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Antropocene: era delle alterazioni climatiche in corso.

Mentre l'Olocene era un’epoca geologica originata dall’impatto delle attività umane
sull’atmosfera, l’Antropocene è l’epoca in cui le emissioni di CO2 generate dalle attività
umane hanno cambiato il clima e di conseguenza le condizioni per la vita sulla terra. Più
recentemente, è diventato chiaro che la CO2 non è l’unico indicatore rilevante. A partire
dall’avvento del motore a vapore, l’enorme crescita della produzione industriale, dei trasporti e
delle comunicazioni, delle infrastrutture, dei test nucleari e militari, l’uso di sostanze chimiche,
uniti alla crescita del numero umano e dei livelli di consumo, hanno profondamente modificato
le condizioni per la vita sulla Terra. L’incidenza di questi fattori è aumentata drasticamente a
partire da un momento più recente, il periodo dal 1950 ad oggi, che è stato ribattezzato la
Grande Accelerazione. Un marcato aumento degli eventi climatici catastrofici, lo
scioglimento dei ghiacciai e l’innalzamento dei livelli del mare, l’acidificazione degli oceani, una
diffusa contaminazione del suolo e dell’acqua e una nuova ondata di estinzioni sono i principali
indicatori del futuro dell’umanità, essa stessa a rischio.

Gli studi umanistico-ambientali sono specificamente dedicati al dibattito critico


sull’Antropocene. Affinché il loro contributo possa fare la differenza, diventa essenziale il loro
ruolo nel promuovere una vera e propria rivoluzione Khuniana (ovvero un cambiamento
all’interno della teoria scientifica). Questo cambio di paradigma poggia su tre pilastri
fondamentali: la critica del dominio patriarcale, di quello coloniale e razziale, e di quello di
specie.

Gli uomini bianchi godono di una serie di privilegi, tra cui quello di essere gli ultimi
sopravvissuti al riscaldamento atmosferico globale. I leader mondiali godono non soltanto del
privilegio ma anche della supremazia planetaria, ovvero hanno il potere di decidere sulle sorti
non solo dell’umanità ma di tutte le altre forme di vita. Tale supremazia si esercita prima di
tutto mettendo a tacere la voce degli ‘altri’, o rendendo irrilevanti i loro argomenti, le loro
storie. Tale combinazione di violenza materiale (ecocidio) e simbolica (censura, silenziamento
del dissenso) forma ciò che ho definito come ‘violenza ambientale’.

La storia ambientale si è impegnata a ricostruire origini e sviluppi della crisi ecologica


ricercandole nell’interazione dinamica tra le società umane e il loro ambiente biofisico nel corso
del tempo, prendendo in considerazioni tanto gli aspetti materiali (interscambio di energia e
materia) quanto quelli simbolici (scienza, percezione del mondo, religione, cultura). La storia
ambientale ha documentato il ruolo dominante giocato dalla civiltà occidentale nel determinare
il degrado progressivo e incrementale della biosfera a partire dall’era delle scoperte
geografiche.

Le economie avanzate pagano oggi i costi umani e ambientali della crescita economica
esponenziale vissuta nella seconda metà del ‘900, attraverso l’inquinamento da metalli
pesanti, scorie radioattive, amianto, etc., le cui tracce risalgono da suoli e falde acquifere fino
ai tessuti organici di persone e animali. Tali costi ambientali non sono equamente distribuiti:
essi tendono a concentrarsi nelle cosiddette ‘zone di sacrificio’ – ovvero territori marginali
abitati da comunità di cittadini/e di serie b, alle cui vite, per ragioni diverse, viene attribuito un
valore minore rispetto alla media nazionale o regionale.

Le scienze sociali hanno gettato luce sulla triade capitalismo/colonialismo/patriarcato come


causa strutturale del degrado ambientale dalla scala locale a quella globale, e sui dualismi
natura/cultura - maschile/femminile - occidente/resto del mondo, tipici del pensiero occidentale
moderno, come substrato ideologico della crisi stessa. Di particolare rilevanza in questo campo
è stato il lavoro della storica e filosofa statunitense Carolyn Merchant, ed in particolare la sua
teoria della crisi ecologica come prodotto delle contraddizioni che si verificano – in determinate
congiunture storiche – tra produzione, riproduzione, ed ecologia, dando vita a nuove
configurazioni dei rapporti tra le tre sfere. Tali trasformazioni sono a loro volta accompagnate
da trasformazioni radicali nella coscienza ecologica collettiva, ovvero nel modo in cui la società
considera l’ambiente biofisico. L’insieme di queste trasformazioni radicali nella sfera materiale
ed in quella simbolica, secondo Merchant, costituisce una Rivoluzione Ecologica: un concetto
non necessariamente di valore progressivo, in quanto può segnalare invece un netto degrado
delle condizioni per la riproduzione della vita a vari livelli.

Studiando il cambiamento ambientale nella costa orientale del Nord America, Merchant
identificò due rivoluzioni ecologiche susseguitesi a partire dall’arrivo degli Europei nel XVI
secolo: la prima fu la rivoluzione coloniale, in cui il modo di produzione e riproduzione dei nativi
(di carattere matriarcale), nonché l’ambiente biofisico e le forme di vita che caratterizzavano il
loro mondo, furono alterati in modo permanente e irreversibile portando allo sterminio di intere
popolazioni e specie animali e vegetali, e lasciano il posto ad una cultura patriarcale e ad
ecosistemi del tutto nuovi. La seconda fu la rivoluzione capitalista/industriale del XIX secolo, in
cui l’agricoltura di sussistenza delle comunità di pionieri, unita al commercio su scala locale e
alla continua emigrazione delle eccedenze demografiche, fu gradualmente sostituita da una
specializzazione e intensificazione crescenti della produzione agricola, con la proletarizzazione
della forza lavoro e la transizione verso i combustibili fossili. Queste trasformazioni portarono
ad una nuova drammatica riconfigurazione dell’ambiente biofisico, con lo sviluppo urbano e
delle infrastrutture, l’inquinamento pervasivo, l’eccezionale aumento della densità demografica
dovuta all’immigrazione di forza lavoro, etc. Come la prima rivoluzione ecologica del New
England, anche questa seconda si basò su una trasformazione dei rapporti tra i generi e della
divisione sessuale del lavoro nella società: il sistema patriarcale, cioè, veniva minato dal
crescente benessere materiale, che consentiva alle donne di accedere all’istruzione di massa e
di partecipare attivamente alle istanze di cambiamento politico e sociale conquistando diritti
che erano stati loro negati precedentemente (voto, aborto etc). Tali conquiste, però, venivano
pagate con il progressivo cancellamento delle capacità di autonomia e resilienza delle persone
rispetto all’ambiente biofisico, ovvero con la loro semi-completa separazione dai mezzi di
produzione e alienazione dal prodotto del loro lavoro. Catena di montaggio, automazione, e
specializzazione distruggevano i saperi diffusi e rendevano le persone incapaci di sopravvivere
al di fuori di un sistema tecnologico complesso su cui esse non avevano alcun controllo. Un
cambiamento radicale della coscienza ecologica collettiva accompagnava questa seconda
rivoluzione ecologica: esso era il prodotto della crescente alienazione delle persone dalla loro
dimensione ecologica, con conseguenze negative sul loro benessere psico-fisico e sugli equilibri
ecologici complessivi.

L’Antropocene può essere infatti considerato come una rivoluzione ecologica in corso, di
carattere globale, segnata da una triplice trasformazione: 1) quella del modo di produzione, dal
predominio del settore manifatturiero a quello dei settori informatico, finanziario, e dei servizi
alla persona; 2) quella delle forme della riproduzione, tanto umana (nuova ondata di migrazioni
di massa, nuove transizioni epidemiologica e demografica) quanto non-umana (la sesta grande
estinzione nella storia del pianeta); 3) la trasformazione ecologica, segnalata dall’alterazione
permanente della composizione chimica dell’atmosfera e della superficie terrestre. Come le
precedenti, questa nuova rivoluzione ecologica in corso è segnata da cambiamenti radicali nei
rapporti di genere, con una intensa femminilizzazione della forza lavoro a livello globale, ed
una crescente importanza economica del lavoro di cura e di riproduzione. Al tempo stesso,
essa è accompagnata da una nuova trasformazione della coscienza ecologica collettiva,
segnata da nuove forme di consapevolezza e di mobilitazione ecologica, tra cui spiccano le
lotte per la giustizia ambientale e climatica.

Tutte le rivoluzioni ecologiche sono originate dall’esplodere di contraddizioni e producono nuovi


equilibri tra le forze in azione. Il fatto che questa nuova rivoluzione ecologica sia ancora in
corso permette (ancora) di sperare in un esito non del tutto scontato. Le forze in campo, infatti,
sono diverse: da un lato, la triade capitalismo/neocolonialismo/patriarcato, resa ancora più
potente e diffusa dalla globalizzazione neoliberista, continua a produrre crisi ecologica in
quanto riduce tutto (persone, lavoro, ambiente, conoscenza) al suo valore di scambio, la cui
massimizzazione è ottenuta con lo sfruttamento e il degrado di corpi, risorse, ecosistemi. La
conseguenza estrema di queste spinte, ormai è chiaro, sarebbe molto probabilmente
l’estinzione della vita sul pianeta, o comunque una drastica riduzione delle possibilità di
sopravvivenza non soltanto per la specie umana.
Le donne costituiscono la categoria sociale più oppressa dalla triade
capitalismo/neocolonialismo/patriarcato e quella con il maggiore interesse nel suo
rovesciamento e sostituzione con un nuovo sistema di relazioni socio-ecologiche. Si tratta di
una visione politica dell’Antropocene in cui la salvezza della specie è affidata all’uomo bianco
armato degli stessi strumenti tecnici ed ideologici che in primo luogo hanno prodotto la crisi,
per sostituirla con una nuova narrazione, in cui la salvezza della specie umana viene dal lavoro
meta-industriale, e dunque innanzitutto dalle donne del sud globale, che ne formano la
maggioranza numerica, e dalle loro lotte contro le forze del degrado ecologico.

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