento della Russia negli affari siriani e le sue ambizioni di giocare un ruolo sem-
pre più robusto nella regione hanno ravvivato l’interesse per quella infrastruttura
e per la sua portata strategica. Il gigante russo Gazprom avrebbe dovuto ripararlo
già nel 2007 se non fossero intervenute difficoltà finanziarie irachene a bloccare il
progetto. Più di recente, sono soprattutto i rischi geopolitici e di sicurezza a pesa-
re sul ripristino dell’oleodotto. Il territorio che attraverserebbe in Iraq e in Siria è
attualmente costellato di gruppi terroristici e di milizie armate formatesi nel corso
della guerra civile siriana come di quella internazionale contro lo Stato Islamico. Le
sanzioni americane contro la Siria, prima, e contro la Russia suo principale alleato,
poi, rendono il progetto quantomai improbabile. Un eventuale coinvolgimento

1. Fondata dalla Anglo-Persian Oil Company, Royal Dutch Shell, Compagnie Française des Pétroles
e Calouste Gulbenkian, la Ipc ebbe il monopolio di tutto l’upstream iracheno dal 1925 al 1961. Fu
162 nazionalizzata dal regime baatista nel 1972 e integrata nella Iraqi National Oil Company.
LA NOTTE DI ISRAELE

dell’Iran alla luce della sua profonda penetrazione strategica in entrambi i paesi
diventa in questo contesto ancora più problematico 2.
L’oleodotto Kirkûk-Õadøña era lungo 992 chilometri, con una capacità di un
milione di tonnellate di greggio all’anno. Inaugurato nel 1935 alla presenza delle Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

autorità mandatarie, di alti dignitari e personalità religiose arabe e ebraiche, avreb-


be dovuto apportare stabilità e benefici economici a tutti i paesi coinvolti: Iraq,
Transgiordania e Palestina. Dettaglio non secondario, avrebbe anche rifornito di
greggio la flotta britannica nel Mediterraneo 3. L’oleodotto ebbe tuttavia vita breve.
La creazione dello Stato di Israele nel 1948 e la prima guerra arabo-israeliana che
ne seguì decretarono non soltanto la fine del Mandato britannico e della connes-
sione energetica dell’Iraq con il nuovo Stato ma anche l’inizio della fine dell’ultra-
millenaria presenza ebraica nel paese dei due fiumi. Già profondamente scossa dal
pogrom (farhûd) del 1941, la florida comunità ebraica di Baghdad e di Bassora si
ritrovò nel decennio successivo a dover abbandonare i propri averi e a rinunciare
alla cittadinanza irachena sotto la spinta della propaganda sionista, della violenza
popolare panaraba, dell’indebolimento della monarchia hashemita e delle leggi
statali. In particolare, la legge 1/1950 impose agli ebrei iracheni la difficile scelta tra
sionismo e arabismo, tra esilio definitivo e permanenza incerta. La legge 12/1951
ordinò la confisca dei loro beni. Le due leggi rimangono in vigore ancora oggi,
nonostante contraddicano sia la costituzione del 2005 sia la legge sulla cittadinanza
del 2006 4. Una nuova legge passata quasi all’unanimità dal parlamento iracheno
nel 2022 criminalizza infine ogni attività a sostegno del sionismo e di Israele, riget-
tando così categoricamente il progetto di normalizzazione fra lo Stato ebraico e gli
Stati arabi promosso nel 2020 dagli accordi di Abramo.
L’antisionismo iracheno ha profonde radici storiche, irrobustite e ramificate nel
corso delle altre due guerre arabe combattute contro lo Stato ebraico e dei più re-
centi conflitti israelo-palestinesi a Gaza. Tali eredità non soltanto allontanano idee
e proposte di sbocchi diretti del greggio lungo la costa israeliana ma riaffiorano
prepotentemente anche nel dibattito politico attuale sulla riapertura dell’oleodotto
Kirkûk-Ceyhan e sulla costruzione di quello di Bassora-‘Aqaba.

3. L’oleodotto Kirkûk-Ceyhan rappresenta il punto di convergenza/divergenza


delle complesse relazioni tra l’Iraq, il governo regionale del Kurdistan iracheno
(Krg) e la Turchia.
L’Iraq e la Turchia firmarono un primo accordo per la sua costruzione e le
operazioni di esportazione nel 1973, poi rinegoziato nel 1976, nel 1985 e infine
nel 2010 con durata fino al 2025. L’oleodotto originario, la Iraq-Turkey Pipeline
(Itp), era composto di due linee di trasporto che si estendevano per 960 chilometri
con una capacità complessiva di 1 milione di b/g. Una delle due linee, costruita
2. D. SALIH, «Russia and the Geopolitics of the Kirkuk-Banyas Pipeline», The Geopolitics, 29/9/2019.
3. I. DEMIR, «The Kirkuk-Haifa Pipeline», Uluslararası Hukuk ve Politika, vol. 19, n. 5, 2009, pp. 131-147.
4. AL-HAMADANI, «A Constitutional Challenge to Iraq’s Treatment of Iraqi Jews», The Washington Insti-
tute for Near East Affairs, 21/10/2021. 163
164
1 - OLEODOTTI IN CRISI Aree sotto il controllo curdo Oleodotti
Aree riconquistate dal governo Gasdotti
Esercito turco Forze democratiche siriane
(presenza diretta) (ala siriana del Pkk) di Baghdad dopo il referendum Giacimenti:
per l’indipendenza del Kurdistan Petrolio e gas
Altre milizie Stato Islamico iracheno (2017)
Petrolio
Gas
Ceyhan Zāhu
˘ Tawke
T U R C H I A Dahūk
Qāmišlī I R A N
‘Aqra
M

F.
on

H ābū
Afrin r
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Tall Kayf
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Mosul
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Arbīl
Aleppo Sinğār Tall ‘Afar
(forte presenza del Pkk)
ndil

Raqqa Khurmala Taq Taq


LA FONDAMENTALE PARTITA DEGLI OLEODOTTI IRACHENI

Idlib Fiume
E Kirkūk

ufr
a
Latakia Sulaymānīyya

te
Kirkūk
Bāniyās Baba Gurbur
Hamā
.
I R A Q
S I R I A Baiji
Fi

Tartūs
. . Hims
. . Palmira
ume
Tigr
i

al-Hadīthah
Itp (oleodotto Iraq-Turchia, chiuso)
Corridoio curdo Raffinerie
Fayšhābūr (valico di frontiera sotto
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

il controllo iracheno)
Ceyhan porto turco per l’esportazione BAGHDAD
di petrolio (Itp)
LA NOTTE DI ISRAELE

a distanza di pochi anni dall’altra e con un diametro leggermente inferiore, cadde


presto in disuso. L’altra linea fu invece sabotata e danneggiata per essere infine chiu-
sa nel 2014 a seguito dell’avanzata dello Stato Islamico nel Nord e nel Nord-Ovest
iracheno, in aree per lo più contese tra il governo federale a Baghdad e il Krg ad Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Arbøl. L’Itp rimane chiuso nonostante intensi negoziati turco-iracheni ne abbiano


di recente annunciato la riapertura. L’esito di questi negoziati influenzerà anche il
futuro delle relazioni tra Baghdad e Arbøl alla luce della perdita di potere del Krg
nell’equazione federale irachena fin dal 2017. Tra le cause di questo indebolimento
politico si annoverano anche i limiti dell’esportazione petrolifera e della ricerca di
indipendenza curde.
Le turbolenze e le interruzioni dell’Itp hanno fornito al Krg l’opportunità di
costruire nel 2013 un oleodotto di sua proprietà. L’accordo con la Turchia è firma-
to nel 2014 all’insaputa di Baghdad. Il nuovo oleodotto, che attraversa soltanto il
suo territorio, ha garantito fino allo scorso anno l’esportazione di 400 mila b/g di
greggio dai campi Taq Taq, Œûrmåla Dome e Tåwkø fino a Fayšœåbûr, valico di
frontiera con la Turchia nonché punto di intersezione con l’Itp chiuso nel 2014.
Da Fayšœåbûr il greggio arrivava puntualmente in Turchia a Ceyhan per poi pro-
seguire verso Israele a sud e verso l’Europa mediterranea a nord. Parte del greggio
alimentava le raffinerie israeliane di Haifa e Ashdod mentre un’altra parte giungeva
al porto di Ashkelon per proseguire fino a quello di Eilat, sul Mar Rosso, attraverso
un oleodotto la cui costruzione risale ai tempi dei rifornimenti energetici dell’Iran
monarchico allo Stato ebraico 5. Nel triennio 2014-17 i peshmerga curdi riescono
a strappare allo Stato Islamico il controllo di aree contese con il governo federale,
in particolare Kirkûk e la sua provincia, e ad immettere nella nuova pipeline circa
75 mila b/g di greggio aggiuntivi provenienti dal campo di Kirkûk. Le compagnie
petrolifere internazionali hanno contribuito a tale sviluppo, allettate dalle riserve
di greggio della regione e dai contratti più favorevoli di production sharing. La
compagnia russa Rosneft’ detiene il controllo dell’oleodotto, avendone acquisito la
quota del 60% nel 2017 (carta 1).
L’accordo curdo-turco e il referendum per l’indipendenza del Kurdistan irache-
no nell’ottobre 2017 rappresentano tuttavia un effimero momento di gloria per il
leader Mas’ud Barzani e per il suo Kdp. Rifiutato dagli Stati Uniti d’America come
dalla Turchia e dall’Iran, il referendum denuncia il desiderio di indipendenza della
stragrande maggioranza dei curdi ma frantuma tanto il fragile consenso intracurdo
con il Puk, alleato a Baghdad e rivale ad Arbøl, quanto l’altrettanto fragile accordo
con i partiti sciiti a Baghdad su cui si è retto il federalismo iracheno fin dal 2003. La
rapida riconquista delle aree contese da parte dell’esercito iracheno e delle milizie
arabe (Pmf) è stata seguita dalla sospensione della quota del budget nazionale
destinata al Krg e dalla chiusura della sua nuova pipeline nel 2023. A decretare la
chiusura dell’oleodotto contribuiscono le decisioni sia della Camera di commercio
5. S. HENDERSON, B. WAHAB, H. ROME, «Israel may lose Oil Access in Baghdad-Kurdish Deal», The Wa-
shington Institute for Near East Policy, 13/4/2023. 165
LA FONDAMENTALE PARTITA DEGLI OLEODOTTI IRACHENI

internazionale (Icc), favorevole alla posizione irachena contro la Turchia rea di


avere contraddetto l’accordo del 1973, sia della Corte federale suprema irachena,
contraria all’indipendenza energetica del Krg stipulata invece dalla legge su gas e
petrolio approvata dal parlamento curdo nel 2007. L’Iraq federale non ha ancora Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

oggi una legge in materia.


La chiusura dell’oleodotto curdo mette in ginocchio l’economia e le finanze
del Krg mentre fornisce al governo iracheno un incontestabile vantaggio nego-
ziale. Carezzando la riapertura del suo vecchio oleodotto attraverso un rinnovato
impulso alle relazioni con il vicino turco, Baghdad può riprendere lo sviluppo
dell’upstream nella provincia di Kirkûk con riserve stimate a nove miliardi di ba-
rili. Qui la britannica Bp, assente dal 2019, ritorna adesso in forze con la firma di
un memorandum d’intesa per lo sviluppo di quattro campi petroliferi (Kirkûk,
Båy Õasan, Ãambûr e Œabbåz) 6. Può altresì attendere la soluzione del negoziato
con il Krg sul cui budget pesano invece la perdita dell’esportazione di 475 mi-
la b/g di greggio e il contenzioso con le compagnie petrolifere internazionali. E
può infine realisticamente prevedere di riprendere il controllo della produzione e
dell’esportazione energetica del Krg attraverso sia l’approvazione dei contratti con
le compagnie energetiche internazionali da parte del ministero del Petrolio sia la
commercializzazione del greggio da parte di Somo (Organizzazione statale per la
commercializzazione del petrolio). In assenza di unità politica interna e di sostegno
americano esterno, l’influenza di Arbøl su Baghdad volge così verso la fine con la
compiacenza dei più potenti vicini turco e iraniano.

4. La Turchia continua a esercitare una forte influenza sul Krg attraverso il Kdp
al potere, mentre sviluppa le sue relazioni con Baghdad in un rinnovato clima di
cooperazione e di distensione. Con quest’ultima ha di recente firmato un memo-
randum d’intesa per l’ambizioso progetto di interconnessione viaria e ferroviaria tra
l’Iraq, gli Emirati Arabi Uniti (Eau) e il Qatar – la cosiddetta Development Road (Stra-
da dello sviluppo) – intesa anello di congiunzione del commercio tra l’Asia e l’Euro-
pa, in competizione con il Corridoio India-Medio Oriente-Europa (Imec) sostenuto
dagli Stati Uniti. Con un costo complessivo di 17 miliardi di dollari, il progetto si
estenderebbe per 1.200 chilometri dal porto iracheno di Bassora fino a quello turco
di Marsin attraversando Baghdad, Tikrøt e Mosul, un’area la cui sicurezza dipende
dalle operazioni militari delle Pmf, dei peshmerga e di gruppi armati – in particolare
il Pkk – che sfuggono al controllo dello Stato. In questo ambito, la Turchia ha anche
ottenuto la messa al bando del Pkk in Iraq e continua indisturbata a condurre ope-
razioni militari contro le postazioni di quest’ultimo nel Nord del paese 7. Proposte di

6. «Ittifaq BP ma‘a al-Iråq bi-sha’n õuqûl naft wa ôåz fø Kirkûk yastanid li-namûêaã taqåsum al-arbåõ»,
(«L’accordo Bp-Iraq su giacimenti di petrolio e gas a Kirkûk si basa sul modello della compartecipa-
zione agli utili»), al-Sharq al-Awsat, 20/8/2024.
7. Y. GOSTOLI, «What’s behind Turkey and Iraq’s “Development Road” project?», The New Arab, 30/4/2024.
Il Pkk, Partito dei lavoratori del Kurdistan, conduce un’insurrezione armata per l’indipendenza dei
territori curdi in Turchia fin dal 1984. Riconosciuto come gruppo terrorista anche da Ue, Regno Unito
166 e Usa ha spostato il suo raggio d’azione dalla Turchia orientale alle montagne del Kurdistan iracheno.
LA NOTTE DI ISRAELE

ripristino o costruzione di nuovi oleodotti lungo l’asse Sud-Nord iracheno si inseri-


scono anch’esse in questo megaprogetto infrastrutturale.
L’Iran chiede al Krg di isolare i gruppi curdo-iraniani che minacciano azioni of-
fensive lungo i suoi confini e a tale scopo non ha esitato a bombardare il territorio Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

della Regione autonoma nel settembre 2022. Ha altresì scosso le presunte relazioni
curdo-israeliane con bombardamenti più mirati contro abitazioni civili ad Arbøl i cui
proprietari, eminenti uomini d’affari curdi, sarebbero stati verosimilmente coinvolti
in forniture di greggio e/o spionaggio per lo Stato ebraico. Forte dei suoi legami
con le Pmf – incluse le sue fazioni (faâå’il) più radicali della resistenza – e con i
partiti sciiti al potere, la Repubblica Islamica condivide con essi l’antisionismo, l’an-
ti-americanismo e l’attivismo politico islamico. Accanto alla sua influenza politica
e di sicurezza, ha anche sviluppato un florido commercio e un crescente turismo
religioso. Continua poi ad approvvigionare il suo vicino arabo di gas e di energia
elettrica da cui dipendono il benessere e la stabilità delle sue province meridionali,
in particolare quella di Bassora che resta la fonte predominante della produzione
di greggio e il passaggio attualmente esclusivo dell’export energetico iracheno 8.
L’influenza iraniana sarebbe tra le cause principali dell’assenza di oleodotti terrestri
lungo l’asse Sud-Nord.
L’Iraq ha cercato di diminuire la sua dipendenza dalle esportazioni dal Golfo
Persico fin dai tempi della guerra contro l’Iran rivoluzionario (1980-88). Allora co-
me adesso lo Stretto di Hormuz, attraverso cui passa circa un quarto del consumo
mondiale di greggio, rimane minacciato dalle tensioni israeliane e americane con
l’Iran, anche alla luce del conflitto a Gaza. A questo si aggiunge la forte competi-
zione dei paesi del Golfo Persico – in particolare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi
Uniti – che, prefiggendosi di aumentare la produzione complessiva di greggio da
22 milioni di b/g nel 2021 a 31,4 nel 2027, intendono altresì sviluppare e diversi-
ficare i propri sbocchi, siano essi porti marittimi o oleodotti terrestri. L’importanza
dei paesi di transito e di sbocco risulta quantomai evidente. Ma laddove oleodotti
dall’Arabia Saudita e dagli Emirati potrebbero in futuro arrivare ai porti omanita
di Duqm e yemeniti di Niš¿ûn e Qišn, lo sbocco accarezzato dai diversi governi
iracheni verso il porto giordano di ‘Aqaba continua a essere invece minato da am-
biguità e discordie 9.

5. L’Iraq Strategic Pipeline è l’oleodotto che congiungerebbe Bassora con Kir-


kûk via Õadøña, nel governatorato di Anbår, con una possibile estensione a ovest
fino a ‘Aqaba, sul Mar Rosso. Sarebbe composto di due linee. La prima è la Bas-
8. C. CORNICH, N. BOZORGMEHR, «Basra’s energy reliance epitomizes Iraq’s dependence on Iran», Finan-
cial Times, 12/5/2019. L’Iran ha appena concluso un accordo con il Turkmenistan per la costruzione
di un gasdotto aggiuntivo di 125 km che approvvigiona anche l’Iraq di 10 Bcm/a, così evitando le
sanzioni americane. Il gas turkmeno sostituirà quello iraniano nell’import gasiero iracheno. Cfr. W.
AFANASIEF, «Iran agrees to facilitate Turkmenistan gas transit to Iraq», Upstream, 4/7/2024.
9. «Iraq’s reasons for the revival of oil pipeline projects that are done jointly with Saudi Arabia, Jordan,
and Syria», Arab Wall, 25/6/2023; A. CARUSO, «La pace in Yemen comincia da Mahra», Limes, 4/2024,
«Fine della guerra», pp. 224-234. 167
LA FONDAMENTALE PARTITA DEGLI OLEODOTTI IRACHENI

sora-Õadøña, lunga 785 chilometri e con una capacità di trasporto di circa 2,2 mi-
lioni di b/g. La seconda è la Õadøña-‘Aqaba, lunga circa 900 chilometri e con una
capacità di circa 1 milione di b/g, di cui 150 mila destinati alla raffineria giordana
di al-Zarqå’ (carta 2). Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Il progetto ha preso forma durante il regime baatista di Saddam Hussein. È


stato poi timidamente sostenuto dai diversi governi che si sono susseguiti dalla sua
caduta fino a oggi. Ritornato con forza nel dibattito pubblico durante le manifesta-
zioni popolari antigovernative del 2019-21, potrebbe finalmente essere realizzato
nel quadro della Development Road. Un ultimo accordo sul rifornimento di ener-
gia elettrica dalla Giordania l’11 febbraio scorso ne avrebbe costituito un tangibile
tassello terrestre, mentre progetti di sviluppo del porto di al-Fåw nel Golfo Persico
ne confermerebbero la dimensione marittima.
Analisi e studi di fattibilità di questo oleodotto hanno fornito nel tempo un
quadro discordante e confuso sia dei possibili benefici finanziari ed economici sia
della fattibilità sulla base della geopolitica e della sicurezza dei territori di transi-
to e di uscita. Nella ridda delle valutazioni, a cui non sono estranee le divisioni
geopolitiche interne, il progetto polarizza il dibattito politico e invita il governo
alla prudenza. Un’analisi costi-benefici non è stata resa ancora pubblica e ignoti
rimangono tra l’altro eventuali accordi di esportazione, tariffe di transito, costo
complessivo dell’esportazione per barile. Con lo scopo di fornire chiarimenti al
riguardo, il ministero del Petrolio ha dichiarato pubblicamente lo scorso giugno
che l’oleodotto Bassora-Õadøña riveste un’enorme importanza strategica ed eco-
nomica per l’Iraq, diversificandone gli sbocchi esportativi ed emancipandolo di
conseguenza «dalla sua dipendenza da un unico sbocco (il Golfo Persico, n.d.r.)
suscettibile di fermarsi per una causa qualunque». La dichiarazione ministeriale in-
dica poi che l’oleodotto si congiungerebbe alla linea Kirkûk-Ceyhan, potenziando
l’export energetico verso la Turchia, l’Europa ed eventualmente gli Stati Uniti. Nel
suo percorso, esso avrebbe anche l’indubbio merito di rifornire di greggio le raffi-
nerie attuali e future nel Centro e nel Sud del paese (Naãaf, Karbalå’, al-Døwåniyya,
al-Samåwa, al-Nåâiriyya) così come quelle nel Nord. Lo Stato finanzierebbe il costo
totale del progetto, pari a 4,9 miliardi di dollari. L’oleodotto non avrà invece una
connessione con l’Egitto ma potrà essere esteso eventualmente al porto mediter-
raneo di ¡år¿ûs, in Siria, qualora le condizioni di sicurezza lo permetteranno, e a
quello giordano di ‘Aqaba. La linea Õadøña-‘Aqaba è in fase di valutazione. Sarebbe
comunque di proprietà esclusiva dello Stato iracheno come da memorandum d’in-
tesa firmato di recente con la Giordania 10.
La dichiarazione ministeriale non poteva essere più chiara in merito alla sfida
geopolitica interna ed esterna cui è esposto l’oleodotto Bassora-‘Aqaba. Non si
tratta soltanto di convincere gli scettici del suo vantaggio economico rispetto alla
consueta esportazione del greggio via mare ma di superare, anche e soprattutto,

10. «Tawîøõ ãadød õawla anbûb Baâra-Õadøña: tanmawø wa sayarfid al-iqtiâåd al-‘iråqø» («Un nuovo chia-
168 rimento in merito all’oleodotto Bassora-Õadøña: aiuterà l’economia irachena»), al-Masala, 29/6/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

2 - UN ORIZZONTE NUOVO PER L’IRAQ AZERB.


Mar
T U R C H I A Caspio
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Mersin
Ceyhan I R A N
TEHERAN
CIPRO
S I R I A Bayğī Campi petroliferi
Kirkūk da potenziare
LIBANO al-Hadīta Kirkūk
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r BAGHDAD
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ISRAELE Karbalā’
AMMAN Zarqā’
al-Nağaf al-Dīwāniyya
al-Samāwa
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GIORDANIA al-Na
Bassora
‘Aqaba al-Fāw
KUWAIT

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EGITTO Yanbu‘
RIYAD
Mu‘ağğiz
Terminal Kurdistan iracheno
petroliferi Rabiġ Influenza iraniana sull’Iraq
DEVELOPMENT ROAD
Corridoio stradale Governatorati iracheni
e ferroviario strategici nell’ambito
del progetto
Itp (Iraq-Turchia da riaprire) Ipsa Development Road
Oleodotto Basra-‘Aqaba (riapertura dell’oleodotto esistente)
(progetto originario)
Porti fondamentali Raffinerie esistenti
Oleodotto Basra-‘Aqaba per l’export da potenziare
(progetto nuovo) nell’ambito del progetto
di sviluppo

lo scoglio della diffidenza di alcune forze politiche filogovernative (Pmf, ‘Aså’ib


Ahl al-Õaqq, Fatõ) e antigovernative (sadristi) che, unite dall’antisionismo, sono
contrarie all’arrivo potenziale del greggio iracheno a Israele. La Giordania, come
l’Egitto, è legata allo Stato ebraico da un trattato di pace. L’alleanza di alcune fa- 169
LA FONDAMENTALE PARTITA DEGLI OLEODOTTI IRACHENI

zioni con l’asse iraniano della resistenza rende il progetto ancora più controverso.
L’estensione possibile alla Siria, alleata dell’Iran, ne equilibrerebbe allora il peso
geopolitico.
Esposto agli stessi rischi della sicurezza della Development Road di cui sareb- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

be una componente strategica importante, il progetto è ulteriormente complicato


dal suo sbocco nel Mar Rosso, dove confluiscono anche gli interessi di Egitto, Isra-
ele e Arabia Saudita. Dal suo punto di partenza al suo punto di arrivo, l’oleodotto
dovrà dunque godere del sostegno a lungo termine di ben quattro Stati vicini di
cui due, Israele e Iran, sono di fatto in guerra. La forte perturbazione del traffico
marittimo attraverso lo Stretto di Båb al-Mandab, causata dagli attacchi dei ribelli
õû¿ø filo-iraniani, aggiunge ulteriori fattori di rischio al progetto iracheno.
Meno controversa ma non per questo più fattibile è infine la riapertura dell’o-
leodotto con l’Arabia Saudita, la Iraq Pipeline with Saudi Arabia (Ipsa). In funzio-
ne per circa un ventennio, l’Ipsa ha trasportato il greggio iracheno da Bassora al
terminale di al-Mu‘aããiz, nel Mar Rosso, fino alla sua chiusura nel 1991 a seguito
dell’invasione irachena del Kuwait e della prima guerra del Golfo. Con una capa-
cità di 1,6 milioni di b/g, l’oleodotto è stato confiscato dall’Arabia Saudita nel 2000
e da essa utilizzato come indennizzo per quella guerra. La sua riapertura all’Iraq
insieme a quella del terminale al-Mu‘aããiz costituirebbe certamente un vantaggio
per entrambi i paesi, aumentandone la capacità esportativa e offrendo loro una
flessibilità strategica rispetto alle eventuali interruzioni o perturbazioni nello Stretto
di Hormuz 11. Considerazioni economiche e strategiche a parte, l’Ipsa sarebbe tut-
tavia controllata quasi esclusivamente da Riyad, dal momento che attraversa pre-
valentemente il territorio saudita, e rimarrebbe condizionata dall’andamento delle
relazioni tra i due Stati, storicamente perturbate da sospetto e sfiducia reciproci.
Spetterà dunque alla politica scioglierne il nodo.

6. La diplomazia irachena è al lavoro. I governi che si sono susseguiti dal 2017


hanno promosso la distensione con gli Stati vicini, inclusa l’Arabia saudita, per con-
tenerne ed equilibrarne le influenze nei suoi affari interni. Il paese rimane tuttavia
stretto tra l’Iran e la Turchia ed esposto alle turbolenze geopolitiche del Medio
Oriente. All’interno, la residua presenza militare americana è ancora negoziata tra
le parti mentre fazioni pro iraniane della resistenza continuano a bombardarne le
basi. La frammentazione politica, sociale e della sicurezza continua a minarne la
stabilità. In questo contesto, i benefici strategici ed economici di oleodotti vecchi
e nuovi soccombono alle considerazioni geopolitiche e alle tendenze ideologiche
dei suoi molteplici attori interni, lasciando che linee di inchiostro spavaldamente
tracciate sulla carta del mondo ne ricordino la storia incompiuta.

11. «Iraq, Saudi discuss reviving oil pipeline connection», Middle East Monitor, 25/5/2023; «Iraq hopes
170 for IPSA Pipeline Access with Riyadh Rapprochement», Middle East Economic Survey, 1/9/2017.
LA NOTTE DI ISRAELE

AI, LA FRECCIA
AVVELENATA Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

ALL’ARCO DI ISRAELE di Pierguido IEZZI

I raid mirati che precedono e accompagnano l’offensiva contro


Õamås e Õizbullåh, come pure l’inefficacia delle rappresaglie
iraniane, attestano la potenza degli strumenti cyber di Tzahal.
L’apporto degli alleati. Teheran medita risposta, ma intanto trema.

1. I L CRESCENDO ROSSINIANO CHE DALL’ESPLOSIONE


dei cercapersone in dotazione ai miliziani di Õizbullåh ha portato, nel giro di due
settimane, all’eliminazione di Õasan Naârallåh e probabilmente del suo possibile
successore Håšøm Âafø al-Døn da parte di Israele apre scenari imperscrutabili sui
futuri assetti del Medio Oriente. Allo stesso tempo offre una visione molto accurata
delle modalità in cui verranno combattute le guerre del XXI secolo, in cui l’infor-
mazione avrà un ruolo determinante. In questo nuovo mondo il dominio cyber è
uno degli interpreti principali, anche se non nelle forme in cui ci si sarebbe aspet-
tati dopo gli esordi del malware Stuxnet che nel 2009 portò al sabotaggio informa-
tico della centrale nucleare iraniana di Natanz.
Le capacità difensive della cibersicurezza sono state notevolmente incremen-
tate dall’intelligenza artificiale (Ai), che consente di sviluppare in brevissimo tempo
strumenti di attacco – come malware e wiper – e altresì di trovare immediata rispo-
sta alle offensive informatiche, in una sorta di gioco a somma zero. Il livello dello
scontro nel ciberspazio si sposta dunque sulla possibilità di acquisire ed elaborare
in tempo utile le informazioni necessarie all’ottimizzazione della macchina bellica,
moltiplicandone all’inverosimile l’efficacia.
Con la sua potenza di calcolo, l’Ai permette di conseguire obiettivi finora im-
pensabili attraverso la cosiddetta algorithmic warfare (guerra algoritmica). Agli at-
tacchi informatici caratteristici della cyber warfare si stanno affiancando strumenti
capaci di analizzare in tempo utile quantità enormi di dati provenienti dal teatro
d’azione, fornendo risposte efficaci in base ai mezzi, agli uomini e alle armi dispo-
nibili. Ne deriva una superiorità schiacciante, come si evince dal conflitto in atto tra
Israele e le formazioni filo-iraniane (Õamås, Õizbullåh), dove l’utilizzo di strumen-
ti di Ai quali Gospel o Lavender sta assicurando il predominio alle Forze di difesa
israeliane (Idf). 171
AI, LA FRECCIA AVVELENATA ALL’ARCO DI ISRAELE

2. La guerra scoppiata in Medio Oriente dopo l’aggressione di Õamås a Israele


del 7 ottobre 2023, in poco tempo allargatasi da Gaza al Libano dove opera Õizbul-
låh, sta evidenziando i molteplici ruoli dell’Ai nel quinto dominio del ciberspazio
in chiave offensiva e difensiva. A fine settembre 2024 l’utilizzo dell’intelligenza ar-
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tificiale a sostegno dell’Aeronautica ha permesso a Israele di decapitare in poco


tempo le milizie filo-iraniane libanesi con un’operazione articolata e complessa,
cominciata con una catena di esplosioni di cercapersone, radioline, videocamere e
altri apparecchi – in cui sin da subito è stato escluso l’utilizzo di malware o di altri
strumenti cibernetici – che ha ucciso o ferito migliaia di operativi di Õizbullåh. Da
quel momento, nel vasto labirinto dell’organizzazione ha regnato il caos: come
formiche gli affiliati si muovevano impazziti senza ricevere ordini e si affannavano
intorno alla regina per capire come ricostruire il tutto.
Dall’alto, chi aveva creato scompiglio ha osservato i movimenti erratici, impulsi-
vi e sconnessi per comprendere come e dove si dirigessero onde individuare bersa-
gli più grossi. La più grave violazione di sicurezza nei confronti di Õizbullåh ha
pertanto riguardato in un primo momento la catena di approvvigionamento tecno-
logica e non il perimetro digitale, per poi sfruttarne i risultati tramite la cibernetica e
l’Ai. Dopo l’assassinio a fine luglio di Fu’åd Šukr, comandante militare di Õizbullåh,
tramite l’intercettazione di una telefonata della sua guardia del corpo, l’ordine a tutti
i miliziani è stato infatti secco: seppellite tutti i vostri smartphone. I capi supremi
hanno quindi cominciato a comunicare solo tramite corrieri, mentre per gli operativi
è stato previsto l’acquisto di due partite di pagers e di dispositivi radio Vhf della nip-
ponica Icom, modello IC-V82. Entrambe intercettate e manomesse per esplodere
tramite attivazione da remoto di microcariche inserite negli apparecchi.
La dipendenza tecnologica di Õizbullåh dall’estero si è rivelata un fattore di
rischio letale. In un solo colpo i vertici della milizia filo-iraniana si sono trovati a
dover ripensare e ricostruire la loro rete di comunicazione, che ritenevano di aver
messo al sicuro con l’utilizzo di tecnologie analogiche a onde radio. La loro opera-
tività è stata invece compromessa dall’interruzione della catena di comando e con-
trollo, rendendo ogni seria rappresaglia impossibile.
Altra conseguenza ben più grave, in cui la componente cibernetica ha svolto
un ruolo determinante, è stata l’individuazione di obiettivi primari tra i vertici
dell’organizzazione grazie all’analisi (svolta tramite l’Ai) dell’imponente mole di
informazioni proveniente dai satelliti, che hanno individuato e mappato tutte le
deflagrazioni. Il grande occhio di Tzahal ha sorvegliato tutto ciò che accadeva in
Libano e in Siria durante le due ondate di esplosioni di pagers e ricetrasmittenti,
tutte individuate e geolocalizzate perché ognuna capace di rivelare un covo, un’ar-
meria, l’abitazione di un comandante presso cui operava la guardia del corpo
coinvolta.
Molte detonazioni potevano risultare inutili, perché avvenute magari in super-
mercati (come mostra uno dei pochi video disponibili) o per strada durante un
tragitto. La potenza di calcolo degli strumenti di Ai di cui Israele dispone ha tuttavia
172 permesso di identificare per tempo le informazioni necessarie, intercettando le
LA NOTTE DI ISRAELE

comunicazioni convulse tra operativi e vertici che in quel momento sono state
caotiche e non più aderenti a profili di sicurezza adeguati.
Una volta analizzati i dati, in pochi giorni è cominciata la caccia e il bottino è
stato grosso. Un primo raid israeliano su Beirut ha portato all’uccisione di Ibråhøm Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

‘Aqøl (capo dell’unità di élite di Õizbullåh e membro del Consiglio della Jihåd), di
Aõmad Wahbø (che ha supervisionato le operazioni militari delle Forze speciali
Raîwån fino all’inizio del 2024) e di 14 combattenti del Partito di Dio. Tra questi
Abû Yåsir A¿¿ar, al-Õåãã Nønawå e Õusayn ‘Alø Ôandûr (alias «macellaio di Maîåyå»,
che guidò il feroce assedio alla città siriana occupata dall’opposizione ad al-Asad),
responsabili di alto rango delle Forze Raîwån. L’attacco è stato effettuato da caccia
F-15 che hanno lanciato quattro missili penetranti capaci di colpire nel sottosuolo
il secondo piano interrato dove si stava tenendo la riunione tra il capo delle forze
militari di Õizbullåh ‘Aqøl e un’altra ventina di comandanti del gruppo. I missili
hanno causato il crollo dell’edificio residenziale nel sobborgo di Beirut di al-Ãåmûs,
roccaforte dell’organizzazione. Un obiettivo individuato attraverso l’analisi condot-
ta con l’Ai, che ha suggerito anche quali fossero le armi migliori per neutralizzarlo.
Un secondo raid in Libano il giorno successivo ha eliminato centinaia di esponen-
ti di alto livello e miliziani del Partito di Dio, invalidando definitivamente l’ipotesi
che spiegava le esplosioni dei dispositivi come atto dovuto a una fuga di notizie
circa la loro manomissione. Il sabotaggio è stato invece parte di un piano più am-
pio e complesso, come rivelato dal generale riservista israeliano Amir Avivi in
un’intervista rilasciata alla Stampa, che ha parlato di un’operazione chirurgica mi-
rata ai soli miliziani per limitare il più possibile le vittime civili e (ma questo non
viene detto) individuarne la posizione.
Ad attestarlo definitivamente è intervenuto il raid del 27 settembre che ha uc-
ciso Õasan Naârallåh con ordigni bunker-busting scagliati a Îåhiya, la zona meri-
dionale di Beirut roccaforte di Õizbullåh, su un agglomerato di edifici costruiti
sottoterra per permettere a miliziani e leader di nascondersi tra i civili 1. Il livello
delle informazioni tratte dall’elaborazione dei dati insieme alle capacità Humint
(Human intelligence) di cui Israele ha dato prova infiltrando gli apparati di sicu-
rezza iraniani (da cui l’uccisione il 1° aprile del capo pasdaran Mohammad Reza
Zahedi nel consolato iraniano a Damasco e il 30 luglio del leader di Õamås Ism呸l
Haniyya a Teheran), hanno poi portato all’eliminazione del successore di Naârall-
åh, Håšim Âafø al-Døn, in un raid su Beirut il 3 ottobre costato la vita anche al capo
dell’intelligence del Partito di Dio Õusayn al-Za‘øma, conosciuto come Murtaîå.

3. Oltre a potenziare notevolmente le capacità offensive di Tzahal, l’Ai svolge


un ruolo attivo nella difesa dello spazio aereo israeliano, come constatato in occa-
sione degli attacchi iraniani con droni e missili del 14 aprile e del 1 ottobre. Se si
dovesse esprimere visivamente quanto avvenuto nei cieli del Medio Oriente in

1. G. OLIMPIO, «Chi ha tradito Nasrallah?», Corriere della Sera, 1/10/2024: «Una persona arrivata dall’Iran
ha stretto la mano di Nasrallah lasciandogli una sostanza che ha permesso agli israeliani di localizzar-
lo nei sotterranei di Daieh». 173
AI, LA FRECCIA AVVELENATA ALL’ARCO DI ISRAELE

entrambe le occasioni, tornerebbe utile il David di Gian Lorenzo Bernini esposto


alla Galleria Borghese: il volto concentrato sull’obiettivo, lo sguardo fisso e le lab-
bra strette nello sforzo mentre arma la fionda. Quel piccolo sasso destinato a infig-
gersi nella fronte del filisteo Golia simboleggia alla perfezione i bit e i codici bina-
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ri utilizzati da Israele per irridere la rappresaglia iraniana in risposta ai raid di


Tzahal del 2 aprile (Damasco) e del 27 settembre (Beirut). Infinitesimali in termini
fisici rispetto all’imponenza dei missili e dell’orda di droni iraniani scagliati contro
Israele il 14 aprile, ma anche al numero dei vettori balistici (180-200) lanciati in due
ondate a distanza di poche ore il 1° ottobre.
Il mondo cibernetico ha determinato il successo di Israele nell’arginare le ri-
sposte di Teheran. Il fallimento delle due offensive iraniane contro Tel Aviv non è
dovuto solo allo scudo interalleato che ha abbattuto quasi tutti i 300 tra droni e
missili Cruise e ha poi neutralizzato circa duecento vettori balistici. Alla combina-
zione dei diversi sistemi – Arrow 3 israeliani e statunitensi, velivoli americani, bri-
tannici, francesi e giordani, intelligence saudita ed emiratina, rete di sensori e radar
– si è sommato il rafforzamento dello scudo antimissile israeliano Iron Dome tra-
mite l’intelligenza artificiale. L’accuratezza del sistema è stata migliorata con algo-
ritmi potenziati dalla Ai capaci di analizzare i dati dei radar e di altri sensori per
tracciare i missili in arrivo e calcolare il momento migliore per intercettarli. Ciò ha
permesso di accrescere del 90% il tasso di successo di Iron Dome.
L’Ai è stata usata anche per migliorarne l’efficienza. Gli algoritmi potenziati
hanno reso più efficace la programmazione della scansione del lancio dei razzi
intercettori, dando priorità agli obiettivi più critici e riducendo così il costo opera-
tivo dello scudo. Se si considera che azionarlo comporta un esborso di 1-1,3 mi-
liardi di euro, si comprende bene il peso non indifferente di tale fattore. L’Ai è
stata inoltre adoperata per allargare lo spettro di minacce contro cui usare Iron
Dome, con lo sviluppo di nuovi algoritmi capaci di intercettare droni e altri picco-
li oggetti volanti a bassa quota sempre più utilizzati che mettono a dura prova i
tradizionali sistemi di difesa aerea.

4. Le conseguenze della decapitazione di Õizbullåh e dell’inefficacia delle ri-


sposte iraniane sono molteplici. Naârallåh ha guidato Õizbullåh dal 1992, trasfor-
mandolo in una delle forze regionali più influenti. La sua abilità nell’unire diverse
fazioni e di resistere alla pressione israeliana ha contribuito a consolidare l’imma-
gine di Õizbullåh quale movimento di resistenza. La sua retorica anti-israeliana e
anti-americana ha galvanizzato le masse sciite, estendendo l’influenza del gruppo
oltre i confini libanesi. La sua morte lascia un vuoto significativo: la mancanza di
una leadership forte e carismatica potrebbe compromettere la coesione interna di
Õizbullåh, spingendo le diverse fazioni a competere per il potere. Ciò potrebbe
comportare divisioni interne e una diminuzione del sostegno popolare, special-
mente se la nuova leadership – che stenta a emergere – non fosse in grado di
174 mantenere la stessa influenza e credibilità.
LA NOTTE DI ISRAELE

In questo caso, è forte l’eventualità che l’organizzazione si scomponga in cel-


lule operative autonome sul modello di ciò che è accaduto allo Stato Islamico dopo
la caduta delle roccaforti in Iraq e in Siria. Sembra andare in questa direzione quan-
to riportato dal quotidiano panarabo Asharq al-Awsat, che accredita la successione
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di Ibråhøm Amøn al-Sayyid alla testa di un Õizbullåh attualmente guidato da una


«leadership collettiva». Ciò indebolirebbe il gruppo, non più capace di azioni offen-
sive continue e martellanti come quelle che hanno portato allo sfollamento di 60
mila persone dal Nord di Israele; ma lancerebbe una sfida difficile all’intelligence
israeliana, che per tutelare la sicurezza dei cittadini dovrebbe moltiplicare gli sforzi
di infiltrazione, controllo e spionaggio elettronico su realtà disgregate e spesso non
più comunicanti tra loro. L’utilizzo dell’Ai sarà dunque determinante per consentire
al Mossad e allo Shin Bet di prevenire attentati.
Un’altra conseguenza riguarda il ruolo geostrategico dell’Iran, finora tra i
principali fornitori di armi alla Russia insieme a Cina e Corea del Nord. La neces-
sità di potenziare il proprio arsenale (dimostratosi inefficace contro Israele) e di
continuare ad approvvigionare Õamås e Õizbullåh (oltre che di riorganizzarne le
fila) distrarrà Teheran dagli impegni presi con Mosca. Per questo si sono moltipli-
cati gli incontri a vari livelli tra russi e iraniani. Lo stesso Vladimir Putin ha incon-
trato l’11 ottobre in Turkmenistan il presidente iraniano Masud Pezeshkian per
discutere «la situazione in Medio Oriente notevolmente aggravatasi», come dichia-
rato a Ria Novosti dal consigliere del Cremlino per la politica estera Jurij Ušakov.
Molto probabilmente, anche per assicurarsi che l’alleato non venga meno in un
momento delicato.
Per continuare ad attingere alla Russia le conoscenze necessarie a potenziare
il proprio arsenale e proseguire il programma nucleare, l’Iran potrebbe corrispon-
dere non più armi – di cui non si può privare in questo frangente – ma informa-
zioni raccolte nel ciberspazio. Non delle gang di hacker come Sylhet Gang-Sg,
Ketapang Grey Hat Team, RipperSec, LulzSec Indonesia, Team Arxu, Handala
Hack (che ha dichiarato di aver violato i sistemi radar israeliani), Nethunt3r (che
sostiene di aver infiltrato il ministero della Difesa israeliano) o Cyber Aveng3rs (che
ha rivendicato vari attacchi informatici alle reti ferroviarie ed energetiche israelia-
ne), che in questi mesi hanno condotto principalmente attacchi contro siti web
dello Stato ebraico. Teheran si servirebbe ora di organizzazioni parastatali in grado
di sostenere infiltrazioni persistenti dei sistemi informatici avversari, rimanendovi
annidate per mesi o anni in attesa di compiere sabotaggi radicali o prelievi massic-
ci di dati. In Iran sono in particolare attive le Apt-33 e Apt-34 (già protagoniste di
diverse violazioni significative di siti governativi) e la Apt-122 (in prima linea nel
2022 nell’attacco wiper che ha messo in ginocchio la polizia di frontiera albanese,
paralizzandone a lungo l’operatività). Nella difesa da queste minacce Israele farà
affidamento alla Ai, in una schermaglia destinata a intensificarsi nei prossimi mesi.
La domanda pertanto non è se Israele riuscirà a mantenere diversi fronti aper-
ti, ma se l’Iran potrà sostenere la crescente pressione esterna e interna. Õamås e 175
AI, LA FRECCIA AVVELENATA ALL’ARCO DI ISRAELE

Õizbullåh chiedono costantemente armi e sostegno per fronteggiare Tzahal, men-


tre la Russia osserva con preoccupazione il possibile indebolimento del contributo
iraniano alla sua campagna militare in Ucraina. Teheran deve anche fronteggiare la
risposta israeliana ai lanci missilistici del 1° ottobre, mentre le tensioni politiche tra
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le fazioni estremiste e più moderate s’inaspriscono.


Isolato e indebolito dalle sanzioni, l’Iran si trova a gestire una popolazione
stanca di sacrifici. Sempre più giovani manifestano apertamente il loro dissenso
contro il regime, esprimendo contrarietà alle politiche aggressive verso Israele e
chiedendo che le risorse destinate a Õamås e a Õizbullåh siano utilizzate per mi-
gliorare la vita della popolazione. Dopo l’esplosione dei cercapersone sui muri di
diverse città iraniane sono comparse scritte irrisorie se non di giubilo, mentre i
social si popolavano di post che invocavano un cambio di linea verso le milizie
sciite, viste come sanguisughe che depauperano l’economia iraniana 2.
Israele ha invece il vantaggio strategico di poter scegliere tempi e modi per
rispondere agli attacchi iraniani, concentrandosi ora su Gaza e Libano onde debel-
lare le strutture di Õamås e di Õizbullåh. Senza escludere una ritorsione diretta nei
confronti dell’Iran; mentre scriviamo il gabinetto di guerra sta discutendo se auto-
rizzare l’attacco, propugnato da Netanyahu, contro le basi militari di Teheran. An-
cora non ne conosciamo la portata, la profondità e gli effetti, ma è un altro poten-
ziale strumento con cui la leadership israeliana può abbattere la Repubblica Islami-
ca. Lo Stato ebraico osserva attentamente le tensioni interne all’Iran, la cui situazio-
ne è più precaria di quanto possa sembrare, tenendosi pronto a colpire nel mo-
mento più opportuno. Resta da capire quando e dove avverrà la scossa che farà
crollare il regime degli ayatollah.

2. M. GIUSTINO, «Quel “Verde” Iran che tifa contro Hezbollah: l’atteggiamento ostile della popolazione
176 contro l’asse della resistenza», Il Riformista, 27/9/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Parte III
la GUERRA
degli ALTRI
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LA NOTTE DI ISRAELE

COME SI USA Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

L’AMERICA di Federico
PETRONI
La guerra d’Israele erode la credibilità degli Stati Uniti, palesemente
incapaci di plasmare gli eventi e usati per allargare il conflitto.
La crisi di sfiducia tra gli americani investe anche lo Stato ebraico.
I dolori di Kamala Harris. Il dibattito negli apparati.

1. I SRAELE USA L’AMERICA PER ALLARGARE LA GUERRA.


Dall’inizio del conflitto sfrutta la protezione, militare come diplomatica, del grande
fratello per espandere i suoi obiettivi a Gaza, in Libano e in prospettiva in Iran.
Contro gli interessi degli Stati Uniti, costretti dalla debolezza dell’amministrazione
e ancor più dall’impossibilità di non proteggere la nazione sorella a coprire un
paese entrato in modalità rivoluzionaria. Tale dinamica assesta un colpo durissimo
alla credibilità degli Stati Uniti come potenza, palesemente incapaci di plasmare gli
eventi e controllare chi combatte. Condizione non dissimile da altri teatri strategici,
benché qui portata a circostanze estreme.
La guerra d’Israele ha indebolito anche l’immagine dello Stato ebraico tra gli
americani. La crisi di sfiducia della popolazione nei confronti della politica estera
tradizionale investe persino l’alleato più intimo. Crollo particolarmente acuto nell’e-
lettorato democratico, ora visibile anche nel partito. Paradosso: Israele usa tanto
più l’America quanto più questa si disaffeziona allo Stato ebraico e alle cause per
cui combatte.
Man mano che la guerra Israele-Iran si fa più diretta, gli Stati Uniti assistono al
disfarsi dei precari equilibri del Medio Oriente. Vedono seriamente danneggiata la
loro immagine di controllori degli stretti marittimi dagli õûñø dello Yemen, che non
possono sconfiggere manu militari. Pur non completamente in balia del governo
di Gerusalemme, dibattono se invece di contenerlo non sia il caso di approfittarne.
Per colpire Teheran.

2. È evidente a tutti che l’America non ha controllo su Israele. Le circostanze


chiariscono l’ampiezza e la profondità del problema.
Sin dall’inizio del conflitto, lo Stato ebraico ignora costantemente le richieste
statunitensi. Nell’ottobre 2023, Washington chiede di non entrare a Gaza con una 179
COME SI USA L’AMERICA

massiccia operazione di terra; di elaborare un piano per il dopoguerra; di ridurre


l’intensità dei bombardamenti. Cosa ottiene? Ritagli ai margini: Israele diminuisce i
soldati coinvolti, migliora un piano solo abbozzato e permette l’accesso di aiuti uma-
nitari solo dopo grandi scontri. Respinge il suggerimento di condurre attacchi mirati Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

e conquista i grandi centri urbani. E non solo non elabora un piano per il dopo, ma
rifiuta categoricamente le proposte americane di una Gaza governata da una coali-
zione internazionale di paesi arabi e da elementi palestinesi moderati. A orecchie
israeliane, le richieste statunitensi devono suonare come tentativi di sabotaggio.
Il dramma si replica in grande nella primavera 2024. Gli israeliani vogliono
entrare a Rafaõ. Gli americani si oppongono: non vogliono vedere nel Sud della
Striscia le stragi viste al Nord. Biden va in televisione e dice che l’invasione di Rafaõ
è la sua «linea rossa» 1. Il segretario di Stato Antony Blinken avvisa Netanyahu: «Ci
saranno conseguenze nella nostra relazione». Risposta di sfida: «Se è qui che la fi-
niamo, è qui che la finiremo» 2. Il seguito dà ragione al primo ministro: le minacce
degli americani sono vuote.
Quando le truppe israeliane entrano a Rafaõ, Biden esplode e in privato rico-
pre il leader israeliano di improperi. Nella sequenza restituita dal giornalista Bob
Woodward: «figlio di puttana», «fottuto bugiardo» e, apice del suo climax morale,
«bad guy» 3. A maggio, il presidente ordina di fermare l’invio di bombe da duemila
libbre. Ma rinuncia a usare la decisione per fare pressione sull’alleato. Nessuno si
azzarda a comunicarla agli israeliani, tantomeno in pubblico. Una volta accortose-
ne, Netanyahu scatena contro l’amministrazione democratica i suoi alleati repubbli-
cani al Congresso, ansiosi di scandali in anno elettorale. L’invio delle bombe ri-
prende, ovviamente senza una comunicazione formale. Israele costringe l’America
a rimangiarsi le sue minacce.
In seguito, Biden prova ad affrontare Netanyahu pubblicamente. In un discor-
so alla nazione, annuncia un piano per cessare il fuoco a Gaza e liberare gli ostag-
gi. Accusa il primo ministro: manca solo il suo assenso. Spera di metterlo in cattiva
luce davanti alla sua gente. Ma nemmeno giocare a carte scoperte mette l’avversa-
rio con le spalle al muro. Netanyahu respinge l’offerta, dicendo di voler riprendere
il controllo del confine Gaza-Egitto, noto come corridoio Philadelphi. E quando tra
fine luglio e settembre Israele allarga la guerra, uccidendo il capo politico di Õamås
a Teheran e iniziando a decapitare quadri e vertici di Õizbullåh, la Casa Bianca
ammette apertamente: un cessate-il-fuoco è «fuori dalla portata di Biden» 4.
Gli affronti crescono assieme alla guerra. Israele non solo ignora ma sabota le
iniziative degli americani. E smette di comunicare a Washington le sue prossime
mosse, nonostante il rischio di rappresaglie sulle basi americane in Medio Oriente.
L’allargamento della guerra al Libano è emblematico. Israele tiene l’alleato all’oscuro
1. «Exclusive interview with President Biden following State of the Union address», Msnbc, 10/3/2024.
2. F. FOER, «The War That Would Not End», The Atlantic, 25/9/2024.
3. J. GANGEL, J. HERB, E. STUART, «“That son of a bitch”: New Woodward book reveals candid behind-
the-scenes conversations of Biden, Trump, Harris and Putin», Cnn, 8/10/2024.
4. A. WARD, «U.S. Officials Concede Gaza Cease-Fire Out of Reach for Biden», The Wall Street Journal,
180 19/9/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

delle uccisioni dei vertici di Õizbullåh. Quando apprende dal suo omologo israelia-
no Yoav Gallant dell’eliminazione di Õasan Naârallah, il segretario alla Difesa Lloyd
Austin gli sbotta davanti: «Scusami, cos’hai detto?», per aggiungere in un secondo
incontro: «Siete pronti a difendervi da soli, visto che non ci avete preavvisato?» 5. Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Solo il giorno prima, alle Nazioni Unite, gli Stati Uniti avevano faticosamente rag-
giunto con l’Iran e alcuni paesi arabi ed europei un accordo per un cessate-il-fuoco
tra Israele e Õizbullåh, che quest’ultimo avrebbe anche accettato, secondo il mini-
stro degli Esteri libanese. Credevano di avere l’assenso del governo Netanyahu.
L’invasione del Libano ripropone la dinamica già vista a Gaza. Solo più in
grande e più disfunzionale dalla prospettiva americana per via di un anno di falli-
menti. Nell’arco di poche ore, l’amministrazione Biden esorta una soluzione diplo-
matica; prova a dissuadere una massiccia operazione di terra; appoggia Israele
quando è in procinto di entrare dicendo di avergli strappato la promessa di una
«operazione limitata»: smantellare Õizbullåh nel Sud del Libano e ritirarsi senza
occupare quel territorio 6. Quindi sposa pienamente gli obiettivi israeliani: indebo-
lire Õizbullåh per indebolire l’Iran, estromettere il Partito di Dio dal governo liba-
nese e scacciarlo a nord del fiume Lø¿ånø.
È la certificazione che da un anno gli Stati Uniti rincorrono Israele. Cambiano
idea di continuo per non dover prendere provvedimenti. Rinunciano a impedire
l’allargamento della guerra per provare a minimizzare le sue conseguenze. L’idea
dell’amministrazione Biden era dimostrare totale sostegno in pubblico a Israele per
essere più franchi in privato e plasmare la condotta bellica dell’alleato. Il fallimen-
to è stato spettacolare. Una riunione fra Biden e i suoi più stretti consiglieri raccon-
tata dall’Atlantic restituisce lo spirito del tempo. Domanda operativa: possiamo
comportarci diversamente? «Nel corso delle due ore successive, il gruppo discute
una proposta dietro l’altra. Non c’è atto di magia diplomatica o brillante idea crea-
tiva da estrarre dalla manica. Alla fine, alzano le mani» 7.
Gli Stati Uniti non sono del tutto in balia di Israele. Subiscono il gioco, ma
possono ancora rifiutare risorse esclusive allo Stato ebraico, per esempio i mezzi
per colpire il programma nucleare iraniano. La deterrenza è gravemente compro-
messa, benché non interamente saltata, più per le cautele di Teheran. Anche se la
presenza americana non ha impedito alla guerra Israele-Iran di diventare diretta.

3. Israele si impone sull’America perché è Israele o perché l’America è partico-


larmente debole?
Gli Stati Uniti scontano anzitutto un deficit di motivazione. Hanno di fronte
una nazione in crisi con sé stessa che rovescia la guerra al di fuori per non farla
dentro, è entrata in modalità messianico-apocalittica e vuole rivoluzionare l’ordine
5. N.A. YOUSSEF, «U.S. Frustrated by Israel’s Reluctance to Share Iran Retaliation Plans», The Wall Street
Journal, 9/10/2024.
6. J.E. BARNES, M. CROWLEY, «U.S. Officials Believe Israel Will Not Conduct Full Invasion of Lebanon»,
The New York Times, 30/9/2024; «Readout of Secretary of Defense Lloyd J. Austin III›s Call With Isra-
eli Minister of Defense Yoav Gallant», U.S. Department of Defense, 30/9/2024.
7. B. FOER, op. cit. 181
COME SI USA L’AMERICA

regionale perché in ballo c’è la sua stessa ragion d’essere: Israele come rifugio per
gli ebrei.
Il governo israeliano ha poi sicuramente tratto il massimo da circostanze tem-
porali assai favorevoli, cioè dalla campagna elettorale negli Stati Uniti. Biden e Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

ancor più Kamala Harris non possono affrontarlo apertamente perché troppo in
bilico nei sondaggi per rischiare di alienarsi anche pochi elettori. Trump è disposto
a parole a concedere qualsiasi cosa a Israele pur di poter dire che il governo non
lo sta aiutando adeguatamente. L’amministrazione democratica è poi specialmente
indebolita, sia dalla fragilità del presidente sia dalla sua imminente uscita di scena.
Lo sarà ancor di più nei due mesi e mezzo della transizione, durante la quale non
sono escluse distrazioni derivanti dalla contestazione del voto, specie in caso di
sconfitta dei repubblicani. Alla fine, a trarre più vantaggio dello stato di semi-va-
canza alla Casa Bianca non è stato un nemico, ma un alleato.
Il primo ministro israeliano ha inoltre sfruttato caratteristiche uniche al rappor-
to tra i due paesi. Per esempio, il sionismo di ferro di Biden, le intime relazioni fra
apparati (specie d’intelligence, che aggira spesso capi recalcitranti), le entrature di
Netanyahu nei gruppi di pressione filo-ebraici (come le lobby evangeliche) o il
suo rango di spicco nel Partito repubblicano. Nel viaggio di fine luglio in America,
il premier ha incontrato Trump a Mar-a-Lago, in una sorta di consultazione col
governo ombra.
Ma la caratteristica principale è che gli Stati Uniti non possono non difendere
Israele. È irrealistico pensare a un presidente che resta a guardare mentre lo Stato
ebraico finisce sotto i missili. Lo scandalo scoppierebbe per molto meno: scoprire
per esempio che il comandante in capo non ha fatto tutto quanto in proprio pote-
re per dare assistenza militare all’alleato sotto attacco. Questa realtà toglie credibi-
lità alle minacce degli Stati Uniti di lasciare soli gli israeliani. Israele sa che può
uccidere tutti i capi milizia che vuole, anche senza preavviso, tanto è nell’interesse
degli americani evitare che lo Stato ebraico subisca un colpo eccessivo. Austin ha
dato un nome a questo atteggiamento: Israele «sta giocando coi soldi della casa» 8.
Furente, il Pentagono ha comunicato all’alleato di stare dibattendo se i continui
rinforzi abbassano la tensione o invece incoraggiano Israele ad aumentarla – oltre
a sviare importanti risorse dal contenimento della Cina 9. Ma la timidezza delle mi-
sure prese contro lo Stato ebraico parla da sé. In un anno gli americani hanno
sanzionato qualche colono; costruito un pontile galleggiante per rifornire Gaza dal
mare (poi andato in pezzi); adottato due vaghe risoluzioni all’Onu per ammonire
Israele; minacciato di mettere in pausa la consegna di qualche armamento senza
andare fino in fondo.
Il motivo di tanta deferenza risiede in una dinamica più generale. Gli interes-
si di Israele e Stati Uniti non divergono del tutto. O, meglio, divergono profonda-

8. K. DEYOUNG, M. RYAN, «How Joe Biden lost his grip on Israel’s war for “total victory” in Gaza», The
Washington Post, 3/10/2024.
9. H. COOPER, E. SCHMITT, «A Pentagon Debate: Are U.S. Deployments Containing the Fighting, or Infla-
182 ming It?», The New York Times, 4/10/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

LE PRIORITÀ DEGLI USA IN MEDIO ORIENTE


Proteggere Israele e le proprie basi dalla rete dell’Iran Territori con milizie legate all’Iran
Salvare e ampliare l’asse tra Israele e paesi arabi
Asse tra Israele e paesi arabi
Evitare un predominio dell’Iran nel Golfo, in Siria e in Iraq
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

(Israele-Arabia S. in trattativa)
Mantenere il controllo dei colli di bottiglia di Suez, Bāb al-Mandab e Hormuz
Contenere la Turchia in Siria e nell’Egeo Colli di bottiglia
Basi e strutture militari Usa
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Sede della V Flotta
Riyad BAHREIN
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E.A.U. Stretto
di Hormuz
ERITREA
OMAN

YEMEN Oceano
ETIOPIA Indiano
Stretto di Bāb al-Mandab

mente solo dopo un avvio comune. A inizio conflitto, l’amministrazione Biden


comunica una premessa: la guerra di Israele è legittima, deve solo limitarla. E a
questo scopo stila una lista di interessi: evitare una grande guerra regionale, me-
diare la fine delle ostilità, liberare gli ostaggi, salvare la normalizzazione con l’Ara-
bia Saudita, lavorare per un governo di Gaza senza Õamås e senza Israele. Molto 183
COME SI USA L’AMERICA

distante da quello che Israele fa. Per esempio, l’interesse a non allargare il conflit-
to è rivolto anche, se non soprattutto, contro lo stesso Netanyahu. Ma Israele or-
mai la guerra l’ha iniziata. Come limitare le ostilità se non le comandi? Se non puoi
abbandonare un alleato che dice di combattere un nemico comune? Se non puoi Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

nemmeno credibilmente minacciarlo? Una volta aperto il vaso di Pandora, richiu-


derlo è quasi impossibile.
È la leadership senza egemonia di cui si fantastica a Washington 10. Risultato
della logica in cui è entrata l’America: usare gli alleati per attingere a risorse che
non è in grado di mobilitare. Solo che scopre di non poter controllare chi combat-
te ma di esserne dipendente. Come nota il decano Richard Haass, gli Stati Uniti
sono in crisi di consenso, privi di strumenti per gestire i sempre più frequenti di-
saccordi con gli alleati 11. In Ucraina, la discordia fra Kiev e Washington ha prodot-
to una sanguinosissima stasi. Le Filippine provocano i cinesi, forti del trattato con
gli Stati Uniti. Con intensità varie, anche Polonia, Turchia, India e Giappone attin-
gono più di quanto danno. I satelliti usano l’America più di quanto l’America usi i
satelliti.

4. Oltre alla credibilità degli Stati Uniti, Israele in guerra lede la propria popo-
larità in America. Dal 7 ottobre, ha smesso di essere intoccabile. È politicamente
controverso. È inviso a buona parte delle nuove generazioni e agli elettori demo-
cratici. Le due nazioni restano sorelle e intrecciate più di prima. Eppure l’interesse
complessivo degli americani cala. Aumenta l’aperto rifiuto per un ruolo risolutore
degli Stati Uniti.
Nel febbraio 2024, il Pew Research Center, il più autorevole istituto demosco-
pico d’America, ha condotto un rigoroso studio intervistando oltre 12 mila persone
su Israele, la guerra in corso e cosa dovrebbero fare gli Stati Uniti 12. Risultato: una
faticosa metà, il 57% degli intervistati, considera legittime le ragioni per cui Israele
combatte contro solo un 15% che le considera illegittime; tuttavia, solo il 34% ritie-
ne accettabile la sua condotta, contro il 38% che la ritiene inaccettabile. È come se
l’opinione popolare riflettesse la posizione del governo: potete fare la guerra, ma
moderatevi.
Israele è diventato argomento di parte. È un fatto d’età e di orientamento poli-
tico. La differenza generazionale è lampante. Gli under 30 sono inclini a ritenere che
Õamås abbia motivi più validi di Israele per combattere (44 contro 35%) e inaccet-
tabile la condotta di quest’ultimo a Gaza (48%). Simpatizzano più per i palestinesi
(60%) e meno della metà di loro ha un’opinione positiva degli israeliani (46%),
percentuale crollata di 17 punti dal 2019. Non stupisce che accusino Biden di favo-
rire troppo Gerusalemme (36%) e si oppongano all’invio di armi (45 contro 16% a
favore). Sorprende invece che siano la fascia d’età più tiepida all’idea che gli Stati

10. J.T. MATHEWS, «What Was the Biden Doctrine?», Foreign Affairs, settembre-ottobre 2024.
11. R. HAASS, «The Trouble With Allies», Foreign Affairs, settembre-ottobre 2024.
12. L. SILVER ET AL., «Majority in U.S. Say Israel Has Valid Reasons for Fighting; Fewer Say the Same
184 About Hamas», Pew Research Center, 21/3/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

Uniti debbano avere un forte ruolo diplomatico nel conflitto (13%). È una resa, an-
che sulle capacità dell’America.
Il divario su Israele tra elettori repubblicani e democratici è noto. I numeri testi-
moniano due novità: il divario è diventato un abisso e la popolarità di Israele è crol- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

lata tra liberal e progressisti. I repubblicani ritengono valide le ragioni di Israele


(70%) e la sua condotta bellica (59%); i democratici faticano a legittimare le sue
motivazioni (52%) e non accettano la distruzione di Gaza (52%). Soltanto il 51% dei
primi simpatizza totalmente o più per lo Stato ebraico, ma la simpatia è colata a pic-
co tra i secondi (15%). Opposte le prospettive: la guerra renderà Israele più sicuro
per il 34% dei primi, meno sicuro per il 38% dei secondi. Aumentano le persone che
si sono fatte un’idea di come debba andare a finire, ma divergono a seconda della
fede politica. Fra i democratici l’opzione più cresciuta negli ultimi due anni è quella
dei due Stati (48%), fra i repubblicani quella dello Stato unico retto dagli ebrei (26%).
Su un punto però i due schieramenti concordano: l’America farebbe bene a
starsene alla larga. Appena la metà dei repubblicani è per fornire armi a Israele,
comunque il doppio dei democratici. Entrambi sono sfiduciati sulle possibilità degli
Stati Uniti di mediare una soluzione, rispettivamente 16 e 25%. Incrociando i punti
di vista, l’opinione maggioritaria (36%) è di chi non vorrebbe né aiuti a Gaza né
armi a Israele.
Oltre a raffreddarsi, in America il sostegno a Israele si tribalizza. L’Institute for
National Security Studies, centro studi di Tel Aviv attento ai fattori umani della
strategia, registra allarmato che la guerra è appoggiata da repubblicani, maschi,
bianchi, ultracinquantacinquenni; è invece osteggiata da democratici, donne, un-
der-35 e minoranze, neri in particolare 13.
Il crollo dell’immagine di Israele fra gli elettori democratici, in particolare fra i
più giovani, è dovuto alla deriva manichea della cultura progressista che divide il
mondo fra oppressori e oppressi. E appiattisce ogni conflitto a causa anticoloniale,
anti-imperialista, contro la supremazia bianca. Questione palestinese inclusa, anzi
eretta a battaglia simbolo della lotta per la giustizia sociale. Le manifestazioni per
Gaza nei campus universitari sono spesso diventate il megafono di altre cause co-
muni ai giovani liberal.
Il moralismo della sinistra non è l’unico a preoccupare Israele. Se lo si unisce
al tifo passivo della destra, ecco crearsi un ambiente meno amichevole alle priorità
dello Stato ebraico. Sta nascendo. Lo si è visto in campagna elettorale.

5. Kamala Harris non è famosa per avere opinioni solide. Da candidata alla
presidenza ha cambiato posizione su molti temi. I critici le danno della banderuo-
la. Le tensioni della sinistra sulla causa palestinese non potevano non metterla a
disagio. I suoi travagli raccontano che Israele è diventato argomento controverso
nel Partito democratico e dello stato della diaspora ebraica in America.

13. J.R. WEINBERG, R. MELLER, I. NOY-FREIFELD, «A Growing Divide in American Public Opinion of Israel»,
The Institute for National Security Studies, Inss Insight, n. 1835, 12/3/2024. 185
COME SI USA L’AMERICA

Pur impossibilitata a cambiare approccio rispetto a Biden, da mesi Harris manda


segnali di voler almeno cambiare retorica. A dicembre 2023, è stata la prima funzio-
naria di alto livello a criticare Israele: «Troppi palestinesi innocenti sono stati uccisi.
Francamente, la portata delle sofferenze civili e le immagini e i video che arrivano Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

da Gaza sono devastanti». Da candidata, si è detta «interamente a favore» della pausa


della consegna delle bombe da duemila libbre 14. Divisione del lavoro col presidente
per tranquillizzare gli elettori? Non sembra. Fra i due pare esserci proprio una divi-
sione netta sul grado di sostegno a Israele. I suoi consiglieri sono stati molto solerti
a diffondere alcuni dettagli. A Biden che diceva spesso di poter gestire Netanyahu
perché lo conosce da quarant’anni, Harris rispondeva: «Non puoi gestirlo, non può
funzionare». Il suo pastore, Amos Brown III, l’avrebbe implorata di battersi per i
palestinesi: «La loro lotta è la nostra lotta, come persone di colore oppresse »15.
Harris ha dovuto arginare l’emorragia nell’elettorato universitario e musulma-
no, quest’ultimo influente in Michigan, forte di 220 mila persone, potenzialmente
decisive in uno Stato che nelle ultime settimane prima del voto sembrava il più in
bilico del Midwest. Qui, alle primarie in primavera, in 100 mila avevano votato
«uncommitted» in protesta contro l’approccio di Biden alla guerra. Benché questo
comitato di protesta e un’organizzazione islamica abbiano annunciato l’intenzione
di votarla, l’emergenza non è del tutto rientrata.
Tra i democratici, Israele è diventato oggetto del contendere. Il governatore
della Pennsylvania Josh Shapiro, di fede ebraica, potrebbe essere stato scartato
come vice di Harris anche per via di una campagna martellante che lo ha definito
eccessivamente filo-israeliano. Per converso, due deputati di estrema sinistra, Cori
Bush (Missouri) e Jamaal Bowman (New York), sono stati battuti alle primarie più
costose della storia da candidati riccamente finanziati da lobby filo-israeliane con
l’esplicito intento di eliminare due delle voci più critiche dello Stato ebraico al
Congresso. La distruzione di Gaza ha scatenato proteste senza precedenti del per-
sonale del dipartimento di Stato e della Casa Bianca di Biden. Fra questi, anche
funzionari di alto livello come il viceconsigliere alla Sicurezza nazionale Jon Finer
o membri della cerchia di Harris come Phil Gordon e Ilan Goldenberg. La nuova
generazione dei professionisti di politica estera di formazione progressista, in cre-
scita negli apparati, sarà assai critica verso Israele.
L’elettorato ebraico non sta a guardare. Benché solidamente democratico (vo-
ta così il 70% circa), nello Stato di New York, secondo i sondaggi di agosto e set-
tembre del Siena College, la percentuale di ebrei americani che votano Trump si
aggira tra il 50 e il 54%. Quattro anni fa era il 26%. A suggerire che il motivo sia
l’atteggiamento dei democratici verso Israele è un altro dato nello stesso studio: il
capo della maggioranza democratica al Senato, il newyorchese Chuck Schumer, si
14. Le due citazioni precedenti, rispettivamente, in «Remarks by Vice President Harris on the Conflict
Between Israel and Hamas», White House, 2/12/2023; J. MAGID, «Harris says she backs Biden’s withhol-
ding of 2,000-pound bombs from Israel», The Times of Israel, 17/9/2024.
15. Entrambe le citazioni in Y. ABUTALEB, S. HARRIS, «Harris created distance from Biden on Gaza by
186 emphasizing Palestinian suffering», The Washington Post, 24/7/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

è spinto lo scorso marzo a chiedere le dimissioni di Netanyahu e nuove elezioni.


La sua popolarità è crollata dall’82 al 48% 16.
Più che raccontare delle chances elettorali di Harris, questi dati dicono molto
dei rapporti della diaspora con Israele e col resto degli Stati Uniti. In questi anni
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

era molto calata la legittimazione del governo Netanyahu tra gli ebrei d’America,
fra gli oppositori più strenui della riforma giudiziaria, del sionismo religioso, dell’oc-
cupazione della Cisgiordania. Tra i giovani, i sondaggi avevano iniziato a rilevare
un calante affetto per Israele. Cresceva una piccola minoranza di antisionisti. La
guerra ha radunato attorno alla Stella di Davide anche chi giura sulla bandiera a
stelle e strisce. Secondo il sondaggio del Pew, l’89% degli intervistati di fede ebrai-
ca ritiene valide le ragioni di Israele, più degli evangelici (74%), anche se il 33%
ritiene inaccettabile la sua condotta bellica. Eppure, la maggioranza continua a
pensare che la guerra debba finire con la creazione di uno Stato palestinese (46%,
opzione preferita). Insomma, la diaspora in America appoggia Israele in guerra,
non Netanyahu.
Tuttavia, l’antisemitismo è in crescita. Gli episodi di questo tipo sono più che
decuplicati, dai 751 del 2013 agli 8.873 del 2023, secondo i dati della Anti-Defama-
tion League 17. Oltre un terzo di cittadini ebrei riferisce maltrattamenti a causa della
propria fede, contro un 10% della media nazionale. E il 60% ha paura di esprimere
la propria affiliazione 18. La diaspora smette di sentirsi sicura in un paese dove le
ideologie politiche si stanno muovendo verso idee paranoiche, stereotipi e razzi-
smi sotto altro nome. Tanto a destra quanto a sinistra. La cultura dell’intolleranza
reciproca oggi diffusa negli Stati Uniti fa sentire precari gli ebrei. L’immagine di
America paese rifugio è a rischio? Di certo è una delle tante derive della libertà
d’espressione nella nazione eretta su di essa.

6. A Washington non c’è tempo per interrogativi così alti. Il dibattito strategico
su Israele è molto più serrato. La domanda è diventata: fino a che punto sostener-
li? Colpire duramente l’Iran o no? Il discrimine tra le varie posizioni non è la pro-
pensione alla guerra bensì la considerazione della Repubblica Islamica.
Si è prodotta infatti un’interessante convergenza. Gli eredi dei neoconservato-
ri negli apparati e la nuova destra trumpiana sono normalmente nemici per via
della riluttanza dei secondi a usare la forza. Entrambi però considerano l’Iran il
male assoluto, l’anello debole del gruppo dei rivali, e guardano con favore a un
attacco su vasta scala con la partecipazione attiva degli Stati Uniti per indebolire le
sue capacità militari (qualcuno invoca anche la distruzione delle installazioni nu-
cleari). Nella loro rappresentazione, gli ayatollah sono sensibili alle umiliazioni e
all’esibizione della forza – tutti ricordano come l’uccisione del generale Soleimani
sotto Trump calmò le acque per qualche tempo.
16. Sondaggi del Siena College Research Institute del 27-29 settembre 2020; 11-16 settembre 2024;
12-13 e 16-17 luglio 2024.
17. «Audit of Antisemitic Incidents 2023», Anti-Defamation League, 16/4/2024.
18. J.J. JONES, «Americans Show Heightened Concern About Antisemitism», Gallup, 1/7/2024. 187
COME SI USA L’AMERICA

Molti considerano un duro colpo all’Iran un’opportunità per mandare un mes-


saggio di risolutezza anche agli altri rivali e invertire la percezione di debolezza
dell’America nel mondo. Sperano di disarticolare il crescente allineamento Mo-
sca-Teheran. Sono i promotori dell’idea di fare di Israele un coleader di una coali- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

zione militare regionale antipersiana 19. In questo campo figurano anche diversi
militari ed ex funzionari d’intelligence che hanno speso l’intera carriera nelle guer-
re mediorientali e hanno un conto aperto con la Repubblica Islamica sin dall’atten-
tato di Beirut del 1982 contro i marines. L’incognita è Trump stesso, che potrebbe
tentennare davanti al rischio di mettersi al comando di un nuovo grande conflitto
in Medio Oriente, vista l’impopolarità tra gli americani.
Sull’altro lato della barricata, l’attuale amministrazione democratica ha fatto
dell’appeasement con l’Iran il pilastro con cui normalizzare il Medio Oriente. Buo-
na parte del personale civile ha partecipato ai negoziati per l’accordo sul program-
ma nucleare del 2015, ha provato a riesumarlo dal 2021 e considerava una disten-
sione possibile fino a che a settembre Israele l’ha volontariamente minata allargan-
do la guerra al Libano. La sua linea principale di politica estera, qui come in
Ucraina o nell’Indo-Pacifico, è evitare escalation o, meglio, di finire in guerra diret-
tamente con le potenze rivali. Anche a costo di accettare prolungamenti dei con-
flitti in corso. Cerca di contenere Israele e i benefici da trarre dal suo operato al
Levante (indebolire Õamås, Õizbullåh, volendo anche i pasdaran in Siria), senza
permettere a Netanyahu di portare la guerra in Iran. Buona parte del personale
militare è in questa corrente dei cauti perché sempre più orientata sull’Indo-Pacifi-
co e portata a vedere questo conflitto come una distrazione.
La linea di faglia non divide nettamente democratici e repubblicani. I figli dei
neocon sono ormai migrati tra i democratici (ritorno alle origini). Kamala Harris ha
persino definito l’Iran «il nostro principale avversario» in un’intervista su tutt’altro
(forse era più un appello all’elettorato ebraico o magari un messaggio alla Cina). E
una nuova presidenza Trump manterrebbe comunque delle cautele. In ogni caso,
man mano che la guerra Israele-Iran si approfondirà, le quotazioni dei sostenitori
di un duro colpo alla Repubblica Islamica aumenteranno. Per inerzia del conflitto,
per scelta obbligata, per volontà d’Israele.

19. Per un’esposizione di questo punto di vista, rimandiamo a R. GREENWAY, «L’America deve creare
188 un’alleanza arabo-israeliana contro l’Iran», Limes, 5/2024, «Misteri persiani», pp- 221-228.
LA NOTTE DI ISRAELE

IL DILEMMA DEGLI USA:


EVITARE L’ESCALATION Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

O INDEBOLIRE L’IRAN? di Scott SMITSON

Se Israele sposta la guerra da Õamås all’impero persiano, l’America


si interroga: approfittarne per colpire Teheran e dedicarsi a Cina e
Russia oppure limitare l’alleato come in passato? Senza assistenza
militare statunitense, niente attacchi al nucleare iraniano.

1. I L CONFLITTO IN CORSO FRA ISRAELE, IRAN


e il cosiddetto asse della resistenza ribadisce l’importanza di un rapporto bilatera-
le fra gli Stati Uniti e lo Stato ebraico, ma anche l’inevitabile tensione del rapporto
stesso quando i due paesi perseguono interessi divergenti in tempi di guerra.
Storicamente, Washington sostiene Gerusalemme nelle fasi iniziali di un con-
flitto o di una crisi. Ma in quasi tutti gli eventi bellici del passato – come le guerre
in Libano del 2006 e del 1982 o le numerose operazioni a Gaza e in Cisgiordania
– finisce per fare pressione sull’alleato affinché termini le ostilità. Lo fa quando
diventano evidenti tre fattori. Primo, il conflitto rischia di innescare un’escalation
orizzontale ed espandersi nella regione. Secondo, la condanna internazionale delle
vittime civili supera gli obiettivi tattico-militari e i fatti sul terreno. Terzo, un ulterio-
re balzo in avanti di Israele rischia di attirare altre grandi potenze, rendendo mon-
diale la guerra regionale, come quella del Kippur del 1973. Insomma, gli Stati
Uniti sostengono quasi sempre Israele in tempo di crisi, ma quel sostegno ha du-
rata limitata al protrarsi del conflitto.
Benché il rapporto bilaterale si sia evoluto dalla fondazione dello Stato ebraico
nel 1948, è sempre stato nell’interesse degli Stati Uniti difendere Israele da minacce
esistenziali – visti i crescenti legami politici, economici, militari e d’intelligence –
ma senza innescare effetti di secondo o terzo ordine che minacciassero interessi di
pari o superiore importanza. Il «limite di avanzata» delle considerazioni strategiche
di Israele si ferma al suo territorio nazionale, ai territori occupati e ai vicini: lo Sta-
to ebraico, infatti, non ha mai avuto il ruolo di garante egemonico della sicurezza
e della stabilità che hanno avuto gli americani dal 1945 e gli inglesi prima di loro.
Questo crea un dilemma per gli Stati Uniti: alcuni degli obiettivi strategici che
garantirebbero la sicurezza di Israele a lungo termine – confini smilitarizzati, avver-
sari indeboliti – possono essere raggiunti solo attraverso una ristrutturazione pro- 189
190
PERCENTUALE DI POPOLAZIONE EBRAICA NEGLI STATI UNITI 10,8% - 31,4%
4,6% - 10,7%
1,6% - 4,5%
0,1% - 1,5%
WASHINGTON

1
MONTANA NORTH
DAKOTA
OREGON M
IC 3 2
H
IG
WISCONSIN

MINNESOTA
SOUTH A 4
IDAHO WYOMING N
DAKOTA NEW YORK
5 6

IOWA PENNSYLVANIA
NEVADA NEBRASKA 7
OHIO
9
S TAT I U N IT I ILLINOIS 8
UTAH
INDIANA
WEST
COLORADO VIRGINIA
KANSAS VI RG I NI A
MISSOURI
IL DILEMMA DEGLI USA: EVITARE L’ESCALATION O INDEBOLIRE L’IRAN?

CALIFORNIA KE N T UCKY
N OR T H
C AR OL I NA
ARIZONA OK L A HO MA T EN N E SS EE
A R KA N SA S S OU T H
NEW C A ROL I N A
MEXICO

GEOR G IA
A L A B A MA
M ISS ISS IP PI

T E X AS
FLORIDA
LOUIS IA NA 1 - MA I NE
2 - N EW HA MPS HI R E
3 - V E R MONT
ALASKA
4 - MA SSACH US E T TS
5 - CONN E C T I C U T
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

6 - RHODE ISLAND
HAWAII 7 - NE W J ER S E Y
8 - DE L AWAR E
9 - MARYLAND
LA NOTTE DI ISRAELE

fonda e violenta dell’equilibrio di potenza regionale. Qualcosa che metterebbe a


repentaglio l’interesse americano a un Medio Oriente stabile. Storicamente gli Stati
Uniti hanno preferito tornare alla situazione prebellica più che dare a Israele il
potere di creare una nuova realtà geopolitica, come successo con la «nuova mappa»
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

tracciata in seguito alla guerra dei Sei giorni nel 1967. Questo schema si è presen-
tato con costanza negli ultimi decenni, ma il conflitto in corso potrebbe rovesciarlo.

2. Arginare Israele è una logica che da decenni governa i rapporti degli Stati
Uniti con lo Stato ebraico. Lo si vede per esempio nel «vantaggio militare qualitati-
vo», espressione che nel gergo militarese di Washington indica la condizione di
vendere armi ai paesi arabi a patto di lasciare a Israele le tecnologie belliche di
punta. Queste ultime aumentano il valore deterrente dello strumento militare isra-
eliano, permettendogli di compensare con la qualità i vantaggi quantitativi degli
eserciti circostanti. Ma, dipendendo dalle capacità tecnologiche statunitensi, Israele
non è in grado di condurre escalation pericolose.
Un altro strumento per smorzare le preoccupazioni dell’alleato – e dissuadere
le sue campagne preventive contro gli attori ostili – sono gli accordi bilaterali di
sicurezza. Pur non al livello dei classici trattati di reciproca difesa sullo stile della
Nato o di quelli con Giappone e Corea del Sud, hanno giocato un ruolo cruciale
nei calcoli americani e israeliani. E sono stati un potente segnale per gli avversari
regionali dei due paesi.
Infine, gli Stati Uniti hanno usato il loro rango di grande potenza come ponte
fra Israele e il Medio Oriente, specialmente in tempi di crisi e conflitti. Gli esempi
sono innumerevoli. La cosiddetta diplomazia delle navette di Henry Kissinger du-
rante la guerra del Kippur fu cruciale per arrivare alla fine delle ostilità. Gli Stati
Uniti furono poi essenziali nel negoziare una distensione permanente fra Egitto e
Israele con gli accordi di Camp David. Durante la guerra civile libanese, Washing-
ton fece forti pressioni su Gerusalemme affinché ritirasse i propri contingenti,
mentre si impegnava in quella che si sarebbe poi rivelata una disastrosa operazio-
ne di peacekeeping, terminata col primo attacco di Õizbullåh all’ambasciata statu-
nitense di Beirut, in cui morirono 241 marines. Negli anni Novanta, gli americani
svolsero un ruolo importante negli accordi di Oslo fra israeliani e palestinesi. E di
recente l’amministrazione Trump ha promosso gli accordi di Abramo, promettendo
un aumento dell’integrazione economica mediorientale.
Questi strumenti sono serviti in passato a bloccare tentativi di escalation e
guerra preventiva di alcuni governi israeliani. Per esempio, lo squilibrio nel rappor-
to bilaterale ha frustrato i tentativi occasionali di Binyamin Netanyahu di adottare
un approccio più muscolare contro le minacce percepite come esistenziali. La di-
namica è arrivata persino a coinvolgere la politica interna di entrambi i paesi, come
si è visto nel caso dell’adozione dell’accordo sul programma nucleare iraniano del
2015, quando lo stesso Netanyahu si è rivolto al Congresso minacciando di sabo-
tarlo, una mossa che ha fatto infuriare l’amministrazione Obama e precipitare i
rapporti bilaterali al punto più basso a memoria d’uomo. 191
IL DILEMMA DEGLI USA: EVITARE L’ESCALATION O INDEBOLIRE L’IRAN?

3. Dopo dodici mesi è chiaro che il cuore della guerra non è più solo lo scon-
tro fra Israele e Õamås a Gaza ma si estende alla rete di surrogati e clienti di Tehe-
ran nota come asse della resistenza – o «rete della minaccia iraniana», come defini-
ta nei circoli militari e d’intelligence a Washington. Dagli attacchi di Õizbullåh a
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

nord a quelli degli õûñø a sud fino ai vettori d’instabilità in Siria e Iraq, nell’ultimo
anno abbiamo visto in diretta l’Iran impiegare un pezzo importante della sua gran-
de strategia: l’uso di minacce simultanee e multidirezionali per imporre costi signi-
ficativi a Israele.
La risposta degli Stati Uniti è stata fornire allo Stato ebraico munizioni, intelli-
gence e assistenza anti-aerea, come dimostrato dall’intercettazione di diversi droni
e missili provenienti dall’Iran nell’aprile e nell’ottobre 2024. Altre forme di aiuto
sono state molto più controverse, come le munizioni impiegate con effetti deva-
stanti su Gaza. Infine gli Stati Uniti guidano l’Operazione Prosperity Guardian, la
coalizione di oltre venti paesi che cerca di mitigare la minaccia degli õûñø al traffico
marittimo nel Mar Rosso e a Båb al-Mandab.
Nonostante questo sostegno, essenziale per la difesa del territorio dello Stato
ebraico, l’impiego della forza da parte di Israele al di fuori dei suoi confini ha spin-
to il conflitto in una direzione che mostra quanto gli interessi strategici di Washing-
ton e Gerusalemme siano in contrasto fra loro. Le uccisioni mirate dei capi di
Õamås, Õizbullåh e dei Guardiani della rivoluzione iraniani nel Levante dimostra-
no che Israele si sente autorizzato a perseguire obiettivi militari molto più grandi
del mero indebolimento militare di Õamås. Con l’incursione in Libano, l’enfasi si è
spostata sul confine settentrionale. Avendo sgombrato tre quarti di Gaza, Israele si
è rivolto a un nemico ben più potente: Õizbullåh.
Due sembrano essere i fattori trainanti di questa decisione. Primo, il governo
di Gerusalemme ha annunciato l’intenzione di mettere in sicurezza la frontiera
settentrionale per far tornare a casa i 70 mila sfollati dalle zone evacuate dopo il 7
ottobre per timore di un’operazione simile a quella di Gaza da parte di Õizbullåh.
Secondo, fonti israeliane riferiscono che lo stesso Õizbullåh sembrava sul punto di
condurre un attacco in grande stile, anche se l’informazione non è confermata.
Per affrontare la minaccia a nord, Israele dovrà riuscire nella difficile impresa
di estirpare Õizbullåh da posizioni molto radicate. Se ci riuscisse, genererebbe di
fatto un cuscinetto fra sé e il Libano. In un certo senso, l’incursione di terra mira a
creare nei fatti quello che sarebbe dovuto accadere con la risoluzione 1701 del
Consiglio di Sicurezza dell’Onu, introdotta alla fine della guerra in Libano del 2006.
Il documento predisponeva il ritiro di Israele dal sud e quello di Õizbullåh dal nord
del fiume Lø¿ånø, oltre a istituire una forza di peacekeeping e monitoraggio, la mis-
sione Unifil. Nel tempo, però, la milizia libanese è tornata a stabilirsi a sud del
Lø¿ånø e a costituire una minaccia. Lo si è visto chiaramente dopo il 7 ottobre, quan-
do queste stesse forze hanno condotto attacchi di varia intensità contro lo Stato
ebraico.
Per Õizbullåh, ingaggiare Israele serviva a dimostrare solidarietà a Õamås, a
192 sfoggiare certe capacità e a dissuadere lo Stato ebraico dall’allargare il conflitto.
LA NOTTE DI ISRAELE

Tuttavia, a un certo punto di questi dodici mesi, probabilmente quando a inizio


estate le operazioni a Gaza sono giunte all’apice, la strategia di Õizbullåh di «deter-
renza punitiva» è fallita. E ora Israele concentra tutti i suoi sforzi nel tentativo di
indebolire la milizia libanese e nel disarticolare le strutture di comando e controllo
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dei Guardiani della rivoluzione nel Levante.


Tuttavia, questi due importanti strumenti della strategia di Teheran sono sem-
pre stati descritti come una linea rossa da parte degli analisti, dello stesso regime
iraniano e persino di un numero considerevole di membri dell’establishment isra-
eliano. Si è sempre ritenuto che colpirli avrebbe portato a una guerra diretta fra la
Repubblica Islamica e lo Stato ebraico, un conflitto che si dava per scontato che
nessuno dei due volesse. Oggi però non è chiaro se i presupposti dell’equilibrio di
potenza regionale reggano ancora. Il Medio Oriente sembra sul punto del più gran-
de riassetto dai tempi dell’invasione americana dell’Iraq nel 2003 o addirittura del-
la rivoluzione islamica nel 1979.

4. Se accettiamo che Israele abbia spostato gli obiettivi bellici da Õamås agli
snodi dell’asse della resistenza e alle capacità strategiche dell’Iran, allora gli Stati
Uniti si trovano di fronte a un dilemma geostrategico significativo.
Da un lato, il regime iraniano ha rappresentato una persistente minaccia per
gli interessi americani. Da decenni è un attore destabilizzante i cui intenti strategici
includono la definitiva fuoriuscita degli Stati Uniti dal Medio Oriente. E in quanto
potenza nucleare latente rischia di essere una minaccia esistenziale per molti part-
ner degli americani nell’area. Da questo punto di vista, una Repubblica Islamica
seriamente indebolita, privata di alcuni strumenti di proiezione regionale e già
appesantita da un’economia poco performante sarebbe una manna per gli obietti-
vi strategici degli Stati Uniti, fra cui rientra evitare la proliferazione nucleare. Un
simile sviluppo permetterebbe a Washington di concentrarsi maggiormente su Ci-
na e Russia.
Dall’altro lato, se Israele allarga la mappa allarga anche la guerra. Ciò compor-
terebbe un coinvolgimento americano in un momento in cui nessun presidente
desidera dedicare grandi risorse ai conflitti in Medio Oriente. Lo Stato ebraico po-
trebbe certo iniziare un attacco strategico alla Repubblica Islamica. Ma non potreb-
be finirlo senza una significativa assistenza americana per via di alcuni particolari
requisiti operativi.
Mentre scriviamo, Israele valuta una serie di obiettivi per rispondere al recente
attacco missilistico iraniano del 1° ottobre scorso. Tutti questi bersagli comporte-
rebbero costi significativi per il regime: attacchi aerei e missilistici su basi e infra-
strutture militari; un colpo devastante agli impianti petroliferi, una delle principali
fonti di reddito del paese; un attacco per degradare o rendere inefficace il nascen-
te programma atomico dell’Iran.
Benché abbia dimostrato di saper condurre operazioni contro obiettivi militari
e petroliferi, attaccare le infrastrutture nucleari va oltre le capacità delle Forze di
difesa israeliane. Anzitutto, per quanto forte, l’Aeronautica non possiede bombar- 193
IL DILEMMA DEGLI USA: EVITARE L’ESCALATION O INDEBOLIRE L’IRAN?

dieri a lungo raggio e i suoi caccia, anche di alto profilo come gli F-35, non posso-
no trasportare le munizioni necessarie a distruggere in profondità i bunker nei
quali sono protetti gli impianti nucleari iraniani. Israele non possiede nemmeno
quelle bombe, in dotazione solo agli Stati Uniti. Inoltre, lo Stato ebraico non dispo- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

ne delle massicce capacità di rifornimento in volo richieste da una campagna come


questa; quelle che possiede sono antiquate e lo saranno finché all’inventario non
verranno aggiunte nuove aviocisterne. E, di nuovo, ad avere queste capacità di ri-
fornimento sono solo gli Stati Uniti.
Al di là delle risorse per condurre l’attacco, Israele avrebbe bisogno anche
della potenza militare americana per gestire le inevitabili risposte iraniane. In par-
ticolare, gli Stati Uniti dovrebbero fornire molte più difese anti-aeree rispetto al
dispositivo occasionalmente schierato per respingere gli attacchi missilistici iraniani
del 2024. Dovrebbero inoltre aumentare le forniture di intercettori per i sistemi
difensivi israeliani come Iron Dome e David’s Sling, così come i mezzi navali per
affrontare le attività iraniane presso i colli di bottiglia marittimi.
Al 13 ottobre, queste manovre sono già in corso. Gli Stati Uniti hanno inten-
zione di schierare il sistema missilistico Thaad in Israele. Sviluppo significativo
perché, benché non numeroso in termini di vettori come il Patriot, questo sistema
è composto da armi strategiche, cioè a lunga gittata, che irrobustiscono le difese
anti-aeree dello Stato ebraico. Non si tratta di misure di deterrenza, poiché il Thaad
è uno strumento prettamente difensivo. Ciò vuol dire che Israele ha intenzione di
svolgere una missione importante e che gli Stati Uniti si premuniscono in vista di
una possibile reazione massiccia dell’Iran.
Se Israele colpisse il programma nucleare iraniano, Teheran non rispondereb-
be solo contro lo Stato ebraico, ma metterebbe nel mirino interessi americani nella
regione, comprese le basi in Kuwait, Qatar, Bahrein e Arabia Saudita. I pianificato-
ri militari statunitensi ne terranno conto e dovranno aumentare le misure di prote-
zione (difese antimissile, mezzi aerei e navali) in questi paesi. Insomma, per quan-
to chirurgico e limitato, un attacco alle infrastrutture atomiche in Iran allargherebbe
la risposta al di fuori di Israele. Saremmo di fronte alla grande guerra regionale
paventata da molti.
Il primo ministro Netanyahu, il presidente Biden, l’ayatollah Khamenei e gli
altri leader mediorientali sono ovviamente tutti consapevoli di queste dinamiche.
Semmai divergono sui livelli di tolleranza del rischio, sugli incentivi, sulle pressioni
politiche e sulle linee rosse – le quali peraltro sono largamente date per scontate
ma, come hanno più volte dimostrato questi ultimi dodici mesi, non sono più così
chiare o ben comunicate. Nonostante gli sforzi dell’amministrazione Biden volti a
ridurre l’intensità del conflitto o anche solo ad avviare temporanei cessate-il-fuoco,
la storia è piena di esempi di grandi potenze trascinate in conflitti iniziati da paesi
più piccoli. E attirate nel vortice contro i loro stessi interessi.

(traduzione di Federico Petroni)


194
LA NOTTE DI ISRAELE

ODI ET AMO
TRA MOSCA Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

E TEHERAN di Mauro
DE BONIS
I legami tra Russia e Iran non sono mai stati così stretti, ma le
incomprensioni restano. I casi del corridoio di Zangezur e delle isole
contese nel Golfo Persico. La politica occidentalista di Pezeshkian.
Tra Israele e gli ayatollah il Cremlino preferirebbe non scegliere.

1. L O SCONTRO TRA REPUBBLICA ISLAMICA E


Stato ebraico sottopone la tenuta del sodalizio russo-iraniano alla prova più ar-
dua. Mosca dovrà scegliere da che parte stare? Abbandonare il paese degli ayatol-
lah al suo destino o assisterlo nel conflitto contro Israele, altro suo prezioso part-
ner regionale? Nel dubbio il Cremlino mantiene una necessaria e collaudata am-
biguità, perché non può permettersi di interrompere la relazione con l’Iran né di
tagliare i ponti con gli israeliani. Nel rispetto di un drammatico copione, familiare
anche agli altri attori, la Federazione Russa non ha soluzioni per la bagarre in
scena sul palcoscenico mediorientale. E può correre il rischio concreto di com-
mettere qualche errore rovinoso, perdere il terreno finora guadagnato nella regio-
ne e compromettere le sorti del conflitto contro Kiev, che la vedono al momento
in vantaggio.
Mosca ha tentato di evitare che il Medio Oriente prendesse fuoco. Postura
contraria a quella affibbiatale da quanti l’hanno additata quale regista occulto del
caos regionale scatenato dalla mattanza del 7 ottobre 2023. Allora come oggi, l’i-
nasprimento della crisi può, almeno a breve termine, togliere visibilità e risorse
occidentali alla guerra d’Ucraina, coi prezzi dell’energia che probabilmente salireb-
bero, a tutto vantaggio delle casse russe. Ma nel lungo periodo una totale destabi-
lizzazione dell’area sarebbe una sciagura per i disegni geopolitici della Federazio-
ne Russa, col rischio di un consistente ritorno in presenza di americani armati di
tutto punto e del forzato abbandono dei progetti imbastiti con altre potenze regio-
nali. La vera aspirazione del Cremlino sarebbe invece quella di mettere pace tra i
contendenti. Di portarli fuori dalla crisi e acquisire così prestigio e reputazione.
Vera superpotenza mediatrice invece di quella a stelle e strisce, che Mosca accusa
di aver mal interpretato il ruolo di pacificatrice che si era attribuita. Gestione cata-
strofica che ha spinto la regione sull’orlo del baratro, accusa Marija Zakharova, 195
ODI ET AMO. TRA MOSCA E TEHERAN

portavoce del ministero degli Esteri russo, un completo fallimento dell’amministra-


zione Biden 1.
Difficile per Mosca subentrare a Washington. La priorità è trovare il giusto
equilibrio e mantenere, se possibile rafforzare, le relazioni con i duellanti, soprat- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

tutto quelle macchinose intrecciate con la Repubblica Islamica dopo l’inizio della
campagna ucraina. Legame nato in precedenza come matrimonio d’interesse e te-
nuto assieme dalla comune condotta anti-americana, oggi più strategico ma non
privo di ostacoli, attriti e incertezze. A cominciare dal programma del nuovo presi-
dente iraniano Masoud Pezeshkian, fresco «riformatore», capo di Stato benedetto
dalla Guida suprema per riallacciare con Stati Uniti e satelliti occidentali, alleggeri-
re il peso delle sanzioni e ricalibrare la cooperazione con la Russia, e con la Cina,
stando bene attento al dibattito tutto iraniano sulla convenienza di gettare anima e
cuore tra le grinfie dei due giganti eurasiatici. Controversia traducibile con: «Se
Washington ci riapre le porte, siamo pronti a ridimensionare le aspettative di Mo-
sca e Pechino nei nostri riguardi?».
Possibile. Del resto anche nelle stanze del potere moscovita questo retropen-
siero si nasconde da qualche parte. In linea con l’infedeltà che ha punteggiato una
relazione oggi messa a dura prova da Israele. Che, con una guerra, può prendere
due piccioni, ovvero mettere in crisi il legame russo-iraniano e spezzare sul nasce-
re le velleità occidentaliste della nuova leadership persiana. Il Cremlino però diffi-
cilmente accetterà di perdere il sostegno di un «alleato» importante per l’andamen-
to dei combattimenti in terra ucraina. E pedina essenziale per realizzare quella
svolta verso Oriente prevista da tempo ma che oggi appare vitale dopo lo squarcio
al momento non tamponabile con l’Occidente a guida americana. La leadership
russa, come sempre, preferirebbe non scegliere tra Iran e Israele, conferma a Limes
Andrej Kortunov, direttore del Russian International Affairs Council (Riac). Mosca,
continua l’analista russo, ha bisogno di entrambi come partner regionali, ma la lo-
gica del conflitto russo-ucraino e di quello mediorientale spinge Mosca più vicina
all’Iran e più lontana da Israele.

2. Ci sono delle priorità per la Federazione Russa. E queste la spingono a im-


postare con Teheran una relazione non più solo di convenienza, ma che si avvia a
diventare strategica. Almeno nelle attuali intenzioni. Osserviamo infatti, spiega an-
cora Kortunov, una rapida espansione del rapporto bilaterale in molti campi, da
quello tra istituzioni politiche a quello economico, dall’intreccio di legami che
Teheran ha imbastito con Mosca e Pechino attraverso importanti istituzioni non
occidentali, fino a quello militare. Settore, questo, che al momento più preme al
Cremlino, non intenzionato a rinunciare all’utilizzo di armamenti iraniani sui campi
di battaglia ucraini. Parliamo soprattutto di droni consegnati alle truppe di Mosca,
che in cambio acconsente a inviare aerei ed elicotteri da combattimento per l’ad-
1. «Zakharova ukazala na proval mirotvor0eskoj missii SŠA na Bližnem Vostoke» («Zakharova ha sot-
tolineato il fallimento della missione americana di mantenimento della pace in Medio Oriente»), iz.ru,
196 2/10/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

destramento dei piloti iraniani e consegnare, forse entro la fine dell’anno, anche i
sospirati caccia Su-35 2. Assistenza trascurabile perché i russi non intendono sguar-
nire le proprie truppe impegnate altrove, ma che logica vuole possa aumentare in
caso di guerra aperta tra Teheran e Tel Aviv. Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Quella che invece non sarebbe ancora avvenuta è la fornitura a Mosca di mis-
sili balistici made in Iran. Una vera e propria querelle innescata da tante dichiara-
zioni occidentali di avvenuta consegna, come quelle del segretario di Stato ameri-
cano Antony Blinken che, citando rapporti dell’intelligence a stelle e strisce, accusa
gli iraniani di aver fornito ai russi un primo lotto di Fath-360, vettori adatti a colpi-
re città ucraine a ridosso del fronte di guerra. In cambio dei quali il Cremlino
avrebbe condiviso con la Repubblica Islamica segreti nucleari 3, probabilmente per
velocizzare la realizzazione della Bomba. Accuse a cui non sono seguite prove, né
avvistamenti di questo tipo di armamenti sulla linea del fuoco ucraina 4. Ma che
hanno fatto scattare a settembre nuove sanzioni americane contro Iran e Russia, la
cui partnership in via di sviluppo, spiega il dipartimento di Stato, minaccia la sicu-
rezza europea e accresce l’influenza destabilizzante di Teheran in Medio Oriente e
nel mondo.
Per questo Washington si impegna a utilizzare ogni strumento atto a impedi-
re l’esportazione di armi iraniane, specie quelle destinate alle truppe russe che
combattono contro Kiev. E punisce la Iran Air come «elemento chiave» del traffico
di armi illecito, oltre a due compagnie di navigazione con sede in Russia ree di
aver trasportato attrezzature militari iraniane attraverso il Mar Caspio 5. Inutili le
reiterate smentite delle autorità iraniane, col neopresidente Pezeshkian pronto a
giurare che, da quando è entrato in carica, ovvero a fine luglio 2024, nessuna
fornitura in armi è stata effettuata alle Forze armate di Mosca, tantomeno agli õûñø
yemeniti 6.
Il rapporto militare resta comunque un punto fermo nella cooperazione rus-
so-iraniana. Seguito da quello economico, che pure in affanno – col fatturato com-
merciale diminuito l’anno scorso di circa il 20% 7 – mette in campo molti progetti
congiunti. A cominciare dagli importanti investimenti di Gazprom nel settore di sua
competenza e dall’implementazione delle infrastrutture necessarie a sviluppare lo
strategico Instc (Corridoio internazionale di trasporto Nord-Sud) per connettere
San Pietroburgo all’India evitando le consuete rotte commerciali. Fino all’accordo
sulla fornitura di gas russo a Teheran raggiunto a giugno ed elogiato qualche set-
2. N. SMAGIN, «Russia Is Being Drawn Deeper Into the Middle East Conflict», Carnegie Politika,
14/8/2024.
3. D. SABBAGH, «Alarm in UK and US over possible Iran-Russia nuclear deal», The Guardian, 14/9/2024.
4. M. MOTAMEDI, «Is Iran supplying ballistic missiles to Russia for the Ukraine war?», Al Jazeera,
11/9/2024.
5. «New Iran and Russia Sanctions Designations», U.S. Department of State, 10/9/2024.
6. «Iran. Prezident Islamskoj Respubliki Masud Peseškian delaet neodnozna0nye zajavlenija v otno-
šenii Rossii» («Iran. Il presidente della Repubblica Islamica Masoud Pezeshkian fa dichiarazioni con-
troverse sulla Russia»), ng.ru, 26/9/2024.
7. K. KIRILLOVA, «Moscow Considers Borrowing From Tehran’s Economic Model to Weather Sanctions»,
Eurasia Daily Monitor, vol. 21, n. 133, 17/9/2024. 197
ODI ET AMO. TRA MOSCA E TEHERAN

timana fa da Pezeshkian che, all’epoca della firma, non era ancora a capo della
Repubblica Islamica. Affermazioni rilasciate dal neopresidente durante l’incontro
col primo ministro russo Mikhail Mišustin per parlare d’affari, dove il leader irania-
no ha etichettato il contratto come un «eccellente esempio di cooperazione» che Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

spingerà il paese islamico a diventare uno hub regionale del gas e che, insieme agli
altri concordati piani di lavoro, servirà a compensare le «crudeli sanzioni» occiden-
tali. Il flusso giornaliero di 300 milioni di metri cubi di gas non è ancora iniziato,
ma aspetta la costruzione dell’apposita conduttura di trasporto che Mosca si è im-
pegnata a realizzare sui fondali del Mar Caspio, antagonista nello stesso bacino al
gasdotto Est-Ovest tra Turkmenistan e Azerbaigian e parte del già citato corridoio
Instc, direzione Nord-Sud 8.
I due paesi, nonostante le difficoltà legate alla somiglianza tra le due econo-
mie, puntano giocoforza sul rapporto reciproco per alleviare il fardello delle san-
zioni (la Russia col primato mondiale di circa ventimila, seguita a distanza dall’Iran
con circa quattromila 9) e dell’isolamento imposti dall’Occidente. Relazione che
necessita però di più fiducia e conoscenza dell’altro, lacuna che Mosca cerca di
colmare prevedendo nel programma scolastico 2024-25, solo per le classi corri-
spondenti alle nostre medie e secondarie, l’insegnamento di posizione economi-
co-geografica, risorse naturali e popolazione della Repubblica Islamica, che il do-
cumento del ministero dell’Istruzione diretto ai professori indica come partner
strategico della Federazione Russa 10. La materia andrà ad affiancarsi allo studio dei
consueti paesi asiatici come Cina, India e Giappone.

3. Restano però nel rapporto tra Mosca e Teheran alcune zone d’ombra che la
crisi mediorientale e il comune destino di reietti dell’Occidente tendono a coprire.
Dissidi pronti a riesplodere se il legame tra le due si dovesse allentare per favorire
indigeribili interessi di paesi terzi invisi all’una o all’altra. Segnale di una relazione
in divenire, calata in realtà regionali alla ricerca di una stabilità ancora tutta da de-
finire. Come quella del Caucaso meridionale, orfano trentennale del padre-padro-
ne sovietico, oggi conteso da interessi e spinte contrapposti di paesi in aperta
competizione. E dove si è consumato da poco l’ultimo atto del ruvido contrasto tra
Cremlino e Repubblica Islamica legato alla realizzazione del corridoio di Zangezur,
il varco terrestre previsto nell’Armenia meridionale a ridosso del confine iraniano
per collegare l’Azerbaigian alla sua exclave di Naxçıvan. Un percorso che Teheran
teme possa impedirle di mantenere l’accesso diretto a Erevan, suo prezioso partner
caucasico. Inoltre, la Repubblica Islamica è preoccupata che tale progetto possa
incrinare la sua sicurezza nazionale, visto che l’opera andrebbe a consolidare il
8. «Iranian President Locks In Gas Pipeline Deal with Russia», The Moscow Times, 1/10/2024.
9. A. KORTUNOV, «Russia’s Economy: Short-Term and Long-Term Challenges», Russian International
Affairs Council, 1/10/2024.
10. M. ŽOLOBOVA, N. KONDRAT’EV, «Minprosveš0enija vvelo v školakh izu0enie ekonomiki Irana kak
“strategi0eskogo partnëra” Rossii i posledstvij kolonizacii Afriki» («Il ministero dell’Istruzione ha intro-
dotto nelle scuole lo studio dell’economia dell’Iran come “partner strategico” della Russia e le conse-
198 guenze della colonizzazione dell’Africa»), istories.media, 9/9/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

0 10 km LE BASI RUSSE IN SIRIA


Strade
Latakia Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

- missili Kinzhal Agglomerati


- batteria S-400 Triumph dispiegata nel 2015 urbani
- aerei cargo Antonov An-124 Ruslan e Ilyushin Il-76M
- caccia Sukhoi Su-24Ms, Su-25s, Su-34s
- aerei per lo spionaggio elettronico Ilyushin Il-20M
Jablah - aereo da ricognizione e guerra elettronica Tupolev Tu-214R
Humaymīm
.
e o

- dal 2021 bombardieri strategici Tu-22M3 ‘Backfire’ e caccia pesanti Su-35


(Quartier - carri armati T-90
a n

generale russo) - blindati anfibi Btr-82


M e d i t e r r

- elicotteri Mi-24, Mi-28, Mi-8, Ka-52

S I R I A
Bāniyās
M a r

Latakia
- centro di supporto logistico e di manutenzione Humaymīm
.
- 4 navi militari di medie dimensioni
Dal 2017 la Russia ha ottenuto per Tartūs
. . S I R I A
49 anni il controllo e la sovranità
sul territorio della base. Può ampliare
l’infrastruttura per consentire l’attracco
di navi a propulsione nucleare

Tartūs
. .

rapporto tra Baku e Ankara, targata Nato dunque avversaria nella regione. Il rischio
è rendere porosa quella parte di frontiera dove gli azeri potrebbero autorizzare agli
amici israeliani spiacevoli sortite in territorio iraniano.
Anche la Guida suprema Khamenei si era scagliata a fine luglio contro il cor-
ridoio di Zangezur. Seguito qualche settimana più tardi da altri membri della lea-
dership iraniana, furiosi sia per la visita del presidente russo Putin in Azerbaigian
sia per le dichiarazioni del ministro degli Esteri Lavrov a favore della realizzazione
del passaggio, da lasciare, d’accordo con Baku, al controllo russo. «Siamo contro
qualsiasi cambiamento geopolitico nel Caucaso» hanno tuonato gli iraniani a ini-
zio settembre 11, fino a farsi sentire da Mosca, avvertendo col capo della diploma-
zia Seyed Abbas Araghchi come ogni minaccia all’integrità territoriale dei vicini e
ogni ridefinizione dei confini fossero da considerare una linea rossa invalicabile.
Il Cremlino è corso ai ripari e per non compromettere l’amicizia con gli ayatollah

11. «Iran rebukes Russia over its policy shift on Zangezur corridor», iranintl.com, 2/9/2024. 199
ODI ET AMO. TRA MOSCA E TEHERAN

ha spedito in fretta a Teheran Sergej Šoigu, segretario del Consiglio di sicurezza,


col compito di appianare le divergenze e sostenere, come prontamente riportato
dall’agenzia di stampa iraniana Irna, gli interessi della Repubblica Islamica relati-
vi a corridoi e vie di trasporto azeri 12. Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Tutto rientrato? Ufficialmente sembrerebbe di sì. Ma l’evoluzione nelle dina-


miche di assestamento geopolitico sia in Medio Oriente sia nella regione cauca-
sica può riservare sorprese e sovvertire velocemente rapporti di forza e partner-
ship collaudate. E riproporre un nodo critico come quello del corridoio di Zan-
gezur da sciogliere con altre modalità. Così come potrebbe tornare sotto i riflet-
tori la collisione russo-iraniana legata a tre piccole isole contese nel Golfo Persi-
co. Vicenda che ha portato alle vibrate proteste iraniane contro la decisione
della Federazione Russa di rilasciare una dichiarazione congiunta al termine del
Forum di cooperazione russo-araba del dicembre scorso, nella quale – appog-
giando gli Emirati Arabi Uniti – Mosca è intervenuta sostenendo l’avvio dei ne-
goziati tra i due contendenti per risolvere pacificamente la questione sulla sovra-
nità di questo arcipelago. Abu Musa, Grande Tunb e Piccola Tunb, i territori di-
sputati, sono incastonati strategicamente nello Stretto di Hormuz e a oggi con-
trollati da Teheran che li considera da sempre parte integrante del suo territorio.
Come spiegato dalle autorità iraniane a Pechino quando, come Mosca, si era
espressa l’anno precedente in favore di una soluzione negoziale per determinar-
ne l’appartenenza 13.
Gli screzi sulle isole tra Repubblica Islamica, Russia e Cina si erano comun-
que risolti senza gravi danni, anche perché la presidenza iraniana, ancora gestita
da Ebrahim Raisi e dal suo staff conservatore, era proiettata con convinzione ver-
so una più che stretta collaborazione con i due giganti eurasiatici. Ma queste
questioni avevano comunque sollevato, insieme a quella del corridoio azero, le
critiche di parte dell’opinione pubblica, delle élite e dei media iraniani nei con-
fronti della politica pro russa nella guerra d’Ucraina. Tema ripreso il 23 settembre
scorso in quel di New York dal riformatore Pezeshkian, che ha definito l’opera-
zione militare di Mosca un’aggressione mai sostenuta da Teheran. Il presidente
iraniano si è anche detto sicuro di una risoluzione del conflitto attraverso il dialo-
go e pronto a discuterne con Stati Uniti e Unione Europea. Atteggiamento in linea
col suo programma di apertura all’Occidente e, ovviamente, con le perplessità di
alcuni membri della sua squadra sullo stringere a doppia mandata i futuri rappor-
ti col Cremlino. Mentre un attonito Peskov, portavoce del presidente russo, met-
teva una pezza augurandosi che la cooperazione tra i due paesi possa continuare
ed espandersi 14.

12. E. MAMEDOV, «Order restored to Iranian-Russian relations after geopolitical row», eurasianet.org,
19/9/2024.
13. A. ZELTYN’, L. ZELTYN’, D. KHATAI, «Masud Pezeškian i iranskij “Vzljad na Vostok”» («Masoud Peze-
shkian e lo “sguardo a est” dell’Iran»), Russia in Global Affairs, 1/9/2024.
14. I. SUBBOTIN, «Tegeran pytaetcja zavoevat’ doverie Zapada krikitoj SVO» («Teheran cerca di conqui-
200 stare la fiducia dell’Occidente criticando la Svo»), ng.ru, 24/9/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

4. Il nuovo corso del presidente Pezeshkian, caratterizzato dall’apertura all’Oc-


cidente e da una possibile benché parziale rilettura dei rapporti con Mosca, si im-
batte però quasi subito con una profonda crisi mediorientale e con il possibile
scontro frontale con Israele. Al netto di un’autonomia decisionale limitata – tradot- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

to: l’ultima parola spetta comunque alla Guida suprema – il nuovo presidente ira-
niano ha iniziato il suo mandato deciso a tentare un riavvicinamento agli Stati
Uniti e ai loro alleati europei, con l’obiettivo primario di convincere Washington a
ridurre il peso delle sanzioni che tanto gravano sull’economia del paese.
Egli mira insomma a rivedere, senza rovinare, le relazioni con la Russia e la
Cina, con l’appoggio anche di quel Mohammad Javad Zarif già ministro degli Este-
ri con Rohani e adesso vicepresidente per gli Affari strategici della Repubblica
Islamica. Politico navigato che spesso ha criticato la Federazione Russa a proposito
del Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action), il naufragato accordo sul nucleare
iraniano del 2015, o della condotta nella guerra siriana. Zarif ha disapprovato l’in-
vio di armi alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, rendendo pubbliche le sue
preoccupazioni circa un irrealistico legame con Mosca, pronta, secondo lui, a sfrut-
tare Teheran e a impedirle di normalizzare le relazioni con Washington per timore
di vedere l’Iran nel campo avverso 15. Oltre alla sua voce, anche quella di altri uo-
mini di Stato si è fatta sentire, come quella dell’ex ambasciatore a Baku Afshar
Soleimani, secondo il quale il Cremlino starebbe giocando con il suo paese a
vantaggio dei soli russofili interni e avrebbe ingannato l’Iran anche su questioni
regionali, come quelle caucasiche, caspiche e centrasiatiche 16.
C’è chi si è spinto persino oltre, ma in definitiva la posizione di Pezeshkian
resta di vicinanza con la Russia, complice forse anche la già citata visita di Šoigu a
Teheran, durante la quale si è ribadito che le relazioni continueranno a svilupparsi
in maniera continua e duratura 17. Non si dimentica l’appoggio che Mosca e Pechi-
no hanno riservato all’isolata Repubblica Islamica nei momenti più bui, né il regi-
me sanzionatorio impostole dagli Stati Uniti e dall’Europa. Senza trascurare il fatto
che la crisi mediorientale ha rimescolato le carte e affievolito i buoni propositi di
apertura verso un Occidente schierato con Israele. Un cambiamento è possibile,
chiarisce ancora Andrej Kortunov, solo se gli americani dimostrano più flessibilità
nei confronti dell’Iran di quanto non facciano ora, con l’amministrazione Biden che
sostiene – forse con riluttanza, ma fermamente – la posizione eccezionalmente ri-
gida di Tel Aviv su Teheran. In sostanza, conclude, Washington non ha nulla o
molto poco da offrire agli iraniani.
Mosca invece è pronta a concludere con l’amico islamico quell’accordo di
partenariato strategico ventennale che il presidente Putin ha approvato a metà
settembre, da firmare col presidente Pezeshkian a margine del vertice Brics di Ka-
zan’, in terra russa, di fine ottobre. Ma stando a quanto riporta la Tass potrebbe

15. A. ZELTYN’, L. ZELTYN’, D. KHATAI, op. cit.


16. A. AZIZI, «Iran’s Russia Problem», The Atlantic, 23/9/2024.
17. «Putin security chief meets Iranian president in Tehran as military ties deepen», The Times of Israel,
17/9/2024. 201
ODI ET AMO. TRA MOSCA E TEHERAN

essere stipulato in un altro momento, in apposito incontro bilaterale per celebrarne


così la solennità che merita 18. O forse per capire meglio come evolveranno le tur-
bolenze che investono il Medio Oriente. Dove il Cremlino non può abbandonare
l’Iran rinunciando al suo sostegno nella guerra ucraina e ai condivisi progetti eu- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

rasiatici vitali per la sua futura tenuta. Ma la Russia non può neppure separarsi
definitivamente da Israele, a meno che, secondo Kortunov, non sia Israele ad ab-
bandonare Mosca.

202 18. «Iran-Russia treaty on comprehensive cooperation ready for signing – ambassador», Tass, 4/10/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

LA CINA NON VUOL CADERE Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

NELLE GUERRE D’ISRAELE FAN Hongda di

Lo scontro aperto tra Stato ebraico e Iran danneggerebbe i piani


eurasiatici di Pechino. I rapporti con Gerusalemme sono gelidi. Da
sola la Repubblica Popolare non può portare i belligeranti al tavolo
negoziale. Armando Netanyahu, Washington scoraggia la pace.

1. C OME ACCADUTO DOPO LO SCOPPIO DELLA


guerra in Ucraina, ora la Cina è considerata una potenziale beneficiaria della crisi
iniziata il 7 ottobre 2023 con l’incursione di Õamås in Israele. In particolare, si ri-
tiene che quanto sta accadendo potrebbe mettere in buona luce le sue politiche in
Medio Oriente rispetto a quelle di Washington.
Eppure, la Repubblica Popolare Cinese è contraria all’intensificarsi delle ostili-
tà. Tantomeno desidera che inizi una guerra vera e propria tra lo Stato ebraico e
l’Iran. L’argomentazione secondo cui l’instabilità in questa parte di mondo favori-
rebbe Pechino contro l’America è priva di fondamento. Gli eventuali vantaggi che
tali dinamiche generebbero sarebbero irrilevanti a fronte delle possibili sfide.

2. Lo scoppio della crisi in Medio Oriente avvenuto lo scorso anno ha posto la


Repubblica Popolare davanti a un primo problema: il deterioramento dei rapporti
con Israele. All’inizio Pechino non ha condannato Õamås per l’attacco nel territorio
dello Stato ebraico. Piuttosto, ha chiesto a entrambe le parti di abbassare i toni e
ha affermato per l’ennesima volta che la soluzione dei due Stati è la chiave per ri-
solvere il conflitto israelo-palestinese.
La scelta cinese ha innescato le critiche di Gerusalemme, acuite dalla posizione
che Pechino ha assunto tra Stato ebraico e Iran. Lo scorso aprile, la Cina ha espli-
citamente condannato l’attacco israeliano contro la sezione consolare dell’amba-
sciata della Repubblica Islamica a Damasco. Tuttavia, non ha fatto altrettanto con
la successiva offensiva militare su larga scala sferrata da Teheran contro Israele. A
ciò si aggiunga che tra il 2023 e il 2024 Gerusalemme e Taiwan hanno avuto diver-
se interazioni ufficiali, cosa che ha inquietato particolarmente Pechino.
Sembra che le relazioni sino-israeliane siano entrate in un circolo vizioso. Lo
Stato ebraico era uno dei partner chiave della Repubblica Popolare in ambito tec- 203
LA CINA NON VUOL CADERE NELLE GUERRE D’ISRAELE

nologico e scientifico. Difficilmente nel breve termine assisteremo allo scenario


degli anni passati, in cui Gerusalemme resisteva alle pressioni degli Stati Uniti per
mantenere relazioni amichevoli con Pechino. Anzi, il raffreddamento dei rapporti
bilaterali potrebbe spingere la lobby americana filo-israeliana a sostenere posizioni
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

più ostiche da parte di Washington contro la Cina. Soprattutto alla luce dell’attuale
stato di tensione tra le prime due potenze al mondo.
Le turbolenze nel cuore dell’Eurasia non favoriscono neanche la Belt and Road
Initiative (Bri, nuove vie della seta). L’iniziativa cinese si concentra sullo sviluppo
economico e sociale e sull’integrazione regionale imperniata su sicurezza e stabili-
tà. Il Medio Oriente è una delle principali aree di attuazione del progetto. Quindi
il suo futuro è di particolare interesse per la Repubblica Popolare. Nell’ultimo de-
cennio la collaborazione tra Pechino e i paesi mediorientali ha prodotto notevoli
risultati, favorendo l’allineamento tra le nuove vie della seta e le iniziative naziona-
li. Si pensi al caso dell’Egitto con il piano di sviluppo del corridoio del Canale di
Suez. Oppure all’Arabia Saudita con il progetto Vision 2030. In una certa misura, la
Bri aveva alimentato stabilità e pace nella regione.
Molti all’estero vedono le nuove vie della seta come un ambizioso piano di
espansione, ma si tratta di un equivoco. Il progetto rappresenta innanzitutto una
soluzione alle difficoltà interne che ostacolano lo sviluppo cinese. In maniera simi-
le, alcuni considerano la crescente attenzione di Pechino verso enti internazionali
come l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco) e i Brics (consesso
composto da Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, più altri paesi) come un modo
per affrontare gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali. In realtà, gli sforzi cinesi
in questo ambito consistono più che altro in una replica passiva al crescente con-
tenimento attuato da Washington contro la Repubblica Popolare. In parte, anche
le nuove vie della seta rispondono a tale logica.
Dato il significativo indebolimento economico registrato a causa dell’epidemia
di Covid-19, la Cina non ha intenzione di sfidare attivamente l’America. Soprattutto
in Medio Oriente, dove Pechino non ha allestito alcun piano in proposito. Al con-
trario, il governo cinese cerca di concentrarsi sullo sviluppo domestico e sulla co-
operazione con altri paesi, senza accrescere la rivalità diretta con Washington.
Ovviamente l’escalation dei conflitti regionali o peggio ancora lo scontro diret-
to tra Israele e Iran distoglierebbero gli attori mediorientali dallo sviluppo di tali
attività e danneggerebbero le nuove vie della seta. Inoltre, metterebbero ulterior-
mente in luce la limitata influenza della Cina nel campo della sicurezza. Sebbene
in Medio Oriente diversi Stati abbiano attribuito grande importanza alla presenza
economica della Repubblica Popolare, quando si tratta di stabilità nazionale e re-
gionale il loro primo pensiero non è rivolgersi a Pechino. Semmai molti fanno
ancora affidamento sulla protezione di Washington, il cui fascino resta forte mal-
grado anni di frustrazione determinata dalle politiche degli Stati Uniti e dall’eviden-
te danno causato agli equilibri regionali dalla relazione speciale con Israele.
Tra i paesi ancora legati all’America vi sono anche Stati del Golfo come la
204 stessa Arabia Saudita, sempre più connessa economicamente alla Cina. Il peggio-
LA NOTTE DI ISRAELE

ramento della crisi in Medio Oriente accrescerebbe la dipendenza di tali attori dagli
Stati Uniti, consentendo a questi ultimi di interferire nelle nuove vie della seta. Così
le iniziative economiche e diplomatiche di Pechino nella regione subirebbero un
ridimensionamento. Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

3. Malgrado l’aumento del risentimento di Gerusalemme verso la Repubblica


Popolare, non c’è dubbio che la posizione cinese nei confronti del conflitto israe-
lo-palestinese sia in linea con le risoluzioni delle Nazioni Unite e con l’atteggia-
mento della maggioranza dei paesi su scala globale. Inoltre, da quando la guerra
tra Israele e Õamås è iniziata, in più occasioni Pechino ha chiesto l’immediato
cessate-il-fuoco e la risoluzione della disputa attraverso l’ampiamente dibattuta
soluzione dei due Stati. La Repubblica Popolare ha sostenuto la pace anche quan-
do si è intensificato lo scontro tra Israele da una parte e Õizbullåh, õûñø e Iran
dall’altra.
Inoltre, bisogna sottolineare che la Cina si è astenuta dal compiere azioni che
potessero esacerbare il conflitto. Non ha fornito armi e munizioni alle parti in guer-
ra e non è intervenuta militarmente al fianco di una di esse. Perciò è stata ricono-
sciuta da diversi paesi, specialmente in Medio Oriente, come promotrice genuina
e neutrale della pace. Questa tendenza è diventata particolarmente evidente dopo
che a Pechino nel 2023 il governo cinese ha facilitato l’accordo tra Arabia Saudita
e Iran per stabilire le relazioni diplomatiche bilaterali.
Al contrario, la dualità nella risposta americana alla crisi in corso è evidente.
Mentre il confronto tra Stato ebraico e Iran cresce, Washington predica la pace ma
continua a sostenere in maniera tangibile Israele. Infatti, le fornisce armi e assisten-
za nell’intercettazione di missili e droni iraniani e con il Regno Unito ha sferrato
diversi attacchi aerei contro gli õûñø in Yemen.
Se si vuole la pace, non ci si può schierare con uno dei belligeranti. Del resto,
la politica mediorientale condotta dagli Stati Uniti nel corso degli anni è uno dei
fattori alla base della permanente instabilità regionale. Più forte sarà l’offensiva
militare di Israele maggiore sarà il danno all’immagine dell’America, in quanto suo
principale sostenitore. In effetti, da questo punto di vista la crisi mediorientale offre
alla Cina un’opportunità per trarre qualche vantaggio nella partita con gli Usa.
Non solo. Se Israele e Iran iniziassero una guerra aperta, Washington sarebbe
inevitabilmente coinvolta. Cosa che Gerusalemme desidera da tempo, in particola-
re da quando è iniziato il mandato del primo ministro Binyamin Netanyahu. Con-
siderando come sono andate le guerre condotte dall’America in Iraq e Afghanistan,
viene da chiedersi se questo paese possa battere facilmente la Repubblica Islamica
e poi tirarsi fuori dal campo di battaglia.
Dobbiamo anche tenere conto del fatto che il conflitto in corso in Ucraina ha
già consumato un significativo quantitativo di risorse statunitensi. L’apertura di un
altro fronte in Medio Oriente richiederebbe un impegno ancora più grande. Negli
Stati Uniti, repubblicani, democratici e opinione pubblica condividono l’idea per
cui la Cina sia la principale minaccia agli interessi nazionali e perciò è su di essa 205
LA CINA NON VUOL CADERE NELLE GUERRE D’ISRAELE

che bisogna concentrarsi. Quasi certamente una guerra tra Israele e Iran degenere-
rebbe in un conflitto di portata globale e la pressione americana sulla Cina diminu-
irebbe, almeno temporaneamente.
Washington vede la Repubblica Popolare come una minaccia alla propria in-
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

fluenza regionale, ma vale la pena sottolineare che dalla prospettiva di Pechino


non sussiste una competizione del genere. A oggi, la Cina è ben consapevole di
non poter destabilizzare il ruolo degli Usa in Medio Oriente giacché vi mantengono
una significativa presenza militare e numerose basi. Pechino riconosce lo stato
delle cose ufficialmente e in pubblico. Perciò coloro che in Cina analizzano razio-
nalmente la questione non considerano possibile che il nostro paese sfidi in ma-
niera diretta la primazia regionale dell’America.

4. Insomma, contrariamente a quanto molti pensano, per la strategia cinese i


problemi derivanti dal caos mediorientale sarebbero di gran lunga superiori alle
occasioni. La crisi a Gaza dura ormai da oltre un anno e ora il conflitto si è esteso
al Libano. Dopo che l’Iran ha lanciato un’altra rappresaglia contro Israele il 2 otto-
bre, la possibile guerra tra i due paesi è diventata un pericolo concreto. Una spada
di Damocle pende sul mondo e potrebbe minarne gli equilibri.
Lo Stato ebraico e gli Stati Uniti considerano la Repubblica Islamica come la
principale minaccia della stabilità mediorientale. Tuttavia, se si analizza quanto
accaduto lo scorso anno ci si rende conto che la più grande minaccia in questo
senso è proprio il governo Netanyahu. Nel concreto, Gerusalemme è ansiosa di
trascinare Teheran in una guerra poiché ciò costringerebbe Washington a interve-
nire e a lanciare attacchi direttamente contro l’Iran. In altre parole, userebbe la
potenza militare a stelle e strisce per indebolire in modo significativo o addirittura
rovesciare la Repubblica Islamica. Per Netanyahu, che attualmente è una figura
molto controversa nello Stato ebraico, una grande vittoria militare potrebbe servire
per deviare l’inevitabile responsabilità interna che dovrà affrontare una volta termi-
nata la guerra. Come, per esempio, quella inerente al motivo per cui Israele ha
scontato un disastro così terribile la mattina del 7 ottobre 2023.
Qualora scoppiasse la guerra tra Israele e Iran, senza dubbio Washington si
schiererebbe con Gerusalemme e altrettanto farebbero alcuni alleati dell’America.
In un modo o nell’altro la Cina resterebbe coinvolta in un simile scenario, inne-
scando il malcontento degli Stati Uniti e dei suoi partner oppure dell’Iran e dei suoi
sostenitori. Per evitare di attirare le critiche di entrambi gli schieramenti, alla fine
Pechino sarebbe costretta a sceglierne uno, ma ciò la porrebbe davanti a nuove
pericolose sfide.

5. La capacità cinese di promuovere la pace in Medio Oriente è relativamente


limitata, mentre è risaputo che gli Stati Uniti sono il paese che più di ogni altro
influenza Gerusalemme. Il sostegno americano, specie in termini di fornitura di
armi, è un fattore chiave per il proseguimento delle operazioni militari israeliane e
206 certamente non favorisce la fine della crisi. Inoltre, sarebbe difficile conseguire la
LA NOTTE DI ISRAELE

stabilità di lungo periodo in Medio Oriente senza risolvere la questione palestinese.


La posizione intransigente di Israele è uno dei principali ostacoli a questa svolta.
Anche per tutelare il proprio interesse nazionale, Washington dovrebbe riconside-
rare la sua politica nei confronti dell’alleato. Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Pechino non vuole assolutamente assistere all’escalation della crisi. Sebbene


Repubblica Popolare e Stati Uniti siano fortemente in disaccordo su molti argomen-
ti, condividono la medesima posizione quando si tratta di prevenire il conflitto tra
Gerusalemme e Teheran. Entrambe auspicano la pace ma sono in disaccordo sui
mezzi necessari per conseguirla. Essendo le due potenze più influenti su scala
globale, Usa e Cina hanno la responsabilità di dare un contributo positivo, sia in-
dividualmente sia congiuntamente, al mantenimento e alla costruzione della stabi-
lità in Medio Oriente.

(traduzione di Giorgio Cuscito)

207
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9
LA NOTTE DI ISRAELE

ISRAELE
DIVIDE Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

L’ITALIA di Germano
DOTTORI
La ragion di Stato induce Roma ad allinearsi a Gerusalemme.
L’opinione pubblica teme l’allargamento del conflitto in Medio
Oriente e in qualche caso simpatizza con l’‘asse della resistenza’
guidato dall’Iran. Quanto è occidentale il nostro paese?

1. L O SCOPPIO DI QUALSIASI GUERRA DI UNA


certa rilevanza crea forte disagio all’Italia. I conflitti delineano schieramenti che
tendono a sollecitare il sostegno del resto del mondo. S’innestano conseguente-
mente dinamiche che riducono gli spazi grigi e gli ambiti per i distinguo e le «equi-
vicinanze» care alla nostra tradizione. Ognuno viene chiamato a una scelta poten-
zialmente gravida di conseguenze. Ciò pone in imbarazzo il nostro paese. Chi
crede di non avere nemici, teme naturalmente di procurarsene allineandosi a uno
dei belligeranti. È per questo motivo, oltre che per intrinseca debolezza, che la
diplomazia italiana ha escogitato nel tempo molteplici termini e concetti per con-
ciliare l’inconciliabile ed evitare o almeno rinviare le decisioni percepite come ec-
cessivamente laceranti e compromettenti.
Gli esempi non mancano. Per non alienarci la Germania mentre interloquiva-
mo con Regno Unito e Francia in attesa di vedere come sarebbero andate le prime
battaglie, rimandammo di qualche mese l’entrata nella seconda guerra mondiale
proclamando la «non belligeranza». Concetto che avremmo riesumato nel 2003 per
non partecipare all’Operazione Iraqi Freedom. Durante la guerra fredda, fummo
tra i fondatori dell’Alleanza Atlantica, senza però rinunciare a sviluppare una poli-
tica di apertura nei confronti dell’Unione Sovietica che avrebbe persino permesso
alla Fiat di costruire una fabbrica a Togliattigrad e al nostro paese di importare il
metano siberiano. Più recentemente, dal 24 febbraio 2022 sosteniamo gli sforzi
delle Forze armate ucraine addestrandone le reclute, fornendo a Kiev supporto
economico e materiali d’armamento utilizzati contro gli invasori russi – finora ben
nove pacchetti di aiuti – precisando tuttavia che il nostro paese non si considera
nemico di Mosca. Indipendentemente da ciò che pensano al Cremlino.
Questo paradigma è stato applicato anche alla nostra politica in Medio Orien-
te. Qui ci siamo votati all’acrobazia permanente, volendo confermare il nostro an- 209
ISRAELE DIVIDE L’ITALIA

coraggio geopolitico all’Occidente euroatlantico, ma dovendo altresì tener contro


dell’esigenza di garantirci gli approvvigionamenti energetici necessari alla prospe-
rità del nostro sistema produttivo. Così, offrimmo un contributo importante alla
nascita e al consolidamento dello Stato d’Israele, formandone le unità d’élite sul Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

modello dei nostri incursori e consentendo l’attraversamento del nostro territorio


alle armi con le quali Tel Aviv avrebbe difeso la propria indipendenza. Analoga-
mente, aiutammo con discrezione lo Stato ebraico anche nel momento più critico
della guerra dello Yom Kippur. Altri aspetti di questa postura non poterono mai
essere ufficializzati. In particolare, quelli legati alla libertà concessa sul suolo italia-
no agli agenti dell’intelligence israeliana, oggetto di una brillante analisi da parte di
Eric Salerno 1.
Tuttavia, per non alienarci il mondo arabo dal quale importavamo petrolio e
allo stesso tempo per proteggerci dagli attentati con i quali dopo la guerra dei Sei
giorni le organizzazioni palestinesi cercavano di attirare l’attenzione dell’Occidente,
facemmo qualcosa di simile anche nei confronti dei nemici d’Israele. Trattammo
con loro sottobanco agli inizi degli anni Settanta quello che sarebbe passato alla
storia come «lodo Moro» 2. Non tutto andò benissimo: si registrarono incidenti an-
cora controversi che convinsero i nostri governi a una maggiore prudenza. Conse-
guentemente, il «bilanciamento» attuato sarebbe venuto alla luce soltanto quando
la maturazione di alcune condizioni sulla scena internazionale lo avrebbe consen-
tito. Si dovette attendere il 15 settembre 1982 per assistere alla prima visita di Yasser
Arafat in Italia. Visita avvenuta non senza polemiche all’indomani della conclusione
della missione nel cui ambito i nostri militari avevano contribuito a proteggere lo
sgombero dei palestinesi da Beirut dopo la fine dell’Operazione Pace in Galilea
voluta dell’allora primo ministro israeliano Menachem Begin.
Di tutto questo, esisteva ovviamente anche un aspetto interno. Se da un lato le
maggioranze dominanti in parlamento garantivano la tenuta del nostro rapporto
con gli Stati Uniti e l’Alleanza Atlantica, dall’altro c’erano parte del mondo cattolico,
frange neofasciste forse memori delle invettive di Mussolini contro le «demopluto-
crazie» e il Partito comunista che simpatizzavano apertamente per i palestinesi.
Quest’ultimo mimava l’atteggiamento assunto in Medio Oriente dall’Unione Sovie-
tica e dai suoi satelliti. Al netto del cambiamento delle sigle, tale schieramento
eterogeneo è in parte ancora vivo. Lo prova il fatto che alla dimostrazione ProPal
indetta a Roma il 5 ottobre scorso abbiano aderito tanto un movimento di estrema
destra come Forza Nuova quanto la galassia dell’antagonismo di sinistra.

2. Siamo ufficialmente Occidente a livello governativo, ma con profonde sacche


di Oriente nel tessuto della nazione. Infatti, alla condivisione solo parziale del senso
di appartenenza al «mondo libero» fa da contraltare la popolarità delle cause anti-oc-
cidentali, determinando contrasti che s’infiammano ogni qual volta scoppino conflit-
ti nelle regioni in cui queste realtà sono a contatto e si combattono come adesso.
1. E. SALERNO, Mossad Base Italia: le azioni, gli intrighi, le verità nascoste, Milano 2010, il Saggiatore.
210 2. Cfr. V. LOMELLINI, Il “lodo Moro”. Terrorismo e ragion di Stato 1969-1986, Roma-Bari 2021, Laterza.
LA NOTTE DI ISRAELE

È uno schema a cui non si sfugge. Ne è un’evidenza il fatto che nella nostra
opinione pubblica si riscontri una significativa sovrapposizione da un lato tra chi si
sente vicino all’Ucraina aggredita e chi sta con Israele «senza se e senza ma» e
dall’altro tra coloro che sposano «a prescindere» i punti di vista di russi, cinesi, ve-
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

nezuelani, iraniani e dei sostenitori arabi dell’islam politico. In costanza di crisi, ri-
sulta difficile promuovere il ragionamento. Piuttosto dominano le pulsioni emotive,
con tutti i conseguenti pregiudizi cognitivi, che tendono a selezionare le informa-
zioni in entrata filtrandole secondo la propria griglia di convinzioni. Questa è la
cornice di riferimento in cui vanno inquadrate anche le reazioni agli eventi succe-
dutisi dal 7 ottobre 2023. Incluse quelle meno razionali tra le tante registratesi dopo
gli attacchi dei soldati di Gerusalemme ai peacekeepers delle Nazioni Unite.
Ogni conflitto ha le proprie specificità. Nessuna guerra è mai uguale a un’altra
se non per il triste corredo di morti, odio e distruzione che l’accompagna. L’attuale
ciclo di violenze che sta insanguinando il Medio Oriente è iniziato con un atto di
macroterrorismo che aveva suscitato un livello inusuale di solidarietà nei confronti
dello Stato ebraico. Tuttavia, forse non si è fatto tutto ciò che si poteva per conso-
lidare queste simpatie, che alla prova dei fatti si sono rivelate effimere.
In particolare, Israele ha rinunciato a divulgare le immagini più drammatiche
del pogrom perpetrato ai suoi danni da Õamås, preferendo onorare il desiderio
delle famiglie in lutto di non vedere pubblicati i video degli ultimi momenti di vita
dei propri congiunti. Con un insolito compromesso, in Italia e altrove la loro frui-
zione è stata conseguentemente circoscritta a pochi politici, giornalisti e opinion
leader: alcune decine di persone in tutto, alla cui capacità comunicativa la diplo-
mazia israeliana si è affidata. Una scelta moralmente ineccepibile, che tuttavia ha
indebolito la narrazione di Gerusalemme. Con l’effetto di rendere incomprensibile
e inaccettabile ai più la durezza della successiva reazione su Gaza, di cui invece
osserviamo da mesi gli esiti sugli schermi piccoli e grandi di tutto il mondo. Nel
duello tra parole e immagini non c’è storia: vincono le seconde.
L’asprezza della risposta israeliana avrebbe comunque suscitato emozioni ne-
gative, ma forse sarebbe stata in parte metabolizzata. Tanto più che il concetto di
vendetta è tutt’altro che estraneo alla cultura del nostro paese. Poco importa che
almeno un terzo degli uccisi nella Striscia fosse costituito da miliziani che si erano
fatti scudo dei civili: la morte e la mutilazione documentate di migliaia di bambini
e donne hanno suscitato sgomento, pietà e riprovazione nel pubblico del nostro
paese. E sono un elemento di sofferenza anche per i non pochi amici che Israele
ha in Italia. Agli occhi di tantissimi nostri connazionali, conseguentemente, le vitti-
me si sono rapidamente trasformate in carnefici. L’allargamento della risposta al
Libano ha ulteriormente complicato il quadro. Specialmente dopo lo scoppio della
crisi innescata dagli spari dell’Esercito israeliano contro le basi Unifil e dal coinvol-
gimento negli incidenti dei suoi avamposti 1-31 e 1-32A, gestiti dai militari italiani.

3. Già prima di questo evento, pochi comprendevano la logica dell’attacco


ibrido sferrato contro Õizbullåh facendo esplodere i cercapersone dei suoi dirigen- 211
ISRAELE DIVIDE L’ITALIA

ti, uccidendone il leader Õasan Naârallåh, bombardandone le roccaforti e infine


effettuando un’offensiva terrestre nella zona di confine. Inoltre, non tutti tra quelli
che hanno creduto di averla capita si sono dimostrati disponibili a sottoscriverla.
Al momento, il governo israeliano sembra aver adottato una strategia simile a Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

quella abbracciata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, perseguendo obiettivi che
oltrepassano di molto il ristabilimento della dissuasione e tendono alla modifica
degli equilibri geopolitici nell’intero Medio Oriente. Per questo motivo adesso alla
figura di Binyamin Netanyahu vengono associati non soltanto gli eccessi di violen-
za, ma altresì un’arroganza in cui molti vedono niente altro che l’ultima estrema
affermazione della prepotenza globale dell’Occidente: ciò contro cui protestano
appunto gli «antagonisti» di tutte le fazioni appena scesi in strada.
Alle condanne più o meno esplicite e ai disordini di piazza va sommato anche
lo scetticismo di non pochi esperti, che ritengono il progetto ben al di là delle at-
tuali possibilità israeliane e paventano l’esacerbazione dell’odio reciproco tra le
parti. L’irruzione sulla scena dei missili degli õûñø e soprattutto di quelli iraniani, fra
i quali pare anche alcuni vettori ipersonici, ha da ultimo generato una non trascu-
rabile ondata di paura tra i nostri connazionali. Paura che alcuni sondaggi hanno
prontamente rilevato già prima dell’incidente occorso ai caschi blu 3.
L’opinione pubblica è frastornata. È lontana culturalmente dalle logiche cui
s’impronta l’uso della forza e completamente a digiuno di quella che nel 1966 Tho-
mas Schelling definì «diplomazia della violenza». Così, osserva sbigottita le distru-
zioni e le catastrofi umanitarie dell’ultimo anno, temendo di esserne in qualche
modo risucchiata 4. Eccitata da qualche dichiarazione forse troppo impulsiva, ora è
attraversata anche da tendenze neonazionaliste, che si sono fatte largo specialmen-
te tra coloro che non sono consapevoli delle realtà geostrategiche fondamentali in
cui ci muoviamo. Chi era anti-israeliano ora lo è di più. Si è registrata persino una
ripresa dell’antisemitismo, un mostro che in Europa risorge di continuo dalle pro-
prie ceneri. Anche molti di coloro che si sentono più vicini allo Stato ebraico han-
no finito col deplorarne più o meno a bassa voce la mancanza di misura, sperando
che finisca tutto al più presto.
Risulta difficile spiegare all’uomo comune in che modo la sopravvivenza d’I-
sraele (una potenza nucleare) sia stata messa in discussione da avversari tanto più
poveri e meno avanzati dal punto di vista tecnologico come Õamås, Õizbullåh e lo
3. Stando alle rilevazioni di Demopolis, i timori degli italiani per le conseguenze del conflitto iniziato il 7
ottobre 2023 sono costantemente aumentati, parallelamente all’auspicio di una tregua. Di recente, inoltre, un
sondaggio condotto congiuntamente dall’Ispi e dall’Ipsos ha quantificato l’ampiezza del distanziamento da
Israele dell’opinione pubblica del nostro paese: soltanto il 21% dei nostri connazionali riterrebbe comprensibile
la risposta data da Gerusalemme al pogrom di Õamås, contro il 49% di quelli che la definiscono una
catastrofe umanitaria sproporzionata al diritto di autodifesa dello Stato ebraico. Con riferimento al paese dei
Cedri, il 40% raccomanderebbe agli israeliani di raggiungere un compromesso con Õizbullåh, contro il 13%
dei favorevoli a colpirlo da lontano e l’8% che sosterebbe l’invasione del Libano meridionale. Soltanto il 5%
degli italiani riterrebbe doveroso per il nostro governo appoggiare incondizionatamente Israele. L’8%
vorrebbe un sostegno senza riserve alla causa palestinese. Un altro 17% farebbe altrettanto, ma condannando
Õamås. Il 69% chiedeva al governo di adoperarsi per una mediazione tra le parti che scongiurasse l’escalation.
Cfr. «Sondaggio Ispi: un anno di guerra in Medio Oriente», Ispi, 7/10/2024.
212 4. T.C. SCHELLING, The Diplomacy of Violence, in Arms and Influence, New Haven 1966, Yale University Press.
LA NOTTE DI ISRAELE

stesso Iran. Sfugge il vero problema: il futuro d’Israele dipende più che mai dalla
sua capacità di proteggere gli ebrei dalle aggressioni. Se abitare in Terrasanta di-
ventasse troppo rischioso, l’intero progetto andrebbe in frantumi. La comprensione
di questo dato è più importante che mai se si desidera prevenire reazioni scompo- Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

ste, prese sull’onda del risentimento e senza calcolarne attentamente le conseguen-


ze. Gerusalemme combatte per la sua sopravvivenza, o così crede, mentre alcuni
di noi vorrebbero farlo (fortunatamente ancora a parole) per il diritto internaziona-
le: entro orizzonti diversi, e soprattutto con effetti differenti sulla reale disponibilità
individuale a uccidere e farsi ammazzare.

4. Questi dati di fondo hanno trovato un riflesso nelle scelte di posizionamen-


to dei partiti italiani. Alcuni di loro non hanno mancato di rimproverare al governo
Meloni la presunta timidezza dimostrata nel criticare la condotta d’Israele prima
che il ministro della Difesa Guido Crosetto definisse un crimine di guerra l’attacco
di Tzahal all’Unifil, riducendo le distanze tra maggioranza e opposizione. Nelle
commissioni Affari esteri e Difesa dei due rami del parlamento, riunitesi congiun-
tamente il 2 ottobre mattina per ascoltare le comunicazioni dei ministri Tajani e
Crosetto sull’evoluzione della crisi, sono stati in effetti numerosi gli esponenti delle
forze politiche d’opposizione a stigmatizzare la postura adottata dall’Italia 5. Per
esempio, l’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, a capo del Movimento
Cinque Stelle, ha contestato il «doppio standard» cui si sarebbe improntata la nostra
condotta: contraria all’escalation in Medio Oriente dopo l’attacco iraniano, ma fa-
vorevole invece a promuoverla in Ucraina dotandola di armi dalla gittata sempre
maggiore. Laura Boldrini, deputata del Pd, si è spinta anche oltre. Ha affermato che
«i criminali dovrebbero essere perseguiti, processati e condannati senza eccezioni»
e ha invitato il governo a chiedere nell’ambito del G7 e dell’Unione Europea di
sanzionare Netanyahu, in quanto responsabile dell’inasprimento del conflitto. L’o-
norevole Giuseppe Provenzano, appartenente allo stesso partito, ha rimproverato
a sua volta al ministro Tajani di non aver condannato durante la propria informati-
va le stragi compiute a Gaza, né l’attacco israeliano al Libano. Lo stesso ha fatto
Nicola Fratoianni dell’Alleanza Verdi e Sinistra.
Sono state poste in discussione anche le forniture militari italiane allo Stato
ebraico, con tanto di richiesta di acquisizione dell’elenco delle armi consegnate a
Gerusalemme dopo il 7 ottobre, formalizzata dal senatore pentastellato Bruno Mar-
ton. L’onorevole Ettore Rosato (uscito da Italia Viva per aderire ad Azione), pur
appoggiando il diritto di Israele a difendersi, ha osservato come le vittime civili
fossero troppe e occorresse un’autolimitazione da parte di Netanyahu.

5. In realtà, il nostro governo non è stato affatto insensibile agli umori dell’o-
pinione pubblica. Naturalmente ha dovuto definire la propria postura tenendo
conto della nostra posizione geopolitica e degli interessi nazionali in gioco, tra i
5. Della seduta delle commissioni Esteri e Difesa dei due rami del parlamento svoltasi il 2 ottobre 2024, durata
oltre due ore, è visibile la registrazione video su webtv.camera.it/evento/26249 213
ISRAELE DIVIDE L’ITALIA

quali spiccano la tutela del sistema di alleanze e la sicurezza degli italiani residenti
in Libano: 3.200 civili, un migliaio di militari schierati a sud del fiume Lø¿ånø con
Unifil e una ventina di effettivi che compongono la squadra della missione adde-
strativa Mibil di stanza a Beirut. Nel complesso, l’atteggiamento descritto il 2 otto-
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

bre scorso durante l’audizione dei ministri degli Esteri e della Difesa svoltasi a
Montecitorio appare tuttora equilibrato e in linea sia con l’approccio storicamente
abbracciato dal nostro paese sia con le misure specificamente adottate dopo i fatti
del 7 ottobre.
Pur riconoscendo a Gerusalemme il diritto di difendersi, l’esame delle nuove
richieste di via libera all’esportazione per materiali d’armamento diretti verso Isra-
ele è stato sospeso non appena sono iniziate le operazioni israeliane a Gaza. Il
governo ha ribadito anche in parlamento di aver preso le distanze rispetto alla loro
intensità e ha sottolineato le divergenze tra la posizione italiana e quella di Ne-
tanyahu. Quanto alle cessioni approvate prima del pogrom, Tajani ha reso noto di
averne disposto il riesame caso per caso alla luce delle previsioni della legge
185/1990 che disciplina la materia dell’export nazionale di armi. Quindi ha resistito
anche alla pressione delle imprese del settore, malgrado alcune fossero ormai a
rischio di chiusura e in predicato di licenziare addetti. Quindi non hanno senso le
richieste di sottoporre a embargo le forniture militari a Israele, avanzate da più
parti dopo l’episodio del 10 ottobre scorso. L’Italia le aveva fermate ben prima che
lo facesse la Francia guidata dal presidente Macron.
A proposito della questione del riconoscimento dello Stato di Palestina, da mol-
ti invocato sull’esempio della Spagna che lo ha effettuato senza che ad avviso di
Tajani ne fossero discesi effetti apprezzabili, il titolare della Farnesina ha motivato la
scelta attendista del governo con la necessità di aspettare la riunificazione sotto
un’unica autorità dei Territori palestinesi, ancora sottoposti a leadership differenti.
Inoltre, ha confermato la disponibilità italiana a sostenere la transizione verso questo
traguardo anche con lo schieramento di nostri soldati nella Striscia di Gaza, ovvia-
mente nel quadro di una missione multinazionale sotto le insegne delle Nazioni
Unite e ad ampia partecipazione araba. Tuttavia, non sarebbe sorprendente se vi
fosse un ripensamento, dato quello che è successo in Libano. Inoltre, il ministro
degli Esteri non aveva mancato di ricordare la decisione italiana di votare a favore
dell’imposizione di sanzioni contro i coloni israeliani insediatisi in Cisgiordania.
Tajani ha respinto ogni tentativo di paragonare la situazione libanese a quella
ucraina, sottolineando che «Zelens’kyj non è Naârallåh» e che l’Italia è stata il primo
paese a inviare nuovi aiuti a Beirut per fronteggiare l’emergenza umanitaria inne-
scata dai bombardamenti israeliani. È stato altresì ricordato come l’Italia abbia
scelto di inviare dopo anni un suo ambasciatore a Damasco per riannodare le fila
del dialogo con la Siria.

6. Rispetto all’entrata in campo dell’Iran, tanto il ministro degli Esteri quanto


quello della Difesa hanno evidenziato i limiti cui soggiace l’azione del nostro pae-
214 se, che non può certamente riuscire dove hanno finora fallito potenze del calibro
LA NOTTE DI ISRAELE

di Stati Uniti, Cina e Russia. Pur condannando l’attacco missilistico e invitando le


parti a moderare le tensioni, Tajani e Crosetto hanno riconosciuto l’impossibilità
per l’Italia di portare Gerusalemme e Teheran al tavolo delle trattative. Con notevo-
le umiltà, il ministro della Difesa ha ammesso le difficoltà incontrate nel fronteggia-
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re le situazioni inedite di questo periodo storico, definite come caratteristiche di «un


tempo di cui non abbiamo esperienza».
Crosetto ha ricordato anche che, nel tentativo di prevenire un’invasione israe-
liana del Libano meridionale (la quale sarebbe stata inevitabile a causa della capil-
lare presenza di Õizbullåh e della debolezza delle Forze armate libanesi), per mesi
l’Italia ha chiesto all’Onu di rafforzare l’Unifil dotandola di una riserva autonoma,
modificandone le regole d’ingaggio ed equipaggiandola con armi più potenti. Al-
meno a Roma, verso cosa si andasse appariva chiaro. Anche se nessuno immagi-
nava che Netanyahu potesse far ricorso alla forza pure nei confronti dei caschi blu,
ormai divenuti un intralcio per i soldati di Tzahal a caccia dei miliziani del Partito
di Dio. Ma era stato tutto inutile. Ogni sforzo si era scontrato con le divisioni tra i
principali attori internazionali.
A inizio ottobre, gli sviluppi ulteriori della situazione sembravano comunque
molto incerti. Nessuno sapeva che tipo di risposta Israele avrebbe dato al massiccio
lancio di missili da parte dell’Iran, ma gli americani stavano rinforzando le difese
dello Stato ebraico con il sistema antimissilistico Thaad e i relativi operatori. Anche
il governo italiano si stava preparando, monitorando gli eventi e predisponendo le
misure indispensabili a far fronte al possibile precipitare della situazione. Palazzo
Chigi risultava aver attivato una propria task force. Il comando di vertice interforze
della Difesa e l’Unità di crisi del ministero degli Esteri stavano cooperando sinergi-
camente. Squadre anfibie erano già state inviate in Libano per permettere al nostro
strumento militare di esfiltrare in autonomia soldati e civili italiani schierati o resi-
denti nel paese dei Cedri. Inoltre, era stata elevata la prontezza operativa di alcune
unità e contestualmente erano stati individuati i mezzi aerei e navali necessari a
interventi d’emergenza.
L’Italia, questo è l’orientamento, non vorrebbe ritirarsi da Unifil. Spera che le
Nazioni Unite non ne dispongano lo sgombero, continuando a considerarlo uno
strumento utile a dispetto di ogni evidenza in senso contrario. Ma sarebbe pronta
a qualsiasi evenienza, nella consapevolezza della rapidità con la quale lo scenario
potrebbe cambiare in qualsiasi momento. Di contro, il nostro paese sembra assai
meno attrezzato a gestire i riflessi psicologici e politici che gli eventi in corso pos-
sono generare sulla profondità e sincerità della propria adesione al sistema di alle-
anze ereditato dalla guerra fredda, di cui Israele è sempre stato un perno. Di qui,
la necessità di mantenere prudenza e autocontrollo anche di fronte agli scenari più
indigesti. Per noi la posta è troppo alta.

215
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LA NOTTE DI ISRAELE

DISTENSIONE E DETERRENZA
LA FORMULA SAUDITA Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

ALLA PROVA DEL FUOCO TASINATO


di Emily

Riyad teme che la guerra saboti l’avvicinamento a Israele e Iran,


pensato per schermarsi dai conflitti regionali. L’America, seppure
appannata, resta il fulcro della sicurezza del Regno cui subordinare
l’intesa con lo Stato ebraico. Il cuore di MbS non batte per i palestinesi.

1. E RA FINE SETTEMBRE 2023 QUANDO IN


un’intervista esclusiva al canale televisivo Fox News il principe ereditario saudita
Muõammad bin Salmån (MbS) definiva «sempre più vicina» la normalizzazione
delle relazioni con Israele 1. In merito al tipo di concessioni che l’accordo avrebbe
dovuto garantire ai palestinesi MbS era stato sfuggente, limitandosi a sottolineare
come tale aspetto fosse parte dei negoziati in corso e a ribadire l’impegno per «mi-
gliorare la vita dei palestinesi».
Poi sono arrivati il 7 ottobre, la guerra e la temporanea sospensione da parte
saudita del tavolo negoziale. Se prima del conflitto Riyad sembrava prepararsi alla
possibilità di riconoscere diplomaticamente lo Stato ebraico senza garantire a mon-
te la creazione di uno Stato palestinese, oggi la narrazione ufficiale del regno ha
fatto del diritto palestinese all’autodeterminazione la condizione sine qua non. A
un anno esatto di distanza da quell’intervista, rivolgendosi ai membri dell’Assem-
blea consultiva (Maãlis al-Šûrå) il giovane principe ha affermato senza mezzi ter-
mini che non vi sarà alcuna normalizzazione con Israele senza la creazione di uno
Stato palestinese indipendente, in conformità con l’Iniziativa di pace araba promos-
sa dal regno nel 2002 2.
Negli ultimi dodici mesi l’Arabia Saudita si è contraddistinta per il suo attivismo
diplomatico, volto a raggiungere un cessate-il-fuoco permanente a Gaza e ad av-
viare un percorso credibile verso la formula «due popoli, due Stati»; un cammino
che la guerra ha reso sempre meno percorribile. Durante la 79ª sessione dell’As-
semblea Generale delle Nazioni Unite, a settembre, il ministro degli Esteri saudita
Fayâal bin Farõån (FbF) ha annunciato l’Alleanza globale per l’attuazione della
1. B. BAIER, «Interview with Mohammed bin Salman», Fox News, 20/9/2023.
2. «On Behalf of the Custodian of the Two Holy Mosques, HRH the Crown Prince Inaugurates First
Year of Ninth Session of Shura Council», Saudi Press Agency, 19/9/2024. 217
DISTENSIONE E DETERRENZA, LA FORMULA SAUDITA ALLA PROVA DEL FUOCO

soluzione dei due Stati, iniziativa congiunta con partner arabi ed europei 3. Risale
invece al novembre 2023, in occasione di un summit a Riyad, l’istituzione di una
commissione arabo-islamica sempre a guida saudita. L’obiettivo dichiarato è aggre-
gare un consenso più ampio possibile per fermare il conflitto e sostenere la causa Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

palestinese 4. La coerenza con cui l’Arabia Saudita porta avanti le proprie posizioni
dall’inizio della guerra sembra, tuttavia, assumere più i contorni di un intento per-
formativo, non (ancora?) di un chiaro disegno per un ordine post-bellico a Gaza.
L’attivismo saudita serve in primo luogo ai Sa‘ûd per riaffermare la leadership
nel mondo arabo-islamico, impedendo che altri provino a intestarsela. Non solo l’I-
ran, che storicamente ha sfidato la credibilità di Riyad quale custode delle sacre
moschee per l’approccio morbido a Israele; o il Qatar, che vanta un ruolo diploma-
tico chiave grazie al mantenimento di un dialogo diretto e continuo con le principa-
li parti in conflitto. Dietro le quinte sta prendendo forma un crescente antagonismo
con gli Emirati Arabi Uniti (Eau), di cui i sauditi non condividono la visione per il
dopoguerra palestinese. Abu Dhabi si starebbe preparando a formare un comitato di
leader palestinesi e figure imprenditoriali fedeli a Muõammad Daõlån 5 – ex capo
della sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) a Gaza – e avversi all’attua-
le presidente dell’Anp Abu Mazen 6. Cacciato da Gaza nel 2007, Daõlån ha trovato
asilo politico negli Emirati divenendo consigliere per la Sicurezza del presidente bin
Zåyid. È una figura controversa, anche per il presunto ruolo di architetto degli accor-
di di Abramo del 2020. In virtù dello stretto rapporto con il governo emiratino è
impensabile che abbia il favore di Riyad, la quale non vuole veder replicato in Pale-
stina uno schema analogo a quello già in vigore tra Doha e Õamås 7.
Un’altra linea rossa per l’ala politica più rilevante di Casa Sa‘ûd facente capo a
MbS concerne il ruolo di Õamås. Benché Riyad abbia dimostrato negli ultimi anni un
certo interesse a coltivare canali diretti con il gruppo – i rapporti sono però gelidi dal
2007 8 – il principe saudita non vuole che Õamås sia il referente politico della «nuova»
Palestina e preme per un processo di riforma dell’Anp. Le preoccupazioni di Riyad
circa la competenza, la legittimità e le capacità di tale organismo hanno sin qui di-
sincentivato un forte impegno saudita verso l’Autorità, nonché un suo maggiore
coinvolgimento nel prefigurare il dopoguerra a Gaza 9. Ne consegue una strategia
attendista, necessaria per testimoniare all’audience domestica e regionale il pieno
supporto alla causa palestinese senza però compromettere l’agenda Vision 2030.
3. J. HABOUSH, «Saudi Arabia announces new global coalition to establish Palestinian state», Al Arabiya,
27/9/2024.
4. J. SALHANI, «What’s behind the Arab-Islamic ministerial tour of UNSC states?», Al Jazeera, 23/9/2023.
5. «Mahmoud Abbas cuts short Saudi trip after Israel launches West Bank assault», Middle East Eye,
28/8/2024.
6. «Mapping Palestinian Politics – Mohammed Dahlan», European Council on Foreign Relations.
7. A. ZACCOUR, «Mohammad Dahlan, Abu Dhabi’s controversial candidate for Palestine’s leadership»,
L’Orient Today, 14/11/2023.
8. «Saudis said set to host top Hamas delegation, further dimming Israeli hopes for ties», The Times of
Israel, 16/4/2023.
9. A. ALGHASHIAN, «Exaggerations, Obstacles and Opportunities: The Saudi Arabian Position in the Ga-
218 za War», Mitvim – The Israeli Institute for Regional Foreign Policies, settembre 2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

2. Per MbS la normalizzazione con Israele è interesse strategico. Il principe ha


mostrato in varie occasioni una propensione verso il governo israeliano, arrivan-
done ad affermarne nel 2018 lo stesso diritto alla terra dei palestinesi e contribuen-
do a un cambio di passo nella narrazione nazionale della questione palestinese 10. Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Negli anni questa tendenza ha preso forma in diverse campagne antipalestinesi sui
social, come «Palestine is not my cause» del 2020 11. Durante il mese di Ramadan
di quell’anno, la serie tv saudita Exit 7 ha suscitato controversie per le affermazio-
ni del protagonista circa la necessità che Casa Sa‘ûd sia equidistante tra Israele e
Palestina 12.
La generazione saudita coetanea di MbS, per non parlare di quella successiva,
ha abbracciato la nuova narrazione saudita patriottica e ipernazionalista che nel so-
stituire progressivamente quella tradizionale ha mutato radicalmente la politica inter-
na ed estera di Riyad. Il conflitto tra Israele e Õamås ha rimesso al centro la tensione
tra queste due facce del regno. Benché smentite da funzionari sauditi, le rivelazioni
dello statunitense The Atlantic su una presunta conversazione tra MbS e il segretario
di Stato americano Antony Blinken avvenuta nel gennaio 2024 nella città saudita di
al-‘Ulå restituiscono un quadro interessante 13. Il principe ereditario avrebbe confes-
sato al proprio interlocutore un totale disinteresse verso i palestinesi, mostrando
preoccupazione per il crescente sentimento filopalestinese dei giovani sauditi (circa
il 70% della popolazione) come effetto collaterale della guerra in corso. «Gran parte
di loro non ha mai saputo molto della questione palestinese. Si sono affacciati a
essa per la prima volta con questo conflitto», avrebbe dichiarato MbS. Un sondaggio
del Washington Institute for Near East Policy condotto tra novembre e dicembre
2023 aveva già registrato un forte calo del sostegno da parte dei cittadini sauditi a
qualsiasi tipo di contatto, compresi i legami commerciali, con Israele 14.
Senza un rimpasto dell’attuale governo israeliano e l’uscita di scena del pre-
mier Netanyahu, è altamente improbabile che Riyad compia alcun passo diploma-
tico. Una simile mossa risulterebbe troppo dirimente e comporterebbe costi politi-
ci tali da surclassare il valore strategico di un’eventuale normalizzazione con Israe-
le. Tuttavia il negoziato con lo Stato ebraico non è abbandonato, è solo congelato.
Gli incentivi che hanno portato il regno a considerare una normalizzazione non
sono venuti meno: i benefici derivanti dall’apertura all’economia israeliana, tra le
più dinamiche, tecnologiche e innovative della regione rispondono agli ambiziosi
obiettivi sauditi di diversificazione e modernizzazione.
Connettività è un’altra parola chiave. Se si considera la geografia dei piani di
sviluppo del regno, come la città futuristica Neom sulla costa del Mar Rosso, si
10. «Saudi crown prince says Israelis have right to their own land», Reuters, 3/4/2018.
11. «Saudi activists accused of launching hashtag ‘Palestine is not my cause’», Middle East Monitor,
23/4/2020.
12. C. BIANCO, C. 9OK, «L’asse Israele-arabi si piega ma non si spezza», Limes, 5/2021, «La questione
israeliana», pp. 223-230.
13. F. FOER, «The War that Would Not End», The Atlantic, 25/9/2024.
14. C. CLEVELAND, D. POLLOCK, «New Poll Sheds Light on Saudi Views of Israel-Hamas War», Washington
Institute for Near East Policy, 21/12/2023. 219
220
Province dell’Arabia Saudita
BASI MILITARI SAUDITE Tabūk
IRAQ al-Gawf
IRAN al-Hudūd al-Šamāliyya
GIORD. al-Madīna
al-Gawf Hā’il
al-Qasīm
Makka
Hafar al-Bātin al-Riyād
al-Šarqiyya
Tabūk Hā’il Città militare King Khalid King Abdulaziz
Base militare
al-Bāha
base navale
‘Asīr
Gāzān
al-Dammām
Nagrān
King Abdulaziz Q A T A R
Base aerea Strade
(prima base militare del paese)
Confini province saudite
EGITTO al-Watah
Medina base missilistica Riyad al-Harg
Prince Sultan
Base aerea Usa E.A.U.
OMAN
King Faisal Laylā
base navale
DISTENSIONE E DETERRENZA, LA FORMULA SAUDITA ALLA PROVA DEL FUOCO

Tā’if
Gedda King Fahad
La Mecca Base aerea
al-Sulayyil
base missilistica

Truppe in servizio attivo Riyad


Esercito 75.000 Base regionale della Guardia nazionale
Guardia nazionale 130.000 Abhā Basi navali
Nagrān Basi aeree/missilistiche/militari
Marina 13.500 King Khalid
base aerea
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Aeronautica 20.000
Difesa aerea 16.000
YEMEN
Forze strategiche 2.500
LA NOTTE DI ISRAELE

desume il potenziale dall’eventuale normalizzazione. Altro caso emblematico è il


progetto di Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa (Imec) sponsorizza-
to dagli Stati Uniti per invogliare l’Arabia Saudita a normalizzare le relazioni con
Israele, disegno di grande valenza strategica per MbS in quanto offre un’alternativa Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

al Mar Rosso 15.


L’apertura diplomatica con Israele è dettata anche da considerazioni di ordine
securitario, in quanto funzionale a restaurare la deterrenza saudita (soprattutto)
verso l’Iran. A Riyad il riconoscimento di Israele schiuderebbe la formalizzazione
di un accordo di difesa con gli Stati Uniti 16, con nuove garanzie e un iter semplifi-
cato per l’acquisto di sofisticate armi made in Usa. A questo si aggiunge la richiesta
di supporto statunitense allo sviluppo del programma nucleare saudita a uso civile.
In cambio, i Sa‘ûd sarebbero disposti a cessare gli acquisiti di armi da Pechino e a
limitare gli investimenti cinesi (si veda il caso di Huawei) nel paese, specie nelle
infrastrutture critiche 17. Malgrado i passi significativi compiuti da Riyad per render-
si più autonoma da Washington intensificando le relazioni con Cina e Russia, l’A-
merica resta l’unico vero garante della sicurezza saudita, anche se è percepita come
incapace di gestire la geopolitica regionale e la sua immagine è minata dal soste-
gno incondizionato a Israele. Pur essendo interessati a includere gli attori del Sud
Globale nella risoluzione del conflitto, i sauditi sanno dunque che Washington è
l’attore chiave da coinvolgere 18.

3. Nel triangolo negoziale con Israele e Stati Uniti, Riyad ambisce verosimil-
mente anche a rafforzare la cooperazione con lo Stato ebraico nel settore della si-
curezza e della difesa. Dopo le «primavere arabe» (2010-2011), con il consolida-
mento della posizione regionale di Teheran e la decisione saudita di lanciare un’o-
perazione militare nello Yemen contro gli õûñø (2015), una stretta collaborazione
con Israele inizia a essere vista in ottica puramente anti-iraniana. Nel 2017-2018 i
contatti discreti tra le intelligence saudita e israeliana si intensificano 19 e negli anni
successivi emergono varie indiscrezioni sul presunto interesse di Riyad – sotto
pressione per i lanci di droni e razzi di fabbricazione iraniana da parte del gruppo
yemenita – per il sistema israeliano Iron Dome 20.
Il 2019 è un anno cruciale per i Sa‘ûd: l’attacco su larga scala coordinato dall’I-
ran contro gli impianti petroliferi sauditi di Buqayq e Œurayâ e la mancata reazione

15. A. RIZZI, «The infinite connection: How to make the India-Middle East-Europe economic corridor
happen», European Council on Foreign Relations, 23/4/2024.
16. B. EVERETT, E. SCHOR, «Senators in both parties open to treaty vote on US-Saudi defense pact», Se-
mafor, 18/9/2024.
17. H. PAMUK, A. CORNWELL, M. SPETALNICK, «US and Saudi Arabia nearing agreement on security pact,
sources say», Reuters, 3/5/2024.
18. S. MCCARTHY, W. CHANG, «China calls for “urgent” action on Gaza as Muslim majority nations arrive
in Beijing», Cnn World, 21/11/2023.
19. P. ELIE, «Saudi Arabia and Israel: From Secret to Public Engagement, 1948–2018», Middle East Jour-
nal, vol. 72, n. 4, 2018, pp. 563-586.
20. A. EGOZI, «Saudi Arabia Considering Israeli-Made Missile Defense Systems», Breaking Defense,
14/9/2021. 221
DISTENSIONE E DETERRENZA, LA FORMULA SAUDITA ALLA PROVA DEL FUOCO

statunitense lasciano Riyad orfana dell’ombrello americano. L’insuccesso militare


del costoso intervento nello Yemen inizia inoltre a palesarsi: la dirigenza saudita si
vede sempre più isolata e vulnerabile. In questo contesto la monarchia realizza la
necessità di un riavvicinamento al nemico storico, stanti la consapevolezza di non Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

poterlo soverchiare militarmente e la percezione di un progressivo disimpegno


americano dalla regione 21.
Il processo di distensione con l’Iran culminato a Pechino nel marzo 2023 serve
a Riyad per salvaguardare i propri interessi, contenere la competizione regionale e
aprire a forme di cooperazione bilaterale, promovendo un nuovo approccio incen-
trato sui concetti di sicurezza collettiva e di derisking 22. Da qui la mancata adesio-
ne all’operazione Prosperity Guardian a guida statunitense del 2023, alla missione
europea Eunavfor Aspides del 2024 23 e alla campagna di bombardamenti lanciata
da Washington e Londra nel gennaio 2024 contro obiettivi militari nei territori con-
trollati dagli õûñø. Dall’inizio della crisi nel Mar Rosso, Riyad è riuscita in un delica-
to gioco diplomatico con Teheran e Âan‘å’ a evitare che le proprie navi mercantili,
petroliere e gasiere venissero prese di mira 24. Anche quando l’Arabia Saudita ha
tentato di premere sugli õûñø, per esempio appoggiando la decisione della Banca
centrale yemenita con sede a Aden di revocare le licenze operative delle banche a
Âan‘å’ 25, le minacce di possibili ritorsioni ne hanno sempre ammorbidito le posizio-
ni 26. Riyad vuole infatti scongiurare la ripresa di attacchi transfrontalieri e continua-
re la de-escalation nello Yemen verso un cessate-il-fuoco permanente.

4. Il conflitto a Gaza ha dunque accelerato, non compromesso, il riavvicina-


mento tra iraniani e sauditi che ha giocato finora un ruolo cruciale nel tentativo di
prevenire un’escalation regionale più ampia. Alla prima conversazione telefonica
tra MbS e l’allora presidente iraniano Ebrahim Raisi, l’11 ottobre 2023 27, segue un
mese dopo il primo bilaterale in occasione del vertice arabo-islamico di Riyad 28. Il
ministro degli Esteri saudita FbF è tra le figure centrali per la continuità del dialogo.
A margine dell’ultima Assemblea Generale dell’Onu ha incontrato l’omologo ira-
niano Abbas Araghchi 29, mentre a inizio ottobre a Doha, in occasione del Dialogo
per la cooperazione asiatica, avrebbe manifestato al neopresidente dell’Iran Ma-
soud Pezeshkian la volontà di «chiudere definitivamente il capitolo delle differenze

21. J. BARNES-DACEY, C. BIANCO, «Mending fences, Europe’s stake in the Saudi-Iran détente», European
Council on Foreign Relations, 30/9/2024.
22. H. ALGHANNAM, «A year after Saudi-Iran reconciliation, concrete progress can be seen», Al Majalla,
23/3/2024.
23. «Why Arab states didn’t join the US-led Red Sea task force», The New Arab, 16/1/2024.
24. A. ASMAR, «Saudi company denies US reports about Houthi attack on its ship in Red Sea», Anadolu
Agency, 3/9/2024.
25. S. AL-BATATI, «Yemen’s Central Bank revokes licenses of 6 Sanaa banks», Arab News, 11/07/2024.
26. «Behind the scenes of the economic conflict: Why might legitimacy backtrack on its decisions?»,
Almasdar online, 21/7/2024 (originale in arabo).
27. «Iran’s Raisi, Saudi Arabia’s MBS discuss Israel-Hamas war», Al Jazeera, 12/10/2023.
28. «HRH Crown Prince Meets with Iran’s President», Saudi Press Agency, 11/11/2023.
222 29. «Saudi and Iranian FMs meet in New York on UNGA sidelines», Arab News, 22/9/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

[tra i due paesi]»30. Con lo spettro di un allargamento della guerra al Libano e di un


confronto diretto tra Iran e Israele (dunque Stati Uniti), Araghchi ha scelto l’Arabia
Saudita come prima tappa del suo tour regionale 31.
Il mantenimento di un canale diretto è visto dal regno come l’unico mezzo Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

efficace per tentare di moderare il comportamento dell’Iran e di allentare le tensio-


ni tra questo, Israele e gli Stati Uniti. Ciò in base alla percezione, ampiamente dif-
fusa a Riyad, che la Repubblica Islamica non abbia alcun interesse a scontrarsi con
lo Stato ebraico, il che rende gli iraniani interlocutori più responsabili degli statu-
nitensi. In occasione dell’operazione militare del 13 aprile 2024 Teheran aveva
segnalato l’intenzione di contenere l’escalation: il lancio di oltre 300 droni e missi-
li contro Israele in risposta al bombardamento israeliano del consolato iraniano a
Damasco era stato comunicato in anticipo agli Stati arabi del Golfo, inclusa l’Arabia
Saudita. La mossa serviva a riaffermare la deterrenza, non a scatenare una guerra 32.
Sempre Riyad ha esortato Teheran a evitare, o quantomeno a limitare la rap-
presaglia per l’uccisione del capo politico di Õamås, Ism呸l Haniyya, nella capitale
iraniana (agosto 2024) onde evitare l’interruzione dei negoziati allora in corso per
un cessate-il-fuoco 33. Anche l’attacco missilistico dell’Iran contro Israele del 1° ot-
tobre 2024 in risposta all’uccisione del segretario generale di Õizbullåh, Õasan
Naârallåh, è stato letto dal regno come una mossa misurata.
Gli eventi delle ultime settimane sollevano importanti questioni sulla possibi-
lità che Teheran rivaluti la propria dottrina di difesa e deterrenza, con l’annesso
«scenario peggiore» dell’arma nucleare. Se Israele colpisse i giacimenti petroliferi o
i siti nucleari in Iran, la principale preoccupazione di Riyad sarebbe il rischio di
rappresaglie contro le proprie infrastrutture critiche per mano degli alleati della
Repubblica Islamica, se non della stessa Teheran. Per questo il regno ha voluto
rassicurare gli iraniani sulla propria neutralità, dopo che l’Iran aveva avvertito gli
Stati arabi del Golfo che il consenso all’utilizzo del loro spazio aereo o delle loro
basi militari per azioni contro di essa provocherebbe una risposta immediata 34.
L’Arabia Saudita vuole tenersi fuori dal fuoco incrociato irano-israeliano, non
essendo disposta a pagare il prezzo di un conflitto aperto tra i due nemici. Gli
sforzi sauditi di giocare pubblicamente un ruolo imparziale erano già emersi lo
scorso aprile, quando Riyad aveva condannato l’attacco al consolato iraniano a
Damasco senza però nominare esplicitamente Israele nel comunicato ufficiale 35.
Dopo l’azione militare iraniana contro lo Stato ebraico, il regno si era limitato a

30. S. ASEM, «Iranian foreign minister visits Beirut as Gulf states declare neutrality», Middle East Eye,
4/10/2024.
31. A. KARIM, «Iran’s Foreign Minister Araghchi to visit Saudi Arabia as Tehran braces for Israeli attack»,
The National, 8/10/2024.
32. C. BIANCO, E. TASINATO, «European Approach Toward the Iran-Israel Escalation», Emirates Policy
Center, 08/5/2024.
33. J. BARNES-DACEY, C. BIANCO, «Mending fences, Europe’s stake in the Saudi-Iran détente», European
Council on Foreign Relations, 30/9/2024.
34. P. HAFEZI, A. MILLS, «Exclusive: Gulf states must not allow use of airspace against Iran, Iranian offi-
cial says», Reuters, 9/10/2024.
35. Account ufficiale X, ministero degli Esteri dell’Arabia Saudita, 2/4/2024. 223
DISTENSIONE E DETERRENZA, LA FORMULA SAUDITA ALLA PROVA DEL FUOCO

esprimere grave preoccupazione per gli sviluppi regionali esortando «tutte le parti
a esercitare la massima moderazione» 36. Dalle analisi e dai commenti delle ultime
settimane si evince come nell’ottica saudita la portata dell’escalation dipenderà dal
tipo di risposta di Israele e solo in seconda battuta da come reagirà l’Iran. In un Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

articolo per il quotidiano panarabo Asharq al-Awsat, finanziato dall’Arabia Saudita,


il giornalista ‘Abd al-Raõmån al-Rašød sottolinea come l’enorme colpo inferto a
Õizbullåh abbia alterato «l’equilibrio di potenza» a favore di Israele 37; in un contesto
in cui non esistono più regole d’ingaggio e paletti l’obiettivo principale israeliano
è «rimuovere Õizbullåh dall’equazione del confronto con l’Iran, non isolarlo dal
fronte di Gaza», così «rompendo l’assedio» degli alleati di Teheran.
L’Arabia Saudita, giova ricordarlo, non guarda comunque con dispiacere agli
ultimi eventi che hanno interessato il vicino iraniano e il suo «asse della resistenza.»
Riyad percepisce infatti la Repubblica Islamica, la sua rete di alleanze e le sue atti-
vità regionali ancora come minacce esistenziali alla propria sicurezza. Il regno teme
che le forze islamiste possano approfittare del sostegno alla causa palestinese e
della disastrosa situazione economica di alcuni paesi arabi per innescare proteste
simili a quelle del 2010-2011. Pertanto, la distensione con il vicino iraniano non si
tradurrà in una rinuncia alla formula tradizionale di contenimento e deterrenza,
facente capo agli Stati Uniti. Forse, in un futuro non troppo lontano, con l’aggiunta
di un’eventuale variabile israeliana.

36. Account ufficiale X, ministero degli Esteri del Regno di Arabia Saudita, 14/4/2024.
37. A. AL-RAŠøD, «Direct conflict between Iran and Israel», Asharq al-Awsat, 2/10/2024 (originale in
224 arabo).
LA NOTTE DI ISRAELE

LA TURCHIA SOGNA Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

LA ZONA GRIGIA di Daniele SANTORO

Il manicheo ‘Iran o Israele’ emargina Ankara, limitandone opzioni


strategiche e ambizioni imperiali. Le convergenze con l’Egitto.
L’asse obliquo con gli Stati arabi del Golfo. La carta somala e la
variabile siriana. Erdoãan non vuole e non può fare la guerra.

1. I
L CONFLITTO SEMPRE MENO INDIRETTO TRA
Iran e Israele ridimensiona la potenza della Turchia, emarginandola dal grande
gioco mediorientale. Esito che per Ankara costituisce il reale obiettivo strategico
dello scontro, o comunque ne rappresenta prioritaria e intenzionale conseguen-
za. Dalla prospettiva anatolica il confronto tra Iran e Israele è infatti raffinata ope-
razione di manipolazione mediante la quale Gerusalemme e Teheran strumenta-
lizzano il nemico, i partner e i rivali per consolidare la propria posizione al cen-
tro dello scacchiere mediorientale, marginalizzare i competitori più temibili e per-
seguire i propri scopi, compatibili e sovrapponibili. Alla luce – meglio, all’oscurità
– di tale sofisticata cortina fumogena i turchi interpretano la coreografica messin-
scena allestita da persiani e israeliani. Nella narrazione turca mainstream, iraniani
e libanesi hanno (s)venduto il segretario generale di Õizbullåh Õasan Naârallåh a
Israele 1 creando il pretesto per lanciare la seconda ondata di missili contro lo Sta-
to ebraico. Le cui coordinate, come sei mesi prima, sono state cordialmente co-
municate con anticipo agli Stati Uniti così da minimizzare le perdite materiali e
umane del Piccolo Satana 2.
Nell’attuale contesto mediorientale è forse impossibile scorgere due paesi più
allineati della Repubblica Islamica e dello Stato d’Israele. Ad aprile i turchi prova-
rono a recitare di straforo il ruolo della comparsa, reclamando di aver favorito il
dialogo tra persiani e americani nei giorni precedenti al primo attacco missilistico
1. Cfr. ad esempio il dibattito andato in onda sulla Cnn Türk il 28/9/2024, «İran ve Lübnan, Nasrallah’ı
sattı mı? İsrail’in paylaşımındaki 2 isim kim?» («L’Iran e il Libano si sono venduti Nasrallah? Chi sono i
due nomi resi pubblici da Israele?»), YouTube.
2. P. STEWART, S. HOLLAND, «US sees indications of imminent Iranian missile attack on Israel», Reuters,
1/10/2024; «Iran launches waves of missiles at Israel hours after US warning», The Guardian,
1/10/2024. 225
LA TURCHIA SOGNA LA ZONA GRIGIA

iraniano contro il territorio israeliano 3. Oggi rivendicano sommessamente che «le


dichiarazioni di Erdoãan al pubblico globale hanno un impatto più profondo su
Israele dei missili iraniani» 4. Qui sta il dramma geopolitico della Turchia. I persiani
sparano, Erdoãan fa i comizi. Condizione piuttosto umiliante per un soggetto che Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

ambisce a tornare impero a partire dagli spazi contesi – egemonizzati – da Iran e


Israele e che si narra come potenza militare globale.
Lo scià ha messo sotto scacco il sultano. La tempesta perfetta rischia di diventa-
re diluvio universale. Erdoãan ha margini di manovra molto limitati. In primo luogo
dall’istintiva solidarietà delle masse anatoliche nei confronti dell’oppressione dei
palestinesi – o meglio del «genocidio» dei palestinesi commesso dal primo ministro
israeliano Binyamin Netanyahu. Croce e delizia della tradizione imperiale turanica,
fondata sulla protezione strumentale – dunque sulla conseguente lealtà – di sogget-
ti oppressi e abbandonati a sé stessi. Alla fine III secolo a.C. la dinastia Qin costruì
la celebre Muraglia cinese non già per prevenire le incursioni nella Pianura centrale
degli unni – i turchi originari secondo la narrazione ufficiale della Repubblica di
Turchia 5 – ma per impedire che i cinesi discriminati o perseguitati trovassero rifugio
negli accampamenti nomadi della Fascia settentrionale, dove «è piacevole vivere» 6.
È così – proteggendo gli oppressi dal potente vicino – che i discendenti di
Mete Han intendevano fondare la Turchia di Cina (Hıta, Hatay, Catai), in una ge-
niale dissociazione geografico-climatica rifondata da Mustafa Kemal nel 1938 nel
sangiaccato di Alessandretta, sulla costa mediterranea 7. Gli ottomani divennero
impero intestandosi la difesa degli ortodossi balcanici soggetti alle prevaricazioni
dei «franchi», tutelandone la libertà religiosa. I palestinesi stanno dunque in una
certa misura alla Repubblica di Turchia come i dissidenti cinesi stavano agli unni e
gli ortodossi dei Balcani agli ottomani. Materia imperiale allo stato grezzo.
Ma la causa palestinese ha già un campione. Nello scorso ventennio Erdoãan
ha lavorato alacremente per insidiare e spodestare l’Iran, per una certa fase di
sponda con Israele 8. Basti pensare alle conseguenze geopolitiche dell’incidente
della Mavi Marmara del 2010, in seguito al quale l’allora primo ministro turco di-
venne il «re di Gaza» 9. Le dinamiche innescate dal 7 ottobre hanno però rivoluzio-
nato la partita palestinese. La Repubblica Islamica ha alzato l’asticella della compe-
tizione a un livello al quale la Turchia – per conformazione geopolitica, tradizione
statuale e obiettivi strategici – non può e non vuole arrivare. Per certi versi si è
tornati alla logica precedente agli accordi di Camp David del 1978.
3. «Iran told Turkey in advance of its operation against Israel, Turkish source says», Reuters, 14/4/2024.
4. İ. AKTAş, «Erdoãan sounds alarm on World War III», Daily Sabah, 5/10/2024.
5. Cfr. D. SANTORO, «Perché la Turchia deve tornare impero entro il 2053», Limes, 10/2021, «La riscoper-
ta del futuro», pp. 169-182.
6. L.N. GUMILEV, Gli unni, Milano 2014, Res Gestae, p. 50.
7. İ.M. MAYAKON, «Tarihten bir yaprak» («Una foglia dalla storia»), Cumhuriyet, 10/10/1936. L’ispiratore
dell’articolo era Mustafa Kemal, che veicola la tesi secondo la quale i turchi di Cina (Hatay Türkleri)
in un momento imprecisato si stabilirono nell’area delle odierne Antakya e İskenderun.
8. D. SANTORO, «La Turchia neogollista non è contro l’Occidente, anzi lo aiuta», Limes, 3/2011, «(Contro)
rivoluzioni in corso», pp. 161-169.
226 9. U. DE GIOVANNANGELI, «Il nuovo re di Gaza», Limes, 4/2010, «Il ritorno del sultano», pp. 69-74.
LA NOTTE DI ISRAELE

Per guidare il fronte anti-israeliano bisogna fare la guerra – diretta – a Israele.


Gli attacchi missilistici iraniani di aprile e ottobre non sono stati solo i primi attacchi
diretti dell’Iran allo Stato ebraico, ma i primi attacchi diretti di uno Stato straniero
contro Israele dal 1973. Erdoãan può sbraitare contro Netanyahu quanto vuole, Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

può accusare il primo ministro israeliano – al quale poco più di un anno fa strin-
geva sorridente la mano – di qualunque tipo di nefandezza, ma non può pensare
di farsi campione della cosiddetta piazza araba – ammesso e non concesso che
tale enigmatica entità esista ancora – senza atti concretamente ostili contro Israele
analoghi agli attacchi missilistici iraniani.
Il momento di difficoltà di Erdoãan è rispecchiato dalle sterili e frustrate inte-
merate contro Netanyahu, inquietante déjà-vu dell’inconcludente retorica pre-15
luglio – la minaccia di inviare truppe in Libano in caso di invasione israeliana ra-
senta la celebre profezia sulla celebrazione della preghiera del venerdì nella mo-
schea degli Omayyadi di Damasco. Con l’unica conseguenza di schiacciare passi-
vamente la Turchia sul fronte a guida iraniana. E di rendere più difficile per Anka-
ra assumere un ruolo simile a quello giocato sul fronte ucraino. Operazione alla
quale Erdoãan lavora, finora con limitato successo, dal 7 ottobre 2023.

2. In questa fase delle guerre mediorientali la Turchia persegue due obiettivi


fondamentali. Forgiare un blocco intermedio tra l’Iran e le petromonarchie del
Golfo e sfruttare le dinamiche laterali innescate dallo scontro Iran-Israele per avan-
zare i propri interessi strategici aggirando la logica del conflitto tra Gerusalemme e
Teheran. Dando chiaramente priorità ai fronti dove i due obiettivi si sovrappongo-
no, in primo luogo quello egiziano.
Dall’apertura del fronte irano-israeliano della Guerra Grande il successo geo-
politico più notevole ottenuto dalla Turchia è stato senza dubbio la riconciliazione
con l’Egitto, suggellata dalla visita di Erdoãan al Cairo del 24 febbraio scorso (la
prima dal 2011) e dalla trasferta anatolica di ‘Abd al-Fattåõ al-Søsø del 12 settembre
successivo, la prima di un presidente egiziano dal 2012. Si tratta di una dinamica
che precede l’inizio della guerra di Gaza. I contatti a livello di intelligence e di
bassa diplomazia erano ripresi già nel marzo 2021.
Nel novembre 2022, a Doha, Erdoãan strinse la mano al detestato Faraone,
gesto simbolico che aprì la strada alla visita in Egitto dell’allora ministro degli Este-
ri turco Mevlüt Çavuşoãlu nell’aprile 2023, alla successiva nomina degli ambascia-
tori – ritirati dieci anni prima – e alla cooperazione militare annunciata da Hakan
Fidan alla vigilia della trasferta sul Nilo del presidente turco 10, forse non casual-
mente allestita il giorno di San Valentino. Nella sua dimensione tattica la riconcilia-
zione tra Ankara e Il Cairo è solo tangenzialmente legata alle dinamiche mediorien-
tali; viene al contrario alimentata dalla quasi egemonia raggiunta dalla Turchia nel
cortile di casa dell’Egitto, tra le Libie e le Somalie.

10. «Turkey agrees to provide drones to Egypt», Reuters, 4/2/2024. 227


228
LETTONIA Paesi ai quali sono stati venduti droni da Apertura tratta mediana Istanbul-Xi’an
combattimento Bayraktar Tb2, Akıncı o Anka-S del corridoio Londra-Pechino
REGNO Mare LITUANIA Potenziali acquirenti di droni da
UNITO del Nord combattimento turchi
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LA TURCHIA SOGNA LA ZONA GRIGIA

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Triangolo strategico
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di Oman
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Turchia-Azerbaigian-Pakistan
Basi turche NIGER
CIAD SUDAN
Tensioni marittime tra Turchia e Grecia ETIOPIA INIZIATIVE GEOPOLITICHE TURCHE
LA NOTTE DI ISRAELE

Da inizio anno Ankara ha aumentato enormemente la sua già ragguardevole


influenza imperiale in Africa nord-orientale. Rispettivamente a febbraio e a marzo,
Turchia e Somalia hanno siglato due accordi in base ai quali i turchi si impegnano
a difendere le acque somale e a (ri)costruire, equipaggiare e addestrare la Marina Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

di Mogadiscio. In cambio ottengono il 30% dei proventi derivanti dallo sfruttamen-


to delle risorse della Zona economica esclusiva (Zee) del paese del Corno d’Africa
e il diritto di esplorazione, vendita e distribuzione delle risorse energetiche in essa
contenute 11.
A luglio il parlamento turco ha autorizzato il dispiegamento delle Forze arma-
te turche in Somalia per due anni al fine di difendere la Zee somala da minacce
terroristiche e simili, in base alle previsioni dell’accordo di febbraio 12. A inizio ot-
tobre la nave da ricerca sismica Oruç Reis – già protagonista di diverse crisi con la
Grecia nel Mediterraneo orientale – è infine salpata alla volta delle acque somale
scortata da due fregate 13. Tali dinamiche hanno ulteriormente consacrato la Soma-
lia come protettorato imperiale della Turchia, che già controlla – e turchizza – go-
verno, Forze armate, servizi segreti, infrastrutture strategiche e territorio del marto-
riato paese africano 14. Nonché i cuori della sua popolazione, che incarna l’Africa
turca immaginata dagli apparati anatolici 15.
Dalla prospettiva somala gli accordi con la Turchia sono una reazione diretta
all’intesa del gennaio scorso tra Etiopia e Somaliland in base alla quale la prima
otterrebbe l’agognato sbocco al mare attraverso il territorio della repubblica sepa-
ratista e la seconda si vedrebbe riconosciuta l’indipendenza da Addis Abeba. Vi-
cenda dalla quale emerge nitidamente l’approccio imperiale che orienta le mosse
di Ankara nel quadrante cornafricano. Con una mano Erdoãan approfitta della
crisi centrata sulla sponda occidentale del Golfo di Aden per accappiare ulterior-
mente la provincia somala dell’impero anatolico, con l’altra media tra i somali –
cioè sé stesso – e gli etiopi. Da agosto il ministro degli Esteri Hakan Fidan – che
in quanto direttore dei servizi segreti (Mit) cura il dossier somalo fin dalla storica
visita di Erdoãan a Mogadiscio dell’agosto 2011 – tesse le fila del negoziato tra
Etiopia e Somalia, con l’unico obiettivo di massimizzare l’influenza regionale della
Turchia.
Come in Ucraina, non importa che tipo di accordo venga raggiunto. Conta che
l’accordo sia mediato da Ankara, forte della presa egemonica su Mogadiscio. Ma
anche di una ragguardevole influenza su Addis Abeba alimentata da ingenti inie-
zioni di soft power anatolico, da massicci investimenti (l’Etiopia è il principale desti-
natario dei capitali turchi in Africa), dai droni da combattimento fondamentali per
11. K. BAEZ, «Turkey signed two major deals with Somalia. Will it be able to implement them?», Atlan-
tic Council, 18/6/2024.
12. A. EKIZ, A.B. OLAC, «Turkish parliament approves 2-year military deployment in Somalia», Anadolu
Ajansı, 28/7/2024.
13. «Turkish ship to begin oil search off Somalia this month», Reuters, 3/10/2024.
14. D. SANTORO, «In Africa la Turchia esporta sé stessa», Limes, 10/2022, «Tutto un altro mondo», pp.
225-238.
15. ID., «Il mare di Ankara bagna Niamey», Limes, 8/2023, «Africa contro Occidente», pp. 199-209. 229
LA TURCHIA SOGNA LA ZONA GRIGIA

sconfiggere i ribelli del Tigrè, dalle infrastrutture strategiche costruite dalle aziende
turche per connettere internamente il vasto paese africano. Contestualmente la
Turchia stringe accordi di cooperazione militare con Gibuti, posta in gioco massima
della competizione regionale 16, mentre coltiva relazioni particolarmente cordiali Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

con il regime sudanese impiantato a Khartoum da israeliani, egiziani e arabi del


Golfo per annientare l’influenza turca in Sudan, dunque nel Mar Rosso 17.
Tali dinamiche toccano direttamente Il Cairo, per il quale in Africa nord-orien-
tale si giocano partite vitali. Il confronto con l’Etiopia, in particolare, rischia di di-
ventare presto la vera priorità geopolitica del regime egiziano. Quest’estate, con il
progressivo riempimento della Diga del grande rinascimento etiopico (Gerd), han-
no infatti iniziato ad avverarsi i principali incubi di al-Søsø, convinto che Addis Abe-
ba intenda assetare e disidratare l’Egitto. Secondo i geologi egiziani l’acqua normal-
mente usata per riempire la diga di Assuan è arrivata con oltre un mese di ritardo
rispetto al solito 18. Erdoãan ha sfruttato le vulnerabilità del Cairo nella sua profon-
dità difensiva per tessere la propria tela egiziana: ratificando gli accordi con Moga-
discio solo dopo la visita in Egitto, dando loro corso solo dopo la trasferta ad An-
kara di al-Søsø, permettendo all’Egitto di inviare truppe in Somalia 19. In chiave di-
chiaratamente anti-etiope, tanto che il rischio di scontri alla frontiera è tutt’altro che
irrealistico 20. Acqua (del Nilo) al mulino imperiale della Turchia, unico attore in
grado di sciogliere il groviglio regionale. Con l’interessata compiacenza degli Emi-
rati Arabi Uniti, i cui rapporti con Ankara hanno raggiunto picchi inediti.
L’Egitto è consapevole di questo complesso di circostanze e del fatto che l’Etio-
pia è candidata ideale al ruolo di baricentro dell’impero turco in Africa orientale. Di
qui la forzata disponibilità di al-Søsø a riconciliarsi con Erdoãan. Anche perché la
profondità difensiva e i problemi dell’Egitto, dunque le opportunità della Turchia,
non finiscono sul Nilo. Si ramificano nelle Libie, dove Il Cairo non ha altra scelta
che scendere a compromessi con Ankara se vuole ricomporre e auspicabilmente
stabilizzare il buco nero alla sua frontiera orientale. Ad agosto il parlamento turco
ha infatti ratificato un nuovo memorandum d’intesa con Tripoli che rafforza la coo-
perazione militare e garantisce l’impunità ai soldati turchi di stanza in Tripolitania 21.
La posta in gioco della partita libica è il riconoscimento da parte egiziana dell’accor-
do turco-tripolino sulle frontiere marittime del 2019, dunque delle rivendicazioni
turche nel Mediterraneo orientale incastonate nella dottrina della Patria Blu.
In questa fase l’Egitto deve affrontare anche (soprattutto) l’agonia di Suez, il
suo assetto più strategico. Le tensioni nel Mar Rosso, più degli incidenti tecnici,
hanno indotto tutte le principali potenze eurasiatiche a immaginare fantasiosi cor-
16. E. TEKIN, «Turkish, Djiboutian defense chiefs sign military training, military financial cooperation
pacts», Anadolu Ajansı, 19/2/2024.
17. D. SANTORO, «Il golpe in Sudan è una sconfitta per Erdoãan», limesonline.com, 26/4/2019.
18. N. EL TAWIL, «Ethiopian Renaissance Dam causes 1-month delay of Nile water arrival to Egypt»,
Egypt Today, 16/9/2024.
19. «Egypt sends arms to Somalia following security deal, sources say», Reuters, 29/8/2024.
20. W. ROSS, D. ZANE, «Egyptian ship delivers weapons to Somalia», Bbc, 24/9/2024.
21. «Erdogan Secures Broad Powers for Turkish Forces in Libya with New Agreement», Libya Review,
230 17/8/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

ridoi ibridi per aggirare il Canale 22. La Turchia non fa eccezione, anzi è capofila del
revisionismo logistico. Ankara continua a promuovere spregiudicatamente il suo
Corridoio centrale che collega Pechino a Londra attraverso le steppe centrasiatiche,
il Caspio, il Caucaso e l’Anatolia. Immagina con Iraq, Qatar ed Emirati Arabi Uniti Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

di connettere il Golfo alla costa mediterranea dell’Anatolia mediante la cosiddetta


Strada dello sviluppo. Si propone di sfruttare l’Africa nord-orientale come piattafor-
ma ibrida per congiungere gli approdi strategici di Mogadiscio e Tripoli 23.
Eppure, non può fare a meno di Suez. Innanzitutto in termini logistici: il Corri-
doio centrale, la Strada dello sviluppo, la rotta africana servono a marcare il territo-
rio, hanno valenza strategica, ma in termini quantitativi non possono neanche lon-
tanamente compensare la rilevanza dell’asse Båb al-Mandab-Suez. Soprattutto, ad
Ankara il Canale egiziano serve in termini militari. Il presupposto antropologico
della Patria Blu è l’evoluzione dei turchi – non tanto della Turchia – in potenza ma-
rittima, meglio oceanica. La posta in gioco massima dell’attivismo turco è dunque
conquistare sbocchi sull’Indo-Pacifico – Mogadiscio serve a questo – e connetterli
alla piattaforma anatolica. È questo secondo scopo che rende Suez insostituibile.
L’Egitto ha dunque bisogno della Turchia per evitare di essere travolto dal
caos che destabilizza la sua profondità difensiva, mentre alla Turchia serve l’Egitto
per realizzare le sue ambizioni oceaniche. I margini di manovra sono potenzial-
mente ampi, anche perché le dinamiche innescate dallo scontro Iran-Israele pos-
sono cementare ulteriormente la nascente intesa tattica tra Ankara e Il Cairo.

3. La catena di eventi inaugurata dall’assassinio di tre comandanti iraniani a


Damasco da parte di Israele il 1° aprile scorso ha precipitato il Medio Oriente in
una polarizzazione forse senza precedenti. Da una parte il fronte a guida iraniana,
apparentemente determinato a combattere Israele a oltranza; dall’altra il nascente
fronte a guida saudo-emiratina, in realtà israeliana, incline a qualunque transazione
con lo Stato ebraico a prescindere dalla sorte dei palestinesi. Con le sue spregiudi-
cate prevaricazioni Netanyahu contribuisce strumentalmente ad allargare i bracci
della tenaglia, le cui ganasce incombono su chi resta nella zona grigia.
Bianco o nero. Bene o Male. Con Israele o con l’Iran. Lacchè dello Stato ebrai-
co o satellite della Repubblica Islamica. Questa logica mortifica le ambizioni e lo
status di Turchia ed Egitto, strutturalmente inadeguati ad affrontare una competi-
zione regionale imperniata sulla guerra aperta e diretta tra Israele e Iran. Non vo-
gliono – perché le loro Forze armate non possono – entrare in conflitto con lo
Stato ebraico. Non possono – perché le popolazioni non vogliono – legittimare gli
innumerevoli crimini di guerra da esso commessi a Gaza e non solo. Erdoãan e
al-Søsø, come riconosciuto da entrambi in occasione della recente visita del presi-
dente egiziano ad Ankara, hanno pertanto interesse a individuare una linea comu-
ne 24, forgiando un blocco intermedio tra Iran e Israele con rispettivi clienti. Così da

22. Cfr. l’articolo di F. Zampieri e I. Chiara in questo volume.


23. D. SANTORO, «La marcia turca solca il “Mar Bianco” e avvolge l’Africa», Limes, 2/2021, pp. 159-176.
24. Z. BAR’EL, «Fear of Israel’s Occupation of Gaza Pushes Egypt Closer to Turkey», Haaretz, 5/9/2024. 231
232
Impianti gnl turchi Progetto di gasdotto Membri dell’East Med Gas Forum
Marmara Ereğlisi 2 onshore e 2 offshore (EastMed) (Egitto, Israele, Cipro, Grecia,
Etki Autorità nazionale palestinese,
Aliağa Italia, Francia e Giordania)
Dörtyol
GRECIA T U R C H I A

M a r E g e o Rodi
LA TURCHIA SOGNA LA ZONA GRIGIA

Karpathos
SIRIA
Creta Kasos

CIPRO
LIBANO

Nuova frontiera marittima Calypso


tra Libia e Turchia (11/2019) Glaucus
Onisiforos Occ. Aphrodite
Nuova frontiera marittima Tamar
tra Egitto e Grecia (8/2020) Zohr Leviathan

LIBIA M a r M e d i t e r r a n e o ISRAELE Cisg.

Impianti per esportazione gnl Damietta


Acque contese (Libano/Israele) Gaza
Importanti giacimenti di gas
GIORDANIA
Idku
Accordo Turchia-Tripoli (2019)
Area turca E G I T T O
Area libica
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

Limiti di Zee frutto di un accordo bilaterale Impianto gnl galleggiante israeliano LE PARTITE ENERGETICHE NEL
in progetto per intensificare
Limiti di Zee non ufficiali lo sfruttamento di Leviathan MEDITERRANEO ORIENTALE
LA NOTTE DI ISRAELE

provare a calamitare le entità arabe che intendono far pagare allo Stato ebraico le
sue malefatte senza però scatenare una guerra regionale (potenzialmente nucleare)
e che sono disposte a fare affari con i sionisti senza che tuttavia a farne le spese
siano (solo) i palestinesi. Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

È una acrobazia dal coefficiente di difficoltà piuttosto elevato. Ankara e Il Cai-


ro dovrebbero in primo luogo premere sugli Stati Uniti perché pongano dei limiti
a Israele, mettendo congiuntamente sul piatto la rispettiva – non trascurabile – in-
fluenza sugli apparati washingtoniani. Grazie alla rodata macchina mediatica ana-
tolica e alla legittimità culturale egiziana, Turchia ed Egitto potrebbero inoltre inte-
starsi la narrazione araba della guerra di Gaza così da complicare le manovre di
Muõammad bin Salmån (MbS). Nell’ormai celebre conversazione telefonica con il
segretario di Stato americano Antony Blinken, il principe noto per acronimo ha
ammesso che dei palestinesi non gliene importa nulla 25 e che dunque normalizze-
rebbe le relazioni con Israele senza porre condizioni sulle questione di Gaza e
della Cisgiordania, magari plaudendo all’ingresso del sionista Bezalel Smotrich a
Damasco 26.
MbS ha aggiunto che tuttavia ai giovani sauditi dei palestinesi qualcosa impor-
ta. È vero solo in parte. Certamente i giovani sauditi sono toccati dai crimini di
guerra commessi da Israele in Palestina, ma è arduo immaginare che siano disposti
a sacrificare anche solo una frazione del loro benessere e delle loro opportunità
per soccorrere i fratelli arabi. Mediante i propri social media e le proprie popolari
produzioni televisive, turchi ed egiziani possono aizzare questo lezioso disagio
impedendo a bin Salmån di allearsi con Israele a scapito della questione palestine-
se, dunque di legittimare l’Iran e di lasciare Turchia ed Egitto in mezzo al guado.
Sull’altro fronte, Ankara può segnalare il proprio malessere a Teheran acca-
nendosi sulle vulnerabilità periferiche della Repubblica Islamica. A partire dal Cau-
caso. Dopo il 7 ottobre il flusso di petrolio azerbaigiano verso Israele non si è mai
interrotto, proprio come il flusso di armi israeliane che viaggia in senso inverso. Il
presidente armeno Vahagn Kachaturyan si dice fiducioso che l’accordo di pace tra
Baku ed Erevan verrà firmato entro inizio novembre 27. Mentre la Russia benedice
definitivamente il controverso corridoio di Zangezur tra l’Azerbaigian e la Repub-
blica autonoma del Naxçıvan con grande irritazione dei persiani, che perderebbero
di fatto il confine con l’Armenia 28 e dunque l’accesso al Caucaso, componente
fondamentale della profondità difensiva dell’altopiano iranico.
Particolarmente interessanti potrebbero essere le dinamiche innescate dall’e-
scalation tra Iran e Israele sulla Siria. Le difficoltà di Õizbullåh, così come quelle di
Iran e Russia, potrebbero indebolire ulteriormente il regime che resta allo stremo.
Il territorio siriano sta inoltre diventando teatro non secondario del confronto tra
25. «Saudi crown prince said he personally “doesn’t care” about Palestinian issue», Middle East Eye,
27/9/2024.
26. «Bezalel Smotrich calls for Israel’s borders to extend to Damascus», Middle East Eye, 15/10/2024.
27. «Armenia anticipates signing peace deal with Azerbaijan in 1 month», Daily Sabah, 7/10/2024.
28. «Inside the Iran-Russia tensions over an Azerbaijan transport corridor», Middle East Eye, 17/9/2024. 233
LA TURCHIA SOGNA LA ZONA GRIGIA

Israele e Iran: il presidente siriano Baššår al-Asad non può escludere che gli tocchi
lo stesso destino di Naârallåh e Haniyya, o comunque di restare schiacciato nello
scontro tra il protettore persiano e il suo nemico. Il regime alauita è sempre stato
la componente più ambigua della rete imperiale della Repubblica Islamica. Già tra Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

il 2006 e il 2011 Damasco entrò di fatto nell’orbita turca, pur senza uscire del tutto
da quella iraniana.
L’annunciato incontro tra Erdoãan e al-Asad non è ancora avvenuto, ma il
capo dell’opposizione turca Özgür Özel, grande sostenitore della riconciliazione
con il regime, sostiene che il presidente turco gli abbia garantito che incontrerà il
suo omologo siriano 29. Per al-Asad quella verso Ankara potrebbe essere l’unica via
di salvezza, nel momento in cui l’Iran fatica evidentemente a difendere i propri
clienti e gli ideologi del governo Netanyahu annunciano la prossima entrata delle
Forze di difesa israeliane a Damasco. Soprattutto se l’Egitto desse una patina pana-
raba all’iniziativa.
L’intero impianto è però minato da due criticità. La prima è tattica e contingen-
te: l’Egitto è un attore sclerotizzato incapace di pensare in termini strategici. La
grande strategia dell’attuale regime egiziano è sopravvivere. Ankara può sfruttare
le vulnerabilità africane del Cairo per avanzare i suoi interessi nel Mediterraneo
orientale e nel Corno d’Africa. Ma nella condizione in cui versa l’Egitto è nel mi-
gliore dei casi un partner improbabile, inadeguato ad affrontare i rischi geopolitici
quotidianamente fronteggiati dalla Turchia.
La seconda criticità è strategica e strutturale. Ankara non può permettersi di
combattere Stati Uniti e Israele e – soprattutto per questo – non ha interesse a sfi-
dare l’Iran. Come la catastrofe siriana attesta, i turchi sono perfettamente consape-
voli di non disporre (ancora) delle risorse fisiche e mentali per riempire il vuoto
lasciato dall’eventuale collasso dell’influenza imperiale iraniana tra gli Zagros e il
Mediterraneo, che verrebbe colmato da Washington e Gerusalemme. Per la Tur-
chia sarebbe game over. Erdoãan non ha dunque alternative vincenti. L’egemonia
turca è un’utopia. L’egemonia israelo-americana il male assoluto. L’egemonia per-
siana il male minore, che nel migliore dei casi rischia di tradursi in un accordo
Usa-Iran analogo a quello del 2015. Quindi con la spartizione del Medio Oriente
tra americani e iraniani.

4. La Turchia potrebbe non avere dunque altra scelta che accettare la logica
imposta da Israele e Iran. Il che avrebbe due notevoli conseguenze geopolitiche.
Primo: la Bomba turca. Se la competizione regionale viene orientata esclusiva-
mente dalla logica militare, se la competizione diventa guerra, è fisiologico che un
attore volitivo ambisca a dotarsi della stessa tipologia di armi a disposizione dei
rivali. Israele è una potenza nucleare non dichiarata, l’Iran è una potenza nucleare
in potenza. La Turchia deve dunque diventare una potenza nucleare, pena l’irrile-
29. «Özgür Özel’in iddiası: Erdoãan Esad’a haber yolladı» («Özgür Özel: Erdoãan ha inviato un mes-
234 saggio ad Asad»), İnternet Haber, 8/10/2024.
LA NOTTE DI ISRAELE

vanza. Erdoãan aprì la questione nel settembre 2019 in un comizio a Sivas, per poi
lasciarla cadere 30. Negli scorsi giorni uno degli ideologi a lui più vicini, il teologo
e consigliere finanziario Hayreddin Karaman, ha riproposto con veemenza il tema
scatenando un impetuoso dibattitto interno. Anche per l’oggettiva ragionevolezza Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

della tesi: «La Turchia sta facendo del suo meglio per contrastare quest’oppressione
e questa condotta demoniaca (di Israele, n.d.a.), ma i suoi sforzi non bastano a
ottenere risultati concreti. O il mondo islamico si unirà e coopererà con Cina e
Russia, o la Turchia salirà di grado dotandosi di missili e armi nucleari» 31.
Secondo: se l’egemonia turca in Medio Oriente non è un’opzione e se l’obiet-
tivo strategico è contenere Stati Uniti e Israele, non ha (più) alcun senso crogiolar-
si nella tattica accettazione dell’impero regionale della Repubblica Islamica. La
Turchia deve poter partecipare attivamente alla contesa. La guerra con Israele deve
dunque diventare una possibilità. Lo Stato ebraico deve poter essere un nemico da
combattere, dunque una minaccia attuale e concreta alla sicurezza nazionale della
Repubblica di Turchia. È questo il senso dell’avvertimento lanciato lo scorso 1°
ottobre da Erdoãan. «Ve lo dico chiaramente, dopo il Libano Israele ha messo nel
mirino la nostra patria. Netanyahu sogna l’Anatolia» 32. Laddove lo scenario più in-
quietante non è che i servizi segreti turchi, come nel 2015 a Reyhanlı per provare
a legittimare l’offensiva contro il regime di al-Asad, inscenino atti ostili dello Stato
ebraico. Ma che Netanyahu e i suoi esaltati accoliti intendano effettivamente sag-
giare la consistenza della potenza turca.

30. «Erdogan says it’s unacceptable that Turkey can’t have nuclear weapons», Reuters, 5/9/2019.
31. H. KARAMAN, «Bu mel’un amacı nasıl engelleriz» («Come possiamo contrastare questo empio propo-
sito»), Yeni Şafak, 8/9/2024.
32. «Israel’s next target will be Türkiye, Erdoãan says», Hürriyet Daily News, 1/10/2024. 235
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9
SAMIR AITA - Presidente del Cercle des Economistes Arabes. Consulente in econo-
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

mia, finanza, lavoro e pianificazione urbana.


RIYåî AL-MåLIKø - Ministro degli Esteri dell’Autorità nazionale palestinese (Anp).
ELEONORA ARDEMAGNI - Esperta di Yemen e monarchie del Golfo, è ricercatrice asso-
ciata senior dell’Ispi, cultrice della materia all’Università Cattolica di Milano
(Regional Studies Medio Oriente; Nuovi conflitti) e docente a contratto del
Master in Middle Eastern Studies dell’Aseri (Yemen: Drivers of Conflict and
Security Implications).
GIACOMO MARIA ARRIGO - Assegnista di ricerca in Filosofia morale all’Università Vita-
Salute San Raffaele di Milano.
EDOARDO BORIA - Geografo al dipartimento di Scienze politiche dell’Università Sa-
pienza di Roma, è titolare degli insegnamenti di Teorie e storia della geopoli-
tica e di Metodologia per l’analisi geopolitica. Consigliere scientifico di Limes.
LORENZA BOTTACIN-CANTONI - Dottoressa di ricerca in Storia della filosofia, collabora
con le cattedre di Storia della filosofia contemporanea e di Estetica del dipar-
timento Fisppa dell’Università degli Studi di Padova.
ANTONELLA CARUSO - Direttore esecutivo della Fondazione Vittorio Dan Segre. Con-
sigliera scientifica di Limes.
ISABELLA CHIARA - Analista geopolitica, collabora con diverse testate e centri studio
attivi negli studi strategici. Al Centro studi militari marittimi ha contribuito ad
attività di ricerca scientifica sui temi della marittimità e delle dinamiche geopo-
litiche legate alla contesa per il controllo degli spazi oceanici.
MAURO DE BONIS - Giornalista, redattore di Limes. Esperto di Russia e paesi ex so-
vietici.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI - Giornalista, esperto di Medio Oriente.
GIUSEPPE DE RUVO - Dottorando in Filosofia morale allo European Center for Social
Ethics (Ecse) dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Collaboratore
di Limes.
GERMANO DOTTORI - Consigliere scientifico di Limes.
MEIR ELRAN - Generale di brigata a riposo delle Forze di difesa israeliane e direttore
della ricerca domestica all’Institute for National Security Studies (Inss).
FAN HONGDA - Professore all’Istituto di studi sul Medio Oriente della Shanghai Inter-
national Studies University (Sisu).
ANNA FOA - Storica, ha insegnato all’Università Sapienza di Roma e si è occupata
soprattutto della storia degli ebrei in Italia e in Europa e della memoria del-
la Shoah. 237
MICHELANGELO GENONE - Laureato in Letteratura, musica e spettacolo all’Università
Sapienza di Roma, studioso di geopolitica e critica letteraria. Tirocinante di
Limes.
WŁODEK GOLDKORN - Giornalista e saggista.
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PIERGUIDO IEZZI - Già ufficiale di carriera con oltre trent’anni di esperienza nel mon-
do della cibersicurezza. Autore di Cyber e potere (2023).
ORNA MIZRAHI - Ricercatrice senior all’Institute for National Security Studies (Inss).
Ha prestato servizio nell’Esercito israeliano e nello staff per la sicurezza nazio-
nale del primo ministro.
CESARE PAVONCELLO - Traduttore e freelancer. Collabora da anni con giornali e tele-
visioni su questioni legate a Israele e al conflitto israelo-palestinese.
NICOLA PEDDE - Analista per il ministero della Difesa per oltre vent’anni, oggi diret-
tore del think tank Igs – Institute for Global Studies.
FEDERICO PETRONI - Consigliere redazionale di Limes e coordinatore didattico della
Scuola di Limes.
DANIELE SANTORO - Coordinatore Turchia e mondo turco di Limes.
SCOTT SMITSON - Direttore del programma di Grand Strategy alla Denison University,
veterano dello U.S. Army.
EMILY TASINATO - Pan-European Fellow allo European Council on Foreign Relations,
dove si occupa principalmente di politica e sicurezza nella Penisola Arabica e
nella regione del Golfo.
LORENZO TROMBETTA - Corrispondente per Limes dalla Siria e dal Libano. Autore di
Negoziazione e potere in Medio Oriente (2022).
YOCHANAN TZOREF - Ricercatore senior all’Institute for National Security Studies
(Inss). Analista del mondo arabo specializzato in relazioni israelo-palestinesi,
società palestinese e sue relazioni con Israele e gli insediamenti.
FRANCESCO ZAMPIERI - Docente di Strategia all’Istituto di Studi militari marittimi (Ve-
nezia) e Senior Researcher al Centro studi militari marittimi. Docente a contrat-
to al master in Geopolitica e sicurezza globale e al corso di laurea in Sicurezza
e Relazioni internazionali all’Università Sapienza di Roma.

238
La storia in carte
a cura di Edoardo BORIA
Copia di c467e6c04b94ae82a3e5f76245db13c9

1-2. Due immagini apparentemente innocue visualizzano l’incompatibilità ter-


ritoriale tra i due progetti di potere che implicitamente sottintendono. Nella figura 1,
dietro i giocosi bambini poco semiti e molto biondi e chiari di carnagione, la grande
macchia bianca non è un abbellimento estetico ma una carta stilizzata di un’idea
grandiosa di Israele, estesa su un’area molto più vasta del territorio dell’attuale Sta-
to ebraico, dalla costa mediterranea a ben oltre la verticale Lago di Tiberiade-Gior-
dano-Mar Morto. I confini a est, nord e sud rimangono, di fatto, indefiniti. L’imma-
gine venne commissionata dal potente Fondo nazionale ebraico, braccio della causa
sionista, uno dei tanti attori poco appariscenti ma molto influenti nella questione
israelo-palestinese, proprietario di enormi superfici fondiarie in quell’area.
La figura 2 ha la medesima natura propagandistica e la stessa ispirazione mas-
simalista. Si riferisce, però, a un progetto alternativo: quello della dinastia hashe-
mita di Giordania. Celebra il primo summit della Lega Araba, tenuto al Cairo
nel 1964, che già a quell’epoca aveva come principale punto all’ordine del giorno
il contrasto all’imperialismo straniero e alle «politiche aggressive» di Israele. Tra
l’altro, proprio in quel summit si gettarono le basi per la costituzione dell’Olp, la
storica organizzazione della battaglia politica palestinese. La carta geografica che
domina il francobollo presenta una Giordania estesa fino al Mediterraneo, dunque
totalmente sovrapposta a Israele, che era ufficialmente nato 16 anni prima.
Queste immagini sono espressioni di potere e riguardano il rapporto che esi-
ste, in geopolitica, tra il progetto e la sua narrazione. Inoltre, ricordano che lo
studio degli immaginari geografici non è esercizio stucchevole ma presenta effetti
pratici perché essi legittimano le azioni politiche e indicano con estrema chiarez-
za gli obiettivi. Temi di cui deve necessariamente occuparsi l’analisi geopolitica,
obbligata a prendere in carico la dimensione sia materiale sia immateriale della
politica.
Fonte figura 1: Eitan Ora, Il compleanno del Fondo Nazionale Ebraico, Gerusalem-
me 1974, Ziv Litho offset printing.
Fonte figura 2: emissione filatelica del Regno Hascemita di Giordania per
celebrare il summit della Lega Araba del 13 gennaio 1964.

3. Dalla proclamazione dello Stato di Israele (1948) fino alla guerra dei Sei gior-
ni (1967) la Striscia di Gaza rimase sotto l’amministrazione dell’Egitto, come ricorda
l’assenza di confine nella figura 3 in corrispondenza di Rafah. , oggi emblema della
gabbia in cui sono rinchiusi i palestinesi di quel territorio. Dallo stesso francobollo
risultano evidenti le ambizioni egiziane a svolgere il ruolo di leader regionale inte-
standosi una battaglia a nome dell’intera comunità araba, come specifica la scritta in
basso a destra «Gaza part of Arab Nation». Due elementi accomunano questa im-
magine alla precedente: l’assenza di riferimenti a Israele e l’uso della lingua inglese,
a indicare che il messaggio è rivolto alla platea internazionale.
Fonte: emissione filatelica dello Stato egiziano, 1957. 239
4. L’incerta titolazione della figura 4 fa riflettere: perché quello che per tanto
tempo era stato il «Vicino Oriente» (traduzione letterale di «Near East» e «Pro-
che Orient») viene oggi preferibilmente chiamato «Medio Oriente»? Escludendo
uno spostamento dovuto al fenomeno della deriva dei continenti, vale chiedersi se
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questo Oriente, in definitiva, sia vicino o lontano. Ma poi: come può essere vicino
o lontano per tutti, visto che ogni popolo del mondo è a una distanza diversa da
quest’area? Le espressioni geografiche sono storie di conquiste e imposizioni, di
egemonie e asservimenti, di politica, cultura e percezione dell’altro. Inesorabil-
mente volute dai più forti e accettate dai più deboli.
All’inizio del Novecento i più forti erano ancora, come nel secolo precedente,
gli inglesi, e dunque non potevano che essere loro a imporre agli altri il canone
geografico. L’esercito britannico operava in Asia attraverso due comandi distinti:
quello del Cairo aveva in affidamento la porzione più occidentale del continente
e agiva attraverso l’Armata del Vicino Oriente; più a est, quello di Delhi coman-
dava l’Armata del Medio Oriente. Quando, durante la fase più delicata del se-
condo conflitto mondiale, i due comandi furono unificati spostando anche quello
di Delhi al Cairo, l’Armata del Medio Oriente cominciò a dare il nome all’intera
regione araba scalzando progressivamente l’appellativo di «Vicino Oriente», che
cadde in disuso. Allora molti nel mondo lo abbandonarono, compresi gli italiani
che dovrebbero invece chiamare «vicina» un’area del loro stesso quadrante me-
diterraneo. Siccome il nome fa la cosa, insieme all’aggettivo perdemmo anche la
percezione di quanto le dinamiche di quell’area siano concatenate alle nostre.
La figura 5 ricorda il desueto epiteto grazie al Comitato americano per il soc-
corso al Vicino Oriente. La carta venne pubblicata nel 1915 ma, ovviamente, un
Comitato con quella missione non ha mai potuto smettere di operare in quanto non
gli è mai venuta a mancare la ragione della sua istituzione. Oggi conserva l’espres-
sione facendosi chiamare Fondazione Vicino Oriente. Paradossale per chi è il più
lontano da quell’area.
Fonte figura 4: particolare della tavola «Vicino e Medio Oriente», da Grande
Atlante Geografico De Agostini, Istituto Geografico De Agostini, Novara 1987, tav. 24.
Fonte figura 5: Ethel Franklin Betts, «Salva i sopravissuti – 3.950.000 per-
sone stanno morendo di fame», American Committee for Relief in the Near East,
New York 1918.

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