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SOMMARIO

Editoriale 3

Bollettino IIF 5

osservatorio

Mara Di Berardo, Filippo Barbera, Paolo Jedlowski, Vincenza


Pellegrino, Roberto Paura
Esiste la sociologia del futuro? 9

Valentina Chabert
L’Italia come potenza spaziale: le sfide della New Space Economy 23

guerr e pace nel 2050

Thomas F. Connolly
Ancestral Voices Digitalizing War: Robot Warriors at the Gates? 27

Annamaria Dichio
Paspolemos: un’analisi SWOT degli effetti di una guerra glo-
bale nell’era della Quarta rivoluzione industriale 35

Gabriele Di Francesco
E guerra sia! Scenari bellici dalla Butte du Lion agli algoritmi
di combattimento 47

Adolfo Fattori
Immagini di una apocalisse possibile. Dinamiche della paura
nell’immaginario dell’invisibile 63

Gloria Puppi
Dalla fantascienza alla realtà: simulazioni, droni e super-solda-
ti per le guerre del futuro 77
Mauricio Hernandez Ramirez
Future use of Lethal Autonomous Weapons (LAWs) by crimi-
nal Non-State Actors 89

Donato Speroni
Tre scenari di guerra e pace per la metà del secolo 107

scenari

Alexander Sharov
Into the Global Monetary System: Past developments and Fu-
ture Scenarios 117

Andrea Apollonio
La crisi dell’immaginazione storica. Trasformazioni climati-
che, memorie sovversive e futuri alternativi 127

Lorenzo Fattori, Luigi Maria Sicca


Grande accelerazione e scomparsa del futuro. Tempo, comu-
nicazioni, progresso e velocità tra la fine dell’Ottocento e i pri-
mi decenni del Novecento 139

Marica Castaldi
ViP: Voyeurismo in Panopticon. Il dominio in Squid Game 149

narrazioni

Flavio Torba
Crash Test 159

Autorə 167

2
EDITORIALE

Da Vegezio al 2050: quali scenari si prospettano?

di Carolina Facioni

Di Publio Vegezio Renato, aristocratico romano vissuto tra il IV ed il V


secolo dopo Cristo, non ci sono pervenute molte notizie. Di lui è nota tuttavia
un’opera, Epitoma rei militaris, in cui è presente la frase “Si vis pacem, para
bellum”: se vuoi la pace, prepara la guerra. A oggi, una delle frasi latine più
famose: diffusissima anche in Rete, dove Vegezio è probabilmente uno degli
autori classici più citati – sia pure, temo, inconsapevolmente. Molti gli utenti
che scelgono la sua frase più nota come motto personale, auto-rappresentativo.
Al di là della paradossale fortuna di Vegezio in Rete, quello che in questo con-
testo ci interessa è come venga illustrato, nella meravigliosa sintesi del latino,
uno dei primi esempi di anticipatory approach della storia.
Se anticipare significa, infatti, mettere a punto azioni, strategie che permet-
tano possibili futuri sviluppi degli eventi considerati desiderabili – sia in senso
positivo (prendere decisioni perché qualcosa accada), che in senso negativo
(prendere decisioni perché qualcosa non accada) – è fuori discussione che la
guerra sia, tra tutti i possibili eventi non desiderabili, probabilmente uno dei
meno desiderabili in assoluto. Tant’è che in questi ultimi decenni la guerra vie-
ne chiamata “guerra” solo da chi non ne è direttamente coinvolto. Al contrario,
le nazioni che intraprendono (o sostengono) azioni di guerra ne parlano in ter-
mini di “missioni”: di liberazione, di pace, di libertà, di difesa della democra-
zia…Viene associata, insomma, alla missione un concetto comunque lontano
dall’idea di morte e distruzione che ogni guerra porta inevitabilmente con sé.
Per il peso che ha sui destini dell’umanità, il tema della guerra non può non
interessare i Futures Studies. Si può, peraltro, affermare senza tema di smentite
che la nascita dei Futures Studies si intreccia, dal punto di vista storico, con la
guerra. La disciplina vede infatti la luce nel contesto della Guerra Fredda, nel-
la delicatissima e fragile situazione geopolitica che seguì la fine della Seconda
Guerra Mondiale. Fu in questo clima di incertezza che la comunità internazio-
nale (soprattutto nel contesto scientifico ed intellettuale) prese atto di come
una scienza che aveva prodotto la bomba atomica non potesse più essere con-
siderata uno strumento esclusivamente al servizio del bene dell’umanità, ma
anche la possibile causa della sua distruzione – e di come i rapporti non sereni
tra le due nuove potenze mondiali emerse dal conflitto, l’Unione Sovietica e gli
USA, potessero portare ad un nuovo, probabilmente fatale, conflitto. L’accora-
to appello del Manifesto Russell-Einstein è del 1955.
Futuri 18 editoriale

Fu quindi il timore di una Terza Guerra Mondiale la spinta che fece nascere,
negli USA, un think-tank come la Rand Corporation. Contesto, questo, in cui
furono messe a punto nuove tecniche di indagine rivolte ai futuri possibili (ad
esempio, gli scenari, il Delphi). Negli stessi anni va collocata la riflessione filo-
sofica europea su cosa fosse il futuro, se ci fosse un solo futuro possibile: tra gli
autori più importanti, Bertrand De Jouvenel e Gaston Berger teorizzarono l’u-
no la conjecture, l’altro la prospective, mentre in Italia Nicola Abbagnano rese,
teorizzando l’Esistenzialismo Positivo, un ruolo attivo dell’uomo nella storia.
Da una guerra – e dal timore di una nuova guerra – nasce dunque l’avventu-
ra scientifica della disciplina di cui FUTURI è portavoce. Non potevamo non
dedicare un numero a questo argomento. Numero pensato prima del febbraio
2022, data dell’inizio del conflitto russo-ucraino – e probabilmente ispirato da
alcuni temi emersi nel corso del Convegno della World Futures Studies Fede-
ration, a ottobre 2021. In quel contesto, più voci avevano parlato della possi-
bilità di una guerra a breve termine. Le ipotesi si sono verificate, ma limitarsi a
constatare cosa avviene nel presente non è la missione dei Futures Studies, che
debbono guardare più in là. Nei futuri per i quali si può ancora agire.
Gli ultimi eventi hanno nuovamente posto l’umanità di fronte alla possibi-
lità di una guerra mondiale – e mai come in questo momento ha senso parlare
di incertezza. I Futures Studies tornano, con i saggi presenti in questo numero,
alle loro origini, ma spostando il riferimento temporale ad un futuro non trop-
po lontano, il 2050. Se allora ci sarà una guerra, chi la combatterà, e come; quali
saranno le strategie di comunicazione rivolte ai cittadini; a che livello territoria-
le arriverà: possiamo pensare a una terza guerra mondiale, oppure a tanti con-
flitti sparsi, come già oggi quelli che coinvolgono anche la “pacifica” Europa?
Parlare di guerra significa parlare, chiaramente, anche di pace: quali saran-
no le strategie possibili per evitare nel 2050 un conflitto che potrebbe essere
disastroso per la storia umana? Perché siamo convinti che la guerra – e tutte
le sue implicazioni demografiche, economiche, sociali, culturali, tecnologiche
– debba avere nei Futures Studies, ed in particolare nell’anticipazione, un suo
fondamentale antagonista.

4
BOLLETTINO IIF

Numero speciale di FUTURI: Lo spazio europeo nella turbolenza globale

Il numero speciale di Futuri, il secondo curato dal Center for European Fu-
tures, viene pubblicato nei giorni in cui il Mondo si trova sull’orlo di una peri-
colosa escalation nucleare. L’aggressione russa all’Ucraina ha gettato la società
internazionale in una condizione di tempesta perfetta, possibilmente ancora
più intensa in Europa per ragioni di prossimità geografica e quindi politica. Sul
futuro dell’Europa tanto dipenderà anche dalla durata e dell’esito della guerra
in Ucraina: in questa partita si gioca, più in generale, il futuro dell’architettura
del Sistema Internazionale e dei rapporti di forza globali. Ci troviamo in un
quadro mutevole e di complessità estrema. Le variabili che interagiscono e pla-
smano il futuro prossimo e meno prossimo sono numerosissime e si intrecciano
in diversi livelli spaziali: nazionale, europeo, internazionale. Questo numero
di Futuri ha l’obiettivo di fornire alle lettrici e ai lettori prospettive e analisi per
orientarsi nel presente alla luce delle riflessioni sui futuri possibili dell’Europa
e del Sistema Internazionale.
Lo spazio Mediterraneo, i populismi dopo il Covid-19 in Europa e in pro-
spettiva internazionale comparata, il ritorno dello Stato e le trasformazioni del
discorso politico, il futuro del trasporto ferroviario, le politiche digitali euro-
pee, il caso della “health diplomacy” del Venezuela, le relazioni internazionali
nella cultura pop giapponese, le migrazioni, sono alcuni dei temi affrontati in
questo numero. Il numero ospita anche il contributo di Valeriy Heyets, Di-
rettore dell’Institute for Economics and Forecasting dell’Accademia nazionale
delle Scienze dell’Ucraina, che inaugura una collaborazione con l’Italian Insti-
tute for the Future che, speriamo, possa presto proseguire in un contesto di
Pace per questo Paese.
Il numero speciale fuori serie di FUTURI è disponibile esclusivamente in
formato digitale e scaricabile gratuitamente su https://bit.ly/3HL6u2l.

Visioni di futuro nelle organizzazioni di volontariato

Le organizzazioni di volontariato rappresentano il tessuto sociale che rende


vive e attrattive molte comunità, attivando iniziative di tipo sociale, ambientale,
culturale, sportivo, di protezione civile. Quali sono le prospettive evolutive di
questo sistema complesso accelerate con l’epidemia da Covid 19 e dalla crisi
economica? Quali azioni possono favorire i futuri desiderati e contrastare gli
elementi di cambiamento che le stanno interessando? Carla Comper, con lo
studio Visioni di futuro nelle organizzazioni di volontariato, tra futuri desiderati
e futuri possibili edito dall’Italian Institute for the Future, cerca di rispondere
a queste domande partendo dal punto di vista dei protagonisti, proiettando i
futuri delle organizzazioni al 2035. Precisa l’autrice: “Con questa pubblicazio-
ne si vorrebbero fornire a organizzazioni di volontariato e ad amministratori
pubblici alcuni elementi strategici di attenzione per programmi di sostegno al
volontariato verso futuri positivi e desiderabili, nonché attenzione verso quegli
elementi negativi che andrebbero contrastati in una prospettiva concreta di
lavoro condiviso, nella consapevolezza che noi possiamo con il nostro impegno
influenzare gli eventi e il futuro.”
Carla Comper, laurea in servizio sociale e master in previsione sociale, diri-
ge un servizio sociale pubblico e si occupa di pianificazione sociale.
Il volume è scaricabile gratuitamente in digitale su https://bit.ly/3Wywl1u.

Winter School in Futures Studies “Indici sintetici per la previsione sociale”

Per affrontare la crescente complessità del mondo contemporaneo, l’impie-


go di strumenti in grado di descrivere in modo sintetico fenomeni sociali com-
plessi può essere di grande utilità non soltanto per spiegare l’esistente, ma per
anticipare l’evoluzione futura dei fenomeni. Sempre più negli ultimi anni si dif-
fonde l’uso di indicatori compositi o “indici sintetici” per la rappresentazione
dei fenomeni multidimensionali, come lo sviluppo, il benessere, la qualità della
vita, le disuguaglianze, la povertà. Gli indici sintetici permettono di combinare
più dimensioni e ottenere così una descrizione più realistica di una porzione
complessa della realtà, a uso dei decisori che attraverso questi dati possono
prendere decisioni per l’avvenire.
Nati nel contesto delle politiche macroeconomiche, gli indici sintetici si
stanno oggi diffondendo anche nei contesti d’impresa, dove il loro utilizzo è di
grande utilità per molteplici obiettivi, dall’analisi dei rischi alla valutazione dei
progressi fino alla valutazione della sostenibilità economica, sociale e ambien-
tale a livello aziendale.
La Winter School in Futures Studies “Indici sintetici per la previsione so-
ciale” è lo spin-off della Summer School in Future Studies sui Metodi quanti-
tativi per la previsione sociale dell’Italian Institute for the Future, ed è pensata
per offrire una formazione intensiva ed esperienziale sulla costruzione di indici
sintetici attraverso le metodologie più innovative sviluppate in ambito stati-
stico, con il coinvolgimento dei maggiori esperti in Italia per accompagnare
passo dopo passo i partecipanti a comprendere e padroneggiare i metodi e gli

6
strumenti necessari. Il corso è rivolto a ricercatori in ambito pubblico e privato,
consulenti d’azienda, manager e data scientist con un background in scienze
sociali, economiche o statistiche.
La Winter School si terrà a Napoli in formula residenziale presso il Cuture
Hotel Villa Capodimonte dal 7 al 10 marzo 2023. Iscrizioni aperte fino al 22
febbraio. Programma completo, costi, scontistiche e modulo d’iscrizione sono
disponibili su instituteforthefuture.it/winter-school-2023.

Pubblicato il nuovo rapporto Emerging Long-Term Megatrends 2023

Cosa potrebbe cambiare con il ritorno dell’umanità sulla Luna? Quali tra-
sformazioni potranno generare le nuove forme di intelligenze artificiali? Cosa
comporterà sul lungo periodo il rallentamento dell’economia cinese? Quali
nuove ideologie stanno emergendo per affrontare l’estinzione di massa del-
le specie viventi generata dall’Uomo? Sono solo alcune delle domande a cui
il rapporto Emerging Long-Term Megatrends 2023 cerca di rispondere. Nel
farlo, gli esperti dell’Italian Institute for the Future hanno soprattutto cercato
di comprendere le interazioni tra ambiti diversi. Rispetto ai rapporti che si
occupano esclusivamente di innovazione tecnologiche, o cambiamenti politici,
o aspetti economici, questo documento cerca di offrire una panoramica multi-
disciplinare delle trasformazioni in atto e delle loro correlazioni. La guerra in
Ucraina può accelerare lo sviluppo delle comunità energetiche, i cambiamenti
climatici possono portare a nuove regolamentazioni politiche, le trasformazioni
del modo in cui definiamo il genere possono avere impatti rilevanti sui mercati,
le nuove IA possono cambiare il settore delle professioni creative.
Il rapporto è scaricabile gratuitamente su https://bit.ly/3w6PHzC.

7
Esiste la sociologia del futuro?

di Mara Di Berardo, Filippo Barbera, Paolo Jedlowski,


Vincenza Pellegrino, Roberto Paura

L’8 ottobre 2021, in occasione del Festival della Sociologia, l’Italian Institute for the
Future ha organizzato a Narni un panel dal titolo “Esiste la sociologia del futuro?”
condotto da Mara Di Berardo, con i sociologi Filippo Barbera (Università di Torino),
Paolo Jedlowski (Università della Calabria) e Vincenza Pellegrino (Università di Par-
ma). Questo articolo propone la trascrizione degli interventi.

Mara Di Berardo

Buon pomeriggio! Sono Mara Di Berardo e collaboro da anni con il Mil-


lennium Project, un network globale di Futures Studies, e con l’Italian Institute
for the Future, che ha organizzato questo workshop. L’idea di questo incontro
nasce dal bisogno di capire come, nell’ambito dei Futures Studies – che è un
campo molto eterogeneo e con approcci diversi, con molti punti di vista e me-
todi diversi – si possa migliorare quella prospettiva verso il sociale che alla fine
torna sempre quando si parla di futuro. Quindi ci siamo chiesti, prendendo
spunto da volume di Wendell Bell e James A. Mau, che è stato pubblicato 50
anni fa nel 1971 in America, Sociologia del futuro1: ma qui in Italia che cosa sta
succedendo? Questa sociologia del futuro così come avviata da questo volume,
che parla della necessità di portare la sociologia verso uno studio del cambia-
mento, uno studio più dinamico della società, che parla di immagini del futuro
che sono un po’ quelle aspettative che la società condivide rispetto allo stato
futuro delle cose, è arrivata anche in Italia? Esiste in Italia una sociologia del
futuro? Ci sono degli esponenti che possono effettivamente dirsi appartenenti
a questa sociologia del futuro? Quale contributo può portare ai Futures Stu-
dies per quanto riguarda le nostre organizzazioni, ma anche per altre discipline
scientifiche e sociali? La sociologia è riuscita, nei cinquant’anni dalla pubblica-
zione di questo volume, che parlava appunto di immagini del futuro, a portare
un punto di vista più dinamico della società?
Secondo Bell le immagini del futuro sono le aspettative nei confronti di ciò
che accadrà e che sono influenzate da tanti fattori: dalle credenze verso passa-
to, presente e futuro come dai valori che le persone hanno, che sono mutevoli,
diverse, possono essere in contrasto tra strutture sociali, ma anche all’interno di
uno stesso individuo, che ha sempre più immagini del futuro. Queste possono
essere a breve termine e/o a lungo termine, ma comunque ciò che puntualizza-
1
Bell W., Mau J.A., Sociology of the Future: Theory, Cases and Annotated Bibliography, Russell
Sage Foundation, New York, 1971.
Futuri 18 osservatorio

no gli autori è che sono fondamentali per guidare il cambiamento. Gli autori,
che vanno anche a revisionare il rapporto del sociologo con la stessa disciplina
della sociologia, si chiedono se la sociologia riesca, è riuscita e stia provando a
portare il concetto di futuro all’interno della materia. Secondo loro si dovrebbe
tentare di farlo, tentare di essere anche fautori del futuro, essere consapevoli
che gli stessi sociologi sono un po’ dei “creatori di futuro” e che con la loro
stessa azione, con la loro ricerca e la loro analisi della società, possono, volenti
o nolenti, influire su ciò che accadrà, perché studiano le immagini del futuro
e influiscono su tali immagini del futuro della società. Anche i Futures Studies
hanno tante anime, forse al pari della sociologia, però in generale cercano di
anticipare dei problemi che ci potrebbero essere a oggi. Così come nella socio-
logia si parla di molte immagini del futuro, anche nei Futures Studies si parla di
molti possibili futuri che potrebbero accadere a partire da oggi. Si parla di una
molteplicità di conseguenze possibili sulla base delle decisioni che prendiamo
in base a quello che intravediamo, esploriamo, andando in avanti.
Molto spesso uno dei fattori più problematici dei Futures Studies è proprio
il collegamento tra la previsione e l’azione stessa. Siamo molto bravi a intra-
vedere le possibilità attraverso il coinvolgimento di esperti e utilizzando me-
todologie specifiche, tanti metodi e tante modalità di approcci ai futuri, come
illustrano nei loro testi Jennifer Gidley e Eleonora Barbieri Masini2; però poi,
nonostante riusciamo a intravedere dei possibili problemi e delle possibili op-
portunità per il futuro, il collegamento con l’azione nel presente è molto spesso
problematico. Il Covid è una delle esemplificazioni di questa problematicità: ad
esempio, la consapevolezza che una pandemia del genere potesse verificarsi era
ben presente, il Millennium Project lo diceva addirittura dal 1997, eppure non
si è fatto granché. Quindi c’è proprio un gap che va colmato – e che potreb-
be anche essere colmato (noi pensiamo e speriamo) sulla base degli interventi
che avremmo oggi – tra previsioni dei futuri e azione nel presente. Attraverso
specifici processi la sociologia, meglio ancora di noi, può aiutare a capire come
migliorare la governance anticipatoria. È per questo che abbiamo organizzato
questo panel e messo insieme tre interessantissime persone: Paolo Jedlowski,
Filippo Barbera, Vincenzo Pellegrino; doveva essere con noi anche Giuliana
Mandich, professoressa ordinaria al Dipartimento di Scienze politiche e sociali
dell’Università di Cagliari, che però per problemi personali non ha potuto esse-
re qui, ma che coinvolgeremo nel prosieguo dei lavori su questo tema.
Quindi iniziamo con la prima domanda, che pongo ai nostri relatori per
poter iniziare a ragionare sul tema: esiste una sociologia del futuro secondo i
nostri illustri ospiti? Quale contributo può dare questa sociologia del futuro al
presente e al futuro dell’umanità? E quali sono gli approcci? Esistono? Quali

2
Gidley J., The Future: A Very Short Introduction, Oxford University Press, 2017; tr. it. Il futuro.
Una breve introduzione, Italian Institute for the Future, 2021; Barbieri-Masini E., Why Futures Stud-
ies?, Grey Seal, 1993 (prossima ed. it. Italian Institute for the Future, 2023).

10
Mara Di Berardo, et al. Esiste la sociologia del futuro?

sono i principali approcci che dovremmo tenere in considerazione e di cui po-


tremmo beneficiare per studiare la società e per implementare i migliori futuri
possibili?
Inizierei da Paolo Jedlowski, professore ordinario di Sociologia generale
presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università della Cala-
bria, che si occupa di sociologia della cultura, editoria sociale, sociologia della
vita quotidiana, storia della sociologia, rapporti tra memoria e narrazione. È
considerato uno dei più interessanti sociologi italiani di questo periodo. Che ne
pensi Paolo di questa domanda e di questa idea di una sociologia del futuro?

Paolo Jedlowski

Grazie a voi per avere inventato questo workshop. Abbiamo dieci minuti a
testa grosso modo, quindi vado rapido con i ringraziamenti e prendo la prima
domanda: esiste una sociologia del futuro? Mi ero preparato, perché ci era
arrivata precedentemente, e la mia risposta è sì, però in diversi sensi che bre-
vissimamente nomino. Intanto prendiamo i classici, e vediamo che certamente
si occupano del futuro. Karl Marx lavora sul futuro dei modi di produzione,
che ben concettualizza e delinea nei suoi scritti. Certamente ha una tensione
verso il futuro e dice cose sul futuro. Max Weber, quando parla della “gabbia
d’acciaio”, parla del futuro, di una tendenza possibile. Potrei citare altri, ma
non c’è bisogno, ne bastano due per dire che in certi casi si sono occupati del
futuro. Hanno fatto una sociologia del futuro? No, ma in realtà perché la so-
ciologia del futuro non è che esista, esiste piuttosto una sensibilità per il futuro,
cosa che articolo venendo al secondo senso della mia risposta affermativa alla
domanda se esista una sociologia del futuro: per forza, perché esiste una socio-
logia del tempo, e dentro al tempo c’è il futuro. Anche qui, però, la sociologia
del tempo non è una sotto-branca della sociologia, ma è una sensibilità che, in
modi a volte espliciti e ben marcati e in altri più impliciti, non può mancare a
una riflessione sociologica. Il terzo senso è che esiste una sociologia del futuro
perché esistono un sacco di libri e articoli di sociologi sul tempo in particolare.
Ho qui davanti Alessandro Cavalli e volevo già nominarlo, quindi lo faccio.
Siamo a metà degli anni Ottanta quando esce Il tempo dei giovani, una ricerca
seminariale sul tempo3. Una ricerca empirica, ma teoricamente molto attrezzata
a cui lavorano Simonetta Tabboni e Carmen Leccardi tra gli altri, che firmeran-
no poi dei manuali di sociologia del tempo e, ogni volta, dentro al tempo c’è
evidentemente il futuro.
Tu chiedi anche che rapporto c’è con i Futures Studies: i Futures Studies
sono una galassia, per cui è difficile dire quali rapporti in particolare ha con
una disciplina come quella sociologica che peraltro io sento sempre con confini

3
Cavalli A., Calabrò A.R. (a cura di), Il tempo dei giovani, Il Mulino, Bologna, 1985.

11
Futuri 18 osservatorio

molto più porosi e sfumati di quanto altri non pensino. L’ho sempre vissuta
come sfondante da un lato verso la filosofia (e verso tutte le altre scienze sociali,
dalla storia in avanti), e ci aggiungerei anche altre cose, per esempio – ripren-
dendo la prima Scuola di Francoforte – continuo a pensare che la psicoanalisi ci
importi. Magari ci importa proprio quando ragioniamo su cose come il futuro.
Qual è il contributo specifico della sociologia dentro o vicino alla galassia dei
Futures Studies? Abbiamo delle ricerche che poi nominerò, e altri ne nomine-
ranno diverse, e credo che l’apparato concettuale possiamo offrirlo. Ne prendo
uno: il saggio di Niklas Luhmann The future cannot begin4. Luhmann non è un
mio autore, non ho una passione per lui, ma in quel saggio la parte su cos’è il
futuro è bellissima, con questa distinzione iniziale per cui ci sono due tipi di
futuri: c’è il futuro che è il prossimo presente, i presenti futuri, quello che cerchi
di prevedere; e poi c’è il futuro presente, cioè le immagini del futuro che ora
sono presenti. Lui parla di “immagini”, io mi permetterei di aggiungere non
solo le immagini, ma anche le tensioni verso il futuro, che stanno sia nelle azioni
che nelle emozioni e nei sentimenti. Ora, questa è una distinzione concettuale
che però comincia a pulire le cose. Di quale dei due parliamo? Certamente
nelle indagini li troviamo sempre entrambi, ma ti occupi del futuro che è di là
da venire e cerchi di pre-vedere in base alle cose che esistono, o ti occupi del
futuro ora, presente nelle immagini, nelle rappresentazioni (che è un termine
specificamente sociologico)? Potreste dire “ma del futuro presente perché ci
importa”? Invece ci importa molto e serve proprio ai Futures Studies, come del
resto tu hai accennato, perché il modo in cui si pensa al futuro è performativo.
Questo discorso poi è allargato, come diceva Robert Merton, alle profezie che
si auto-adempiono: produci la profezia e magari è sbagliata, ma può diventare
vera per il fatto di essere stata enunciata e diffusa, e ha orientato, quindi, delle
azioni. Questo vale non solo per i casi più ristretti di cui si occupava in quel
saggio Merton: il modo in cui ci poniamo verso il futuro, produce futuro.
Ci sono altri concetti che potremmo esaminare; a me piace molto il concetto
che ancora viene da quel saggio di Luhmann (anche se risale a più lontano) di
“orizzonte d’attesa”, cioè il modo più generale di parlare di tensioni, immagini,
rappresentazioni, costruzioni che riguardano il futuro. Il testo era in inglese e
diceva “reason of expectation”, non nel senso di attese come star lì ad aspettare,
ma come parola più larga possibile per dire tutto: dalle paure alle aspirazioni,
alle previsioni, alle speranze, tutto ciò che a che fare con e che è un orizzon-
te, una metafora molto forte che Luhmann spiega bene. Io spero che questa
espressione si diffonda di più di quanto non sia adesso. Non posso prendere
il tempo ora di sviluppare la metafora, ma è veramente molto forte usare “the
reason of expectation” e i suoi elementi, il modo in cui si forma e cambia ed è
variabile secondo tanti fattori.

4
Luhmann N., The Future Cannot Begin: Temporal Structures in Modern Society, “Social Re-
search”, vol. 43, n. 1, primavera 1976.

12
Mara Di Berardo, et al. Esiste la sociologia del futuro?

Allora, cosa può apportare la sociologia a questo campo? Prima di ricerche


empiriche, un apparato concettuale che è collegato all’apparato concettuale
con cui studia il tempo. Non necessariamente deve diventare una sotto-discipli-
na, anzi non lo vedrei con nessun favore, ma è una sensibilità per. Una sensibili-
tà per che – aggiungerei senza poterlo sviluppare – andrebbe messa in relazione
stretta con la sociologia del possibile, che di nuovo non è una sotto-sociolo-
gia, ma un’area di concetti. “Possibile” e “futuro” sono palesemente connessi,
come evidente nel titolo del libro di Vincenza che tra poco probabilmente ci
nominerà, che si chiama Futuri possibili5. Io ricordo qualche conversazione fra
noi in cui dicevo che il futuro è per forza un possibile, mentre il possibile non
per forza è un futuro: ci sono possibili paralleli, come la fantasia ad esempio.
Non so cosa ne pensi adesso, ma alla fine credo che siamo d’accordo, fatto sta
che “futuro” e “possibile” vanno ragionati insieme tenendo però conto che non
sono sinonimi.
Poi quanto a me, l’unica cosa di cui mi sono veramente occupato in questo
campo è dei futuri passati, in un libro sulle memorie del futuro6. Posso dire
perché l’ho fatto? Perché erano anni che studiavo la sociologia della memoria
e mi invitavano sempre a parlare di memoria e, un po’ non ne potevo più, un
po’ avvertivo la crescita e l’esigenza in me mentre anche tutto intorno si parlava
di futuro. Tuttavia sono un neofita negli studi del futuro, quello che posso fare
è usare l’esistenza delle memorie dei futuri passati. E ho scoperto, almeno per
me, che possono insegnare tantissimo e lasciare tantissimo. Bisogna lavorarci
sopra, possono emergere spontaneamente, ma se ci lavori veramente possono
produrre molto. Questo era per dire una cosa sul sottoscritto, per mera vanità
e anche per dire che ci sono dei futuri passati.
Finirei ricordando che c’è un libro che, secondo me, se fosse tradotto per
noi andrebbe anche bene che è quello di Barbara Adam e Chris Groves Future
Matters7. Un libro complesso, non ti basta un mese per leggerlo, ti resta e ci ri-
torni, e pensavo in particolare al capitolo sul future-making. Perché i miei amici
come Giuliana Mandich, che ad esempio lavorano molto sulle rappresentazioni
del futuro, che un po’ fanno futuro nel senso performativo che dicevo, trove-
ranno molto utile quanto dice Adam sul fatto che c’è un potere di fare futuro,
di programmare corsi d’azioni, istituzioni, prossimi prodotti. In un certo senso
tutti noi siamo “future makers” nella nostra vita quotidiana, però qualcuno è
più maker di qualcun altro. Io sento la mancanza nei nostri ragionamenti sul
futuro di questa attenzione e sulla capacità differenziatissima di fare futuro, di
5
Pellegrino V., Futuri possibili. Il domani per le scienze sociali di oggi, ombre corte, Verona,
2019.
6
Jedlowski P., Memorie del futuro. Un percorso tra sociologia e studi culturali, Carocci, Roma,
2017. Cfr. anche l’intervista con Roberto Paura Memorie del futuro: conversazione con Paolo Je-
dlowski, “Futuri”, 1° maggio 2017: futurimagazine.it/articoli/in_evidenza/memorie-del-futuro-con-
versazione-con-paolo-jedlowski/
7
Adam B., Groves C., Future Matters: Action, Knowledge, Ethics, Brill, Leiden, 2007.

13
Futuri 18 osservatorio

preparare ciò che ci sarà domani. Sulla capacità di futuro so che Filippo dirà
delle cose, su tutto il resto anche sceglierà Vincenza cosa dire, ma magari anche
lei mi piacerebbe che sul future-making aggiungesse qualche cosa, lasciandoli
liberi di dire quello che vorranno ovviamente. Grazie.

Mara Di Berardo

Grazie, moltissimi spunti… chiaramente non possiamo, in meno di un’ora,


riuscire a tirar fuori tutto ciò che è coinvolto in questo argomento, ma l’idea è
proprio quella di cominciare a parlarne. Dunque, esiste questa sociologia del
futuro e ne siamo molto contenti, la vediamo e siamo anche noi fautori di futu-
ro come ci stavi dicendo, ed è interessante anche questo discorso del future-ma-
king perché forse può essere davvero un trait d’union più forte e maggiormente
apprezzato per la governance anticipante. Riprendendo un po’ questo spunto
vorrei chiedere a Filippo di provare a ragionare insieme su questa capacità di
futuro che si collega al future-making, alle immagini, un po’ a tutto quanto
detto finora. Filippo Barbera è professore ordinario presso il Dipartimento di
Culture, Politiche e Società dell’Università di Torino e associato del Collegio
Carlo Alberto, presidente dell’associazione Forwardto: si occupa di innovazio-
ne sociale, economia fondamentale e sviluppo delle aree marginali e studi di
futuri. Grazie Filippo.

Filippo Barbera

Grazie per l’invito e grazie a Paolo per lo splendido assist: adesso ho solo
l’incubo dell’attaccante che butta fuori la palla con la porta vuota. Può esistere
una sociologia del futuro? Il titolo del mio intervento è “Note sulla capacità di
futuro”, Paolo lo sapeva perché ho condiviso queste note qualche giorno fa e
lo ringrazio di averle introdotte nella sua relazione. La domanda è comune: può
esistere una sociologia del futuro? La risposta di Paolo è stata sì, la mia è “sì,
ma dipende”. Dipende non solo, come ovvio, come tutto e come sempre dalle
prospettive teoriche alle quali si aderisce, ma anche e, in questo caso e nel mio
caso soprattutto, dalla definizione sociologica di futuro.
Quanto al primo punto (quello teorico), mi rifaccio a un paper di Ruth
Levitas del 20108, dove si argomenta in modo molto interessante che nel mo-
mento della sua nascita e istituzionalizzazione accademica nei primi anni del
Novecento la sociologia britannica avrebbe potuto avere la genesi e la critica
dell’utopia come impegno principale della disciplina. È una cosa che ho impa-

8
Levitas R., Back to the future: Wells, sociology, utopia and method, “Sociological Review”, vol.
58, n. 4, novembre 2010.

14
Mara Di Berardo, et al. Esiste la sociologia del futuro?

rato scrivendo queste note, non la sapevo prima, lo ammetto. Questa vocazione
disciplinare è difesa da H.G. Wells, il noto autore de La macchina del tempo,
L’isola del dottor Moreau e La guerra dei mondi. Wells non è un nome che oc-
cupa un posto di rilievo nella storia della sociologia. Il suo appello ai sociologi,
contenuto in un paper del 1906 The So-Called Science of Sociology, è caduto nel
vuoto9. Il canone alla ricerca della legittimazione scientifica della sociologia è
andato, come sappiamo, in un’altra direzione. Wells, come altri, potrebbe rap-
presentare l’occasione per la ricostruzione di un secondo canone, di un canone
mancato, ciò che la sociologia avrebbe potuto essere, ma in effetti non è stata.
Una disciplina che ha al centro l’analisi e la critica dell’utopia. Secondo Wells
la creazione dell’utopia e la sua critica esauriente doveva essere il metodo pro-
prio e distintivo della sociologia. Così non è andata… il canone non è andato in
quella direzione e sarebbe interessante ricostruire in modo comparato, anche
andando a guardare i processi genetici di nascita delle diverse istituzionalizza-
zioni della sociologia, in diversi campi nazionali, come nel caso britannico il
futuro non è stato preso sul serio e non sia stato sviluppato, almeno in questi
termini.
Troviamo in questa accezione di Wells una specifica declinazione del rap-
porto tra utopia e sociologia, diversa da quella a cui siamo più abituati, come
sociologi, che declina l’utopia come explanandum e la sociologia come expla-
nans. La sociologia come disciplina scientifica si occupa di analizzare la costru-
zione sociale dell’utopia, le sue dimensioni socio-cognitive, le sue determinanti
strutturali, istituzionali, ma anche il ruolo che l’utopia occupa nell’azione col-
lettiva, nella dinamica dei movimenti. Wells, invece, indica un’altra direzione,
declina la sociologia come utopia. Paolo ha accennato a questo, l’idea che tra i
classici ci sia la società utopica come riferimento per l’analisi di quella attuale
(patologico e fisiologico in Durkheim, ad esempio, o la gabbia d’acciaio in We-
ber, ecc.). Il secondo versante è l’utopia come sociologia, ovvero la costruzione
consapevolmente sociologica di futuri altri. In questi casi il rapporto tra socio-
logia e utopia non è assimilabile tanto a quello tra explanans ed explanandum,
quanto alla sociologia come educazione del desiderio. L’utopia, in modo non
dissimile dal canone della letteratura, creerebbe così uno spazio in cui il lettore
è sollecitato non solo dal punto di vista cognitivo, ma anche da quello espres-
sivo ed esperienziale, fino a sentire come sarebbe non solo vivere in modo di-
verso, ma come sarebbe desiderare in modo diverso, mettendo così in crisi la
natura del presente con finalità di critica sociale ed emancipativa. Ecco di nuo-
vo in modo frattale riproporsi una volta di più e ancora, in questa distinzione,
la differenza tra sociologia come scienza sociale orientata alla spiegazione e la
sociologia come disciplina critico-espressiva.
Vorrei provare a sdrammatizzare questa contrapposizione provando ad ar-

9
Wells H.G., The So-Called Science of Sociology, “Sociological Review”, vol. sp3, n. 1, gennaio
1906.

15
Futuri 18 osservatorio

gomentare che se si guarda al tema del futuro non tanto come un problema
di diverse prospettive teoriche, ma come un problema di definizione, questa
distinzione si fa più sfumata. Cos’è per un sociologo il futuro? Ovviamente non
è un fatto fisico.
Di quale tipo di futuro si occupa la sociologia? Vorrei provare a suggerire
che la sociologia non debba solo occuparsi di futuro, ma debba occuparsi della
capacità collettiva di futuro. Come vedremo, c’è un’idea di futuro che riprende
in qualche modo l’insegnamento di Arjun Appadurai, legata alla capacità di
aspirare, ma lo declina più in chiave di organizzazione sociale. Cos’è la capacità
collettiva del futuro? Nei termini di Amartya Sen sappiamo che la capacità
esprime un’idoneità o un’abilità di carattere generale, una potenzialità, un’op-
portunità favorevole all’acquisizione di stati di essere o di fare che l’individuo
ritiene consoni ai suoi piani di vita. Per ciò che ora interessa, l’approccio del-
la capacità rimanda alla diversità delle persone e dei contesti, cioè riconosce
la complessità sia dei soggetti dell’azione, che della multidimensionalità delle
condizioni di contesto nelle quali l’azione si svolge. Per questa ragione tematiz-
zare non il futuro, ma la capacità di futuro, ci obbliga immediatamente all’uso
del plurale. La sociologia non si occupa del futuro, ma si occupa dei futuri, e
questa è una cosa che mi ha insegnato Vincenza. La variabilità individuale degli
individui e dei contesti mette a tema la rilevanza dei futuri al plurale, piuttosto
che del futuro.
La seconda specificazione, la capacità collettiva, riguarda la valenza collet-
tiva della capacità di futuro, quindi non tanto le capacità individuali e la loro
variabilità, ma la capacità collettiva e la sua variabilità. La tesi centrale di queste
brevissime note è che, intesa come capacità collettiva, la capacità di futuro si
sviluppa – voglio sostenere – solo in presenza di specifiche condizioni relative
all’organizzazione sociale, cioè solo quando l’organizzazione sociale o i regimi
di interazione o i processi decisionali permettono di valorizzare l’ambiguità, il
dubbio, l’incertezza rappresentati dalla alterità. Solo in questo caso si dà una
vera capacità collettiva di futuro. L’inclusione dell’altro, del diverso, del margi-
nale nel proprio orizzonte di senso, comporta sempre incertezza e ambiguità,
dove diversi futuri individuali si confrontano all’insegna dell’incommensura-
bilità o della dissonanza, direbbe David Stark. Senza l’altro non c’è capacità
collettiva di futuro, ma solo ripetizione del presente individuale. Senza alterità
non c’è alternativa.
Questa è la tesi centrale che ho messo in fila per queste note che mi pia-
cerebbe sviluppare in futuro. Possiamo sostenere, in termini più analitici, che
la valorizzazione dei futuri si ha riconoscendo la voice e quindi gli ordini del
valore, le convenzioni di qualità, l’intreccio tra valore e valori dei soggetti mar-
ginali che, per l’appunto, rappresentano l’alterità. Allora la domanda diventa:
come si creano queste condizioni? Come e quando l’organizzazione sociale è
in grado di esprimere una capacità collettiva di futuro? Quindi due brevi ri-
sposte. La prima: quando l’organizzazione assume i caratteri del rituale alla

16
Mara Di Berardo, et al. Esiste la sociologia del futuro?

Collins, cioè quando abbiamo interazioni ripetute, cooperative e coordinate;


progettare insieme, manifestare insieme, confliggere, allestire un festival della
sociologia, partecipare alla costruzione di uno spazio pubblico, ad esempio,
genera persone compresenti focalizzate, con un comune focus d’attenzione, le
coalizioni coordinate generano un senso di appartenenza collettiva rispetto ad
un obiettivo che si vuole raggiungere. La seconda: come ci insegna Appadurai,
interazioni performative intenzionali e organizzate portano a situare problemi
immediati. Per riprendere un’espressione di De Leonardis in un articolo di fine
anni Novanta, il tema è “la scuola di mio figlio”10: il mio bisogno di mamma o di
papà, o di persona – bisogno fisico o bisogno sociale – alla soluzione collettiva
che questo bisogno può trovare per tutti.
Una sociologia della capacità di futuro ci mostra l’importanza di analizzare
empiricamente la genesi e il funzionamento di questi campi di interazione (or-
ganizzazione sociale), campi strutturati che generano nuove possibilità di rico-
noscimento, nuove articolazioni della vita buona, frutto della deducibilità del
valore di cui sono portatori i soggetti marginali. Campi che attrezzano il diritto
alla capacità di voice dei soggetti marginali e che permettono quell’educazione
del desiderio a un futuro altro che H.G. Wells poneva come compito specifico
di un approccio sociologico all’utopia. Grazie.

Mara Di Berardo

Cerco di andare veloce così riusciamo ad avere qualche intervento dal pub-
blico e passo quindi direttamente la parola a Vincenza, con cui vorremmo cer-
care di capire: parlando di capacità di aspirare, di strutture, di gruppi sociali,
di come si può supportare, accompagnare questa capacità di voice che ricon-
duce all’aspirazione stessa, quali sono le caratteristiche di questa capacità di
aspirare? Quali sono le condizioni affinché ci possa essere capacità di futuro?
Ne parliamo con Vincenza Pellegrino, professoressa associata di Sociologia dei
processi culturali e comunicativi all’Università di Parma, dove insegna politi-
che sociali, si occupa di migranti, un tema a lei molto caro, studi di futuro e
partecipazione civico-politica.

Vincenza Pellegrino

Prendo un po’ il filo da Filippo che ha parlato di campi di ricerca per chie-
dere: ma cosa intendiamo per campi di ricerca? Ambiti in cui esploriamo in-
terazioni collettive, intenzionali, ritualizzate, che mostrano in che condizioni

10
De Leonardis O., I welfare mix. Privatismo e sfera pubblica, “Stato e mercato”, vol. 46, n. 1,
aprile 1996.

17
Futuri 18 osservatorio

alcuni tipi di soggetti, che non sono soggetti solo marginali, che noi in questa
ricerca abbiamo imparato a chiamare “intemporanei”, usciti dalla corsa, messi
fuori dalla corsa (un migrante che aspetta in montagna nell’Appennino perché
solo lì lo ospitano, è qualcuno che ha cercato di integrarsi nella velocità del
progresso ed è stato messo nell’intemporaneità). La marginalità può essere im-
maginata oggi, sociologicamente, come questo essere presi e spostati laddove si
sta fuori da una corsa. Filippo diceva che i marginali nella loro alterità (quindi
stiamo pensando a un campo cognitivo interclasse sociale) evocano un’altra
possibilità.
Ci entriamo pian piano, perché comunque è il nostro argomento: come co-
struiamo, come immaginiamo un luogo in cui queste interazioni sociali producono
un discorso sui futuri plurali tra soggetti che vivono in uscita dal progresso, che è
molto performativo e viene da quella borghesia che invece il progresso l’ha incu-
bato, culturalmente legittimato e posto come punto di arrivo del soggetto, e coloro
che invece arrivano da un’altra storia, cercano di connettere questa e sono respinti
fuori? Dov’è che si incontrano insieme e com’è che noi possiamo concettualizzare
il loro incontro con un campo di ricerca metodologicamente sostenibile? E questa
era solo la prima frase…. Sono solo due le cose che vorrei provare a dire di questo
complesso nostro modo di ragionare insieme su questo tema. Adesso dico solo l’i-
dea, poi accelero ai campi perché di più non riesco a fare. Una è l’idea che quindi,
per noi, le aspirazioni sono un oggetto culturale diverso dalle ambizioni. Seconda
idea è che le aspirazioni, che ora andrò a definire – dunque diverse dalle ambizioni
– sono un’eredità, non sono un’innovazione sociale.
Prima idea: le aspirazioni che si danno in questi contesti di ricerca non sono
le ambizioni dei singoli, e quindi si danno come prodotto della loro interazione
in un campo. Vi porto nel primo campo, quello che più a lungo ho frequentato
e che è nel libro Futuri testardi11: i precari cognitivi delle città dell’Emilia-Ro-
magna (Parma, Modena, Reggio Emilia, Ferrara, Bologna). Progresso, capita-
lismo familiare molto spinto, nato insieme a uno stato sociale forte, quello che
possiamo chiamare veramente stato sociale-mercato; il progresso ha sempre
visto la marginalità retoricamente come una pausa, la cultura inclusiva potente
ha molto legittimato la nozione di progresso secondo cui moltiplicando la pro-
duttività si fa redistribuzione, senza mai essere consumismo: questa è la dimen-
sione più performativa e meno attaccabile del progresso. È la cultura borghese
nel suo trentennio glorioso, in un luogo che l’ha glorificata come classe solidale
per eccellenza. I fili di questa esperienza sono plurilaureati, precari, con quat-
tro lavori a testa, di sinistra. Incontri queste persone che hanno una condizione
“cronofrenica” per eccellenza: corrono sempre, ma scopri che han perduto il
punto di arrivo del progresso. Non c’è la fiducia che quel correre porti a un
aumento di produttività di tipo redistributivo. Quindi per “cronofrenia” in-

11
Pellegrino V., Futuri testardi. La ricerca sociale per l’elaborazione del «dopo-sviluppo», ombre
corte, Verona, 2020.

18
Mara Di Berardo, et al. Esiste la sociologia del futuro?

nanzitutto intendiamo l’esplorazione di quel vissuto in cui corro tantissimo, ma


non ho più una meta, il mio orizzonte di attesa è evaporato.
Questo campo, queste persone, insegnano innanzitutto che questo tipo di
ricerca cerca dei luoghi, dei contesti in cui per loro si rallenta lo spazio, la
frenesia, e riescono a produrre cognitivamente aperture sul tempo; concetto
particolare, perché troviamo soggetti che con forme di interazione sociale evo-
cano il rallentamento. Come studioso li cerchi lì e li trovi lì nel pensare al futu-
ro. Queste aspirazioni che studio non sono le loro ambizioni, perché appunto
ambizione è chiedere a queste persone, con un’intervista qualitativa: come ti
vedi tra trent’anni? Come vedi il mondo tra trent’anni? Se gli chiedi come vedi
il mondo tra trent’anni, loro si immaginano 70enni e hanno in mente i 70enni
che conoscono, dentro una proiezione cronofrenica che porta con sé un imma-
ginario molto distorto. Nelle interviste scoprirete che i giovani di oggi hanno
perso il futuro. Queste per me sono aspirazioni, quella per me è una ricerca
sulle aspirazioni, cioè come chiedere al soggetto, da solo, di mettersi nel futuro,
che è in realtà il presente degli altri 70enni, senza un’interazione sociale che gli
apra una soglia di rallentamento e che problematizzi il futuro collettivo. Altra
cosa è metterli in una ricerca, in un luogo rallentante, in cui pensano ai futuri12.
La chiudo qui, ma sentite lo spostamento della ricerca, che in questo caso non
raccoglie i futuri come oggetti precostituiti e già consolidati: lo può fare, racco-
glie distopia, e raccoglie ambizioni cronofretiche quindi astratte, tutto un altro
film da interrogarsi sulla capacità utopica di cui parlava Filippo.
Spendo invece gli ultimi minuti sul nesso futuro-memorie, con un’altra ri-
cerca fatta in Val di Susa. Quando, dopo tanti anni di studio del futuro in
Emilia-Romagna, mi sono spostata in Piemonte (e ormai sono al quinto anno
di ricerca in Piemonte), e mi hanno chiesto di indagare le capacità utopiche e
le aspirazioni collettive dei giovani della Valsusa, sono rimasta scioccata, per-
ché ovviamente ho trovato tutto un altro sentimento del tempo, pur in condi-
zioni sociologiche che a me parevano simili. Borghesia, giovani che studiano,
movimento Torino-Valsusa: ma allora le variabili sociologiche significative per
capire le aspirazioni collettive quali sono? C’entra l’essere in montagna? Per
capire la complessità di queste ricerche, mi sono chiesta che futuro sognavano
(perché quello dell’Emilia-Romagna lo conosco): mi mancava questo passag-
gio, che forse molto avrebbe spiegato di questa differenza, e ho scoperto che
in Val di Susa – dove c’era stato tra gli anni Sessanta e Ottanta un operaismo
di montagna, la manifattura, che aveva costruito grandi palazzi – c’era una me-
tro-montagna, che per me, studiosa di futuri, altro non è che un sogno di città
fallito. La semplifico e la chiudo così: è molto complesso studiare le aspirazioni
collettive, che non sono ambizioni e che sono incarnate in una storia di futuri
precedenti che è necessario indagare: non possono essere delle interviste ad

12
Cfr. Pellegrino V., Le propensioni utopiche di una generazione precaria. L’ascolto attento delle
aspirazioni emergenti, “Animazione sociale”, n. 319, 2018.

19
Futuri 18 osservatorio

alcuni giovani a farlo.

Mara Di Berardo

Siamo più o meno indisciplinati nei tempi ma ci siamo, abbiamo addirittura


risparmiato cinque minuti per un paio di domande dei partecipanti.

Prima domanda

La domanda è veloce, la risposta no: abbiamo il genere del passato – la


storia, la narrativa – e il genere del presente, la sensazione. Qual è il genere del
futuro?

Jedlowski – È una bellissima domanda: io rispondo il melodramma, così, al


volo, però me la porterò dietro perché è una domanda simpatica.
Pellegrino – Il melodramma suona bene, sai perché? Lo dico in maniera un
po’ più tecnica. Perché penso che davvero oggi sia più significativo di vent’anni
fa immaginare la tensione tra distopia e utopia: stanno insieme, e sento anche
che la distopia è stata centrale negli ultimi dieci anni, non per niente Hollywo-
od ha iniziato a presentare catastrofi dopo un trentennio di capacità di governo
nella realtà. Se la distopia si fa potente ma poi esaurisce il suo effetto depressi-
vo, soprattutto nelle generazioni che l’avevano ignorata (il ‘68, il ‘70), e per una
generazione di giovani si situa un confine culturale, nel senso comune, che apre
a nuove energie, allora il melodramma fa questa cosa: gente che piange molto
iniziando a mangiare biscotti; non è così, ma per l’epoca e per le generazioni di
cui parliamo sì.
Barbera – Io direi che il futuro è un non genere, il futuro ha la capacità di
mischiare i generi, per come l’ho inteso io, e quindi la capacità di unire la trage-
dia alla commedia, il comico con l’horror, il registro che si preferisce.

Seconda domanda

Nell’immaginazione del futuro la differenza, la marginalità fa fatica ad


entrare. Però nei processi che si ripetono c’è comunque la creatività di un
problema filosofico. La creatività può essere uno strumento di emancipazione?
Barbera – Sulla creatività ammetto di non saperne molto, ma mi sento vici-
no al lavoro sul tema sulla dissonanza, e quindi quali sono le condizioni orga-
nizzative che permettono la convivenza tra princìpi del valore, metriche, modi
di misurare il mondo di altri, non-rankable, con ordinamenti che fanno capo a
metriche non univoche. La compresenza di queste metriche dipende da con-
dizioni socio-organizzative di un certo tipo. Quando si dà quello allora queste

20
Mara Di Berardo, et al. Esiste la sociologia del futuro?

sono le basi sociali per la capacità di innovazione e di creatività, che sono una
precondizione per la capacità di futuro. Per i sociologi sarebbe molto interes-
sante analizzare le basi socio-organizzative istituzionali della capacità collettiva
di futuro. In Stark c’è il tema dell’eterarchia e della dissonanza: ci sono questi
temi, esistono strumenti concettuali, la sfida è applicarli alla sfera pubblica,
perché Stark li usa per spiegare come funziona l’industria dei videogiochi e va
benissimo, ma il tema è chiedersi quando funzionano le eterarchie pubbliche,
quando diventa un’eterarchia organizzata in grado di produrre immagini e rap-
presentazioni collettive del futuro e di metterle al lavoro.

Mara Di Berardo

Andiamo via con ancora più ipotesi e considerazioni da fare, ma credo che
sia stato interessante e che valga la pena mettere un po’ più a sistema contributi
variegati, come sempre fa il campo dei Futures Studies. L’onore di chiudere la
nostra conversazione a Roberto Paura, che ha organizzato questo workshop,
ma speriamo e pensiamo di andare via non con delle conclusioni, ma con delle
aperture.

Roberto Paura

Grazie, sarò brevissimo: mentre parlava Vincenza mi veniva in mente un


romanzo di Stanislaw Lem – di cui tra l’altro quest’anno festeggiamo il cen-
tenario – Il congresso di futurologia, in cui il protagonista si trova nel futuro e
tutte le persone hanno questo affanno: è una cosa molto strana perché in realtà
sembrano tutti molto tranquilli e rilassati, ma poi si scopre che tutti assumono
farmaci allucinogeni (anche il protagonista stesso) che creano un’allucinazione
consensuale che nasconde un futuro da incubo, dove sovrappopolazione, acce-
lerazione sociale, tecnologica, economica hanno creato un mondo da incubo,
in cui queste persone continuano a correre, finiscono per avere tutti problemi
cardiaci per cui sbattono a terra e muoiono.
È una visione che ci aiuta a prospettare un futuro distopico ma è anche
uno dei tanti futuri possibili. Aumentare la “capacità di futuro” è diventata
un’urgenza e la condivisione tra noi che ci occupiamo di questo con aziende e
società civile e coloro che fanno riflessione teorica all’interno di attività di ri-
cerca è un aspetto essenziale. È importante iniziare un processo di condivisione
di conoscenza. Un altro piccolo pezzettino è stato fatto ieri, perché abbiamo
pubblicato un nuovo numero della nostra rivista Futuri che si intitola “Demo-
cratizzare i futuri”, e che speriamo sia l’inizio di un percorso importante per
fare rete tra chi si occupa di Futures Studies e chi si occupa di sociologia in
Italia. Grazie.

21
L’Italia come potenza spaziale: le sfide della New Space Economy

di Valentina Chabert

Era il 15 dicembre del 1964 quando l’ingegno di un gruppo di ricercatori


dell’Università di Roma ha consentito il lancio in orbita di un satellite artificiale
interamente progettato e costruito in Italia: il “miracolo extraterrestre” del San
Marco 1 ha permesso al nostro Paese di diventare la terza nazione spaziale al
mondo dietro all’Unione Sovietica e agli Stati Uniti, che dal 1957 avevano var-
cato le porte dello spazio extra-atmosferico con i rispettivi Sputnik ed Explo-
rer. Un terzo podio a lungo difeso dai reclami di Canada e Gran Bretagna, che
due anni prima portarono in orbita i satelliti Alouette e Ariel, costruiti però
negli USA. A rivendicare la medaglia di bronzo per le capacità tecnologiche e
umane necessarie alla realizzazione di satelliti artificiali fu anche la Francia, fre-
sca del lancio di Asterix dal poligono algerino di Hammaguir (cfr. Grevsmühl,
2019). Nonostante ciò, a partire dagli anni Sessanta l’Italia si è affermata come
potenza nel teatro spaziale, e vanta una storia importante anche durante tutti i
decenni successivi, tanto a livello europeo – figura infatti tra i membri fondatori
dell’Agenzia Spaziale Europea – quanto internazionale.
L’importanza strategica che il settore spaziale ha assunto negli ultimi decen-
ni all’interno del panorama economico italiano ha portato alla riorganizzazione
delle norme esistenti in materia attraverso l’approvazione della legge 7/20181
recante “Misure per il Coordinamento della Politica Spaziale e Aerospaziale
e Disposizioni concernenti l’Organizzazione e il Funzionamento dell’Agenzia
Spaziale Italiana”, entrata in vigore il 25 febbraio 2018. Tale atto normativo pre-
vede che la direzione e il coordinamento delle politiche spaziali e aerospaziali
siano attribuiti al Presidente del Consiglio, mentre gli indirizzi di Governo in
materia spaziale – inclusi ricerca, innovazione tecnologica e ricadute sul settore
produttivo – sono attribuiti a un Comitato interministeriale istituito ad hoc. In
questo contesto, l’Agenzia Spaziale Italiana svolgerà il ruolo di “architetto di
sistema”, con il compito di portare sul tavolo delle discussioni il contributo di
tutti i portatori di interesse del settore (cfr. Senna, 2021).
La firma dei primi indirizzi del Governo in materia spaziale e aerospaziale
da parte del Presidente del Consiglio risale al 25 marzo 2019, con la definizione
dei settori strategici nazionali. In particolare, le telecomunicazioni, la naviga-
zione e l’osservazione della Terra saranno oggetto delle politiche sviluppate nei

1
Legge 11 gennaio 2018 n.7, pubblicata in G.U. n.34 del 10 febbraio 2018.
Futuri 18 osservatorio

prossimi anni, in aggiunta alla Strategia Nazionale di Sicurezza per lo Spazio


approvata dal COMINT nel luglio dello stesso anno (cfr. Presidenza del Consi-
glio, 2019). Tra gli obiettivi strategici del documento, la garanzia della sicurezza
delle infrastrutture spaziali e la tutela del comparto istituzionale, industriale e
scientifico figurano tra le priorità del Paese.
A dimostrazione della rilevanza internazionale dell’Italia nel dossier spa-
zio, con un valore di produzione di circa 13 miliardi di euro nel 2019 e 64
mila addetti, il nostro Paese si è affermato come leader nel settore aerospaziale,
in particolare in riferimento al recente fenomeno della new space economy.
Con l’avvento della nuova economia dello spazio, infatti, il settore spaziale –
che per lungo tempo ha goduto del prevalente sostegno istituzionale – si è
aperto all’ambizioso intervento degli investitori privati e delle startup, dando
avvio a una vera e propria rivoluzione culturale nella ridefinizione del rapporto
pubblico/privato in cui l’Italia si muove da protagonista.
Sul piano imprenditoriale, il nostro Paese vanta numerosi esempi di startup
di successo in campo spaziale, che – in maniera non esaustiva – includono i
servizi in orbita di D-Orbit, le ground station a terra di Leaf Space, le tecnolo-
gie di propulsione di T4i e l’uso di intelligenza artificiale per l’automazione e
il controllo per opera di Aiko (Aresu e Mauro, 2022). L’Italia sviluppa poi un
notevole potenziale anche in diversi cluster, compresi i distretti spaziali. Tutta-
via, sono da riconoscere limiti importanti nella filiera della new space economy,
che si legano inestricabilmente alle barriere che da decenni pongono un freno
alla competitività italiana: non solo incertezza temporale in ambito giudiziario
e rallentamento burocratico-amministrativo, bensì anche un basso volume di
investimenti in ricerca, sviluppo e capitale di rischio, in particolare a proposito
della frontiera tecnologica. Ciononostante, la consapevolezza dei benefici di
lungo periodo dell’investimento in tecnologie spaziali hanno portato in prima
linea nella catena del valore nazionale e internazionale grandi player italiani
come Leonardo, Avio e Argotec, così come operatori dei servizi logistici di
supporto alla stazione spaziale internazionale. Con un miliardo di euro di bu-
dget annuale, il supporto chiave è fornito dall’Agenzia Spaziale Italiana (ASI),
che svolge il compito di coordinare progetti relativi all’esplorazione spaziale,
all’osservazione della terra e all’abilitazione dell’industria spaziale. Non meno
importante, un ruolo fondamentale è altrettanto assolto dall’Agenzia Spaziale
Europea, che con il suo ruolo di investitore ha contribuito a creare i primi flussi
finanziari per le proto-imprese italiane.
La rilevanza del ruolo italiano nella nuova era spaziale è confermata anche
dalla presenza dell’Italia in Artemis I, il primo volo di collaudo del program-
ma che porterà nuovamente l’uomo e la prima donna sulla superficie selenica
nel 2025. Con la coordinazione dell’Agenzia Spaziale Italiana, la Penisola ha
apportato un notevole contributo a Orion, il modulo di servizio che insieme
al Space Launch System della NASA costituisce il fulcro di Artemis I (Cozzi,
2022). Alla costruzione e alla progettazione di Orion hanno infatti collaborato

24
Valentina Chabert L’Italia come potenza spaziale

piccole e medie imprese italiane, tra cui la piemontese Criotec, che ha costruito
le valvole per regolare l’apporto e la miscelazione di azoto e ossigeno necessari
alla respirazione dei futuri astronauti. La torinese Alfa Meccanica ha poi elabo-
rato la struttura e le coperture delle strutture che in Artemis 2 consentiranno
l’idratazione degli alimenti, mentre la compaesana Aviotec ha messo a punto un
sistema di cinghie che proteggeranno parte della struttura da micrometeoriti e
detriti vaganti. Dtm Technologies, con sede a Modena, si è infine occupata del-
le piastre per il raffreddamento, consolidando e portando avanti la tradizione
spaziale della propria realtà aziendale già inaugurata con gli hardware impiega-
ti sullo Space Shuttle e sulla stazione spaziale internazionale.
A testimonianza dell’importanza del settore spaziale per l’economia italia-
na, oltre 2,4 miliardi di euro verranno investiti nell’industria e nelle tecnolo-
gie spaziali entro il 2026 nell’ambito del PNRR, in particolare della Recovery
and Resilience Facility e del Fondo Complementare2. Di notevole rilevanza è la
quota stanziata per la creazione di un’Italia produttrice di tecnologie avanzate,
che risulta nettamente superiore ai fondi previsti dalle altre potenze europee,
Francia e Germania in primis. Tuttavia, una chiara valutazione dell’efficacia
degli investimenti del PNRR sarà possibile solo dopo la finestra temporale del
2026, quando il nostro Paese si troverà nella posizione di proseguire l’afflusso
di risorse dedicate allo spazio e, di conseguenza, continuare ad alimentare la
filiera spaziale nella sua dimensione industriale e finanziaria. Tale approccio,
inoltre, favorirebbe la posizione delle imprese italiane nel futuro contesto ge-
opolitico globale, attirando potenzialmente investitori internazionali e, al con-
tempo, istituzionali. Non da ultimo, la sinergia con numerosi settori industriali
italiani contribuirebbe a creare nuovi posti di lavoro che richiederanno capaci-
tà specifiche e tecniche.

Articolo apparso originariamente con il titolo L’Italia come potenza spaziale alla
luce della Legge 7/2018 su Opinio Juris. Si ringrazia Domenico Nocerino per la
concessione dei diritti di ripubblicazione.

2
Maggiori informazioni sono disponibili al link: https://italiadomani.gov.it/it/home.html.

25
Futuri 18 osservatorio

Bibliografia

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ziale dell’Economia, Giappichelli, Torino, 2021.

26
Ancestral Voices Digitalizing War: Robot Warriors at the Gates?

by Thomas F. Connolly

Abstract

In the 21st century, the prospect of a radically different battlefield and home front
looms. Robot soldiers will soon march into the fray, and “casualties” will go the way of cav-
alry charges. This is something to consider as a cultural phenomenon. Moreover, the idea
that mechanized devices will have a decisive effect on warfare has always required cognitive
dissonance. However, robot soldiers may magnify this gap in perception and inspire delu-
sions of risk-free conflicts, or from a bleaker perspective, wars without end.

As the 21st century civilian population of the West rouses from the pipe-
dreams of peace that, in a bizarre reversal of logic, the threat of nuclear anni-
hilation inspired through the second half of the 20th century, the prospect of a
radically different battlefield and home front looms. Robot soldiers will soon
march into the fray, rather than children, siblings, or spouses. Terms such as
“casualty,” “P.O.W.” and “M.I.A.” will go the way of cavalry charges, carrier
pigeons, and fixed bayonets. This is something to consider as a cultural phe-
nomenon. Let us recall the mentalité that has brought us to the point where
robot soldiers are necessary. They are being developed not only because we can
produce such weapons (are they “weapons”?), but because decades of erosion
of traditional cultural imperatives inform us that if robot soldiers did not exist,
they would have to be invented. Complacency and wishful thinking about a
new global order that has rendered continental wars obsolete is nothing new.
The idea that mechanized devices will have a decisive effect on warfare wheth-
er they be dreadnoughts, tanks, or long-range bombers, has always required
cognitive dissonance (Blackwell, 2021).
Robot soldiers will magnify this and create the possibility of risk-free con-
flicts, or from a bleaker perspective, there will be war without end. This is
similar to the horrific delusion in August 1914 that the soldiers would be home
before the leaves fell. The latter conclusion is also countered by the lessons
of The Great War. The cost of munitions and machines became unsustaina-
ble. Catastrophically for humanity though, cognitive dissonance is omnipotent.
Throughout the history of military technology, whether it be the “Greek fire”
of the Byzantines or today’s Lethal Autonomous Weapon Systems (LAWS) the
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

next new weapon is invariably seen as the ultimate weapon. What could be
more satisfying than the development of robot soldiers to salve civilian sensi-
bilities? (Liu, 2015). However, faith in the invincibility bestowed by military
technology is as irrational as the arrogance of the Teutonic talisman, “Gott mit
uns.”
Devices only succeed if the opponent lacks similar armament. The legend
of the Dorians sweeping down from the north with their crudely wrought iron
swords and spears that smashed the graceful bronze panoplies of the Achaeans
resounds from antiquity. Millennia later, we still chase the chimera of weapons
that will destroy the enemy while protecting us from them. Of course, there
have been numerous wars since the atomic bombs that ended World War II,
but no continental war has broken out since then and this has led to an uneasy
optimism (Kaysen, 1990). In spite of the wars fought in the Balkans through
the last decade of the 20th century, the Western consciousness accepted mutu-
ally assured destruction as a balm, as no “great power” would wage war, given
the possibility of Armageddon. However, this was not the first time Europeans
convinced themselves they would never go to war again. After Waterloo, the
Congress of Vienna devised great power diplomacy that lulled the Continent
into a sense of security that dismissed the Crimean War, the Russo-Turkish
Wars, the wars for Italian and German unification, the Balkan wars, etc., as
somehow “not counting.”
The hubris of foreign ministries and chancelleries propagated this, and
commentators of many stripes weighed in on the impossibility of wars between
major powers. The decades before the First World War offer numerous pro-
nouncements that war was neither economically advantageous nor was victory
possible, given the reality of industrialized warfare (Motta, 1995). In 1899 Ivan
Bloch’s Is War Now Impossible? was distributed at the first international peace
conference, The Hague Convention, in 1899. This was an abridged version of
the six-volume original, The War of the Future in its Technical, Economic and
Political Relations published the year before.
What is more, it was believed that international socialism would prevent
the workers from taking up arms against their comrades (Callahan, 2004). In
the popular historical imagination, if the great French socialist Jean Jaurès
had not been assassinated, he could have prevented France from going to war
(Tuchman, 1966). This ignores the reality of the French alliance with Russia,
which doomed those countries as much as the mortal embrace of Germany and
Austria-Hungary. Moreover, French politics and media had been manipulated
by Russian agents for years into paranoia about German aggression—not to
mention persistent revanchism (Long, 1962). Interestingly, in what is also the
close of an era, contemporary American politics are bedeviled by accusations
of similar Russian activities.
In the fin de siècle, economic and political theories were not quite part of
public consciousness; however, one such work became an international best

28
Thomas F. Connolly Ancestral Voices Digitalizing War

seller in 1909 and was even revised and republished after The Great War. The
Great Illusion by Norman Angell was translated into eleven languages and
caused an international sensation. It crystalized the argument that modern was
war economically unfeasible and was neither socially nor militarily sustainable.
Unfortunately, since Angell was the editor of a rather sensationalist British
newspaper, his alarm about the naval arms race between Great Britain and
Germany was taken by the British leaders to be directed as a warning to the
Germans: the British navy was invincible. The cognitive dissonance trumpets.
We know how catastrophically wrong such prognostications were. How-
ever, there is a contemporary social development rumbling beneath the high-
er-level discourse discounting future wars between major powers: conventional
war is obsolete (Luttwak, 1995). This may be so, but the coming wars presum-
ably fought by robots will soon have their own conventions. The term “war
games” may soon have an entirely resonance; videogames may have altered
perceptions of combat such that robot warfare seems unexceptional.
The influence of mechanized mobility on violence in European culture be-
fore the First World War reveals the desensitizing effect of new technology
(Möser, 2003). The serious scholarly attention to the impact of mechanized
speed on sensibilities contrasts with the concern that violence in film or even
in comic books was inuring youth to savagery that has long been mocked by
liberal humanists (Cawelti, 1975).
What of the decades of video games that digitalize mechanized violence?
There is no consensus about this, but as we live increasingly in a virtual world, are
questions about empathy the proper ones? In 1984, President Ronald Reagan’s
“Star Wars” laser-beam fantasy, the Strategic Defense Initiative, prepared the pub-
lic for what was to come. A few years later, television newscasts showed the Patriot
missiles during Operation Desert Storm; it was like a video game lighting up the
sky. Nobody appeared to be killed or injured. It was an ideal ideal follow-up. Or,
was it the perfect prelude to drone warfare? Preparing the populace for robot
soldiers continues apace. The United States Space Force, an actual military unit,
came into being with the enactment of the Fiscal Year 2020 National Defense
Authorization Act.
Such cadres call to mind the “Terminator” films, which depict chilling
scenes of robots slaughtering human beings in the near future. I would argue in
reality, Americans do not imagine actual combat between human and robot sol-
diers. The delusion is that robot soldiers are desirable because they will prevent
“real” casualties. Robots will fight with each other. This is military cognitive
dissonance on the home front. Civilians know that drones are already widely
used, but they may overlook that they mainly kill civilians. A military analyst
refers to drones as “flying robots” and elaborates on the twisted perception of
their use:

29
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

But let’s be clear: Even though we may perceive of warfare as a (video) game,
this doesn’t mean that countries and people on the receiving end of these potent
military tools feel the same. By some estimates, over 90% of those killed in drone
strikes are civilians. (Buehler, 2016)

However, in the 21st century, a socially encompassing pastime amplifies the


two-oceans-will-protect-us mindset that has succored the American public
since the 18th century, in spite of the successful British invasion in The War
of 1812. (Amnesia has always been a staple of the American political diet.)
Certain videogames promote the idea that the United States must intervene
to stop international forces of evil, and conversely by so doing this will pre-
vent attacks on the homeland. Military videogames demonstrate a strategy of
the Military-Industrial Complex to further the impression that war is now so
technologized that America’s high-tech prowess is the 21st century analogue
for safety provided by the Atlantic and Pacific (Robinson 2015). Yet again, our
machines will save us. Military robotics obviate pacifism.
We need to revisit the turn of the 20th century. In 1909, the same year that
Angell’s anti-war bestseller was published, Filippo Tommaso Marinetti pub-
lished Il Manifesto del Futurismo in Bologna. Translations in French, English,
and Spanish rapidly followed. Marinetti celebrated war, speed, youth, ma-
chines, and the masses. I would argue that the Futurist Manifesto was not an
outré provocation but a pragmatic recognition of the state of European culture.
Five years later a German army burned down the University of Leuven library,
destroying its irreplaceable medieval books and incunabula. However, the Ger-
mans were only taking a literal page from Marinetti who had declared that
museums and libraries were but cemeteries and abattoirs of culture. Indeed,
for over a hundred years, societies had been conditioned to accept that soldiers
must be drilled to reject “the cultural restraints on violence and killing” (Mös-
er, 2003). Civilians were acclimatized as well though. The motorcar, aeroplane,
and speedboat were all part of reckless and dangerous activities identified as
part of the social context for pre-war militarism. Opponents of high-speed risk
taking were dismissed as “weaklings.” Ernst Jünger’s “new man” is inured to
danger partly because

the closeness to death appears in connection with high speeds. Speed generates a
form of sober drunkenness, and a flock of racing drivers, sitting like puppets at the
wheel, gives an impression of the curious mixture of precision and danger. (Jünger
1932)

In the following decades the noted, if controversial, writer, Ernst Jünger


developed his concept of total mobilization. By the 1940s he was arguing for
the bomber pilot as the perfect representation of this—the fusion of man and
machine as ideal weapon. This contrasts with the disembodiment of robotic

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Thomas F. Connolly Ancestral Voices Digitalizing War

warfare. Now with advancements in robotics we may transcend mere combat


fusion to achieve AI armamentarium. I would argue that the perpetual wars
for perpetual peace (to use Gore Vidal’s phrase) have exhausted the capacity
for conventional of warfare and it is a psychosocial as much as a technological
imperative that impels our drive toward robot soldiers. What is more as the
speed and violence that was noted before World War I as preparation for in-
dustrialized carnage, so too is the phenomenon of the video game a preparation
for remote controlled carnage (Royakkers and van Est, 2010).
Again, there is precedent for this. Long distance warfare has been a constant
since the 20th century with aerial bombsights, artillery barrages, and long range
missiles that wreak destruction from afar. The infamous Norden bombsight
from World War II, bruited as giving bombardiers the ability to drop bombs
down chimneys, offered no such pinpoint accuracy (Kratzer, 2012). Similarly,
half a century later in the first Gulf War, America and its allies were assured
that Patriot missiles were veritable anti-missile arrows that once launched au-
tomatically flew into their Scud targets and destroyed them, reality seems to be
that Patriot missiles struck zero to one of their targets (Lewis and Postol, 2000).
Can we change categories in the Hegelian sense? Can we have “risk-free”
warfare? (Gertz, 2018). Videogames and the persistence of popular delusions
about robot soldiers would have it so. One hundred and sixteen years ago,
the first Dreadnought battleship was launched. Like much of First World War
combat, technology was out of step with strategy and tactics. It was also an
illusionary weapon. England, Germany and Russia rushed to build new fleets.
None of the dreadnoughts proved useful. The expense of building the new
fleet drove the British to near bankruptcy. In some ways, their Empire never
recovered from it. The German and especially the Russian armies were denied
resources because of the construction of their massive fleets.
The industrialized warfare of The Great War also destroyed forever the tra-
ditional concepts of “glory” and “valor.” The pomp and exultation of military
parades have long vanished from popular consciousness. There are of course
still displays of marching soldiery on holidays; dictatorships still flaunt their
weaponry before massive crowds, but certainly in Western countries, there has
been no blind rush to the colors ever since Wilfrid Owen’s “Dulce et Decorum
Est,” Erich Maria Remarque’s Im Westen nichts Neues, or Emilio Lussu’s Un
anno sull’Altipiano, to name but a few examples. (Men did eagerly enlist in
World War II, but this was a defense mechanism.) Ernest Hemingway’s A Fare-
well to Arms (1929) sums up this absolute disillusionment:

I had seen nothing sacred, and the things that were glorious had no glory and the
sacrifices were like the stockyards at Chicago if nothing was done with the meat
except to bury it. There were many words that you could not stand to hear and
finally only the names of places had dignity. Certain numbers were the same way
and certain dates and these with the names of the places were all you could say

31
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

and have them mean anything. Abstract words such as glory, honor, courage, or
hallow were obscene beside the concrete names of villages, the numbers of roads,
the names of rivers, the numbers of regiments and the dates. (184-85)

One must also note Le Feu by Henri Barbusse, first published in 1916, now
cited as the first anti-war novel of World War I. However, it was originally writ-
ten as a realistic amplification of French propaganda to reveal the truth about
conditions at the front. It was only later taken up as anti-war literature. Its
intent was closer to Ernst Jünger’s In Stahlgewittern, which had no aim other
than to describe the experiences of a German officer in combat. Nevertheless,
the French novel became a landmark of antiwar literature. These accounts and
others were detached from any sort of inspirational message. In Western so-
cieties, there is still sympathy for soldiers, (“Support Our Troops”), but since
the Nuremberg Trials, Algeria, Vietnam, etc., heroism is not a donnèe. What is
more, it has been so long since “brave boys in blue” marched off while bands
played patriotic airs that the loss may be irrelevant. The “home front” is dis-
placed because it no longer exists in an age of imminent robot combat.
“The paths of glory lead but to grave,” but when soldiers themselves are
hors de combat does the narrow gate of military ethics swing shut? If there is
no such thing as heroism, is warfare finally shown for what it is, nothing more
than mass murder? Yet if no humans are being killed, what is the cost beyond
the material destruction of automated weapons? (Enemark, 2013). Can a robot
be a war criminal? Critics of anthropocentrism may ask this question of the
military, with the assumption that the act of war is criminal under any cir-
cumstances. The International Committee for Robot Arms Control confronts
this, as do other organizations (“Killer Robots”). Robot soldiers differ from
previous combat devices only in degree. What has changed is the capacity of
the home front to accept consequences beyond its immediate circumstances. A
century of cynicism about and disillusion with martial glory has hollowed out
the concept of citizen soldiery. Videogamers who have grown up to be cubicled
warriors are as disconnected from any carnage as civilians in their living rooms,
who can instantly avoid any disturbing news by scrolling away from it on their
smart phones. While in some corner of a foreign field a robot brigade of perfect
soldiers is being programmed not to make reply, not to reason why, but to do
and die.

32
Thomas F. Connolly Ancestral Voices Digitalizing War

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33
Paspolemos: un’analisi SWOT degli effetti di una guerra globale nell’era
della Quarta rivoluzione industriale

di Annamaria Dichio

Abstract

The struggle for existence is a primordial idea that we can identify since the early
history of philosophy. The growth of humanity urges an incessant comparison with war
and its destructive character that therefore requires new cohabitations and sociopolitical
models. The concept of Paspolemos offers an alternative perspective of the conflicts in a
globalized world that run to the 2050s featuring the horrific consequences of the use of
Industry 4.0 technologies. Who will save the world? The key players will be the resilient
GenZ 5.0.

Non basterebbe la biblioteca più grande al mondo per capire e spiegare


l’intreccio di elementi che danno forma al cosmo ogni minuto in cui il soffio vi-
tale entra in gioco per impregnare la materia e renderla soggetta al divenire. Sin
dall’antichità, in Oriente e in Occidente, gli uomini più sapienti hanno provato
a individuare le caratteristiche dell’armonia, nonostante la propria esperienza
quotidiana fatta di diversità in continuo movimento e di lotta tra opposizioni
che emergono l’una a discapito dell’altra. Alla fine ha vinto l’idea che la vita
sia indissolubilmente legata alla morte, che l’ordine non possa cristallizzare il
dinamismo nella staticità e che la guerra sia una condizione perenne dell’uni-
verso, appartenente non solo alla cultura umana, ma più in generale al mondo
della natura.
Abbracciando la filosofia greca, non si può non pensare a Eraclito, quando
afferma che «Conflitto [Πόλεμος] di tutte le cose è padre, di tutte è re, e gli
uni, dèi li dimostrò, gli altri uomini; gli uni, schiavi li fece, gli altri liberi» [DK
22, B 53]. Se tutto è in perenne trasformazione, il concetto di armonia non può
prescindere dall’accettazione dell’idea che i contrari in lotta siano elemento di
vitalità, anziché di ingiustizia. Sempre Eraclito sostiene: «Occorre sapere che
la guerra è comune, e giustizia è contesa, e che tutto avviene secondo contesa
e necessità» [DK 22, B 80]. Finché c’è vita c’è guerra: è giusto e necessario che
sia così. E, nel conflitto, ogni elemento è inscindibilmente legato all’opposto
con cui lotta e non può esistere isolato da esso, per cui anche l’unità alla fine
non può fare a meno della molteplicità, in un gioco dinamico senza fine.
La stessa complementarità relazionale si scorge in quel manuale millenario
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

attribuito a Sun Tzu, che dalla tradizione orale cinese è giunto fino ai nostri
giorni per iniziare diversi popoli e intere generazioni all’arte della guerra. Arte
che può lasciar intendere una specificità settoriale di stampo prettamente mi-
litare con, alla base, la saggezza collettiva orientale di stampo taoista, ma che
in realtà è facilmente scalabile nei contesti polemici più variegati della quoti-
dianità umana di ogni popolo. Il punto di partenza è la consapevolezza che il
conflitto è parte integrante della vita umana e che la vittoria può essere ottenuta
attraverso una profonda conoscenza di sé, ma anche del nemico e di tutte le
variabili che possono intrecciarsi sul campo di battaglia. Si prospetta l’esistenza
di una profonda unità tra i diversi fattori in gioco: in questo frangente, la vera
vittoria si configura laddove si riesca a preservare ogni elemento del conflit-
to. «Un risultato superiore consiste nel conquistare intero e intatto il paese
nemico. Distruggerlo costituisce un risultato inferiore» (Sun Tzu, 2017). Sulla
base di ciò, vince davvero chi riesce a mantenere intatta la visione d’insieme,
tenendo conto che gli elementi interagiscono tra di loro e si muovono continua-
mente in mutevoli relazioni. Essere in grado di abbracciare tutti gli aspetti del
mondo significa tener presente che modificare un singolo elemento produce
ripercussioni sull’insieme, in quanto tutti gli elementi sono connessi tra loro,
per cui diventa necessario conoscerli uno a uno e capire come ognuno agisce
e influenza gli altri, per avere potere sulle diverse configurazioni che la guerra
può assumere.
Ma quante forme può avere un conflitto? Le modulazioni di una guerra
solitamente sono considerate in relazione a un campo di battaglia, in cui si
confrontano uomini di diverse identità, incapaci di riconoscere e rispettare le
reciproche istanze. Le diversità in lotta possono quindi distinguersi sulla base
dell’identità territoriale, ideologica, politica, socio-economica, sessuale, religio-
sa, culturale, demografica. Ma non solo. Esistono anche conflitti intrapresi dagli
uomini non contro altri uomini, ma contro fattori di diverso tipo che vengono
percepiti come una minaccia per l’uomo: per cui si sente parlare di lotta contro
talune specie animali (si pensi ai cinghiali), lotta contro le conseguenze prodot-
te dalle azioni del genere umano (si considerino ad esempio il cambiamento
climatico oppure azioni legate a talune politiche economico-legislative, come
nel caso della lotta al precariato o al carovita) o lotta contro un virus come il
Covid-19. Non meno importante è la guerra non contro un nemico esterno,
ma interiore. L’esistenza individuale si sviluppa continuamente sul confronto
dell’io con se stesso nelle diverse fasi della sua vita, che si tratti di conflitti legati
alla mancata accettazione di alcuni aspetti identitari di sé oppure a momenti
decisionali che implichino diverse alternative in gioco e producano sofferenze
o rimorsi. Infine, pensando alle antiche suggestioni richiamate, il conflitto può
non interessare l’uomo, bensì i diversi altri elementi della natura.
In definitiva, la guerra assume un ruolo centrale secondo varie angolazio-
ni, per il suo carattere diffuso e permeante. Da qui l’idea che il greco antico
possa essere d’ausilio per indicare tale pervasività, configurando l’idea di con-

36
Annamaria Dichio Paspolemos

flitto bellico secondo prospettive divergenti, rispetto a quella classica di tipo


territoriale, in cui si decidono gli equilibri di potere tra fazioni diverse che
si battagliano fino alla sconfitta dell’avversario. Il concetto di paspòlemos (da
πᾶς che significa “intero, totale” e πόλεμος a indicare “guerra, scontro”) è un
neologismo che vuole evidenziare un nuovo modo di considerare lo scontro tra
le parti in lotta: parti di un tutto sempre in guerra. Se ogni aspetto del reale è
da considerare come immerso in un conflitto perenne e si sostiene l’idea che la
guerra sia totale, globale, pervasiva e continua, secondo varie configurazioni, lo
stesso concetto di pace dev’essere riconsiderato, in quanto non si potrebbe più
parlare di pace come momento di fine di un conflitto. Fine che non avrebbe più
ragione di essere presupposta, sulla base di quanto detto.
Per individuare nuovi scenari di guerra e pace, è necessario però partire
dall’analisi di alcuni trend e segnali attuali.

Una roadmap di guerra

La storia dell’umanità si è continuamente sviluppata sulla base dell’avvicen-


darsi di conflitti bellici, classicamente intesi come scontri violenti tra Stati. In
tal senso la guerra, nonostante possa esser considerata come intrinsecamente
tesa alla distruzione, ha sempre inglobato in realtà i germogli di nuove convi-
venze umane, nuovi modelli sociali e politici, nuovi scenari tecnologici. Vale la
pena delineare una roadmap delle fasi di evoluzione del concetto di guerra, per
individuare gli scenari dei futuri conflitti, avendo come orizzonte il 2050.
Se è vero che per secoli si sono susseguiti scontri estesi territorialmente
perlopiù a livello locale o regionale, nel XX secolo avviene la svolta, dettata
dalle due guerre mondiali: mondiali, data la dimensione del conflitto, la varietà
geografica e continentale dei teatri di guerra simultanei e il coinvolgimento
di potenze extraeuropee, ma soprattutto totali. Con la Prima guerra mondia-
le si assistette infatti alla mobilitazione totale dell’intera società, per cui tutte
le strutture politiche, economiche e culturali furono completamente coinvolte
nell’orizzonte bellico, rendendo la società politica massificata e militarizzata
nel segno della difesa della patria, senza alcuna distinzione tra combattenti e
non combattenti, con il coinvolgimento dell’intera popolazione nello sforzo
militare. Ma fu soprattutto con la Seconda guerra mondiale che questa milita-
rizzazione si accentuò e l’apparato politico invitò la società a un grande sforzo
produttivo e al contempo distruttivo, dati gli esiti dell’utilizzo delle innovazioni
scientifiche e tecnologiche del tempo. Peculiari di questo conflitto, rispetto al
precedente, furono la pratica dello sterminio sistematico di interi popoli e le
numerose deportazioni di massa, nonché i bombardamenti ripetuti sulle città,
che raggiunsero il loro apice con lo sgancio delle due bombe atomiche (cfr.
Ortoleva e Revelli, 2000).
La divisione del mondo in blocchi fu l’esito di trattative di pace che in

37
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

Fig. 1 – Una roadmap di guerra

38
Annamaria Dichio Paspolemos

realtà prefigurarono l’inizio di un nuovo tipo di scontro tra due superpotenze


vincitrici extraeuropee: iniziò così la Guerra Fredda. Dopo sei anni di conflitto
ininterrotto che aveva coinvolto quasi tutto il pianeta, la Seconda guerra mon-
diale lasciò in eredità la consapevolezza che il mondo fosse ormai caratterizzato
da un’elevatissima interdipendenza tra aree e Paesi diversi e che il problema
del potere rivestisse ormai dimensioni planetarie. Perciò USA e URSS non po-
terono non farsi portavoce di alternativi progetti di stampo universalistico, a
discapito di meri interessi di dominio locale, al fine di promuovere due diverse
concezioni di benessere per la popolazione dell’intero pianeta. Due modelli
ideologici che permearono due sfere di influenza nettamente contrapposte,
dove i due contendenti disponevano di armamenti tali che una guerra aperta
avrebbe devastato non solo i vinti, ma anche i vincitori, in virtù del caratte-
re altamente distruttivo della bomba atomica. L’idea di Guerra Fredda rivestì
quindi l’asprezza di un vero e proprio conflitto, per la mobilitazione milita-
re, economica, psicologica che pur sempre presupponeva, lasciando però raf-
freddare le armi, sospesa com’era la possibilità di una Terza guerra mondiale,
e affermando la necessità di una pace determinata dall’equilibrio delle forze,
retta sull’impossibilità di uso effettivo degli armamenti e, comunque sia, sulla
minaccia onnipresente del deterrente nucleare (cfr. Ortoleva e Revelli, 2000).
Possono ritenersi davvero superati gli orizzonti appena descritti? Il poten-
ziale nucleare continua a costituire motivo di preoccupazione, per l’eventuali-
tà che un’escalation dei conflitti regionali distribuiti sul globo terrestre possa
portare alla distruzione del pianeta. Tuttavia il confronto tra i due blocchi ha
subìto una sostanziale modifica, poiché il quadro internazionale è diventato
più complesso e multipolare, grazie alla decolonizzazione, alla maggiore forza
geopolitica dei Paesi a Sud del mondo e soprattutto all’ingresso della Cina nel
panorama delle superpotenze economico-politiche. Soprattutto, avanza con
più insistenza nell’immaginario collettivo il concetto di guerra globale, con si-
gnificati inediti che non riducano questa espressione ad essere mero sinonimo
di guerra mondiale.
In effetti, se è vero che le guerre del XX secolo hanno, in successione, pri-
ma totalizzato la mobilitazione bellica all’interno di ogni Stato, per poi pro-
muovere la diffusione di ideologie universalistiche in grado di investire tutto il
mondo, non si può pensare a una guerra globale senza seguire la naturale evo-
luzione dell’interdipendenza economica, politica, sociale, tecnologica, energe-
tica, culturale tra civiltà diverse prodottasi fino a oggi. Partiamo dal concetto
di globalizzazione, con cui si intende l’interrelazione di tutte le società e le
economie del globo, al di là delle frontiere nazionali, fino a costituire un uni-
co sistema mondiale, a causa della compressione spaziale delle distanze. Com-
pressione favorita da quella virtualizzazione economica e finanziaria promossa
dall’impiego delle nuove tecnologie della Terza rivoluzione industriale e dai
mezzi della cybercultura, con cui persone da tutto il mondo hanno iniziato a
coordinarsi, cooperare, alimentare e consultare una memoria comune in tempo

39
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

reale, malgrado la dispersione geografica e le differenze d’orario di ognuno.


Un’eventuale guerra globale dovrebbe quindi confrontarsi non solo con l’ipo-
tesi di un’estensione massima del conflitto a livello mondiale mai verificatasi in
precedenza, ma anche con forme sempre più strette di interconnessione, pale-
satesi tra l’altro proprio in occasione dell’emergenza pandemica da Covid-19.
Assumiamo la considerazione di Cimini e Cozzolino, secondo cui «se c’è un
aspetto che la pandemia ha evidenziato con forza è che il virus non conosce barriere
e che, in una realtà così interconnessa e percorsa da crisi veramente globali, agire in
maniera scoordinata se non addirittura opposta riduce, anziché migliorare, l’effica-
cia della risposta. Eppure, sembra aver prevalso la tendenza a risposte atomizzate.
In questo senso, la questione della globalizzazione, o meglio della possibile de-glo-
balizzazione, sarà una delle direttrici per comprendere il mondo che verrà» (Cimini
e Cozzolino, 2020). Il Coronavirus ha rappresentato una wild card importante, che
ha messo in primo piano sia gli effetti negativi che positivi della globalizzazione.
Abbiamo verificato che la mobilità spinta oggi consente agevolmente la diffusione
di un virus su più ampia scala rispetto al passato, il che potrebbe costituire un’arma
devastante. Ma, allo stesso tempo, determina meccanismi di solidarietà che posso-
no muoversi più rapidamente di prima, se accettati: non senza influenzare nuovi
accordi geopolitici tra Stati che tentano di mantenere la propria sovranità nazio-
nale, probabilmente in forza dell’abitudine alla conservazione dello status quo
sotto ogni aspetto. Le risposte atomizzate costituiscono un segnale importante
in tal senso, ma non è da sottovalutare il ruolo da protagonista assunto in tale
occasione dalla comunità scientifica internazionale, che ha funto da collante tra
le differenti biopolitiche nazionali.
Lo stesso ordine internazionale è un driver esplicativo di queste dinamiche.
L’hard power degli Stati Uniti, utilizzato in virtù della propria soverchiante su-
premazia militare in tutto il mondo, è stato lo strumento privilegiato di inter-
vento in singoli teatri di guerra lungo diversi continenti, per ostacolare prima
l’espansione russa e poi altre singole minacce all’ordine mondiale costituito.
Ha però lasciato dietro di sé buchi neri d’odio e tante perplessità, una volta
richiamate le truppe in ritirata, come successo di recente in Afghanistan. Mag-
gior efficacia sembra avere invece il soft power cinese che, attraverso investi-
menti, prestiti, esportazione di tecnologia e programmi di sviluppo, pare riesca
ad affermare con più forza la propria influenza a livello internazionale [cfr.
Chomsky, 2022]. Lo ha fatto anche in occasione della pandemia da Covid-19,
distribuendo aiuti persino nell’Unione Europea e divenendo un esempio da se-
guire anche per altri Paesi, come la Russia (è emblematica la cartina geografica
di distribuzione dei maggiori vaccini in tutto il mondo, a tal proposito). Pecca-
to che, su territorio ucraino, gli Stati coinvolti abbiano nuovamente prediletto
il ricorso all’hard power.
Considerati questi aspetti, possiamo parlare di guerra globale descrivendo
quel conflitto in cui a essere privilegiato sia l’aspetto di interconnessione im-
prescindibile tra Stati di diversi continenti e l’elemento cardine sia la velocità

40
Annamaria Dichio Paspolemos

di trasmissione informativa e di mobilitazione di risorse. In tale situazione, sa-


rebbe difficile per qualsiasi Stato ritrarsi nella neutralità, in quanto attacchi
potrebbero partire da qualsiasi punto del pianeta verso qualsiasi bersaglio in
qualsiasi momento (la globale diffusione del covid lo ha dimostrato, ma anche
il terrorismo islamico degli anni precedenti).
Che la posta in gioco diventi la conquista dell’intero pianeta o solo una par-
te di esso, alzando i toni della contesa non si otterrebbe piuttosto la vittoria su
un mondo completamente distrutto? Diventerebbe improrogabile, a un certo
punto, la conquista di nuovi territori e l’avvio di guerre galattiche per garantire
la sopravvivenza della specie umana o di alcuni Stati e coalizioni ancora in lotta
tra loro. Per approfondire questi aspetti, risulta però necessario considerare
l’utilizzo delle tecnologie abilitanti della Quarta rivoluzione industriale.

Guerra 4.0

La Quarta rivoluzione industriale si è affermata negli ultimi dieci anni a


partire dalla Fiera di Hannover tenutasi nel 2011, in cui per la prima volta si
fece cenno al concetto di Industria 4.0. Essa prevede l’utilizzo delle cosiddette
tecnologie abilitanti, raggruppate in nove categorie (robot collaborativi, mani-
fattura additiva, realtà aumentata e virtuale, simulazione, integrazione digitale
orizzontale e verticale, IoT, Cloud, Cybersecurity, Big Data e Analytics), al fine
di un efficientamento dato dalla velocizzazione dei tempi, dalla riduzione di
errori, dalla diminuzione degli scarti e degli sprechi in un’ottica più sosteni-
bile, dalla garanzia di una maggior personalizzazione del prodotto finale e, in
definitiva, dal miglioramento della qualità dei processi e dei prodotti, con un
occhio di riguardo alla salvaguardia della salute delle risorse umane impiegate
(cfr. Floridi, 2017). Tutto questo si traduce in ottica aziendale in una maggior
competitività delle imprese sul mercato globale, grazie all’utilizzo della digita-
lizzazione avanzata.
Ma in ambito bellico funziona allo stesso modo? Proviamo a tracciare un’anali-
si SWOT per capirlo. Analizziamo quindi, da un punto di vista interno ed esterno,
un ipotetico contesto bellico che utilizzi le tecnologie abilitanti 4.0 (Fig. 2).

Stengths (Punti di forza)


Un primo fondamentale elemento positivo di una guerra 4.0 è l’ipotesi di
un utilizzo di macchine maggiore rispetto al passato, tale da consentire un ri-
sparmio importante in termini di perdite di vite umane. Droni e robot uma-
noidi al posto di soldati in carne e ossa sul campo tutelerebbero maggiori vite
umane, in un combattimento però condotto a pari condizioni da tutte le parti
in lotta: a vincere sarebbe la tecnologia più avanzata. Altrimenti, un impiego
di tecnologie abilitanti da parte di un solo contendente potrebbe generare una
grande strage nel campo nemico, qualora soldati umani non fossero in grado

41
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

di neutralizzare le macchine a tempo debito. Un secondo aspetto da consi-


derare è la velocità di azione che deriverebbe da sistemi informativi integra-
ti, in cui le informazioni viaggiano sul filo della simultaneità, con la capacità
di mettere subito in collegamento Stati alleati disposti in angoli del mondo
anche notevolmente distanti. Inoltre, una volta attuata la protezione avanzata
dei dati riguardanti le strategie militari da adottare, l’impiego spinto di reti di
comunicazione digitali consentirebbe attacchi a sorpresa, limitati nel caso di
movimentazioni massicce di truppe e veicoli da combattimento. Si consideri
a tal proposito il grande potere di un attacco informatico che, oltre a cogliere
di sorpresa il nemico, potrebbe bloccare interi sistemi informativi del fronte
avversario, danneggiando in maniera capillare sezioni di mondo molto estese;
o effettuare operazioni di spionaggio importanti, rubando dati fondamentali
relativi alla strategia militare nemica. Un importante punto di forza è infine co-
stituito dalle enormi potenzialità della simulazione e dei digital twins, in grado
di effettuare test su scenari e su dispositivi bellici con estrema accuratezza, per
raggiungere livelli di precisione tali da ottenere meno errori nella mira e nei
meccanismi di difesa.
Non solo: questo efficientamento strategico porterebbe a meno devastazioni
e inquinamento dovuto alla produzione e all’impiego di strategie e mezzi mili-
tari tradizionali. Basti pensare a quanto ammonta il consumo di risorse in una
guerra, a partire dall’utilizzo di metalli comuni e terre rare per le armi, all’impie-
go di acqua da parte delle truppe e, per finire, all’ampio utilizzo di idrocarburi
nelle basi militari e per i veicoli da combattimento, che determina come risulta-
to immediato emissioni esorbitanti di gas serra. Per non parlare degli alti livelli
di smaltimento delle armi tradizionali e delle munizioni, che spesso rimangono
tra l’altro inesplose e recano danni al sottosuolo, oltre ad essere pericolose per
i civili. L’utilizzo poi di armi chimiche e batteriologiche determina l’immediata
richiesta di distruzione dei raccolti. Ci sono soprattutto danni diretti all’ambien-
te: con incendi di boschi e campi; inquinamento diretto di mari, fiumi e aria a
causa delle polveri tossiche di bombe e missili; distruzione della biodiversità, per
via non solo delle esplosioni, ma anche del movimento stesso di veicoli militari;
necessità di smaltimento di tonnellate di detriti e macerie, che causano inquina-
mento dell’aria e del sottosuolo. Impatti ambientali hanno anche i movimenti di
profughi su larga scala. E, infine, devastante sarebbe l’impiego di armi nucleari
ed esplosioni di centrali nucleari1. L’Industria bellica 4.0 avrebbe il vantaggio di
limitare l’utilizzo di tale arsenale. Inoltre, l’impiego della manifattura additiva
anche per l’industria pesante ridurrebbe di molto gli sprechi.

1
Report dettagliati sono riportati sul sito web https://ceobs.org del CEOBS – Conflict and Envi-
ronment Observatory, che monitora costantemente le conseguenze ambientali e umanitarie scatenate
dai conflitti in tutto il mondo.

42
Annamaria Dichio

43
Fig. 2 – Analisi SWOT Guerra 4.0
Paspolemos
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

Weaknesses (Punti di debolezza)


Tuttavia, non è detto che tali soluzioni porrebbero fine definitivamente
all’inquinamento. Presupponendo il maggiore utilizzo di macchinari sofisticati,
il problema dello smaltimento dei rifiuti non verrebbe eliminato, ma semplice-
mente trasferito su nuovi oggetti, a meno che non si riesca a identificare mate-
riali biodegradabili e al contempo resistenti anche per la manifattura avanzata.
Ma, soprattutto, la vera questione diventa quella energetica: le macchine hanno
bisogno di elettricità per funzionare e un impiego massiccio di tecnologie abili-
tanti provocherebbe una grave insufficienza energetica nel mondo. Inoltre, già
allo stato attuale si ricorre ai bitcoin per aggirare le sanzioni internazionali e
trovare fonti di finanziamento parallele: ma il mining richiesto dalle criptovalu-
te è sotto accusa proprio per la gran quantità di energia elettrica necessaria per
queste operazioni, pur profilandosi soluzioni alternative. Bisogna fare i conti
con i costi richiesti dalla produzione e dall’acquisto delle tecnologie abilitanti.
Infine, c’è da chiedersi se il Machine Learning che regola l’Intelligenza Arti-
ficiale delle macchine sia davvero in grado di rendere i robot in grado di far
fronte ad ogni imprevisto o se, alla pari degli esseri umani, non siano anch’essi
ugualmente soggetti a errori di valutazione dovuti a bias cognitivi (Kahneman
e Tversky, 1974) peculiarmente tech.

Opportunities (Opportunità)
Se da un lato è stato evidenziato l’alto costo della tecnologia, dall’altro ri-
veste sicuramente una grande opportunità la quantità di investimenti che gli
Stati decidono ogni anno di destinare sia all’acquisto delle nuove tecnologie,
sia alla ricerca scientifica. Di certo, un buon punto di partenza in una guerra è
possedere il know-how tecnologico, oppure poter contare su partner affidabili
in tal senso, pronti a condividere il proprio sapere.

Threats (Minacce)
La principale minaccia della guerra 4.0 è speculare al carattere di capillarità e
pervasività insito nella tecnologia 4.0, che aumenta la vulnerabilità di ogni parte
del globo, facilmente attaccabile in poco tempo dai nuovi dispositivi. Se la mi-
naccia nucleare è stata il principale deterrente fino ad oggi, attacchi inferti dalle
tecnologie abilitanti implicherebbero la possibilità di distruzione del pianeta in
maniera più sofisticata e devastante. Per giunta, viaggiando i Big Data delle ope-
razioni militari su reti utilizzate da Stati e continenti differenti, una mancata legi-
slazione unitaria del web rende le operazioni mai completamente sicure, perché
non tutti i reati informatici risultano tali in tutte le Nazioni e questo rende più
diffusi gli illeciti. Il dark web potrebbe permettere a gruppi hacker non gover-
nativi di entrare nei conflitti a briglie sciolte, seguendo una propria etica hacker
(cfr. Himanen, 2001), ostacolando pur tuttavia operazioni militari mirate. Molti
cracker invece potrebbero costituire una reale minaccia incontrollabile.

44
Annamaria Dichio Paspolemos

Dallo spazio al tempo nel 2050: il paspòlemos della Gen-Z 5.0

Il binomio guerra/tecnologia sembra correre verso l’eventualità che diventi


presto indispensabile cercare nuovi territori extraterrestri da colonizzare per
garantire la sopravvivenza della specie umana, con tutti i suoi pregi e difetti,
in una sorta di neoimperialismo di memoria ottocentesca di spartizione dello
spazio. Se a profilarsi è l’eventualità della distruzione del globo terrestre, il
conflitto continuerebbe comunque ad esistere secondo nuove forme, sulla base
di quanto premesso: poiché tutto è sempre in guerra.
Nell’orizzonte del conflitto perenne, però, urge ormai un cambio di para-
digma e l’ipotesi di futuri possibili, diversi da quelli indicati nella roadmap.
Riprendiamo Sun Tzu con questa massima: «Sottomettere l’esercito nemico
senza combattere è prova di suprema abilità» (Sun Tzu, 2017). La guerra è ine-
luttabile, ma il modo di affrontarla può anche cambiare. La sfida non è quella
di annullare il conflitto, ma di portarlo su un piano diverso, che tenga conto di
tutte le istanze in gioco e di tutte le parti in causa, per cui si sceglie di vincere il
nemico, ma non di annichilirlo: piuttosto di inglobarlo, in un’ottica di inclusio-
ne, preservando la sua umanità e il suo punto di vista. Il paspòlemos tiene conto
che gli opposti godono di complementarità e non possono esistere l’uno senza
l’altro. L’abilità sta nel preservare l’intero e non una sola polarità del confronto
tra forze in campo. La stessa pace non è dopo, oltre la guerra, ma è con essa pe-
rennemente parte di un intero sempiterno e onniavverantesi di quell’apparente
ossimoro che chiameremmo lotta pacifica.
Lì dove il 4.0 ha fallito, si profilano quindi nuove dinamiche 5.0, che implichi-
no maggior attenzione verso la sostenibilità in una prospettiva antropocentrica
e resiliente e che, nell’utilizzo delle nuove tecnologie, considerino i limiti e le
fragilità del pianeta (cfr. Breque, De Nul, Petridis, 2021). Da qui si può tentare
di costruire uno scenario di guerra nel 2050, che tenga conto di tutti i soggetti
in gioco, spostando l’attenzione dallo spazio al tempo e dal territoriale al genera-
zionale. Nel 2050 sarà la Generazione Z, che identifica i nati tra il 1997 e il 2012,
cresciuti in un clima di terrore all’indomani del crollo delle Torri Gemelle, degli
attacchi terroristici e della crisi economica, a diventare protagonista della politica
internazionale. Viene chiamata anche iGeneration per via della forte connessio-
ne col mondo tecnologico: mondo con cui i membri della GenZ si son dovuti
maggiormente confrontare durante l’emergenza pandemica, data la didattica a
distanza avvenuta su piattaforme come Zoom (da qui il ribattezzarli a maggior
ragione come Zoomer, anche se questo termine era già utilizzato in contrappo-
sizione alla generazione Boomer). Sono degnamente rappresentati dalla giovane
attivista Greta Thunberg, promotrice dei “Fridays for Future” a difesa dell’am-
biente, e sono estremamente preoccupati dal cambiamento climatico. Cresciuti
nel mondo iperconnesso (di cui sono stati già descritti vantaggi e svantaggi) e
molto attenti a questioni sociali e filantropiche, sono i giovani d’oggi resilienti ad
una serie di eventi negativi che hanno investito l’umanità. Tollererebbero mai una

45
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

guerra globale 4.0 dall’alto potenziale inquinante e distruttivo? O piuttosto pre-


ferirebbero far guerra alle generazioni precedenti secondo le modalità prefigura-
te dal paspòlemos, per salvare l’umanità e dare avvio alla Società 5.0, spostando il
conflitto dalle coordinate spaziali a quelle temporali?
Segnali in tal senso si colgono già adesso: hanno protestato con convinzione
e coraggio contro le blande decisioni prese dai potenti della Terra durante la
Cop26 di Glasgow e chiedono che le loro giovani voci vengano ascoltate. Ma
non solo. Scendono in piazza contro la guerra in Ucraina, percepita come estre-
mamente lontana dalla loro vision. Ma non solo. Chiedono di tornare alla vita
e alla socialità perduta per colpa del Covid-19. Ma non solo. Hanno bisogno di
coltivare valori umani e gestire le conflittualità in maniera diversa dalle gene-
razioni precedenti. Hanno bisogno di preservare il pianeta da minacce di ogni
tipo, per non vivere continuamente nella paura e nel disagio.
Secondo lo scenario proposto, saranno loro i soggetti in grado di cogliere
nel profondo il significato del paspòlemos e di metterlo in pratica nel 2050.

Bibliografia

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Nicolì (a cura di) e V. Ostuni, Adriano Salani Editore, Milano, 2022.
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and resilient European industry, Commissione europea, Direzione generale del-
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tr.it. e cura di A. Lami, I Presocratici. Testimonianze e frammenti da Talete ad Empedo-
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Kahneman D., Tversky A., Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases, “Science”,
vol. 185, n. 4157, 1974.
Ortoleva P., Revelli M., L’età contemporanea. Il Novecento e il mondo attuale, Paravia Bru-
no Mondadori Editori, Milano, 2000.
Cimini G., Cozzolino A., Ordine internazionale, in Paura R. (a cura di), Guida ai megatrend
globali. 20 tendenze sul mondo di domani, Italian Institute for the Future, Napoli, 2020.
Sun Tzu, L’arte della guerra, a cura del Gruppo di traduzione Denma, tr.it. di M. Rossi,
Mondadori, Milano, 2017.

46
E guerra sia! Scenari bellici dalla Butte du Lion
agli algoritmi di combattimento

di Gabriele Di Francesco

Abstract

The essay intends to present possible future war scenarios, through the analysis of
variables that have constituted – and constitute largely even today – the essence of the wars
from Napoleon to von Clausewitz, from closed combat spaces to strategies connected to
the use of war algorithms and tactical digital holograms. Following this logic and the possi-
ble recurrence of wars with actions codified and used from the more distant past, possible
scenarios also arise linked to technological innovations, the growing dependence of the
military on virtual reality and the widespread use of propaganda.

[Le guerre si combattono]


soggiogati dai tre istinti principali:
l’amore della gloria, la paura o l’utile
(Tucidide, Guerra del Peloponneso, I, 76, 2)

Napoleone fu sconfitto a Waterloo. L’essenza della guerra

Il campo di battaglia di Waterloo è cambiato poco dal 18 giugno 1815,


anche grazie a una legge belga che ne ha tutelato la memoria e il territorio. La
cosiddetta Collina del leone, o Butte du lion1, è ancora lì, ben visibile come mo-
numento storico e come mèta turistica sulle tracce di un’epopea che si concluse
con la sconfitta del più grande generale, non soltanto dell’Ottocento, ma forse
dell’epoca moderna.
Secondo molti storici l’imperatore fu sconfitto perché mostrò esitazioni e
scarsa fiducia nelle sue possibilità con conseguente perdita della fiducia nel suo
destino e nelle sue fortune politico-militari. Lo storico e giornalista Jacques
Pierre Bainville (1879-1936) descrive la disperazione delle forze francesi nella

1
La butte du lion (in olandese: leeuw van Waterloo) è un elevato tumulo a cono eretto a Water-
loo sul campo dove fu combattuta la storica battaglia per commemorare il luogo in cui il principe
Guglielmo II d’Orange dei Paesi Bassi, comandante del I Corpo d’Armata, fu disarcionato da cavallo
e ferito da un colpo di moschetto alla spalla. Secondo alcuni storici nella battaglia di Waterloo com-
mise atroci errori militari che portarono alla morte di diversi uomini. Wellington attribuì gli errori
all’inesperienza militare del generale che aveva soltanto 23 anni.
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

fase finale della battaglia, la loro disfatta nella “triste pianura” (morne plaine)
di Waterloo, i loro drammatici eroismi e i cedimenti di fronte all’incolmabi-
le superiorità del nemico. Elenca così «dimenticanze e distrazioni incredibili»
che pregiudicarono l’esito della campagna ritenuta persa in partenza. Per lo
storico francese il comportamento di Napoleone oscillò tra temeraria sicurezza
ed eccessiva prudenza. In conclusione Bainville ritiene che niente riuscì per-
ché niente doveva riuscire a causa soprattutto della mutevolezza dello spirito
dell’imperatore e per la sua “segreta disperazione” (Bainville, 2006).
La battaglia di fatto segnò la fine di un’epoca di grandi ambizioni territo-
riali, di altrettanto grandi conquiste dovute in massima parte alla fedeltà dei
propri soldati. Erano uomini che credevano in lui e nella sua visione mitizzata
come imperatore. La strategia militare napoleonica aveva i suoi punti focali
nella disciplina ferrea dei soldati e nella fedeltà delle sue truppe, dell’esercito
tutto, al quale chiedeva rapidità di movimento, azioni rapide e incisive: una
campagna rapida e una battaglia decisiva. Tra le variabili che entravano nella
strategia bellica napoleonica si imponeva la stessa costruzione del mito dell’Im-
peratore, che in ogni caso teneva vivi i principi di uguaglianza e fraternità affer-
matisi durante la fine dell’Ancien Régime, lo spirito rivoluzionario dei combat-
tenti, ma anche la facilitazione logistica, in un’Europa ormai dotata di strade e
ponti, e di veloci collegamenti con numerosi villaggi, molto utili per raccogliere
approvvigionamenti. Un’altra dimensione della strategia napoleonica era il co-
siddetto “inganno “tattico”, cioè

la pratica di suddividere le proprie armate in colonne più piccole. Queste pote-


vano quindi non solo marciare e manovrare in maniera più agile, ma anche rag-
giungere il campo di battaglia da direzioni multiple, convergendo sul fronte solo
poco prima della battaglia. Questo era solo uno dei cosiddetti inganni tattici, di cui
Napoleone è stato un maestro indiscusso. Tra finte ritirate, l’utilizzo di unità esca e
di un fronte altamente mobile, supportato sia dal fuoco concentrato dell’artiglieria
che da decisive cariche di cavalleria. (Lodato, 2021)

Bonaparte aveva impostato le sue azioni belliche con una visione tattica
del tutto originale, ancora oggi oggetto di studio nelle accademie militari, mo-
dificando «il modo di combattere le guerre» e mutando «la concezione stessa
del campo di battaglia e dello schieramento delle truppe» (Lodato, 2021). Per
quanto possa sembrare oggi superato, lo stile bellico napoleonico è stato alla
base di molte operazioni vittoriose e si sostanziava nel dominio del campo di
battaglia e nella velocità. Il suo punto debole si rivelò peraltro proprio a Water-
loo, per essere venuto meno alla sua collaudata tattica bellica: lentezza se non,
come è stata poi definita, “letargia” nelle azioni e nomina come suo secondo
del generale Michel Ney, detto prode tra i prodi, ma di scarsa intelligenza e
incapace in fondo di padroneggiare in senso nuovo la strategia militare. «Lo
stesso Napoleone aveva definito la sua comprensione della strategia militare

48
Gabriele Di Francesco E guerra sia!

pari a quella dell’ultimo dei tamburini» che all’epoca erano ragazzini di 15 anni
(De Luca, 2015). Questo fu talmente chiaro che il comandante inglese, duca di
Wellington, poté affermare che a Waterloo i francesi avevano combattuto alla
vecchia maniera ed erano stati sconfitti nello stesso modo.

L’intelligenza tattica di Von Clausewitz

In questa linea la riflessione che Karl von Clausewitz fa nei suoi pensieri
sulla guerra (Vom Kriege, pubblicato postumo nel 1832), scritti al termine delle
guerre napoleoniche, che raccolgono riflessioni e scenari di tattica e strategia
militare.

Volendo abbattere il nemico, dobbiamo commisurare il nostro sforzo alla sua ca-
pacità di resistenza; questa si esprime mediante un prodotto i cui fattori insepa-
rabili sono: la grandezza dei mezzi disponibili e la forza della volontà” che deve
essere unita alla chiara prefigurazione delle poste in gioco, cioè a dire dell’intelli-
genza tattica. “La grandezza dei mezzi disponibili si potrebbe determinare, poiché
consta – per quanto non interamente – di cifre; la forza della volontà si lascia as-
sai meno facilmente determinare, ma soltanto stimare approssimativamente. (von
Clausewitz 1995, p. 20).

Passando dal regno delle astrazioni a quello della realtà, scrive sempre
Clausewitz,

tutto appare configurato diversamente. Si richiederebbe infatti una tensione di


volontà sproporzionata alla meta proposta, che quindi non si potrebbe suscitare,
perché la volontà umana non acquista le sue forze mediante le sottigliezze logiche
(…) Il capitano non deve essere un dotto storico né un pubblicista, deve però aver
familiarità con le alte sfere della vita politica, conoscere e giudicare rettamente
gli indirizzi fondamentali, gli interessi in giuoco, i problemi attuali, le personalità
sulla scena. (…) Tutte cognizioni che non si possono racchiudere nell’apparato di
formule scientifiche”, ma occorre la conquista di un giudizio che vede giusto (…)
nelle cose e nella vita, un talento che orienti in questo senso la sua attività. Risulta
quindi: che il sapere necessario ad un’alta attività di guerra può essere acquisito
con la speculazione cioè lo studio e la meditazione, ma solo da un talento particola-
re, che per un istinto spirituale sappia trarre il senso profondo dalle manifestazioni
della vita. (von Clausewitz 1995, pp. 68-69).

Il talento bellico non è soltanto e comunque speculazione filosofica o psico-


logica, ma dall’unione della forza spirituale con la pura materia esperienziale,
elementi frutto dell’esperienza quindi e che non possono essere scissi l’una
dall’altra. «Nella guerra tutto è indeterminato» si afferma, «e le grandezze con
cui bisogna calcolare sono tutte di natura variabile. Rivolgono l’attenzione solo

49
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

alle grandezze materiali mentre tutta l’attività bellica è compenetrata di forze


e di influenze spirituali», che sono percepite soltanto dall’occhio interiore di
ognuno in maniera diversa da persona a persona e talora da momento a mo-
mento. Nessuna delle due parti può essere scissa, poiché «la guerra è una con-
tinua azione reciproca delle parti contrapposte», azione che diventa obiettività
e coscienza mediante «la semplice esperienza»:

Ognuno giudica l’avversario in base alla fama del talento di lui, all’età e all’espe-
rienza e si orienta in conseguenza. Ognuno getta uno sguardo indagatore sullo spi-
rito e il morale delle truppe sue e del nemico. Tutte queste e consimili operazioni
nel campo spirituale, mostrate dalla esperienza, si ripetono regolarmente e quindi
autorizzano a dar loro il valore di grandezze reali nella loro specie. Certamente
però è l’esperienza che fornisce le necessarie credenziali per questa verità” (von
Clausewitz 1995, pp. 58-59).
Quindi cognizione della realtà, intelligenza e perspicacia che possono dare
il valore dell’esperienza.

La guerra dei proclami

Non si sottovaluta peraltro l’incidenza di altre variabili nel pensare alla


guerra e ovviamente al conseguimento della vittoria finale. Alla vigilia dello
scoppio della Prima guerra mondiale una delle variabili davvero molto impat-
tanti è stata proprio la cultura sotto forma di slogan, proclami, propaganda
comunicativa, tanto che la storiografia ha etichettato quel tragico evento come
guerra di proclami. In particolare negli ambienti accademici e culturali tede-
schi si sviluppa e prende piede una sorta di mobilitazione spirituale che ben si
può esprimere nella «volontà di non tacere, là dove parlano le armi» (Lübbe,
2003). La guerra, secondo questa ottica, oltre ad avere un significato nazionale
aveva una valenza universale come guerra di culture (la Kultur tedesca contro
la Zivilisation occidentale), tesa alla salvaguardia del mondo di fronte a nazioni
diverse ed alle loro contraddizioni. «A questa categoria» scrive Simmel (2003),
appartengono «gli sconvolgimenti della nostra guerra. Essa probabilmente eli-
minerà definitivamente qualcosa dai singoli contenuti temporanei della cultura,
ne creerà di definitivamente nuovi». E aggiunge:

Questa guerra è un parossismo, una febbre di quelle che talvolta come epidemie si
diffondono tra le popolazioni, come la flagellazione medioevale, e da cui un gior-
no queste si svegliano, spossate e senza comprendere come questa follia sia stata
possibile – oppure è uno straordinario rivoltare e arare a fondo il terreno europeo,
perché ci restituisca sviluppi e valori, la cui natura oggi neppure siamo in grado di
presagire? (Simmel, 2003)

Secondo Simmel la “necessità” della Prima guerra mondiale, su cui insiste-

50
Gabriele Di Francesco E guerra sia!

va la riflessione del pensiero filosofico-storico dell’epoca, non era così sentita;


il suo divampare era dovuto all’accecamento, alla “delittuosa leggerezza” di
pochissimi uomini europei; «tuttavia adesso che è scoppiata» afferma «noi ab-
biamo visto in essa uno spiegamento di forza e un entusiasmo carico di spirito
di sacrificio in una quantità mai conosciuta» (Simmel, 2003). E questo grazie
alla forza dei proclami, della comunicazione.
Dunque la guerra è comunicazione, è quella interazione o manipolazione
comunicativa prima ancora che uso iniquo e violento delle armi, prima ancora
che affare economico. Con la forza di una retorica tribunizia, magniloquente
quanto ampollosa e sostanzialmente ripetitiva, nello stesso periodo prebellico,
Gabriele D’Annunzio accendeva gli animi delle folle che si assiepavano nelle
piazze di Roma o, come si tramanda, all’inaugurazione del monumento a Gari-
baldi sullo storico “scoglio di Quarto” incitando alla guerra:

Il fuoco cresce, e non basta. Chiede d’esser nutrito, tutto chiede, tutto vuole. Vo-
luto aveva il duce [Garibaldi, ndr] di genti un rogo su la sua roccia, che vi si con-
sumasse la sua spoglia d’uomo, che vi si facesse cenere il triste ingombro; e non
gli fu acceso. Non catasta d’acacia né di lentisco né di mirto ma di maschie anime
egli oggi dimanda, o Italiani. Non altro più vuole. E lo spirito di sacrificio, che è il
suo spirito stesso, che è lo spirito di colui il quale tutto diede e nulla ebbe, domani
griderà sul tumulto del sacro incendio: Tutto ciò che siete, tutto ciò che avete, e voi
datelo alla fiammeggiante Italia! (Montanelli, 2015)

Proprio sulla comunicazione si concentrarono in seguito gli studi socio-po-


litici di alcuni studiosi di scienza politica a cominciare da Harold Lasswell, co-
nosciuto come il padre fondatore della communication research e della content
analysis con il suo studio Propaganda technique in the world war del 19272. Ai
suoi studi, tra cui l’analisi dei simboli del primo maggio in Unione Sovietica, ri-
portata nel monumentale Language of politics: studies in quantitative semantics
(1949, trad. it., 1979), si deve la teoria del mito politico che assume particolari
connotazioni nella società di massa ed è basilare per la conservazione della
leadership; il messaggio trasmesso per arrivare ed incidere sulle masse, deve
fare leva su valori, esigenze, bisogni, vissuti come basilari e sublimati nel “mito
politico”.
Questi minimi riferimenti non esauriscono ovviamente la guerra indotta
e combattuta con i proclami e la comunicazione. L’evoluzione tecnologica ha
anzi allargato la platea dei comunicatori come dei destinatari, moltiplicando
le possibilità strategiche di incidere su antefatti ed esiti degli interventi bellici.
La guerra dei proclami e della comunicazione non è dunque finita, ma anzi
propone sempre ulteriori scenari e prospettive.

2
Lo studio sui messaggi persuasivi, pur con diverse ottiche, fu inoltre al centro dell’attenzione
di numerosi studiosi del secolo scorso da Carl Hovland a Kurt Lewin, da Paul Lazarsfeld a Robert
Merton, a Leon Festinger.

51
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

L’era dello spazio e la sua fine simbolica

A questo riguardo un importante aspetto da considerare, cercando di tro-


vare le variabili che hanno inciso e incidono affrontando il tema degli scenari
bellici, è la dimensione spaziale nel mondo globalizzato. Questa variabile può
non sembrare correlata con le tecniche comunicative e persuasive di massa,
ma in realtà è con queste strettamente connessa. A sottolinearlo è Zygmunt
Bauman, che, in seguito agli eventi dell’11 settembre 2001, «l’assalto terroristico
ai grattacieli più famosi della città più famosa del mondo», distingue ne La società
sotto assedio (2003) l’era dello spazio e la sua fine simbolica:

L’era dello spazio iniziò con la muraglia cinese e il vallo di Adriano negli antichi impe-
ri, continuò con i fossati, i ponti levatoi e le torri delle città medievali, e culminò nelle
linee Maginot e Sigfrido degli stati moderni, per poi concludersi con il Patto Atlantico e
il muro di Berlino al tempo dei blocchi militari sovranazionali. Durante tutta quell’e-
poca, il territorio è stato la più preziosa delle risorse, il premio più ambito di qualsiasi
lotta per il potere, il segno di distinzione tra vincitori e sconfitti. Si poteva dire chi era
risultato vincitore di una battaglia scoprendo chi restava (vivo) sul campo di battaglia
al termine dello scontro. Ma soprattutto, in tutta quell’epoca il territorio è stato la
principale garanzia di sicurezza: era in termini di ampiezza e profondità del territorio
controllato che si misuravano e affrontavano le questioni di sicurezza. (Bauman, 2003)

La terra era un riparo e un nascondiglio: «un luogo in cui si poteva scappare


e dentro il quale ci si poteva barricare». Tutto questo oggigiorno è scomparso, e
ormai da tempo. Rispetto al passato il livello di vulnerabilità non è più misurabi-
le in base alla dimensione degli arsenali di armi altamente tecnologiche sviluppate
pensando alle obsolete guerre territoriali. Lo spazio globale, secondo Bauman, ha
assunto il carattere di una terra di frontiera, senza staccionate e recinti, dove
la scaltrezza e la comunicazione contano più dei cannoni, dove i tentativi di
ancorarsi a un territorio sono praticamente inutili.
Si parla così di “guerre asimmetriche”, in cui le armi di ciascuna parte sono
correlate agli obiettivi di guerra e non comparabili tra loro tagliate a misura
di azioni di ricognizione occasionali, brevi e notoriamente inconcludenti. Il
rischio di guerre tradizionali, ortodosse, territoriali, di espansione a spese dei
propri vicini, non è peraltro diminuito, anzi oggi forse è più forte di ieri, viste
le poste in gioco offerte dal processo di globalizzazione:

Gli eserciti diventano più snelli più agili, più rapidi. Tendono a essere addestrati
all’azione dispersiva, a piccoli gruppi o individualmente, con un sistema che ri-
corda più gli sciami d’api che le colonne in marcia di una volta. Il rapporto tra
equipaggiamento tecnico e le cognizioni umane necessarie per farlo funzionare sta
rapidamente cambiando a favore del primo, e una parte sempre maggiore delle
capacità un tempo affidate alla memoria e all’addestramento dei soldati viene tra-
sferita ai dispositivi elettronici di puntamento, ai quali vengono affidate anche – in

52
Gabriele Di Francesco E guerra sia!

misura sempre crescente – decisioni operative sia tattiche che strategiche. (…)
I nuovi metodi di azione militare mirano ad escludere possibilmente del tutto il
confronto faccia a faccia con il nemico. (Baumam, 2003).

L’uomo, il soldato, è in fondo un gestore di comunicazioni preimpostate.


Nel mondo liquido e globalizzato non ci sono più eserciti di leva, non ci sono
punti fermi e inesplorati. È un mondo in costante movimento, senza stabilità
ed in moto perpetuo, è un mondo tecnologico di comunicazione oltretutto af-
fidato sostanzialmente a grandi gruppi privati, che veicolano spesso disinfor-
mazioni per poter continuare nel loro lavoro. Bauman parla a questo proposito
di immaginazione privatizzata e di una terra di frontiera bellica planetaria che
è in fondo un “non-luogo”, in quanto non può essere riportata su nessuna car-
tina, non è più un fatto geografico. La rete di interdipendenze umane è andata
stringendosi intorno all’intero globo, la terra liquida di frontiera si è ampliata
lasciando pochi o nessun escluso. Si tratta di una terra astratta ma fortemente
collegata con il mondo della comunicazione su basi globali, fortemente centra-
lizzati e privatizzati. Le reti comunicative satellitari – privatizzate – gestiscono e
controllano tutte le situazioni e le occorrenze di guerra, oltre che la vita privata
dei singoli, attraverso la digitalizzazione.
Gli scenari che a questo punto si aprono manifestano una potenza comuni-
cativa fortissima, che rende spesso il soldato un automa, un mero esecutore di
messaggi tecnologici che altri attivano.

La privatizzazione digitale e la sfida nucleare

Il digitale apre così una nuova forma di raccordo tra pubblico e privato a
tutto beneficio del privato, che diviene il vero detentore del potere burocrati-
co. La sfera pubblica si restringe sempre più sotto la pressione delle aziende
del digitale. Gilles Jeannot e Simon Cottin-Marx (La privatisation numérique,
2022) analizzano tali problemi tecnologici seguendo l’analisi della Sociologie
des bureaucraties publiques osservando che, mentre in precedenza l’informatiz-
zazione ha rappresentato un fattore interno di cambiamento delle amministra-
zioni pubbliche, oggi le numérique ha radicalmente modificato la distinzione o
le frontiere pubblico-privato. Tali modifiche sono andate di pari passo con la
diffusione generalizzata degli artefatti elettronici, dall’accesso a sempre nuove
piattaforme, anche illegali o sfuggenti al controllo dello Stato, alle potenzialità
offerta dall’intelligenza artificiale. Non si tratterebbe quindi soltanto di un nuo-
vo ambito applicativo, ma di nuove modalità collegate ai meccanismi monopo-
listici che regolano la gestione delle piattaforme e dei big data:

L’expression privatisation numérique doit être comprise dans un sens large comme
un nouveau chapitre de la privatization des États, telle que formalisée par Béat-

53
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

rice Hibou, bien au-delà de la vente ou de la mise en concurrence des entreprises


publiques. Cette privatisation se traduit tout d’abord comme l’imposition de nou-
veaux standards. (Jeannot e Cottin-Marx, 2022)

Standards che sono dei veri cavalli di Troia per l’economia e per la gestione
del potere, attraverso le potenzialità associate all’accumulazione e all’incremen-
to dei big-data.

Appliquées à l’économie, l’accumulation des données et les méthodes sophis-


tiquées d’intelligence artificielle comme les methods d’apprentissage automatique
par réseaux de neurons ouvrent d’abord des transformations majeures du mar-
keting», ma si traduce anche in una sorta di « déstabilisation inédite et d’ampleur
des modèles d’action des organisation et des pouvoirs publics et des capacités de
controle des autorités publiques. (Jeannot e Cottin-Marx, 2022)

La diffusione generalizzata della digitalizzazione anche in campo strategico


militare, attraverso l’utilizzo di start-up tecnologiche, apre a nuove modalità
di azione non soltanto in termini privatistici quindi (si parla di capitalismo di
sorveglianza e di piattaforma) ma anche di rischio e di possibilità di perdita del
controllo da parte dello Stato.
Si parla in buona sostanza di destatualizzazione della guerra. I conflitti at-
tuali si accenderebbero secondo questa circostanza più all’interno degli Stati,
tra forze che non sono eserciti istituzionali, ma composti da truppe volontarie
«spinte da interessi locali o sete di vendetta ben più che dall’ipotesi di costruzio-
ne di identità statuali migliori o finalmente autonome». Il risultato è che questi
conflitti suscitano e producono disgregazione e mai integrazione e concorrono
alla dissoluzione dello Stato (Boot, 2002; Münkler, 2002; Kaldor, 2005).
Anche la morte non si dipinge più come eroismo, spirito di patria, sacrificio
per un ideale superiore. L’ideale oraziano del “Dulce et decorum est pro patria
mori” (Orazio, Odi, III.2.13)3 «non serve più agli scopi politici degli Stati, che
la coniugano oggi in funzione simbolica (come fanno i terroristi), in funzione
repressiva (come fanno le truppe di occupazione per scoraggiare la lotta di
liberazione)» in funzione mostruosamente generativa (lo stupro etnico), come
afferma Luigi Bonanate nel suo saggio sul futuro delle guerre (2009).
Il terrore della guerra nucleare riusciva a paralizzare le superpotenze e i loro
rispettivi alleati protetti da scudi e da un ordine più fittizio che reale: si stava e
3
Sembra opportuno riportare di seguito i versi di Orazio proverbialmente citati per
rinfocolare l’amor di patria o per esaltare il sacrificio di chi per la patria ha dato la vita.
“Dulce et decorum est pro patria mori: / mors et fugacem persequitur virum/ nec parcit
inbellis iuventae/ poplitibus timidove tergo.”
“È dolce e onorevole morire per la patria: la morte insegue il fuggiasco né risparmia la gioventù
indisciplinata dietro le ginocchia” Il primo verso è riportato sui medaglioni in bronzo al centro delle
croci del Cimitero degli Eroi di Aquileia, dedicato ai caduti della Prima guerra mondiale. Da Aquile-
ia, nell’ottobre 1921, partì in direzione dell’Altare della Patria di Roma il convoglio del Milite Ignoto.

54
Gabriele Di Francesco E guerra sia!

ancora oggi si sta seduti sopra un’enorme e potenziale arma distruttiva di massa.
Il rischio di una catastrofe che porti all’annientamento dell’umanità è in fondo
reale, ma se ne sottovaluta e trascura la portata, è quasi psicologicamente rimosso
dalle coscienze. Tale sottostima sembra in parte dovuta proprio alla considerazio-
ne della morte e della sua funzione esemplare, oltre che dalla pervasiva insistenza
da parte dei poteri economico-finanziari sul ruolo del “nucleare pulito”, diretto
a risolvere problemi energetici a fini di pace (tema riscoperto nell’ultimo lustro
anche in seguito alle difficoltà di approvvigionamento energetico e in alternativa
alle risorse energetiche fossili: gas, carbone e petrolio).
Tale ultima prospettiva, diffusa in termini di propaganda “tranquillizzante”
nell’opinione pubblica, viene affiancata anche dalla considerazione del minore
impatto delle cosiddette “armi nucleari tattiche”. Si tratta di ordigni nucleari
a bassa intensità, con un potere distruttivo limitato a obiettivi specifici e non
su larga scala, (una centrale elettrica, una diga o la sede di una istituzione dello
Stato). Si tratta di ordigni di piccole dimensioni, facilmente trasportabili e uti-
lizzabili senza l’utilizzo di mezzi aerei, ma direttamente dalle truppe sul campo
con un raggio di azione più limitato delle parallele armi strategiche nucleari4.
In realtà, sebbene il raggio d’azione di tali armi sia inferiore, ciò non toglie che
si tratti pur sempre di ordigni con ricadute radioattive non controllabili o con-
trollabili soltanto in parte e comunque con un grande impatto sulle popolazio-
ni e sui territori. Secondo una stima della IRIAD Review attualmente la Russia
ha 1.900 ordigni tattici nucleati mentre gli USA ne hanno 230.
L’umanità tutta, in buona sostanza, sarebbe seduta su un gigantesco e apo-
calittico fungo atomico senza averne coscienza, come a dire che l’umanità tutta
è impegnata in una guerra continua senza sosta e fatta in aggiunta da altri senza
avvertirne il pericolo. Si tratta peraltro e comunque di una guerra telematica,
in cui la gestione è resa possibile grazie alla possibilità di raccogliere e verificare
dati militari attraverso l’utilizzo di droni telecomandati e della grande rete sa-
tellitare il cui controllo è per la maggior parte di grandi gruppi finanziari privati
che per i loro interesse muovono le leve del potere.

Conflitti ibridi e algoritmi di guerra

L’avanzare della tecnologia e le nuove realtà socio-economiche hanno dunque


richiesto diversi modi di affrontare e superare i conflitti. Molti studiosi del resto
4
Gli ordigni tattico-nucleari hanno una potenza da 0,1 a 50 kilotoni, quelli strategici da 100 a
mille kt; il loro raggio d’azione da terra è di 500 chilometri a fronte dei 5.500 km delle armi strate-
giche. Anche il potenziale distruttivo è inferiore per le armi tattiche e investe 59 chilometri quadrati
contro i 1.230 chilometri quadrati delle strategiche. La ricaduta in termini radioattivi, il cosiddetto
fallout, o nube tossica, che si alzerebbe da un’esplosione, colpirebbe 2.800 chilometri quadrati con le
tattiche, 33.910 con le strategiche (cfr. IRIAD – Istituto di Ricerca e formazione in conflict manage-
ment online su https://www.iriad.it/)

55
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

avevano già annunciato nuovi modelli di guerra, che in realtà si basava sull’os-
servazione delle realtà del passato e la possibilità di trovarsi di fronte a svariati
modelli di futuri probabili, sviluppatisi in conseguenza dell’evoluzione possibile
delle attività politiche, militari e imprenditoriali. Distinguendo tra war (essenza
della guerra) e warfare (metodi bellici) «si affermano nuove e ineluttabili realtà
della guerra nelle sue forme di unconventional war, irregular war, asymmetric
war, wicked war (guerra scellerata), proxy war (guerra per conto di altri), criminal
war, war of the third kind, non-trinitarian war (ovvero, non più composta dalla
trinità di Clausewitz: Stato, esercito e popolo)» (Mini, in Romeo, 2021).
In realtà si è trattato sempre in buona sostanza di etichette applicate a vari
metodi di belligeranza relativi ai metodi operativi e alle infinite combinazioni
degli strumenti di guerra. Per i cinesi queste combinazioni sono innumerevoli
e indefinite: la “combinazione” non è la semplice miscela o la composizione si-
multanea di vari elementi che rischiano di eliminarsi o neutralizzarsi a vicenda,
ma è «in continua evoluzione e possibile alternanza. Si devono pertanto consi-
derare le potenzialità della combinazione delle organizzazioni (nazionali, inter-
nazionali e sovra-nazionali pubbliche e private); degli ambiti (compresi quelli
apparentemente lontani o avulsi dal terreno di scontro); dei mezzi disponibili;
dei livelli coinvolti (stratificazioni)» (Mini, in Romeo, 2021).
Si parla di conflitti ibridi, ma anche di minacce ibride (hybrid threat), cioè
«dei metodi e delle attività mirate alle vulnerabilità dell’avversario dove la gamma
di metodi e attività è ampia»: la definizione è del Centro Europeo Nato-Ue di
Helsinki per il contrasto alle minacce ibride istituito nel 2017 (Mini, in Romeo,
2021). Il confronto con minacce multilivello e con avversari a n-dimensioni,
definite «hybrid threat», ha rivoluzionato il nostro modo di approcciarci alle
modalità e alle condotte delle guerre. Negli USA per hybrid threat s’intende
«il risultato di combinazioni e dinamiche di capacità convenzionali, irregolari,
terroristiche e criminali» utilizzati da attori statali e non statali con l’obiettivo
di destabilizzare la società, oltre che causare danni diretti e indiretti (Romeo,
2021). Le guerre e le minacce ibride nella loro essenza non lineare, secondo
Giuseppe Romeo, «tenderebbe[ro] a colpire non solo la dimensione fisica
dell’avversario ma, se non soprattutto, le strutture conoscitive. Cioè le convin-
zioni, le stesse percezioni che una nazione o che i singoli individui hanno di sé
nel ricercare una propria collocazione nel mondo reale, misurabile, tangibile,
nel quale soddisfare il loro bisogno di sicurezza» (Romeo, 2021).
Da questi presupposti l’attenzione si pone sulla cyberwarfare, nuova frontie-
ra di un conflitto a basso costo ma ad alto impatto e risultato, utile a inserirsi nei
processi di governance dell’avversario, di cui sfrutta le situazioni di crisi tentan-
do di manipolarne l’opinione pubblica ricorrendo alla costruzione di fake con-
siderate come decisivi “fattori di potenza” nel cosiddetto «News management
strategico». Lo scenario che si presenta riconduce all’idea di “combattente cy-
borg” espresso in una versione bionica, con le facoltà mnemonico-cognitive di
soldati geneticamente modificati in una visione che riduce l’impiego umano

56
Gabriele Di Francesco E guerra sia!

e costruisce con maggiore forza il soldato che viene impiegato sul campo. In
questo senso si collocano anche le ricerche dell’agenzia statunitense DARPA
(Defense Advanced Research Projects Agency).
In tale contesto si parla sempre più spesso di “algoritmo di guerra”. Il termi-
ne si riferisce a qualsiasi schema o procedimento sistematico che si esprime in co-
dice informatico, che si effettua attraverso un sistema costruito, e che è in grado
di operare in relazione a un conflitto armato. L’intenzione o la preoccupazione
tecnologica fondamentale è la capacità di un sistema costruito, senza ulteriore in-
tervento umano, di aiutare a prendere ed effettuare una “decisione” o “scelta” di
un algoritmo di guerra. Distillati, i due ingredienti principali sono un algoritmo
espresso in codice informatico e un sistema costruito adeguatamente capace5. A
tal fine nella primavera del 2017, il Pentagono ha creato una nuova unità tecno-
logica a disposizione della Difesa, l’Algorithmic Warfare Cross-Functional Team
(AWCFT), specializzata in settori che prevedono lo studio e lo sviluppo di intelli-
genza artificiale e machine learning. Tra i progetti dell’unità tecnologica di difesa
si individua il Project Maven, sviluppato in partenrship con Google, «per consen-
tire al Pentagono di analizzare tutto il materiale video registrato dai droni e di de-
codificarlo selezionando obiettivi ed oggetti ritenuti di interesse, estrapolandoli
da una mole gigantesca di filmati, utilizzando la “computer vision”, un’area di
ricerca che produce algoritmi per l’acquisizione e la comprensione di immagini»
(Lucania, 2018). Il fine è quello di integrare le tecnologie per il machine learning
e l’elaborazione dei big data da parte del Ministero della Difesa.
Si è convinti che «la nuova frontiera della guerra algoritmica sia appena
iniziata e non si è ancora in grado di quantificare quanto, potenzialmente, po-
trà incidere sugli equilibri futuri», secondo l’approccio generale definito nel
Defense Science Board Summer Study on Autonomy pubblicato del giugno
20166. Ma le ripercussioni di questa nuova realtà stanno già rivoluzionando le
regole di condotta e la vision della guerra.

Ologrammi digitali tattici

Il massiccio ricorso alle tecnologie legate al mondo della comunicazione


e dell’intelligenza artificiale appare piuttosto scontato nel mondo contempo-
raneo. La realtà virtuale si esprime in tante modalità e contesti quotidiani alla
portata di tutti come anche in innumerevoli applicazioni che facilitano, ma an-
che condizionano fortemente la nostra vita. Vi sono problemi ancora irrisolti,
come l’uso dei cloud, la protezione dei dati, l’accumulo di dati d’ogni genere
e specie senza che gli utenti sappiano dove come e quando saranno cancel-

5
Cfr. Program on International Law and Armed Conflict online su https://pilac.law.harvard.edu/
aws/
6
Disponibile all’indirizzo https://www.hsdl.org/?abstract&did=794641/

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Futuri 18 guerra e pace nel 2050

lati, smaltiti o in che modo altrimenti utilizzati. Da parte di alcuni studiosi si


fa riferimento alla “nuova era oscura”, come espresso nel titolo dell’opera di
James Bridle (2020), dove tutto apparentemente si conosce ed è pubblico ma
non totalmente gestibile da chi quei dati ha memorizzato volontariamente o
involontariamente. La crescente dipendenza dei militari dalla realtà virtuale, ad
esempio, è un dato incontrovertibile ma anche abbastanza preoccupante circa
l’uso che se ne può fare, e non soltanto con riferimento ai dati. Sempre in termi-
ni di algoritmo di guerra, ad esempio, è possibile conoscere – ma non valutare
appieno – le applicazioni e le implicazioni derivanti dall’uso degli ologrammi7.
Sorta di “fantasmi fotografici”, o meglio a personificazioni, gli ologrammi
sembrano anche reali e in termini tridimensionali si muovono mentre ti guardi
intorno, proprio come un oggetto concreto. Gli ologrammi e le altre tecnologie
derivate dallo stesso impianto tecnologico offrono la possibilità di formazione e
istruzione realistiche ed economiche per un’ampia gamma di missioni militari:

Vi è infatti una crescente dipendenza dei militari dalla realtà virtuale per addestra-
re i combattenti e nella creazione di cloni elettronici. L’esercito americano ha già
fatto buon uso degli esseri umani virtuali. (…) L’Institute for Creative Technolo-
gies (ICT) della University of Southern California, a Los Angeles, ha utilizzato i
personaggi della realtà virtuale per toccare i combattenti in un modo o nell’altro
prima, durante e dopo gli schieramenti di combattimento. (Uppal, 2021)

Si sta dunque «trasformando la fantascienza in realtà», creando immagini


olografiche realistiche, generando esseri umani virtuali. Stanno lavorando alla
creazione di «esseri umani dall’aspetto e dall’azione fotorealistici» che possono
pensare da soli, provare emozioni e parlare in gergo locale. «In realtà interagi-
sco con gli umani virtuali in termini di porre loro domande e loro rispondono»,
afferma il dottor John Parmentola, direttore della ricerca e della gestione del la-
boratorio presso l’ufficio scientifico e tecnologico dell’esercito (Uppal, 2021).8
L’esercito richiede ologrammi per scopi di intelligence sul campo di batta-
7
Gli ologrammi sono immagini tridimensionali, che permettono le immagini stereoscopiche, ov-
vero quelle che appaiono con prospettive diverse a seconda del punto di osservazione. L’ologramma
consente di riprodurre, con notevole precisione, un’immagine precedentemente registrata.
8
«Con l’invenzione di intense sorgenti di luce coerente (laser) e i loro più recenti progressi
tecnologici, l’olografia ottica è diventata una tecnica popolare per l’imaging tridimensionale (3D)
di oggetti macroscopici, applicazioni di sicurezza e imaging microscopico. Grazie alle sue proprietà
non invasive e prive di etichette, l’olografia è stata applicata all’imaging biologico, al monitoraggio della
qualità dell’aria/acqua e alla misurazione della caratterizzazione quantitativa della superficie. L’olografia
viene utilizzata anche per rilevare lo stress nei materiali. Un materiale sollecitato si deformerà, a volte in
modo così minuzioso da non essere visibile. Un ologramma può amplificare questo cambiamento poiché
la luce riflessa dal materiale avrà ora un’angolazione diversa rispetto a quella iniziale. Un confronto tra gli
ologrammi prima e dopo può determinare dove si trova lo stress maggiore. In Europa le carte di credito
telefoniche utilizzano ologrammi per registrare l’ammontare del credito residuo. I piloti di caccia usano
display olografici dei loro strumenti in modo che possano continuare a guardare verso l’alto. I musei con-
servano documenti d’archivio in ologrammi” (Uppal, 2021).

58
Gabriele Di Francesco E guerra sia!

glia, pianificazione militare e smaltimento di esplosivi. La consapevolezza della


situazione mediante il possesso di alcune informazioni critiche sul campo di
battaglia se visto in ottica tridimensionale. Oltre il desiderio di consentire alle
forze armate statunitensi di visualizzare tali informazioni tramite ologrammi,
ci sono anche l’interesse e la certezza che l’olografia funzioni come strumento
di guerra psicologica per instillare paura nei soldati su un campo di battaglia o
nella popolazione civile.
Secondo il generale statunitense Jonathan Maddux, executive officier del
programma per la simulazione, l’addestramento e la strumentazione, la tecno-
logia dell’ologramma «continua a essere un lavoro in corso», ma che la tecno-
logia dell’ologramma digitale tattico ha «mostrato risultati promettenti» con le
forze speciali dell’esercito americano in Afghanistan e Iraq, dove in particolare
si è utilizzata tale tecnologia per creare mappe 3D di villaggi o edifici specifici.
Tale tecnologia non è appannaggio soltanto degli americani. L’interesse è glo-
bale come pure i progressi nella ricerca da parte di ricercatori di diversi enti
di ricerca, come ad esempio l’Istituto nazionale giapponese di scienza e tecno-
logia industriale avanzata (AIST) e il Center for Terahertz Waves dell’Univer-
sità cinese di Tianjin, che ha realizzato per la prima volta l’olografia “chirale
riflettente”9, utilizzando il materiale delle metasuperfici programmabili (Pm)10
e le onde terahertz. Questo consentirebbe di migliorare sensibilmente non sol-
tanto la ricognizione militare e «porterebbe un netto progresso per le unità di
artiglieria dell’Esercito popolare di liberazione (PLA), consentendo alle uni-
tà di raggiungere la leadership globale nella tecnologia dell’artiglieria». Tale
tecnologia consentirebbe di migliorare di molto la capacità di combattimento
e consentirebbe alle unità di avere una reazione rapida nelle battaglie future
(Uppal, 2021).

Scenari di futuro: una conclusione aperta

Alla luce di queste ultime notazioni resta da chiedersi quali scenari di guer-
ra potrebbero concretizzarsi realisticamente in un futuro non lontanissimo.
Per molti analisti le ultime emergenze belliche farebbero quasi propendere per
9
La chiralità (dal greco χείρ, “mano”) è la proprietà di un oggetto rigido (o di una disposizione
spaziale di punti o atomi) di essere non sovrapponibile alla sua immagine speculare.
10
«Le Pm sono superfici ingegnerizzate capaci di manipolare e controllare contemporaneamente
le onde elettromagnetiche e le informazioni digitali» scrive Marta Musso (2022) «Nel nuovo articolo
intitolato Remotely Mind-controlled Metasurface via Brainwaves, il team di ricerca, guidato da Sha-
obo Qu e da Jiafu Wang dell’Air Force Engineering University e da Cheng-Wei Qiu dell’Università
nazionale di Singapore», ha proposto «un nuovo modello di metasuperficie controllata a distanza
(Rmcm) tramite le onde cerebrali. Partendo dal presupposto che il cervello umano genera onde
cerebrali mentre pensa, i ricercatori hanno teorizzato che la raccolta di queste onde e il loro utilizzo
come segnali di controllo consentirebbe agli esseri umani di controllare le Pm direttamente con la
mente» (Musso, 2022).

59
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

un ritorno alle strategie napoleoniche con incursioni veloci su fronti multipli,


bombardamenti mirati e disposizioni su più fronti di colonne di armati e di
mezzi corazzati, nonché l’individuazione di bersagli sensibili. La costruzione
di un mito personale si realizza del resto sul campo, con temeraria sicurezza
e senza eccessiva prudenza, affidando il compito a ufficiali di grande fede ma
soprattutto di grande intelligenza.
Afferma tuttavia von Clausewitz che in guerra tutto è indeterminato. La
guerra è una continua azione reciproca delle parti contrapposte ed occorre uni-
re la forza spirituale con la pura materia esperienziale. Opzioni strategiche che
tengano in fondo conto della complessità dell’interazione umana, dall’indagine
sullo spirito e il morale delle proprie truppe e di quelle del nemico, fino alla
cognizione della realtà che entra nella logica dell’esperienza. Uno scenario di
azioni che nella riflessione simmeliana si fa difesa dell’identità nazionale, della
propria Kultur contro la Zivilation dovuta alla leggerezza di pochi europei, ma
combattuta con un entusiasmo carico di spirito di sacrificio “in una quantità
mai conosciuta”. Guerra di sacrificio individuale ma anche di grande dispiega-
mento di interventi comunicativi. In fondo si tratta di una tipologia di guerra
nazionalista, arricchita di interventi e azioni di comunicazione, di proclami, tesi
a infiammare gli animi per la difesa della patria.
In fondo è lo stesso impatto comunicativo delle retoriche orazioni dan-
nunziane inneggianti al fuoco e alla morte santa e agli altri simboli eroici per la
salvaguardia della propria identità sociale e culturale. Simboli ripresi e analiz-
zati da Lasswell e Leites (1979). La diffusione della propaganda di guerra va di
pari passo con l’esigenza della difesa del proprio territorio, identificato come
la propria vera e unica patria. Era una visione ancora legata a un passato che
poteva farsi risalire a epoche antiche, ma che apriva la strada alle infinite possi-
bilità della capillarità comunicativa, come bene si comprenderà nella Seconda
guerra mondiale, nella complessità delle sue azioni belliche e negli strascichi
che ne seguiranno con la cosiddetta guerra fredda. Si delinea così un nuovo
tipo di guerra, una guerra sempre più ibridata cui concorrono: 1) forze dello
Stato, 2) azioni volontarie di cittadini organizzati in compagini incisive sebbene
apparentemente marginali (nella realtà italiana il riferimento esemplare è alle
forze cosiddette “partigiane”, confluite nel successivo CLN, Comitato di Libe-
razione Nazionale), 3) azioni para-terroristiche di destabilizzazione, 4) azioni
deliberate di sterminio etnico. Tutto questo per Bauman si riassume e conclude
con l’assalto alle Torri Gemelle di New York, che chiude l’idea del territorio
come estremo baluardo di difesa della propria incolumità rendendo manifesta
la realtà globale, fino a quel momento non del tutto avvertita o sentita come
possibile vicinanza di tutti i popoli. Tale catastrofico evento reintroduce alcune
variabili fondamentali di ogni guerra, le motivazioni economiche innanzi tutto
celate sotto il velo dei valori religiosi e del necessario martirio per la loro difesa,
ma anche per l’impulso di fortissimi gruppi di potere interessato a continuare
lo sfruttamento delle risorse naturali (petrolio, gas, ecc.).

60
Gabriele Di Francesco E guerra sia!

La fine dello spazio chiuso si precisava così come possibilità dell’apertura


di una frontiera planetaria in cui tutto sembrava possibile e in cui la guerra era
sottoposta al ricatto nucleare di grandi superpotenze e di grandi gruppi econo-
mici. In alternativa alla guerra guerreggiata si sono “gestite” e si gestiscono del-
le vere e proprie guerre economiche da parte di privati, destabilizzando gli Stati
o scatenando faide tra opposte fazioni proprio negli spazi territoriali, entran-
do nella loro domestic jurisdiction e violandone la sovranità. Scenari futuribili
anche questi, alla luce degli eventi e delle perduranti situazioni para-belliche
attuali in cui si sommano ormai conflitti gestiti telematicamente con strumenti
e strutture logiche che fanno ricorso agli algoritmi di guerra. Altri scenari e
nuove situazioni, potremmo affermare, che hanno al centro l’intelligenza artifi-
ciale e le sue applicazioni tecnologicamente avanzate, utilizzate per accumulare
dati strategici con i quali capire e orientare le azioni del conflitto. Assistiamo
negli ultimi tempi all’utilizzo massiccio dei droni, per acquisire informazioni,
bombardare e distruggere autodistruggendosi. Si procede inoltre sempre con
l’intelligenza artificiale alla ricognizione geomorfologica dei territori e dei cam-
pi di battaglia. Ologrammi geo-territoriali ma anche ologrammi “umani” ripro-
ducono le fattezze dei militari e dei civili e gestiscono telematicamente le azioni
belliche, anche quelle riferibili ad interventi con armamenti tattici nucleari.
Sono questi forse gli scenari di guerra del prossimo futuro, questi in cui
sono presenti numerose variabili, già codificate e usate dal più lontano passato,
fin da epoche e conflitti remoti, ma che tornano puntualmente perché costituti-
vi della stessa natura umana. In fondo è sempre il mito di Prometeo che torna,
il mito di “colui che riflette prima” (in greco antico: Προμηθεύς, Promethéus)
e che può decidere con intelligenza e astuzia di “rubare il fuoco agli Dei”, ai
detentori del potere, per dare origine alla condizione esistenziale umana. Come
tale è il simbolo della ribellione, la sfida alle imposizioni e alle falsificazioni
ideologiche, anche in contrapposizione al fratello Epimeteo (Ἐπιμηθεύς, Epi-
metheús), “colui che riflette in ritardo” e che avventatamente offre il destro a
Pandora di aprire il vaso di tutti i mali dei mortali. Buon senso e riflessione
contro avventatezza e incapacità di vedere gli eventi in prospettiva11.
È in questa contrapposizione che si pongono la razionalità dell’intelligenza
e la capacità di deterrenza nel costruire scenari di guerra, dove comunque agi-
scono i fattori ineluttabilmente e intimamente connessi al carattere e all’indole
della natura dell’uomo, gli impulsi per dir così primordiali e istintuali dell’ani-
mo umano: l’amore della gloria, la paura e l’utile.
11
Si veda Platone, Protagora, testo greco a fronte, a cura di Reale G., Bompiani, 2001. Nel Prota-
gora (…) illustra la propria tesi col mito di Prometeo ed Epimeteo. Zeus ha attribuito aidos (cultura)
e dike (capacità di organizzazione) a tutti gli uomini per vivere in società, dato che non possiedono
artigli, denti, corna e altri attributi naturali. Tali virtù sono state trasmesse in maniera consapevole,
e «non semplicemente attribuito in un processo cieco, “epimeteico”, del quale si può render conto
soltanto ex post: per questo è possibile insegnare aidos e dike agli uomini, mentre non si può “inse-
gnare” a un toro ad avere corna e zoccoli».

61
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

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62
Immagini di una apocalisse possibile.
Dinamiche della paura nell’immaginario dell’invisibile

di Adolfo Fattori

Abstract

Until a few months ago the relation human/environment was a privileged theme for
fiction and non-fiction imaginary, and had as core risks related to incumbent ecological
catastrophe and/or humanitarian disasters – both seen as late capitalism effects. Today,
meanwhile we are writing, the diffusion of SARS CoV-2 pandemic and the “winds of war”
blowing from East Europe are putting in the background these themes, that now lay be-
hind sanitary emergency. These not are disappeared at all: even the epidemic spreads fi-
nally are an effect of globalization. We can try to look for narrations in recent past based
on molds to which we can look to try ideas in order to make sense to this new emergency.

Nyarlathotep: il caos strisciante. Io sono l’ultimo, e parlerò al vuoto in ascolto. Non


ricordo quando la cosa ebbe inizio. Mesi or sono? Anni? So che a un periodo di
sconvolgimenti politici e sociali s’andava aggiungendo la strana e cupa apprensione
di un orrendo pericolo fisico; un pericolo diffuso che comprendeva tutto, un pericolo
quale può essere immaginato solo nei più atroci incubi notturni. Ricordo che la gente
si aggirava con facce pallide e preoccupate, sussurrando avvertimenti e profezie che
nessuno osava poi consapevolmente ripetere o riconoscere di aver udito. Un mostruo-
so senso di colpa gravava sulle città della terra, e dagli abissi interstellari sembravano
giungere fredde correnti che facevano rabbrividire chi si trovava in posti bui e solitari.
(Lovecraft, 1973 [1920]).

Reindirizzamento

Nessuna lista di cose da fare.


Ogni giornata sufficiente a se stessa.
Ogni ora. Non c’è un dopo. Il dopo è già qui.
Tutte le cose piene di grazia e bellezza […]
Nascono dal cordoglio e dalle ceneri.
(Cormac McCarthy, 2007)
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

Mentre scrivo queste righe assistiamo a fenomeni ed eventi che seppure


sempre immaginabili – e non solo dai profeti di scenari apocalittici – quando si
verificano hanno la caratteristica di essere, nel loro abbattersi su di noi, larga-
mente imprevisti, ancora al di là delle nostre previsioni. Nel nostro immagina-
rio abitano l’orizzonte del possibile, ma non quello del probabile o dell’attuale.
Del resto, è successo anche per fenomeni del passato, in termini diversi, in
cui la mano umana ha avuto un peso decisamente più diretto, e che nonostante
questo, hanno avuto il tratto dell’imprevedibilità. Si pensi allo scoppio della
Prima guerra mondiale, fino all’anno prima considerata da molti addirittura
impossibile (Illies, 2013; Fattori, 2014), e alla grande pandemia di influenza
“spagnola” che ne seguì. Oggi, alla guerra fra Russia e Ucraina, alle conseguen-
ze paventate da alcuni – fino al rischio dello scoppio di una guerra nucleare – e
al suo esplodere subito dopo – anzi, ancora durante – la pandemia di Covid-19
che a molti ha fatto ricordare proprio la “spagnola” del 1918-1920.
La guerra che torna in Europa, dopo quasi sessant’anni, fa venire in men-
te ciò che scriveva Jean Baudrillard: «In un momento imprecisato degli anni
Ottanta del XX secolo, la storia ha fatto un’inversione di rotta... È la fine della
linearità... il futuro non esiste più» (Baudrillard, 1993). Sembra quasi di ri-
tornare all’immaginario esotico e avventuroso del XIX secolo, quello di Jules
Verne e di Emilio Salgari, con una spruzzata di atmosfera quasi da operetta,
in luoghi percepiti come i confini del mondo conosciuto – l’Occidente euro-
peo – fra paesi dai nomi impronunciabili e una collocazione geografica ancor
più improbabile, buona per i romanzi gotici e dell’orrore... A noi, credo, tocca
ragionare sui rapporti fra l’immaginario e il fenomeno che abbiamo davanti:
come viene percepito, rielaborato, raccontato a se stessi e agli altri, e se pos-
siamo intercettare in profondità indizi sulla direzione che prenderà la nostra
ricerca di senso nel nuovo scenario esplorando le narrazioni, l’immaginario di
quei momenti del nostro passato, più o meno recente, emersi nella seconda
metà del XX secolo, in cui il rischio di una catastrofe epocale e potenzialmente
planetaria si è affacciato alla nostra immaginazione e ne è stato di innesco e nu-
trimento, indifferentemente in scenari fiction, o non-fiction, spesso intrecciati e
ibridati fra loro, che hanno variamente alimentato angosce, terrori, incubi – e
che sono attribuibili a alcuni grandi ambiti: l’annichilazione atomica, il contagio
planetario, la sovrappopolazione.
In subordine, nei termini del ragionamento che sto costruendo, un quar-
to ambito, quello dell’invasione aliena, variamente intrecciato con gli altri tre.
Non si tratta quindi di confrontare l’oggi visto dal presente con il domani im-
maginato nei decenni passati quanto mettere a fuoco due costrutti sociali: l’im-
maginario della catastrofe della seconda metà del XX secolo con gli immaginari
contemporanei del rapporto fra società umana e eventi catastrofici. Il luogo
privilegiato di questo confronto è la narrativa di fantascienza – e le sue derive
variamente pseudo-scientifiche.

64
Adolfo Fattori Immagini di un’apocalisse possibile

Una Apocalisse a orologeria

Ci sembra più facile oggi immaginare la distruzione


della Terra e della natura che il crollo del tardo capitalismo.
Fredric Jameson, 1994

A metà del Novecento, riflettendo sui film di fantascienza del filone cata-
strofista, l’intellettuale americana Susan Sontag scriveva di come

I film di fantascienza non riguardano la scienza. Riguardano il disastro, che è uno


dei più antichi soggetti per l’arte (…) Così, il film di fantascienza riguarda l’estetica
della distruzione con la bellezza peculiare che può essere trovata nel provocare
devastazione, nel creare disastri (…)
… non è sufficiente notare che le allegorie della fantascienza sono uno dei nuovi
miti – cioè, uno dei modi di venire a patti e di negare – l’eterna ansia umana nei
confronti della morte… c’è una torsione storicamente individuabile che intensifica
l’ansia. Intendo, il trauma sofferto da tutti a metà del XX secolo quando divenne
chiaro che da allora alla fine della storia umana, ognuno avrebbe passato la sua
vita sotto la minaccia non solo della morte individuale, che è certa, ma di qualcosa
quasi insopportabile psicologicamente – l’incenerimento e l’estinzione collettivi
che potrebbe arrivare in ogni momento, virtualmente senza avviso (Sontag, 1961).

Sontag scriveva di science fiction “apocalittica” nel 1961, in piena Guerra


fredda, quando la paura dominante nel mondo era quella dell’annichilazione
atomica, di fronte alla quale l’umanità si sentiva inerme, indifesa. Naturalmente
l’immaginario apocalittico evadeva poi dalla fantascienza per tornare alle sue
fonti profonde: paure e angosce informi, caotiche, connesse al timore della di-
struzione delle strutture della vita quotidiana, per entrare da un lato nel reale,
alimentando il commercio di rifugi antiatomici e la propaganda statale ameri-
cana (spesso eccessivamente rassicurante) sui comportamenti da tenere (cfr. Si-
gnori, 2008; Signori, 2009), da un altro nell’immaginazione escatologica, con le
varie teorie e allucinazioni relative agli UFO e ai pericoli di invasioni aliene (cfr.
Jung, 1960; Fattori, 2018a), dall’altro ancora dai moniti degli studiosi redattori
dell’American Bullettin of the Atomic Scientists della Chicago University che
dal 1947 segnalano attraverso la posizione delle lancette su un orologio meta-
forico – il Doomsday Clock – il nostro avvicinarci alla mezzanotte dell’umanità,
alla distruzione del mondo, che sembra – almeno nelle narrazioni giornalistiche
più disinvolte – tornare imprevedibilmente d’attualità.
A queste possiamo aggiungere le visioni distopiche ispirate al rischio di un
aumento esponenziale della popolazione mondiale, in contemporanea con un
accentramento accelerato del potere sotto il controllo di un nucleo sempre più
ridotto di potenti – anzi, di enti finanziario/industriali progressivamente svin-
colati dal controllo umano diretto – connesso all’aumento della povertà diffusa,
del disordine sociale, della distruzione dell’ambiente, come in Largo! Largo! Di

65
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

Harry Harrison (1972), da cui l’anno dopo fu tratto il film 2022 I sopravvissuti
(Fleischer, 1973), e, in tempi più recenti, nel saggio di Jacques Attali Breve sto-
ria del futuro (2007).
Mettendo da parte le previsioni, narrative o parasociologiche, connesse alla
sovrappopolazione, prende forma un calco narrativo che conoscerà varie decli-
nazioni, curvature, arricchimenti: la distruzione atomica potrà scambiarsi con
l’invasione aliena, con la liberazione volontaria o meno di un virus letale – ma-
gari costruito in laboratorio – e con uno spettro di conseguenze cha andranno
dalla distruzione dell’ambiente, alla nascita di mutanti mostruosi, alla riduzio-
ne alla completa barbarie dei sopravvissuti.
Queste varianti saranno così frequentate da dare vita a numerosissimi ro-
manzi, film, racconti, serie tv, fumetti, fra i quali emergeranno anche grandi e
piccoli capolavori, difficili da elencare, ma che sono rimasti fertili fino ai giorni
nostri.
Innesca queste narrazioni la sensazione profonda e informe di una minaccia
immateriale, impercepibile, che si incarna nelle figure degli alieni, delle radia-
zioni atomiche, dei batteri e dei virus: mostri invisibili, spettri, che infestano,
infettano, contaminano; contro i quali non c’è difesa preventiva. Anche in que-
sto ritroviamo un calco: quello delle reazioni al sacro più ancestrale e primitivo,
indomabile e inconoscibile – invisibile. In queste visioni il mondo ne è infesta-
to. Ci si potrebbe costruire una intera Hauntology, ispirandosi alle intuizioni di
Mark Fisher (2019).
Nella narrativa “dedicata” ci si può provare a difendere, ma solo quando
si manifestano apertamente o nelle loro conseguenze. A meno che la vita asso-
ciata non sia ormai polverizzata, i pilastri della civiltà non siano già sbriciolati,
portando via con sé gli ancoraggi e le certezze della vita quotidiana. Esploran-
do romanzi e pellicole potremmo costruire un itinerario composto di tappe
precise, che mantenendosi sulla direttrice principale, occhieggiano all’una o
all’altra variante. Ma in tutte, ritroveremmo lo stesso topos: la paura dell’im-
barbarimento o dell’estinzione come effetto dell’attacco da parte di un agente
impercepibile se non nei suoi disastrosi effetti.

La mezzanotte dell’Umanità

… l’interminabile serie di telegiornali dedicati alle esplosioni nucleari


che vedemmo negli anni Sessanta
(una vera e propria istigazione all’immaginazione psicotica,
che autorizzava qualsiasi cosa) aveva davvero un’aria carnevalesca:
Stanley Kubrick colse perfettamente
questa caratteristica dei media nel finale del suo Dottor Stranamore.
(James G. Ballard, 1991)

66
Adolfo Fattori Immagini di un’apocalisse possibile

A voler ricostruire il territorio delle apocalissi a “bassa” o “alta” intensità


che la science fiction ci ha proposto negli ultimi settant’anni, ci troviamo ad ag-
giornare le “nuove mappe dell’inferno” che il critico britannico Kingsley Amis
(1962) cartografò e pubblicò un anno dopo il saggio di Susan Sontag.
Amis coglie la doppia origine delle catastrofi che la science fiction immagina
possano colpire la Terra sintetizzandola in poche righe:

… (le) storie di disastri cosmici. Di questi, nel passato, se ne è immaginata una


varietà immensa, da nuvole di gas letale a una distanza di un paio di anni luce a
uccelli dello spazio esterno che vengono a covare le loro uova (…) Al giorno d’oggi
invenzioni del genere sono state sostituite da possibilità permanenti che stanno,
per loro natura, all’interno del sistema. Uno degli stratagemmi preferiti è una cala-
mità punitiva (…)
Un pezzo del genere è … The Death of Grass… Qui la calamità, risultato di un virus
mutante, attacca non solo l’erba ma tutte le graminacee, compreso il frumento, il
granoturco e il riso (Amis, 1962, corsivo mio).

Alcune opere sono dei veri e propri classici, idealtipici addirittura, nel loro
svolgere in modo originale temi di genere, sviluppandoli separatamente o ibri-
dandoli fra loro.
A dire il vero, tutte queste narrazioni hanno almeno un precedente illustre,
Il colore venuto dallo spazio, di Howard Phillips Lovecraft (1927): in una vallata
del New England si è abbattuto un asteroide proveniente dallo spazio esterno,
che ha rilasciato un qualcosa (radiazioni ignote? microorganismi sconosciuti?)
che ha trasformato la zona in una “landa desolata” provocando strane trasfor-
mazioni e distruggendo piante, animali, esseri umani.
Il racconto di Lovecraft è un prototipo, ed è un’incursione, seppur con toni
inquietanti e weird, del maggiore scrittore horror del Novecento nella fanta-
scienza in senso stretto.
D’altra parte, lo stesso Lovecraft sosteneva che la sua mitologia immagi-
naria e le sue trame erano basate su una premessa materialistica inderogabile:
tutto ciò che rientra nella sfera del soprannaturale e del sacro appartiene sem-
plicemente a universi e spazi talmente estranei e alieni a noi da non riuscire ad
inscriverli nell’universo del “naturale”, del “razionale” (Harman, 2012; Fisher,
2018). Per cui, anche il “colore venuto dallo spazio” non è qualcosa di trascen-
dente, ma un agente dannoso per la vita sulla Terra, senza scopo e senza volontà
– qualcosa di irriducibilmente alieno. E che sia organico o inorganico, non ha
importanza: contano gli effetti che produce raggiungendo il nostro pianeta.
In ogni caso, qui troviamo fusi in un unico tratto tutti gli elementi che nutri-
ranno l’immaginazione apocalittica, e che in seguito si separeranno: l’infezione
e/o la contaminazione da un lato, la minaccia naturale e/o soprannaturale da
un altro, la minaccia di invasione dallo spazio esterno da un altro ancora. Suc-
cederà di nuovo – forse – solo in una occasione ulteriore, in La notte dei morti

67
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

viventi (1968), il capolavoro di George Romero, capostipite di un genere che


avrà una progenie che raggiungerà i giorni nostri con la serie tv The Walking
Dead (Darabont, 2010 – 2022; cfr. Iannuzzi, 2015): in ambedue le opere è un vi-
rus il responsabile del ritorno a una parvenza di vita dei morti – e, naturalmen-
te, dell’imprudenza e della presunzione dell’uomo: nel film di Romero il virus è
“fuggito” da un laboratorio. La compresenza dei tratti naturale/soprannaturale
è nel fatto che in tutti e due i casi la causa scatenante degli eventi è un virus,
un ente che non ha nulla di trascendente, che rientra nella sfera della visione
razionale del mondo, ma il ritorno in vita dei morti conserva una fortissima
connotazione sacra: nell’immaginario occidentale contemporaneo rimanda al
voodoo, a pratiche negromantiche, blasfeme.
Un’altra narrazione dell’apocalisse sarà quella connessa alle invasioni dallo
spazio, che ha come origine il romanzo di Herbert George Wells La guerra dei
mondi (1897): la cronaca dell’invasione marziana della Terra, che ironicamente
fallirà perché i batteri terrestri sono letali per gli invasori.
A partire da Welles e Lovecraft nella seconda metà del Novecento si mol-
tiplicheranno le messe in scena di invasioni dallo spazio esterno, più o meno
aderenti ai due modelli, quello dell’invasione militare, diretta, violenta, quello
dell’invasione nascosta, latente, invisibile.
Fra tutti, spicca il romanzo Gli invasati (1954) di Jack Finney, da cui fu trat-
to il film L’invasione degli ultracorpi (Siegel, 1956). In una cittadina americana
una delle abitanti comincia ad avere dei dubbi sui suoi concittadini. Non “sem-
brano” più gli stessi: l’aspetto è quello di sempre, ma appaiono alla ragazza
svuotati, privi di emozioni, sentimenti, vita.
Scopriremo, insieme a lei e al medico a cui si è rivolta, che di notte una
razza di invasori alieni sostituisce agli abitanti della cittadina loro simulacri,
perfettamente identici agli originali, ma privi di identità, particelle di una men-
te collettiva. Il finale, aperto, è pessimistico e tragico. Anche qui, il tratto di
fondo è l’invisibilità del processo, la subdola penetrazione nel mondo umano
di entità aliene.
Ma quella che per decenni è stata la più forte “grande narrazione” dell’a-
pocalisse prossima ventura è quella della catastrofe nucleare, peraltro la più
concreta e plausibile nella sensibilità comune, periodicamente riaffacciantesi
sulla scena del mondo in conseguenza dell’andamento della situazione politica
internazionale, anche dopo la fine della Guerra fredda. Contrappuntata dagli
spostamenti delle lancette del “Doomsday Clock”, ha nutrito infinite narrazio-
ni letterarie e cinematografiche, a descrivere un mondo imbarbarito e impo-
verito, in cui i sopravvissuti – segnati da malattie, povertà, mutazioni – nella
maggior parte dei casi sono tornati a forme di organizzazione sociale primitive
e selvagge, dominate dalla superstizione e dalla paura. Un esempio paradigma-
tico ne è il romanzo L’alba delle tenebre (Leiber, 1991), pubblicato nel 1950: in
un mondo postatomico (assimilabile temporalmente ai nostri anni) l’umanità
è sotto il dominio di una setta di sacerdoti che hanno trasformato la scienza in

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Adolfo Fattori Immagini di un’apocalisse possibile

una sorta di religione, assiomatica e rigida, virata verso la magia e il sacro. Ed


è degno di nota che l’Orologio dell’Apocalisse, nato per segnalare il rischio
dell’annichilazione nucleare, nel 2020 – in piena pandemia – ha segnato il suo
massimo avvicinamento alla nostra “mezzanotte” a causa dell’inquinamento
globale e del disinteresse dei governi verso questo tema, per poi ritrovare negli
ultimi mesi la sua vocazione originaria...

Nuovissime mappe dell’inferno

In questo, il Capitalismo è assai simile alla “Cosa”


dell’omonimo film di John Carpenter: un’entità mostruosa,
enormemente plastica, capace di metabolizzare ed assorbire
qualunque cosa entri in contatto con essa.
(Mark Fisher, 2018)

Ma le “nuove” paure non sono regredite: nonostante si siano in questi anni


ripresentate periodicamente (i magazzini dell’immaginario sono sempre satu-
ri), le angosce connesse alle profezie di distruzione nucleare sono state prima
affiancate, poi sopravanzate da quelle provocate dall’inquinamento dell’am-
biente naturale – e d’altra parte le minacce russe di questi mesi in tema di
attacchi alle centrali nucleari ucraine vanno nello stesso senso: più inquinante
di una nuova Chernobyl c’è ben poco...
Per rimanere alla contemporaneità, sviluppatasi a partire dai primi anni
Settanta del Novecento, l’attenzione alle trasformazioni provocate dal procede-
re del dominio umano sull’ambiente, si è allargata e radicata progressivamente,
a partire da Il cerchio da chiudere (1972) di Barry Commoner per arrivare a
Chthulucene (2019) di Donna Haraway – e al movimento “Friday for Future”,
l’interpretazione “morbida”, pacifica, “etica” dell’ambientalismo, contrappo-
sta a quella delle ali più estreme che considerano tout court l’umano come un
virus (il termine torna) letale per la Terra, che farebbe bene a scomparire (Ca-
morrino, 2018a). La science fiction ha colonizzato anche questa sfera, aggre-
dendo il tema in positivo, costruendo futuri in cui, con la Terra ridotta a una
discarica radioattiva e puteolente, gli umani si sono trasferiti su altri pianeti
alle cui condizioni hanno adattato il proprio corpo, come in Il seme tra le stelle
di James Blish (1970), oppure rimanendo sulla Terra, ma riconvertendo l’eco-
nomia all’uso delle energie rinnovabili, che trovano il loro attuale esito nella
corrente del solarpunk (Verso, Fernandes, 2020)1.
Ma molto più disincantato, estraneo alla dimensione classica dell’avven-
tura nello spazio e nel tempo, e lucido nel cartografare le mappe – interiori e
ambientali – del presente è James Graham Ballard, con la sua “tetralogia degli
1
Forse la sintesi migliore della fantascienza “ambientalista” la offre James Cameron con Avatar,
2009.

69
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

elementi”, un ciclo di quattro romanzi in cui il pianeta è stato devastato volta


per volta da una catastrofe che ha alla base uno dei quattro elementi secondo
Empedocle ed altri alla base del tutto, terra, acqua, aria e fuoco. (1973, 1974,
1975, 1976). Allo scrittore inglese non interessa soffermarsi più di tanto sulle
cause delle apocalissi che mette in scena, quasi che siano parte di un futuro
scontato, né moraleggiare sul tema, quanto scavare nelle trasformazioni della
vita quotidiana – quindi delle identità – dei personaggi che pone sul suo palco-
scenico, individui disincantati, scollegati, occupati a sopravvivere conservando
una parvenza di civiltà nelle nuove condizioni, ancorati a un antropocene che
non c’è più.
E siamo così ai giorni nostri, in pratica. Le potenti visioni che Ballard evo-
cava con distacco e disincanto – una presa d’atto di un rischio incombente,
iperbolizzato mobilitando i quattro elementi – avranno un seguito più reali-
stico e caustico in La mostra delle atrocità (1991), dove in una nota margine il
romanziere britannico riflette sulla cementificazione selvaggia che ha investito
nell’ultimo mezzo secolo (il romanzo è del 1971) il Mediterraneo con lo svilup-
po del turismo di massa, scrivendo che la

… curiosa atmosfera delle località balneari del Mediterraneo non ha ancora trova-
to i suoi cantori. Le potremmo considerare come un’unica città lineare, lunga circa
5.000 chilometri da Gibilterra alla spiaggia di Glyfada a nord di Atene e larga poco
meno di 300 metri. Nei tre mesi estivi è la città più grande del mondo, abitata da
almeno cinquanta milioni di persone, o addirittura il doppio (Ballard, 1991, corsivo
mio).

Di fronte alle apocalissi planetarie immaginate nei romanzi del “ciclo degli
elementi” questa considerazione sembra al ribasso, ma non è altro che il rifles-
so concreto, nella realtà quotidiana, delle paure degli anni Sessanta proiettate
sul futuro, e reinterpretate dalla fantascienza: le catastrofi totali immaginate
si riflettono, ad esempio, nella cementificazione selvaggia, nella distruzione
dell’ambiente naturale. Apocalissi “a bassa intensità”, negli anni Settanta anco-
ra “locali”, anticipo di quelle a cui, secondo alcuni, assistiamo oggi.
Si tratta di un circolo vizioso, addirittura banale: il mercato ferisce l’am-
biente per creare beni e servizi, di cui gli individui fruiscono, complici, di fatto,
dei progressivi danni all’ambiente. Come scrive Mark Fisher in Realismo capi-
talista,

Uno di questi è la catastrofe ambientale. Certo, a prima vista le questioni ecolo-


giche non danno esattamente l’idea di essere un «vuoto non rappresentabile» per
la cultura capitalista: più che inibiti, argomenti come i cambiamenti climatici e la
minaccia dell’esaurimento delle risorse vengono essi stessi sfruttati dalla pubblicità
e dal marketing (Fisher, 2018).

70
Adolfo Fattori Immagini di un’apocalisse possibile

Ballard e Fisher colgono o implicano, magari inconsapevolmente, come


corollario delle loro considerazioni la “complicità” di “masse” e “capitale”
nell’antropizzazione accelerata dell’ambiente, e nelle sue conseguenze – reali,
immaginarie, ipotizzabili, profetizzate – a nutrire le critiche, le rivendicazioni,
le profezie più o meno millenaristiche dell’ambientalismo militante (Camorri-
no, 2018a).

La società dell’angoscia

Nell’epoca del dissolvimento delle tradizioni religiose e della fine delle grandi narra-
zioni moderne, sono le immagini della scienza a re-incantare le platee mondiali allo
spettacolo della verità.
(Pier Luca Marzo, 2018)

Fatto sta che, almeno in Occidente, percepiamo, e non da oggi, una di-
mensione di crisi – “soggettiva e intersoggettiva” (Berger e Luckmann, 2010),
che riguarda il senso che diamo al mondo – che sicuramente ha radici reali, se
pensiamo ai riflessi devastanti sul mercato del lavoro, sull’organizzazione della
produzione, sui redditi e sui consumi, sulla vita quotidiana nel suo complesso
della crisi economica del 2008, che possiamo considerare, insieme all’accelera-
zione dei processi di individualizzazione, il nucleo profondo dell’attuale forza
che forme di “angoscia escatologica” (Camorrino, 2018b) hanno nello scenario
sociale attuale. Siamo immersi in un penetrante senso di disagio, esplorato oltre
che da Peter Berger e Thomas Luckmann anche da Anthony Giddens (1999)
da Ulrich Beck (2013), da Alain Ehrenberg in due testi successivi (1999; id.
2010), giusto per citare gli studiosi più autorevoli.
Combinando e intrecciando fra loro le argomentazioni dei vari autori citati,
potremmo inferire che l’intensità del mutamento sociale di questi ultimi de-
cenni ha innescato la tendenza a sentirsi in una situazione continua di rischio
incombente (Beck, 2013), in cui gli ancoraggi sociali a cui si lega la sicurezza
ontologica (Giddens, 1999) vacillano, si allarga l’incidenza del disagio indivi-
duale (Ehrenberg, 1999), mentre è cresciuta progressivamente la sfiducia e la
diffidenza nei confronti dei “saperi esperti” (Giddens, 1999) e si rafforza la
tendenza alla riemersione di modalità di attribuzione di senso alla realtà model-
late su forme antiche, legate alle società arcaiche, largamente basate su forme
di pensiero magico. Il risultato è l’immanenza di una condizione di angoscia
escatologica e – in ultimo – di forme di neo-religiosità (Camorrino, 2018b). È
un’epoca di neo-millenarismo, in cui per un lungo periodo le istituzioni politi-
che, civili, scientifiche sembravano aver perso gran parte della loro autorevo-
lezza e credibilità, in misura diversa, con modalità di verse, ma – di fatto – in
tutto l’Occidente, in favore di un atteggiamento di chiusura, risentimento, dif-
fidenza, rancore, degli individui nei confronti del mondo sociale, relazionale,

71
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

istituzionale (Fattori, 2018b). Un panorama in cui tutti i vettori lungo i quali si


è articolato l’immaginario catastrofico/irrazionalistico della seconda metà del
Novecento – l’annichilazione nucleare, l’invasione dagli spazi esterni, l’inqui-
namento ambientale, la diffusione di virus letali (artificiali o naturali) – precipi-
tano in una fantasmagoria sincretica allucinata, articolandosi in varie combina-
zioni a cercare di dare senso alla condizione di disagio, scollamento e angoscia
che marca la condizione contemporanea, nutrendo le “teorie” più fantasiose ed
estreme, fino ai “complottismi” più vertiginosi e arditi (Paura, 2021).
Senz’altro stiamo attraversando un’epoca di reincanto del mondo, nella for-
ma di una neo-religiosità che può ancorarsi alla fede intesa in senso tradizionale
– seppur in forme anche nuove, digitalizzate o “ikeificate” (Camorrino, 2018) –
ma anche riattivare forme più antiche di rapporto col sacro, numinoso e subli-
me, spaventoso e incontrollabile, un rapporto con l’invisibile che rimanda a re-
gimi dell’immaginazione arcaici e primevi, connessi ad un senso di soggezione
e impotenza nei confronti del soprannaturale, che spingono indietro la condi-
zione di distacco dalla natura, traguardo della modernizzazione, per riattualiz-
zare il senso di coinvolgimento in questa, come nota Antonio Camorrino (2018)
citando Norbert Elias (1988). La riattivazione di questa modalità, nutrita in
profondità anche dall’onda lunga del sincretismo New Age, dal complottismo
tradizionale americano, dall’approfondirsi del processo di individualizzazione,
dalla libertà di esprimersi e informarsi senza vincoli utilizzando la rete internet
(Tipaldo, 2019), ha fatto in questi anni da brodo di coltura – e a sua volta si è
nutrito – della crescita della diffidenza e del sospetto nei confronti dei prodotti
della razionalità occidentale – le istituzioni politiche, quelle scientifiche, e me-
diche in particolare – a favore della seduttività di un pensiero, nella sostanza,
strutturalmente magico che investe tutti quegli oggetti eventi e processi che in
varia misura oscillano fra l’esperienza diretta e il “sentito dire”, tutto ciò che
rientra almeno in parte nel regime dell’invisibile.
D’altra parte, discorso scientifico e pensiero magico si occupano delle stesse
sostanze, e si sono trovate a intrecciare i loro paradigmi almeno fino al periodo
a cavallo fra XIX e XX secolo (Peters, 2005), sull’onda lunga dello “spiriti-
smo” di Allan Kardec. Il fenomeno lambì anche studiosi come il chimico rus-
so Dmitrij Mendeleev, l’estensore della “Tavola periodica degli elementi”, che
accettò, pur con molte perplessità, di entrare in una commissione “scientifica”
istituzionale che doveva indagare sul fenomeno, da cui si allontanò disgustato
(Mendeleev, 1992). E nutrì molta narrativa fantastica, ispirata dalle discussioni
in corso (Lugones, 2017).
È in questo scenario di incertezza, disordine, conflitto – interiore e sociale –
che si abbattono, ampiamente impreviste, la pandemia da covid 19 e la guerra
a sparigliare le carte dell’immaginario, a riarticolare discorsi, comportamenti
e atteggiamenti istituzionali, individuali e collettivi. Le strade deserte, i negozi
chiusi, l’interruzione di tutte le attività pubbliche sportive, culturali, di risto-
razione proiettano nella nostra memoria le peggiori visioni cui la fantascienza

72
Adolfo Fattori Immagini di un’apocalisse possibile

ci ha abituato, da La strada (McCarthy, 2007) a Io sono leggenda (Matheson,


2010), al Nyarlathotep di Lovecraft. O delle novità impreviste: la natura che
si rifà viva, come i delfini nei porti, gli animali selvatici in città – come in Fla-
shForward (Braga, Goyer, 2009-2010), in cui dopo un evento globale spavento-
so e incomprensibile appare un canguro per le strade di una Los Angeles deva-
stata. In tutti i casi, l’umano si trova a combattere contro qualcosa di talmente
piccolo da essere invisibile: i raggi gamma, i virus. Ma se le radiazioni liberate
dalle bombe atomiche sono il frutto consapevole dell’azione umana, i virus
sono parte dell’ambiente naturale da sempre. Esistono da prima che si svilup-
passero le prime forme di vita. E sono organismi necessariamente parassitari,
che si evolvono.
In questo caso la causa scatenante, se così possiamo dire, non è stata, a dif-
ferenza che nelle visioni apocalittiche della science fiction, degli ambientalisti
o di qualche religioso, un attacco umano violento o massivo all’ambiente, ma
qualcosa di più comune e banale. Il “cavallo di troia” per la diffusione del virus
sono stati i primi artefatti che abbiamo definito “mezzi di comunicazione”, i
mezzi di trasporto di cose e persone. Nei virus siamo immersi, e vi confliggiamo
continuamente, in genere con successo, ma a volte pagando un prezzo molto
salato, come sta accadendo in questa contingenza, in cui sembra di tornare al
passato: a un passato di guerra, con tratti anche di forte re-incanto, come scrive
Pier Luca Marzo a proposito dell’immaginario della scienza (2018).
Dei praticanti del discorso della scienza fanno parte anche i sociologi. Fra que-
sti, i sociologi dell’immaginario si occupano proprio di come l’esperienza – anche
la più estranea e brutale – cerchi di acquistare senso e di ricondurla alle routines
della vita quotidiana, di cui sembrano, oggi, vacillare le fondamenta più profonde.

Comprendere la propria esperienza

Dobbiamo occuparci del mondo in cui ognuno di noi porta avanti l’impresa di vivere,
in cui ognuno di noi deve trovare il suo orientamento e venire a patti con le cose e
con gli individui.
(Alfred Schütz, 2013)

Anche noi, quindi, siamo completamente dentro lo sconvolgimento della


vita quotidiana, dell’immaginario attuale, del pensiero causato dalla pandemia
– e, a seguire, dalla guerra in Ucraina. Ma noi, come individui di questa forma-
zione sociale, siamo sempre dentro il cambiamento – e da sociologi ne siamo
consapevoli. Però, in genere, ci troviamo a ragionare su fenomeni di lungo
periodo, che sappiamo tali, e che emergono nei loro effetti con lentezza, e si
sviluppano sotterraneamente prima di manifestarsi in tutti i loro effetti.
In questo caso, abbiamo i due fenomeni sotto gli occhi nella loro “ma-
gnificenza”. Abbiamo davanti il comportamento dei media, dei governi, delle

73
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

singole persone, anche se filtrato dal web. Ma abbiamo la nostra “cassetta degli
attrezzi” di praticanti delle scienze storico-sociali, e ciò che possiamo sentire
come un rischio – essere troppo dentro le cose – può diventare un vantaggio, se
ci sforziamo di pensare sociologicamente, conservando la giusta distanza, e os-
servando anche noi stessi e lo svolgersi delle nostre biografie dentro il flusso del
processo storico. Possiamo ricordare Alfred Schütz, ebreo austriaco, che scri-
veva le parole riportate più sopra in pieno 1942, o Max Weber, che nel 1918,
mentre finiva la Prima guerra mondiale e si scatenava la “spagnola”, scriveva

anelare ed attendere non basta, e ci comporteremo in un’altra maniera: ci metteremo


al nostro lavoro e adempiremo al “compito quotidiano” – nella nostra qualità di uo-
mini e nella nostra attività professionale. Ciò è semplice e facile, quando ognuno ab-
bia trovato e segua il demone che tiene i fili della sua vita (Weber, 1948, corsivo mio).

Confrontiamo i numeri, e riflettiamo sulla percezione che – in particolare


in Occidente – stiamo nutrendo, fra le informazioni che ci arrivano e le rielabo-
razioni che ne facciamo noi, e, propongo, ragioniamo su questo interrogativo:
cosa ci aspetta dopo? E, soprattutto, quali saranno le narrazioni e le retoriche
che si affermeranno? E, se pensiamo alle cupe, apocalittiche previsioni di Atta-
li, che assomigliano parecchio agli scenari immaginati dalle epopee distopiche
di Alan D. Altieri (1997, 1999, 2001, 2009), a proposito di cosa ci aspetta a
metà del XXI secolo, come dobbiamo immaginarci il nostro futuro?
Scriveva Charles Wright Mills: «L’individuo può comprendere la propria
esperienza e valutare il proprio destino soltanto collocandosi dentro la propria
epoca» (Wright Mills, 2014).

Fig. 1 – After Doomsday Adolfo Fattori. Acciaroli, 28 agosto 2022.

74
Adolfo Fattori Immagini di un’apocalisse possibile

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76
Dalla fantascienza alla realtà: simulazioni, droni e super-soldati
per le guerre del futuro

di Gloria Puppi

Abstract

Tomorrow’s wars will be increasingly technological, much more similar to those imag-
ined in speculative fiction exercises. Armed drones controlled by the mind of soldiers or
governed by an AI capable of taking deadly decisions, bio-hybrid weapons and super sol-
diers, genetically manipulated to decrease the feeling of tiredness, hunger, cold and resist
radiation and chemical attacks. This paper will explore the latest technological innovations
and try to compare them with the existing filmography.

Guerra nel Metaverso

Parafrasando la massima dello stratega prussiano Karl von Clausewitz, da


“La guerra non è che la continuazione della politica con l’aggiungersi di altri
mezzi” (Clausewitz, 1832-1837) in “La guerra non è altro che la continuazio-
ne dell’economia con l’aggiungersi di altri mezzi”, appare chiaro fin da subito
che l’intelligenza artificiale, incluse tutte le applicazioni del Metaverso, sono il
punto focale della guerra del presente e soprattutto quella del futuro. Secondo
infatti l’ultimo report di McKinsey (2022), nel 2030 il Metaverso varrà più di
5 trilioni di dollari e sarà utilizzato nel mondo della cultura, soprattutto per
musei e festival, per la divulgazione artistica a livello mondiale in tempo reale
con costi decisamente minori rispetto ai macro eventi attuali, nel turismo per
viaggi più inclusivi e immersivi, dal marketing delle piccole e grandi imprese,
per espandere il potere di appeal e vendita di prodotti e servizi, e soprattutto
nel settore militare per l’addestramento e per compiere azioni belliche in tem-
po reale.
La parola Metaverso è un termine coniato da Neal Stephenson nel romanzo
cyberpunk Snow crash (1992) per indicare uno spazio tridimensionale all’inter-
no del quale persone fisiche possono muoversi, condividere e interagire attra-
verso avatar personalizzati. Secondo la definizione di Treccani (2013) il Meta-
verso viene descritto come «un enorme sistema operativo, regolato da demoni1

1
Qui la parola demone non si riferisce all’iconografia cristiana ma bensì è il termine tecnico con
cui vengono chiamati i programmi che girano in background.
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

che lavorano in background, al quale gli individui si connettono trasformando-


si a loro volta in software che interagisce con altro software e con la possibilità
di condurre una vita elettronica autonoma. Questo sistema è regolato da norme
specifiche e differenti dalla vita reale e il prestigio delle persone deriva dalla
precisione e dall’originalità del rispettivo avatar».
In italiano, come riporta l’Accademia della Crusca (Francalanci, 2022), la
parola è entrata nel vocabolario di recente «ma il sostantivo ha poca fortuna:
se ne rintraccia qualche occorrenza sporadica tra il 1995 e il 2000 e poi di nuo-
vo qualche attestazione a partire da giugno 2007, probabilmente in occasione
della ristampa del volume Snow Crash edita da Rizzoli. Dal 2007 e fino al 2021
la presenza di Metaverso è discontinua e sempre con una bassa frequenza». In
questo periodo il termine «passa da toponimo a nome comune, indicante una
generica realtà virtuale, per cui, accanto al nome proprio scritto con la lettera
maiuscola si trova anche il sostantivo scritto con la minuscola e talvolta declina-
to al plurale. Questa duplice possibilità si mantiene anche oggi».
Attualmente sono presenti più di 10mila mondi ed è ancora molto acceso
il dibattito sulla definizione di Metaverso al singolare o al plurale (Hagi, 2022).
Ma qual è l’uso del Metaverso del mondo militare attuale e quali sono le sue
implicazioni future? Molto di tutto ciò che un tempo poteva essere etichettato
nel mondo dell’intrattenimento come “fantascienza” (anche di serie B) oggi è
già, o quasi, realtà ed è utilizzato nei centri di ricerca più prestigiosi della difesa
statunitense. Quanto i vecchi e nuovi media hanno influito sulle ricerche in
questo campo e quanto la ricerca ha influito sui primi? L’esercito statunitense,
per esempio, sta costruendo il proprio Metaverso insieme a diverse società di
consulenza come la Improbable U.S. Defense & National Security2. Quest’ulti-
ma è specializzata nella creazione di ambienti sintetici complessi su larga scala
e ad alta densità in grado di ospitare migliaia di utenti simultanei. Uno dei loro
progetti, Skyral, ha come scopo sviluppare e distribuire gli ambienti sintetici
multi-dominio più sofisticati al mondo, quindi adattarli secondo necessità per
soddisfare le minacce emergenti e cambiare le priorità in tempo reale, proprio
come un vero campo di battaglia. L’azienda ha infatti realizzato simulazioni di
sconfinati campi di battaglia virtuali con oltre 10mila personaggi che vengono
controllati individualmente: alcuni di essi sono militari in carne ed ossa, altri
possono essere personaggi fittizi, creati da una intelligenza artificiale. I risultati
di queste simulazioni non sono pubblici e non ci è dato sapere se i personaggi
creati dall’intelligenza artificiale siano più performanti di quelli con intelligen-
za naturale, anche se più avanti parleremo di droni e soldati dotati di “super
intelligenza”.
Questa modalità non è nuova: fino dagli anni Ottanta l’esercito america-
no (per mezzo della DARPA – Defense Advanced Research Project Agency)
ha utilizzato questa risorsa grazie all’avvento dei microprocessori, generatori

2
https://defense.improbable.io/

78
Gloria Puppi Dalla fantascienza alla realtà

di immagini per computer e tecnologie di comunicazione, creando SIMNET


(SIMulator NETworking), primo esempio di Metaverso e di rete di simulazio-
ne per l’addestramento. Concettualizzato da Jack Thorpe nel 1978, SIMNET
fu avviato nel 1983. Secondo il ricercatore, la simulazione poteva potenziare
l’addestramento nella realtà, utilizzandola in contemporanea e non solo come
sostituto (Alluisi, 1991). Thorpe credeva che un ambiente sintetico potesse es-
sere utilizzato per insegnare le abilità di combattimento necessarie – come il
coordinamento collettivo su larga scala – che erano difficili da apprendere in
tempo di pace. SIMNET ha cercato di risolvere questo problema sviluppando
un’architettura virtuale scalabile ed economica che collegasse in rete i simula-
tori in un unico esercizio di addestramento collettivo sintetico.
Dopo SIMNET i militari statunitensi hanno continuato a lavorare sul con-
cetto di fusione tra mondo reale e virtuale fino ad arrivare, il 10 maggio 2022,
alla prima simulazione pubblica di realtà aumentata. La società RED 63 ha svi-
luppato Airborne Tactical Augmented Reality System (ATARS), un approccio
rivoluzionario alla realtà aumentata (AR) che consente di lavorare all’aperto e
in modo critico, in ambienti dinamici e ad alta velocità, con una grafica di altis-
sima qualità e a colori. Questa svolta tecnologica consente un nuovo paradig-
ma nell’addestramento al combattimento aereo, liberando tutto il potenziale
dell’addestramento Live, Virtual and Constructive (LVC) portando le risorse
V e C nel mondo reale, facilitando all’interno del raggio visivo le manovre con-
tro le minacce sintetiche. Due piloti collaudatori Red 6 lo scorso 10 maggio
sono decollati con i Berkut 540 dall’aeroporto di Santa Monica in California,
entrando nel Combined Augmented Reality Battlespace Operation Network
(CARBON) di Red 6, sopra la contea di Ventura. Ogni pilota poteva vedere e
interagire con lo stesso KC-46 Pegasus Tanker generato dall’AR, un aereo da
rifornimento che li affiancava nel cielo. Uno dei piloti ha poi eseguito una ma-
novra per fare rifornimento dall’aerocisterna virtuale, mentre l’altro osservava.
Questa tecnologia permette ai piloti della United States Air Force di adde-
strarsi anche contro aerei nemici virtuali, mettendo alla prova le capacità di un
pilota in modo molto più realistico rispetto a un simulatore di volo convenzio-
nale. Come racconta Daniel Robinson, fondatore e amministratore delegato
dell’azienda: «Quella minaccia potrebbe essere controllata da una persona da
remoto oppure dall’intelligenza artificiale. Questa non è solo una rivoluzione
tecnologica. Questa è una rivoluzione sociale, umana e aziendale». Nell’otto-
bre 2020 questa tecnologia è stata utilizzata per contrapporre un vero pilota di
caccia a un velivolo controllato da un algoritmo di intelligenza artificiale, svi-
luppato nell’ambito di un progetto sul combattimento aereo AI della DARPA.
L’aereo dell’intelligenza artificiale, creato da un’altra startup chiamata EpiSci4
(che ha al suo interno un team d’élite di scienziati, ricercatori e ingegneri), sta

3
https://red6ar.com/
4
https://www.episci.com/

79
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

colmando il divario tra i rapidi progressi nelle tecniche commerciali di appren-


dimento automatico e l’implementazione per applicazioni tattiche e ha impa-
rato attraverso un processo di tentativi ed errori a vincere contro gli avversari.
Il pilota sintetico ha sviluppato abilità e un’altissima capacità di anticipazione
tattica ed è riuscito a battere in tutte le simulazioni il suo avversario umano. Se-
condo il sito, infatti, la loro intelligenza artificiale tattica fonde insieme tre po-
tenti paradigmi di apprendimento automatico: Adaptive Autonomous Rule-ba-
sed Learning (A2RL), Reinforcement Learning (RL) e Deep Learning (DL).
La più grande capacità dell’IA tattica è quella di rilevare tendenze impreviste,
sorprendenti o anomale di dinamiche situazionali che non sono state apprese
durante l’addestramento e adattarsi ad esse al volo con il re-learning in tempo
reale e locale, consentendo agli operatori umani di interagire con il sistema
durante le operazioni secondo necessità.

Droni a guida autonoma

La guerra nel 2050 raramente sarà corpo a corpo. La maggior parte delle
volte si combatterà a distanza, attraverso l’uso di interfacce uomo-macchina,
realtà aumentata e intelligenza artificiale; ma non per questo sarà indolore.
Lo dimostrano due casi di droni altamente efficienti che hanno superato
ogni tentativo passato di speculative fiction. Se infatti nell’industria dell’intrat-
tenimento i droni autonomi e tascabili sono citati fin dagli anni Settanta-Ottan-
ta, dalla saga di Star Wars (1977) a Blade Runner (1982), dalla recente serie tv
Clone Wars (2008-2022) a una particolare puntata delle serie tv Elementary
(2012-2019) in cui una vespa telecomandata è stata in grado di spiare e av-
velenare una persona rilasciando agenti patogeni, abbiamo dovuto attendere
fino a oggi per vederli realmente utilizzabili in ambito bellico. Non anco-
ra miniaturizzati come in Elementary, anche se vi sono tutti i segnali (non
proprio) deboli per ipotizzare questo scenario. Un ulteriore cortometraggio
degno di nota è Slaughterbots, diretto da Stewart Sugg nel 2017, in cui si rac-
conta uno scenario del prossimo futuro in cui sciami di micro-droni econo-
mici usano l’intelligenza artificiale e il riconoscimento facciale per assassinare
oppositori politici in base a criteri pre-programmati. Il video è stato pubbli-
cato su YouTube5 dal Future of Life Institute e da Stuart Russell, professore
di informatica a Berkeley, il 12 novembre 2017 (Ting, 2017). È diventato ra-
pidamente virale, ottenendo oltre due milioni di visualizzazioni, tanto da es-
sere proiettato alla riunione della Convenzione delle Nazioni Unite sulle armi
convenzionali del novembre 2017, a Ginevra. Un sequel, Slaughterbots – if
human: kill (2021)6, ha presentato ulteriori ipotetici scenari di attacchi contro

5
https://www.youtube.com/watch?v=HipTO_7mUOw
6
https://www.youtube.com/watch?v=9rDo1QxI260&ab_channel=FutureofLifeInstitute

80
Gloria Puppi Dalla fantascienza alla realtà

i civili e ha invitato le Nazioni Unite a vietare le armi autonome che prendono


di mira le persone.
L’industria dell’intrattenimento quindi può essere rilevante, significativa e
partecipatoria alle pratiche dei fatti scientifici (Bleecker, 2009). Ma molto spes-
so può anche anticipare segnali deboli di decenni o sollevare questioni etiche
interessanti. Dal 2017 al 2022 non è passato molto tempo, eppure i mini-droni
con un’eccellente intelligenza artificiale sono passati da set cinematografici e
scenari speculativi alla realtà. Un gruppo di ricercatori della Zhejiang Univer-
sity guidato da Xin Zhou ha descritto di recente i nuovi sviluppi dei droni in
miniatura a guida autonoma, in grado di «funzionare in modo tempestivo e
accurato sulla base di informazioni limitate provenienti dai sensori di bordo.
Il problema di pianificazione soddisfa vari requisiti di attività tra cui l’efficien-
za del volo, l’evitamento degli ostacoli e l’evitamento delle collisioni tra ro-
bot, la fattibilità dinamica, il coordinamento dello sciame e così via» (Zhou et
al., 2022). Attraverso un algoritmo che calcola la migliore traiettoria possibile
(senza sbagliare mai) i piccoli droni riescono a minimizzare il tempo di volo e
massimizzare la loro performance, evitando ostacoli improvvisi e gli altri droni
impegnati a calcolare il loro migliore percorso. Lo sciame di droni, quindi, ha
un comportamento molto simile a uno stormo di uccelli che, in maniera istin-
tuale, è capace di evitare gli ostacoli e le altre creature in movimento, grazie alla
regolazione simultanea della loro velocità. Nella navigazione a corto raggio, ad
esempio, gli uccelli si affidano principalmente agli occhi e al loro sistema vesti-
bolare, qui sostituito da un sistema odometrico visivo-inerziale.
Replicare sistemi complessi in natura in un sistema sintetico è anche quello
che studia Mario di Bernardo, Professore di Automatica al Dipartimento di
Ingegneria Elettrica e delle Tecnologie dell’Informazione dell’Università degli
studi di Napoli Federico II e coordinatore del Dottorato di ricerca in Modeling
and Engineering Risk and Complexity della Scuola Superiore Meridionale che
in una recente intervista ha dichiarato:

Una singola ape, così come una formica non è cosciente di essere parte di una
comunità complessa eppure seguendo regole semplici e scambiando informazioni
con gli altri insetti, il sistema complesso esibisce comportamenti collettivi partico-
larmente complicati. Per esempio, nel caso delle api, le modalità con cui un alveare
composto da migliaia di insetti si sposta da una posizione all’altra si basano su una
struttura leadership distribuita attraverso la quale pochi individui riescono a in-
fluenzare l’intera comunità e che potremmo replicare nei sistemi tecnologici e negli
stormi di droni in modo che anche questi sistemi complessi tecnologici riescano
ad auto-organizzarsi così come accade in quelli esistenti in natura come lo sciame
di api. (in Lerose, 2022)

I piccoli droni della ricerca di Zhou sono stati testati in quattro situazioni
differenti: volo in gruppo attraverso una foresta di bambù, volo in un ambiente

81
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

affollato, valutazione dell’evitamento con gli altri droni e anche la capacità del-
lo sciame di seguire la guida di una persona qualora la visione di questa fosse
offuscata. Prima di vederli operativi nel mondo reale, occorreranno ulteriori
esperimenti in ambienti ultra-dinamici come ad esempio le città, dove i droni
sono costantemente sotto pressione per evitare persone, veicoli e altri ostaco-
li. La loro ricerca, tuttavia, seppur di grande interesse in ambito militare, ha
un focus più tecnologico-sociale come il soccorso in caso di catastrofe (in alta
montagna o durante situazioni di crisi ambientali), assistenza in studi biologici
oppure in ambito spaziale.
Un altro esempio di drone ancora poco (per fortuna) utilizzato nella guerra
attuale, ma pronto per una guerra futura è Lanius dell’azienda israeliana Elbit
System7. L’azienda opera principalmente nei settori della difesa e della sicurez-
za interna, sviluppando e fornendo un ampio portafoglio di sistemi e prodotti
aerei, terrestri e navali per la difesa, la sicurezza nazionale e le applicazioni
commerciali. Dal report rilasciato dalla stessa azienda8 si parla di Lanius come
di un agile quadricottero con capacità di esplorazione, mappatura e classifica-
zione dei bersagli basate sull’intelligenza artificiale con un sofisticato algoritmo
e sensori visivi multipli per un real time video di alta qualità. La sua particola-
rità è che, se preventivamente programmato, è in grado di esplodere contro il
bersaglio o quando richiesto. I suoi punti di forza, se vogliamo chiamarli così,
sono il peso di 1,25 kg grazie al telaio in carbonio, la capacità di trasporto di
carico letale o non letale fino a 150 grammi, e il basso consumo di energia. Per
fortuna il suo volo ha una durata massima di sette minuti: quindi non potrebbe
coprire lunghe distanze, e non è ancora in grado di agire da solo, in quanto gli
occorre sempre un input umano per finalizzare la sua missione.
Se il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha dichia-
rato nel “Web Summit” di Lisbona nel 2018 che: «La prospettiva di macchine
con la discrezione e il potere di togliere la vita umana è moralmente ripugnan-
te» (Gutierres, 2018), l’ex generale americano Stanley McChrystal ha affermato
che l’intelligenza artificiale arriverà inevitabilmente molto presto a prendere
decisioni letali sul campo di battaglia (Zahn e Serwer, 2021), nonostante l’av-
viso di Zachary Kallenborn, analista e consulente per la Sicurezza Nazionale
americana, che sostiene che «gli sciami di droni non riescono ancora a distin-
guere tra obiettivi militari e civili», oltre che ignorare le convenzioni di guerra.
Non può non insinuarsi nella mente lo scenario distopico in cui una mac-
china diventi indipendente dal volere umano e possa attaccare, in maniera in-
discriminata, sia civili che militari. E se un drone decidesse di “disertare” o
disubbidire ai comandi umani, cosa accadrebbe? E se gli ordini ricevuti fossero
in contrasto con gli statement con cui è stato programmato? Un caso di risolu-
zione di un problema di quest’ultimo tipo ci viene suggerito, anche in questo

7
https://elbitsystems.com/about-us-introduction/
8
https://elbitsystems.com/media/LegionX_LANIUS-4-Web.pdf

82
Gloria Puppi Dalla fantascienza alla realtà

caso, dal mondo dell’audiovisivo: in RoboCop (1987) diretto da Paul Verhoe-


ven, l’androide, a causa della direttiva 4 della sua programmazione, non può
arrestare o fare del male a un impiegato della ditta che l’ha costruito, la OCP
(Omni Consumer Product). RoboCop dovrebbe tuttavia arrestare un “catti-
vo” che fa parte dell’OCP: di conseguenza, il presidente della ditta licenzia il
cattivo sul posto, in diretta, in modo che RoboCop possa agire. Un altro cor-
tometraggio che parla di diserzione impossibile, sempre all’interno della pro-
pria programmazione, è il caso curioso di How to disappear – Deserting form
Battlefield9 del collettivo Robin Klengel, Leonhard Müllner, Michael Stumpf,
vincitore di diversi premi internazionali. Anche se in questo caso si parla di
diserzione di giocatori del celeberrimo videogioco Battlefield, è curioso vedere
come sia impossibile dalla programmazione del gioco riuscire a ribellarsi ai
propri compagni e sparargli. Il “gioco sparatutto” ha come focus la guerra e
l’abbattimento del nemico. Il protagonista non può e non deve distrarsi né ten-
tando l’omicidio del suo battaglione, né tentando il suicidio. Il cortometraggio
termina con il superamento dell’impostazione del codice, attraverso un glitch,
che permette al soldato semplicemente di scomparire dal gioco, dietro una col-
tre di fumo di una granata.

Super soldati aumentati

Nel saggio Resistance is futile di Paul Dourish e Genevieve Bell (2014)


emerge chiaramente il concetto di interrelazione tra scienza e fantascienza: se-
condo il loro paper, la serie tv originale degli anni Sessanta di Star Trek ha
ispirato alcune invenzioni della NASA e quest’ultima spesso prende spunto
e collabora con il mondo dell’intrattenimento: si vedano il film The Martian
(2015) o Interstellar (2014). In molti film, dal già citato Robocop (1987) a Termi-
nator (1984), si è parlato di ibridazioni tra uomini e macchine, ma ultimamente
questi concetti stanno diventando realtà. Questo è il caso di Inverso (2022)
serie tv in onda su Prime Video creata e prodotta da Scott B. Smith insieme
a Jonathan Nolan e Lisa Joy, tratta dall’omonimo romanzo di William Gib-
son. La serie sembrerebbe strettamente (e involontariamente?) collegata con
le nuove ricerche della DARPA, in particolare il programma OFFSET “Of-
fensive Swarm-Enabled Tactics”, e con l’ultimo rapporto dell’Agenzia europea
della difesa intitolato Exploring Europe’s capability requirements for 2035 and
beyond” (Kepe et al., 2018).
Nella serie il co-protagonista Burton Fisher, interpretato da Jack Reynor, è
un veterano d’élite delle forze Haptic Recon degli United States Marine Corps.
Il soldato ha impiantato una protesi aptica (nella serie è visibile su un braccio
sottopelle), in grado di connettersi con tutto il suo squadrone, attraverso il

9
https://totalrefusal.com/home/how-to-disappear

83
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

quale può diventare un’unica mente e corpo, percependo e vivendo le emo-


zioni del gruppo. Un soldato interconnesso proprio come la tecnologia messa
a punto dal Pentagono per operazioni militari in collaborazione con la società
Raytheon, in questo caso però, ancora sui droni. L’esercitazione dei mesi scorsi
era composta da uno sciame di 130 droni fisici e 30 droni simulati. L’operatore
che li controllava non era a una scrivania con un joystick, bensì dietro un’in-
terfaccia di realtà virtuale che gli consentiva di sapere cosa stava vedendo ogni
drone. La tecnica è innovativa in quanto il controllo di uno sciame cambia il
modo in cui un operatore o un gruppo di operatori pensa ai droni. Il team ha
anche creato un’interfaccia che consente agli operatori di impartire comandi
vocali allo sciame per “agire rapidamente mantenendo la consapevolezza della
situazione”.
Una sola mente inter-connessa in grado di addomesticare la complessità per
realizzare quello che ora sembra impossibile: controllare contemporaneamente
un numero molto grande di eserciti che attuano i comandi all’unisono: il sogno
di ogni comandante. Ma Inverso non ha solo portato alla luce la possibilità di
una mente umana-alveare, già adottata dalle macchine droni nelle ricerche rac-
contate in precedenza, ma anche la possibilità di creare un Übermensch a tutti
gli effetti. Infatti recentemente le Forze Armate francesi hanno dato il via libera
alla ricerca per lo sviluppo di “soldati aumentati”, ovvero soldati con impianti
bionici, dando il via alla corsa all’armamento per una futura guerra “bioibrida”
(Guy, 2020). Lo studio prende in considerazione trattamenti medici, protesi e
impianti che migliorano capacità fisiche, cognitive, percettive e psicologiche e
potrebbero consentire il tracciamento della posizione o la connettività con siste-
mi d’arma e altri soldati. Altri possibili interventi includono trattamenti medici
per prevenire il dolore, lo stress e l’affaticamento e sostanze che migliorerebbero
la resilienza mentale se un soldato fosse fatto prigioniero. Il ministro delle forze
armate Florence Parly ha sostenuto che gli aumenti “invasivi” come gli impianti
non fanno attualmente parte dei piani militari, ma che non tutti hanno gli stessi
scrupoli dei francesi. «Sebbene l’uso di queste tecnologie sarà limitato dai vincoli
etici e legali», scrive l’EDA, «potrebbero aumentare la capacità degli individui di
raccogliere ed elaborare informazioni, resistere agli effetti dei patogeni e alle mi-
nacce chimiche, biologiche, radiologiche e nucleari, e beneficiare di una migliore
cognizione, forza, velocità e altre capacità» (Kepe et al., 2018).
Contemporaneamente John Ratcliffe, ex direttore della National Intelligen-
ce degli Stati Uniti, ha rilasciato immediatamente dopo il report francese, sul
Wall Street Journal, la seguente dichiarazione: «L’intelligence degli Stati Uniti
mostra che la Cina ha persino condotto test umani sui membri dell’Esercito
popolare di liberazione nella speranza di sviluppare soldati con capacità bio-
logicamente migliorate […] Non ci sono limiti etici alla ricerca del potere da
parte di Pechino» (Ratcliffe, 2020). Per creare questi super soldati, secondo
Ratcliffe, la Cina starebbe utilizzando la tecnica CRISPR (Clustered Regularly
Interspaced Short Palindromic Repeats) per modificare il genoma, correggere

84
Gloria Puppi Dalla fantascienza alla realtà

difetti genetici, trattare malattie e potenziare il corpo. Proprio come i supereroi


della Marvel e DC, ma forse senza alcun eroe né lieto fine.
Infine è emerso che L’US Army Research Laboratory sta spendendo milioni
nella ricerca sia per creare armi bioibride sia per la creazione di una BCI Brain
Computer Interface, cara anche al progetto Neuralink di Elon Musk (Browne,
2016; Vincent, 2021). Il progetto svilupperebbe un impianto avanzato che con-
sentirebbe a un cervello umano di comunicare direttamente con i computer,
dando al soldato un vantaggio tattico non indifferente sul campo di battaglia,
potrebbe ricevere informazioni direttamente nel suo cervello o addirittura avere
i sensi “migliorati”. Anche la ricerca bioibrida è una sfida complessa: se in pre-
cedenza si è parlato di uomini più simili a macchine, le grandi sfide del futuro
potrebbero essere quelle di far assomigliare i robot sempre più agli esseri viventi.
Gli ingegneri dell’US Army Research Laboratory hanno il compito di progettare
dispositivi resistenti, silenziosi e che non si surriscaldino, proprio come un corpo
umano. Lo scopo è quello di offrire la possibilità ai robot di avere le stesse qualità
degli animali: effettuare lunghe missioni senza continue fonti di alimentazione,
sostituendo batterie con muscolatura semi-sintetica creata in laboratorio.
Notizia recente è infatti quella dell’invenzione in ambito civile (quindi si
pensa già utilizzato in ambito militare) di un pesce-robot chiamato SoFi, svi-
luppato dal Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory (CSAIL)
del MIT, in grado di nuotare per 15 metri per circa 40 minuti, grazie ad un flu-
ido “simile al sangue” a doppia funzione che viene pulsato nel corpo del pesce
attraverso un semplice meccanismo circolatorio. L’innovazione rappresentata
da questo robot è la totale assenza di una batteria. Questo ne riduce il peso e
ne aumenta al contempo la manovrabilità. La batteria è sostituita dal “sangue
robotico” che permette al pesce di muoversi e a mantenere un livello di galleg-
giamento ottimale per il suo funzionamento. L’obiettivo del team è quello di
produrre in futuro un robot con una fonte di energia autogenerante, attraverso
una struttura simile a quella degli esseri viventi (Howe, 2019).
In conclusione, la guerra che verrà sarà sempre esperita da un’alta percen-
tuale umana, che sia governata da soldati umani in luoghi sicuri attraverso le
intelligenze artificiali, soldati aumentati geneticamente, o che sia portata avan-
ti da robot umanizzati. Qualunque sia la scelta futura, dall’una all’altra parte
del fronte ci saranno sempre degli umani, che moriranno e che soffriranno.
L’industria dell’audiovisivo ci ha permesso, con decenni di anticipo, di vive-
re guerre fantascientifiche e spettacolari, con robot umanoidi amici (o nemici
giurati) dell’uomo. Questo ci ha permesso di indagare sulle implicazioni etiche
delle guerre cibernetiche. La buona notizia è che, stando alle proiezioni della
Boston Dynamics, non vedremo mai i suoi cani robot sul campo di battaglia.
Affermano, infatti, di non avere intenzione di costruire armi di distruzione di
massa (Boston Dynamics, 2022). La cattiva notizia è che altri paesi hanno già
intercettato i loro brevetti e stanno costruendo robot killer, senza porsi alcun
problema etico e morale (Xuanzun, 2022).

85
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

L’intelligenza artificiale, come ci insegnano tutti i film e le serie di fanta-


scienza degli ultimi 30 anni, è utile per l’umanità se utilizzata con il giusto
fine, senza applicarla utilizzando le peggiori inclinazioni della natura uma-
na. Nel 2050 tutti le innovazioni tecnologiche qui citate saranno proba-
bilmente obsolete, sorpassate da ulteriori upgrade ancora più immersivi e
inquietanti. Sicuramente la tecnologia la farà da padrona e ogni paese sarà
dotato di armi di attacco e di difesa altamente performanti: dai raggi laser,
alle cupole anti-elettromagnetismo in grado di disinnescare ogni sistema
elettro-magnetico volante. Starà ancora una volta all’essere umano decide-
re se rendere ancora più disumanizzante la guerra rispetto a quella che è
(trasformando il nemico da mostro a robot senza anima), oppure virare alla
cooperazione strategica, forse meno economicamente allettante, ma sicura-
mente più opportuna.

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Filmografia

Blade Runner, Ridley Scott, Stati Uniti, 1982.


Clone Wars, George Lucas, Dave Filoni, Stati Uniti, 2008-2022.
Elementary, Rob Doherty, Stati Uniti, 2012-2019.
How to disappear- Deserting form Battlefield, Robin Klengel, Michael Stumpf, Leonhard
Müllner, Austria, 2020.
Interstellar, Christopher Nolan, Stati Uniti, Regno Unito, 2014.
Inverso, Scott B. Smith insieme a Jonathan Nolan e Lisa Joy, Stati Uniti, 2022- in corso.
RoboCop, Paul Verhoeven, Stati Uniti, 1987.
Slaughterbots, Stewart Sugg, Stati Uniti, 2017.
Slaughterbots – if human: kill, Future of Life Institute, Stati Uniti, 2021.
Star Wars Saga, George Lucas, Irvin Kershner, Richard Marquand, J.J. Abrams, Gareth
Edwards, Rian Johnson, Stati Uniti, 1977-2019.
Terminator, James Cameron, Stati Uniti, 1984.
The Martian, Ridley Scott, Stati Uniti, Regno Unito, 2015.

87
Future use of Lethal Autonomous Weapons (LAWs)
by criminal Non-State Actors, and its possible effects on governance,
national security and democracy.
A futures studies analysis for the case of drug cartels in Mexico in 2050

by Mauricio Hernandez Ramirez

Abstract*

The use of Lethal Autonomous Weapons (LAWs) by criminal groups in the future is a
real possibility. In countries with weak institutional environments, like México, conditions
seem very prone for criminal Non-State Actors (NSAs) like drug cartels (DCs) to have
access to and operate these weapons in the future. They have the money, organization and
access to knowledge to acquire them and be willing to operate them. Current signals and
trends show that this danger is real, since drug cartels have already used drones armed with
explosives, in scattered attacks on police forces since 2020, in territories like the state of
Michoacán. This situation represents a significant challenge for the Mexican state and its
institutional armed and security forces. What would be the possible effects of drug cartels
gaining access in 2050 -or sooner- to LAWs? How would their possession by these crimi-
nal groups affect governance, institutional order, national security and even democracy in
Mexico?
Using futures & foresight methodologies such as horizon scanning and scenario plan-
ning, this paper presents some probable and plausible scenarios of using LAWs by drug
cartels, and its possible consequences for governance, national security, and democracy in
México.
The objective of this paper is that the depicted futures scenarios for 2050 can become
a small contribution to analyzing, devising and implementing anticipatory measures in the
present, that may be useful for the Mexican government and its armed and security forces
to prevent, and hopefully avoid, this menace.

“The potential benefits of artificial intelligence are huge, so are the dangers”.
(Dave Waters)

In recent times in different regions of the world, drone technology has been
used by criminal Non-State Actors (NSAs). For example, the Houthi rebels in
Yemen have used armed drones, and ISIS in Iraq and Boko Haram in Nigeria
have used drones with explosives (Hanner & Garcia, 2019). In Mexico, news
* I want to thank futurist Kendra Jones for her invaluable help with comments and the style
revision of this paper. Any mistakes of course, are only of my own.
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

reports since 2020 described different attacks directed at police officers in the
state of Michoacán, carried out with drones containing C-4 type explosives
(El Universal, 2020), allegedly perpetrated by members of the “Cartel Jalisco
Nueva Generación” (CJNG). One year later, in April 2021, the use of similar
devices by this criminal group was reported again in that same Mexican state
(Gutiérrez, 2021). Although these devices do not operate with Artificial Intelli-
gence (AI) technology, they are worrying because they indicate a new modality
used by criminal groups to attack state forces: the use of remote-controlled
technology. More advanced devices with semi-autonomous and autonomous
AI technology are available in the international market for whoever has the
financial means to obtain them. Potential buyers include governments, security
forces, national military forces, and NSAs from around the world, including
criminal groups like drug cartels (DCs).
This situation is particularly worrying for developing countries with weak
institutional environments, such as Mexico. Mexican DCs have financial
wealth, organizational capacity, ubiquity, and logistics, and that represents
a major challenge for the national government, the armed forces, and police
institutions. Some political analysts even suggest that DCs hold total control
over some territories of the country (Ferri, 2021). DCs already have access to
high-powered weapons and technology, and given their wealth and corrupting
power, there is no reason to think that they will not be able to access LAWs and
other AI devices in the future, with unknown negative effects on the country’s
governance, institutional order and national security.
What would be the potential effects in the future if DCs gain access to
LAWs? What would this mean regarding governance and national security in
Mexico? These are some of the questions addressed in this work. Using futures
& foresight techniques like horizon scanning and scenario planning, some
plausible futures scenarios are depicted as a speculative exercise to imagine
what could be the potential effects of a situation like this in the long term (year
2050), and above all, how can the negative effects and consequences of DCs
getting access to LAWs to be anticipated and avoided.
Hypothesis: In Mexico, criminal Non-State Actors (NSAs) like DCs will
have access to technology developments such as LAWs in the future, augment-
ing the power of these criminal groups and increasing their negative influence
over governance, stability, and national security of the country.
Methodology. The structure of this work is as follows:
- Analysis and discussion.
- Horizon Scanning.
- Location of Drivers of change and critical uncertainties employing a STEEP
analysis.
- Generation of Scenarios using the 2x2 Matrix Method.
- Narrative of Scenarios. Year 2050.
- Conclusions.

90
Mauricio Hernandez Ramirez Future use of Lethal Autonomous Weapons

Lethal Autonomous Weapons (LAWs). What are they?

In its most basic form, an Artificial Intelligence (AI) is a system capable of


making decisions autonomously (Webb, 2019). Autonomy is always made up
of the same three conditions: sensitivity, decision, and action (Boulanin & Ver-
bruggen, 2017). For these characteristics, AI is already considered “the next
great military advantage in the world” (Knight, 2019).
There are many definitions of what LAWs are. The United States Depart-
ment of Defense describes an autonomous weapon system as a weapon that,
once activated, can select and engage targets without further intervention from
a human operator (Boulanin & Verbruggen, 2017). Human Rights Watch con-
siders these weapons to be robots capable of selecting targets and emitting
force, without any human intervention or programming (Boulanin & Verbrug-
gen, 2017). The British Ministry of Defense defines LAWs as a system that is
“capable of understanding a higher level of intention and direction. From this
understanding and its perception of the environment, such a system is capable
of taking the appropriate measures to produce a desired state. It can decide a
course of action from a series of alternatives without relying on human supervi-
sion and control, even though these may be present” (Boulanin & Verbruggen,
2017). It is worth emphasizing that based on the above definitions, to this day
human intervention remains fundamental to the operation of LAWs, particu-
larly in programming the targets they will target, track or attack.

The Power of Mexican DCs

On October 27, 2019, the city of Culiacán, , the capital of the Mexican state
of Sinaloa with about 800,000 inhabitants, was besieged by groups of armed
people. National T.V. networks and several videos on social media showed how
these armed groups quickly put the city upside down: buses set on fire in the
streets as barricades; convoys of vehicles with people on the top of them car-
rying heavy weapons, including rocket and grenade launchers (De Córdoba,
2019; Luhnow et al., 2019); shootings in various areas of the city, and so on. It
was later revealed that these armed groups allegedly belonged to the Sinaloa
Cartel, one of the largest DCs in Mexico and the world1. This event revealed
the power that DCs have achieved in Mexico, with increasingly open, recur-
rent, and violent armed activities, and with firepower probably superior to that
of the State forces.
According to some versions, DCs seek to establish their control over “zones
of impunity” throughout the country (Manwaring, 2009), rivaling the Mexican
state through the establishment of “semi-autonomous political enclaves”, au-

1
Something similar occured again at the beginning of January 2023.

91
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

thentic “free micro-states” within the state itself where these criminal groups
do something close to the concept of “govern”. In the Weberian sense of the
“state monopoly over the legitimate use of physical force over a given territory”
(Weber, 1946), the Mexican state is already facing problems, since DCs appar-
ently have already established some of these zones of impunity in territories like
the state of Michoacán.
In addition, Mexican DCs exert enormous financial power. Ríos (2008) re-
fers to the fact that most reliable estimates consider annual profits for Mexican
DCs in a range between 3.2 and 9.9 billion dollars, figures consistent with those
reported by O’Grady (2019), who estimates annual profits of 10 billion U.S.
dollars, coming solely from their operations in the United States of America.
Financial power of DCs is relevant because it guarantees availability of assets,
including high-power weapons with advanced technology that rival and may
even be superior to those possessed by Mexican armed forces. Military ana-
lysts have pointed out that future combatants in the world, both NSAs and
state forces, are already investing today in autonomous AI systems (White Jr.,
2017) and could do so in similar devices: facial recognition and automatic lo-
cation systems; drone swarms; Autonomous Unmanned Vehicles (UAV); exo-
skeletons; remotely operated tanks and humanoid robots (Braun et al., 2018;
Brundage et al., 2018; Keenan, 2014; Swofford, 2019; White Jr., 2017).
Are these conditions likely to incentive Mexican DCs to acquire LAWs?
The next part of the work will present some answers to this question.

Horizon Scanning

Horizon Scanning can be used to explore new or unexpected issues but also
persistent problems, trends and weak signals that are occurring in the present
and could anticipate the occurrence of certain specific situations in the future
(van Rij, 2010). Horizon scanning may include desk research, focus groups,
and expert surveys or questionnaires (Édes, 2020).
Two horizon scanning techniques were used for this work:
1) A questionnaire aimed at professional and academic experts in specific
areas of knowledge related to the topic of research.
2) A record of signals searched and registered from documentary sources
such as newspapers, specialized journals and magazines, websites, social me-
dia, etc., in a period from December 2019 to June 2021.

Application of a questionnaire to experts


A questionnaire of 13 questions was prepared, presented, and answered
to 11 persons between June 12 and July 24 of 2020, all of them experts and
professionals in specific fields of knowledge relevant to the topic of this work:
National Security; Public Security, Artificial Intelligence, Technology, Cyberse-

92
Mauricio Hernandez Ramirez Future use of Lethal Autonomous Weapons

curity and Organized Crime/Drug Trafficking. Given the subject matter of the
questions and the research, and to safeguard the integrity of the experts, the
questionnaire was answered anonymously. The experts’ professional activities
and fields can be found in Appendix 2.
The following findings stand out from this exercise:
1) Out of 11 experts, 5 of them were experts in Artificial Intelligence (1 of
them also said he was expert in Public Security and Safe Software Develop-
ment). The others were: 1 expert in Homeland Security; 1 in Organized crime
and Drug Trafficking; 2 in Public Security; 1 in Human Security, Assistance
to Victims and Humanitarian Disarmament; and 1 more in Cybersecurity and
Cyber Defense.
2) 45.5% of the experts stated that in their knowledge, there were no spe-
cific AI technologies being currently used by DCs in Mexico or abroad; 36.4%
said they did not know, and 18.2% said CDs already use them already, consist-
ing of:
“Almost unbreakable communication encryption technologies, intelligent tel-
ecommunications networks (calls and messages that notify pilots or captains when
it is safe to move cargo), ultra-light aircraft, data science to avoid detection”, and
“Irrigation systems with drones for illegal plantations. Facial recognition systems”.
3) Regarding awareness of the current access to LAWs or any other type
of AI weaponry by DCs, 90.9% of experts said they did not know, and 9.1%
considered they do not have them yet.
4) Experts were asked if they believe that Mexican DCs will have access to
AI technology weaponry at some point in the next ten years. It was an open
question, and all eleven experts unanimously answered “yes”: at some point
the cartels will possess this technology. They mentioned several reasons for this:
“Yes. AI technology is expanding rapidly and is not exclusive.”
“Yes. The accelerated advance of ICTs allows people belonging to organ-
ized crime to have access to this type of equipment in, for example, the deep
web or other black markets.”
“Yes, due to its ability to finance and import weapons from foreign coun-
tries.”
“Yes, I think that perhaps they already have or will have access to weapons
with AI technology (whether or not they use it in their operations, is another
question). It is very easy to buy weapons, especially for these types of organi-
zations. I think they value technology, and they always try to be one step ahead
of the authorities.”
“Yes, drug cartels are highly adaptable to the innovation process, and this
will be more affordable.”
“Yes, many times they are more advanced, and they have entire strategy
teams to maintain their businesses.”
“If these weapons were developed, it would be possible that they will be in
the hands of illegal groups or non-state armed groups in a short time.”

93
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

“We are seeing an approach towards technologies by DCs.”


5) When asked if they consider the Mexican government has the means
to deal with the possible use of weapons with AI technology by DCs, 72%
answered “no”, citing reasons such as lack of access by the Mexican State to
this type of technology; lack of institutions that promote professionalization
of security agents in this type of areas and technology, and lack of government
coordination in the matter; also lack of financial resources to invest in technol-
ogy to counterattack this type of weaponry, and lack of a cybersecurity strategy;
little approach to technology, or lack of interest on it.
6) Experts were also asked if they consider that military and security forces
of the Mexican government (Army, Navy, National Guard, municipal and state
police) are preparing for the future possible use of weapons with AI technology
by DCs: 45.5% considered they are not; 27.3% said they did not know, and
another 27.3% considered yes, they are currently preparing.
One of the experts who answered yes, mentioned the following:

Unfortunately, among all security institutions you mention, there are stratosphe-
rically different capacities. At the federal level I can trust that, with regard to the
functions it performs, the Navy must be at the forefront in this regard, by virtue
of the training of its members, many of whom studied abroad, mainly in the Uni-
ted States. As far as the National Guard is concerned, I highly doubt it, since it
is an institution in process of transition and consolidation. The Army has certain
sections in which intelligence is generated, so it is likely that they already foreseen
the AI issue.
​​ Both the Navy and the Army have their respective educational cen-
ters (CESNAV and Colegio de la Defensa), whose academic programs are similar
to foreign programs in which they necessarily study these subjects, an issue that
for them constitutes an advantage. It will be necessary to analyze the efforts of the
CNI (National Intelligence Center) in this regard. At the state and municipal level,
efforts are scarce, if not null.

7) When asked if the Mexican government has an agenda for the develop-
ment of AI technology to combat organized crime, 54.5% of the experts said
“no”, 36.4% said they did not know, and only 9.1% answered “yes”.
8) Another question was how necessary they consider that the Mexican gov-
ernment (at the federal, state, and municipal level) designs a strategy to prevent
the possible use in the future of autonomous weapons with AI technology by
DCs. 72.7% of them answered it is “very necessary” or “somewhat necessary”.
9) Significantly, 90.9% of the interviewed experts considered that possible
use of weapons with AI technology by DCs, would represent a risk for govern-
ance and institutions in Mexico.

Scanning horizon by reviewing and analyzing information from verified web-


sites and social media, journalistic notes, and documentary sources
The second method of horizon scanning was the collection of signals and

94
Mauricio Hernandez Ramirez Future use of Lethal Autonomous Weapons

trends related to three fundamental topics: 1) Lethal Autonomous Weapons;


2) Artificial Intelligence for military uses; 3) Use of technology by drug cartels
in Mexico and the rest of the world.
The primary objective of this part of the work was to complement the in-
formation obtained through the interviews described in the previous part of
the work.
Information was collected from various sources: specialized academic jour-
nals and popular magazines; reports from national and international newspa-
pers; websites and social media posts. The information was registered in a Mi-
crosoft Excel® database generated between June 2020 and the first week of
June 2021.
Collected data showed the following signals and trends:
Some territories in Mexico are apparently under control of the DCs, or in
dispute with governmental forces. An emblematic example is the Municipali-
ty of Aguililla, Michoacán, a 15,000 inhabitants city where the Spanish news-
paper “El País” speaks of the “disappearance of the Mexican State” (Ferri,
2021). Another case is Reynosa, Tamaulipas, where according to media reports
of June 2021, the organized crime executed at least 18 persons (Reina, 2021).
These signals are also worrying due to the risk of a similar situation spreading
to new territories. This, in addition to strategies of persuasion and “soft power”
used by DCs in a number of towns, like delivery of provisions, money, legal
and illegal jobs, and the construction of infrastructure such as roads, hospitals,
schools, among other practices documented in Mexico for years (Mrad, 2009)
that allowed DCs to get allies in different towns of the country, even during the
midst of the COVID-19 pandemic (Dittmar, 2020).
Direct attacks have occurred to state police officers and other public securi-
ty authorities using drones armed with explosives, and with increasing frequen-
cy since 2020. Furthermore, evidence found in these attacks and as declared by
Mexican military authorities (Gutiérrez, 2021), showed that they were perpe-
trated by the CJNG. Although these devices are still far from being considered
LAWs, they constitute signals that DCs are already employing advanced tech-
nological innovations in their armed incursions.
LAWs are being manufactured by more countries now. Current manufac-
turing leaders are the United States, China, South Korea, and the European
Union (Haner and Garcia, 2019). Turkey (Tekingunduz, 2021) has also become
a major manufacturer and seller.
Technological advances in AI weaponry for military use are rapidly devel-
oped and are already being used by armies around the world, both in exercises
and in the battlefront. The French Army has incorporated “Spot” to its train-
ing sessions, a dog robot with AI capabilities created by the US firm Boston
Dynamics, and it is evaluating its usefulness in future war situations (Vincent,
2021). The Russian army has announced the development of its first AI military
robotic unit, that they have already put to the test in military operations in Syria

95
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

(McDermott, 2021). The United States government has created “Skyborg”, an


autonomous AI that can fly independently and take decisions by itself to attack
enemies and defend its operator (Díaz, 2021).
These technological developments could be at reach of the DCs in the fu-
ture, given their historical ability to acquire the highest technology weapons
available on the illegal and legal markets.
In a document prepared by the Libyan Panel of Experts and addressed to
the Security Council of the United Nations Organization (United Nations Securi-
ty Council, 2021), it was reported that lethal autonomous weapons with artificial
intelligence -specifically STM Kargu drones, as well as unmanned aerial combat
systems for intelligence, surveillance and reconnaissance tasks such as the Bayrak-
tar TB-2 and probably the TAI Anka S, all of Turkish manufacturing, were used by
the army of that country in March 2020 against Libyan rebel forces. The document
establishes that “lethal autonomous weapons systems were programmed to attack
targets “without requiring data connectivity between the operator and the ammu-
nition…” and continues saying that their use by the Turkish army was a decisive
element for the defeat of its adversaries, who “were neither trained nor motivated to
defend themselves against the effective use of this new technology”.
When it comes to technology, DCs resort to methods like the extorsion or kid-
napping of experts to operate it. More recently, DCs are also recurring to hire uni-
versity students and professors as their employees to serve their criminal purposes
(Infobae, 2022), and this surely may be replicated for LAWs’ operation in the future.

Drivers of change and STEEP analysis

As a result of the Horizon Scanning process previously described, ten driv-


ers of change were obtained (Table 1). Each one of them was classified using a
STEEP analysis, describing Social (S), Technological (T), Economic (E), Envi-
ronmental (E) and Political (P) aspects (Figure 1). These drivers of change are
very important because they represent the fundamental input for the creation
of scenarios that will be described in the following section.

Building scenarios to the year 2050

The foresight technique used for the creation of scenarios for 2050, is known
as the 2x2 Matrix, whose creation was formalized in the 1990s by the consulting
firm Global Business Network (Rhydderch, 2017). Following this methodology,
drivers of change generated in the previous section were weighted, locating them
in a plane in which two axes were drawn, one horizontal and one vertical, based
on their greater or lesser degree of uncertainty and impact that they are expected
to have in the future if they occur. The results are illustrated in Figure 2:

96
Mauricio Hernandez Ramirez Future use of Lethal Autonomous Weapons

Tab. 1 – Drivers of change

Fig. 1 – STEEP Analysis

The objective of this exercise is to establish critical uncertainties, those gen-


erators of change with the greatest degree of uncertainty and at the same time,
the greatest impact if they were to occur. In this case, the five elements with
these characteristics are the circled ones in Figure 2.
Once critical uncertainties were established, two of them were selected to
use them for the creation of scenarios (Figure 3):

97
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

Fig. – 2x2 Matrix

Fig. 3 – Critical uncertainties

Both critical uncertainties were located on two axes, constructing a polarity


along them in such a way that totally opposite situations were located at each
end. The result appears in the four scenarios shown below, in Figure 4:

98
Mauricio Hernandez Ramirez Future use of Lethal Autonomous Weapons

Fig. 4 – Four scenarios

Narrative of scenarios: Year 2050.

“Narco-State in the making”


Based on their greater fire power with LAWs and their ability to operate
these advanced weapons, DCs have won the battle over state forces for control
of more than 1,700 municipalities and at least 11 states in the country, accord-
ing to estimates from the press.
From at least 2023, the country’s military and naval forces do not have the
budget, the technological tools, or the support of the Mexican government to
develop counterattack strategies, and neither have sufficient material, logistical,
or strategic elements to combat DCs and their LAWs, which by the way have
been consistently used in various armed incursions throughout the country.
Desperate, the Mexican government has chosen to seek a way of negotiating
with DCs to pacify the country.
There is a virtual state of siege after the federal government decreed a na-
tional state of emergency and a curfew starting at 8 pm, throughout the coun-
try. Schools have been working fully on-line since last year. There is a tense
calm throughout the country and the Mexican population has chosen to accept
the situation, to safeguard their well-being and that of their families.
The presidential administration has made it a priority to develop an agenda
to combat the use of LAWs by organized crime. However, the lag is very wide
and various analysts doubt that this can have a positive effect now or reverse
the current situation.

99
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

Besides, it has been detected a gradual seizure of political positions by legal


and electoral means in local and state governments, by members of the organized
crime. When that does not work, political posts are achieved through the use of
force, blackmail or extortion. Municipal presidents, governors, and members of
the Mexican Congress are part of the permanent list of cartels’ collaborators.
Various international agencies, media and human rights organizations, have lit-
tle doubt that the presidential candidate who overwhelmingly won the 2048 elec-
tion, and today in 2050 holds the executive power, has direct links with the DCs.

“Status Quo / Everything remains the same”


Although LAWs are used in practically all war fronts in the world, and
have been for several years now, Mexico remains kind of an island in this sense.
There are no reports of the use of LAWs in the country, and neither on the
possession of them by any criminal group operating in the nation.
Previous governments and the one that won the very disputed presidential
election of 2048, two years ago, decided that investment in human and financial
resources to prevent a possible acquisition and use of LAWs by Mexican DCs, was
not a priority for the Mexican state. They thought that other items required more
attention, such as all health and economic expenses generated by the three pan-
demics that occurred during the 2030s-2040s. They also expressed that the proba-
bility of organized crime getting LAWs or being able to operate them, was very low.
Time seems to have proved them right: at least until the year 2050 there is
no report, not even in the recently opened confidential files by order of the Na-
tional Institute for Access to Information (INAI), or in any part of the military
confidential documents revealed through the recent event known as the “Pan-
da leaks” information scandal, that mentions the use of LAWs by organized
crime in one of its armed incursions in the country. While the DCs have high-
tech weaponry, organization, money and logistics, they have not been able to
learn how to operate LAWs, which has so far prevented them from using them.
However, DCs face the Mexican state forces with high-caliber weapons,
that continue to arrive from illegal markets and especially from the U.S.A. Con-
frontations continue to take place and DCs seem to advance in the control
of some areas of the country, generating an increase in the number of deaths
and violence for the last 10 years, according to official figures. Governance of
the country is complicated and constantly questioned by political opposition
groups, civil society, international media and organizations, in the face of such
violence and with the virtual occupation of territories by DCs, a fact that can-
not be concealed by the international community.
The Mexican government declares that so far is “satisfied” because at least
up to now, fortune has been on its side, and the extensive use of LAWs in armed
conflicts around the world, including their reported operation by non-state
criminal actors and terrorists in other latitudes, have not reached the country.
They hope to continue to be that lucky.

100
Mauricio Hernandez Ramirez Future use of Lethal Autonomous Weapons

“Contained Threat”
The Mexican government assumed the task of allocating financial and hu-
man resources for the creation of a comprehensive Artificial Intelligence agen-
da from the year 2023, and since then it has developed a complete program that
included the creation of a special Committee with the mission of designing a
long-term strategic plan, to prevent the use of artificial intelligence weaponry
by DCs and establishing measures to prevent and counter this threat.
Personnel from state and municipal police bodies, the Navy, the Army and
the National Guard, participated in the creation of the strategy, in addition
to organizations such as the National Council for Science and Technology
(CONACYT) and a consortium of public and private universities of the whole
country.
The Strategic Plan for opportunities and threats posed by the use of Artificial
Intelligence in Mexico, 2050 (“The Plan”) was first published in 2025, and since
then a specific governmental program has been allocated with budget resourc-
es each year to carry out the strategic actions contained therein. Thanks to that
program, the Mexican State was not only able to timely anticipate the eventual
acquisition and use of LAWs by DCs, but also established national and interna-
tional cooperation mechanisms with foreign governments and agencies, which
together have contained this threat, at least until now in the middle of 2050.
As part of “The Plan”, the Mexican government acquired the necessary
technology, training and operating capabilities to combat DCs more effectively
and efficiently. As a result of this, since 2026 there has been a drastic decrease
in the levels of violence in the country caused by drug trafficking actions, and
it has been possible to recover of some territories that were de facto controlled
by these criminal groups before that year.
The Mexican government continues the application of “The Plan”, which
registered its third update in 2042. Thanks to this, Mexico stays at the forefront
of Latin America as one of the most advanced nations in terms of the use and
operation of AI, particularly for purposes of security and the fight against or-
ganized crime. Mexico continues to advise several countries on this matter, and
the country is a mandatory worldwide reference on the matter.
The Mexican government and its institutions have not lowered their guard
regarding the monitoring of the activities that DCs may be carrying out to ac-
quire and operate LAWs and other similar devices. The threat remains latent,
but thanks to “The Plan” and the coordination among various security and
military agencies in the country, as well as with international agencies and or-
ganizations, for the moment the threat seems controlled. But at any moment
the situation could change, so they know they can’t let their guard down.

“The Wild, wild West”


Since 2023, the Mexican State has done its work and developed a compre-
hensive long-term agenda depicting opportunities and threats for the country

101
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

derived from the use of AI and established a task force with enough budget and
human resources, to take charge of this agenda. The task force was made up of
personnel from municipal and state governments; police, SEDENA, SEMAR
and the National Guard. These agenda and task force were very important to
ensure that the Mexican State had the necessary preparation to anticipate the
threat of the use of LAWs by DCs, and to be able to get ahead of them.
However, and as trends indicated from years ago, DCs gained access to
LAWs and other high-tech weapons practically from that same year 2023. At
first they did not know how to operate them and spent a great amount of re-
sources and time in finding how to achieve it; but first through the kidnapping
and extortion of scientists and experts who taught them how to operate them,
and then through the hiring of foreign expert operators and the development
of their own scientific and technological capabilities that allowed them to have
their own “expertise” since around the year 2024, DCs achieved equality of cir-
cumstances with the forces of the Mexican government in terms of firepower,
strategy, logistics and organization.
The foregoing translated into the beginning of a large-scale war between
the Government forces and the DCs, which continues to this day and seems
to have no end, with both parties making extensive use of LAWs and other
AI devices. This has generated many victims, unfortunately among the civilian
population, as well.
Given the situation of generalized violence in the country that intensified
with the use of LAWs, at least since 2024 a large wave of Mexican citizens
began to move illegally to the United States, Canada, Central and South Amer-
ica and even some European countries like Spain, seeking to escape from the
situation of authentic violence and large-scale war in Mexico. By 2050, it is
estimated that more than 1,000,000 Mexican nationals have fled the country in
the period 2024-2050, due to the long situation of violence.
Governance in the country is under constant questioning and national se-
curity is at high risk, given the outstanding strength of DCs and the fact that it
seems to have infiltrated the institutional bodies of the Mexican government at
all levels. However, having anticipated the acquisition and operation of LAWs
by DCs was an important issue to be able to develop the elements necessary
to avoid a major disaster, and to maintain institutionalism in the country until
now; although literally, “with pins”.

Conclusions

This paper employs futures & foresight as a methodology to visualize in


the present, the possibility of criminal activities derived from the criminal use
of LAWs in Mexico in the future. It sought to set a precedent in the study and
analysis of the effects of potentially negative future actions derived from the

102
Mauricio Hernandez Ramirez Future use of Lethal Autonomous Weapons

malicious use of AI technology by criminal NSAs, which may generate further


investigation. The topic presented and its approach to foresight & futures stud-
ies methods need to be understood and disseminated, to see in a proper dimen-
sion the value of the potential contributions of this discipline to the knowledge
and implementation of more effective public policies that incorporate the an-
ticipation factor.
Results of this research suggest there are strong possibilities that at some
point in the future -and not very far from now- DCs will acquire and use LAWs
in their operations, which confirms the initial hypothesis of this work. The use
of these devices is becoming a global trend on various battle fronts and there
is no compelling reason why Mexico could be an exception to this situation,
even less, considering history with other types of weapons illegally trafficked
to Mexico from the United States, for example, that DCs currently use in their
day-to-day operations. The Mexican government must prepare from today for
it, as if it were already a fact, to anticipate the possible and multiple negative
effects of a situation like it.
Interviewed experts for Horizon Scanning unanimously agreed on two is-
sues: 1) At some point in the future and with all certainty, Mexican DCs will
acquire and operate LAWs in the country; and 2) the Mexican Government is
not prepared for that today, and at the moment there is not even a glimpse of
intention to achieve such preparation, especially among the police forces and
in particular at the municipal and state level, where the greatest vulnerability
is observed. Experts interviewed also agreed that the possible use of weapons
with AI technology would represent a risk for governance and national insti-
tutions.
The four scenarios proposed here show that there are worrying effects re-
sulting from the possible acquisition and operation of LAWs by Mexican DCs.
This essay only seeks to make the problem visible, but further work must be
done on the elaboration of a greater number of potential futures scenarios,
and using critical uncertainties different from those proposed here, so that a
broader panorama of what could happen in the future is visualized and can be
used to act in consequence.
Finally, access to AI technology by Non-State Actors like criminal groups
is an issue that could be spread internationally very soon and quickly become a
real nightmare, if governmental action worldwide is not taken today to prevent
it.

103
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

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105
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

Appendix

Experts responding to questionnaire on uses of artificial intelligence

Given the specific topic of this research, the identity of experts who answered the
questionnaire is preserved. Only their occupation is mentioned, and in some cases the
organization to which they provide their services. Out of the 11 experts who answered
the questionnaire, 5 considered themselves experts in Artificial Intelligence (1 of them
also said they were experts in Public Security and Secure Software Development); 1 in
Homeland Security; 1 in drug trafficking and organized crime; 2 in Public Security; 1 in
Human Security, Assistance to Victims and Humanitarian Disarmament; and 1 more in
Cybersecurity and Cyberdefense.
- Researcher and Director of a Graduate Program at the Centro de Investigación y Do-
cencia Económicas A.C. (CIDE, a public university and academic research center).
- An expert with a master’s degree in National Security, from a University in Israel.
- Expert in Cybersecurity and Computer Crimes.
- Academic Researcher, member of a Security Studies Center at the Instituto Tecnológi-
co Autónomo de México (ITAM, a private university and academic research center).
- Representative in Mexico of an international victim assistance and humanitarian disar-
mament organization.
- Expert in Artificial Intelligence (AI) and Assistant Professor at a University in the
United States of America.
- Expert in AI, Public Safety and Secure Software Development. Employee of a private
software development company.
- Expert in Artificial Intelligence, Director of a bachelor’s degree Program at a private
University in Mexico.
- Expert in Artificial Intelligence. Member of the Mexican Society of Artificial Intelli-
gence (SMIA). Professor and Academic Researcher at a private university in Mexico.
- Expert in Public Security issues, professor at a Mexican Public University.
- Expert in Artificial Intelligence, collaborator in a private advisory company of Tech-
nology in Latin America.

106
Tre scenari di guerra e pace per la metà del secolo

di Donato Speroni

James Lovelock è morto il 26 luglio del 2022, nel giorno in cui compiva 103
anni. Lo scienziato è noto soprattutto per la sua teoria su Gaia, nella quale vede
la Terra come un superorganismo che deve tutelare un proprio equilibrio. A 99
anni, però, Lovelock ha scritto un altro libro, nel quale annuncia l’avvento di
una nuova era geologica, il Novacene, che sostituirà l’Antropocene, cioè l’età
nella quale l’uomo, nel bene e nel male, è diventato l’assoluto regolatore del
Pianeta (Lovelock, 2020).
Caratteristica del Novacene è il dominio delle macchine, che risolvono
problemi insolubili per l’Uomo e semmai manterranno in vita l’Homo sapiens
come pet, animale da compagnia. Non è molto diversa la diagnosi della Singo-
larità di Raymond Kurzweil, capo tecnologo di Google e futurista, il quale da
tempo ha annunciato che entro il 2045 saranno le macchine a operare le scelte
che l’uomo non è più in grado di fare (Kurzweil, 2008). A seguito dell’avvento
dei computer quantistici, molti esperti prevedono che “l’età della singolarità”
potrebbe essere anche più vicina.
Gli interrogativi che ne conseguono riguardano la natura stessa della perso-
na umana: in quale misura rimarrà come noi la conosciamo e se invece accetterà
una progressiva trasformazione in cyborg, attraverso innesti uomo-macchina
che potenziano le sue capacità ma ne cambiano il carattere. Chip nel cervello
con possibilità di attingere a internet e memorizzare rapidamente, forme di
comunicazione telepatica, droghe per ridurre la necessità di sonno potrebbero
configurare, come già prevedeva Joel Garreau (2007), un conflitto tra i “po-
tenziati” che accettano queste modifiche e i “naturali” che non possono o non
voglio accedervi.
I più recenti studi sulla intelligenza artificiale (AI) confermano queste pre-
visioni. I percorsi mentali dell’intelligenza artificiale sono diversi da quelli uma-
ni, talvolta inspiegabili. Come si racconta in un recente libro alla cui stesura
ha partecipato anche Henry A. Kissinger, nel 2017 il computer AlphaZero,
prodotto da Google DeepMind, ha battuto Stockfish, campione assoluto fino
a quel momento nel gioco degli scacchi. La novità è che AlphaZero si è distac-
cato dagli input basati sull’esperienza umana e ha attuato strategie di gioco
totalmente nuove. Prima i computer vincevano gli umani solo per la loro mag-
giore capacità di prevedere in anticipo le possibili mosse, ma in sostanza ne
imitavano le strategie. AlphaZero gioca in modo diverso, magari sacrificando
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

pezzi ai quali nessun maestro si sognerebbe di rinunciare. E vince. Adesso sono


i campioni di scacchi a studiare le sue tecniche rivoluzionarie (Kissinger, Sch-
midt e Huttenlocher, 2021).
Questa premessa serve per mettere a fuoco la più grande incognita con la
quale dobbiamo confrontarci per una proiezione da qui a metà secolo in tempi
di pace o in tempi di guerra: come cambierà la persona umana e il suo rapporto
con le macchine. Ovviamente la domanda condiziona qualsiasi previsione sulle
“guerre del futuro”. Saranno gli uomini o i cyborg a combatterle? Soprattutto,
chi ne deciderà strategia e tattica? E con quali vincoli etici?
Possiamo immaginare diversi esiti geopolitici, ma è ben difficile immagina-
re “come” ci si potrà arrivare. Anche perché i criteri di comportamento delle
macchine alle quali già oggi deleghiamo molte decisioni potrebbero essere di-
versi dai nostri.

Tre gruppi di scenari

Quando si parla di scenari globali a lungo termine, trovo utile distinguerli


in tre gruppi:
- scenari distopici: le possibili catastrofi che potrebbero abbattersi sull’umani-
tà nei prossimi trent’anni vanno dalle conseguenze estreme del cambiamen-
to climatico a conflitti nucleari, minacciando la sopravvivenza della nostra
civiltà come noi la conosciamo.
- scenari sostenibili: l’umanità trova un modo concorde di fronteggiare le sue
sfide e di ridurne i rischi, affrontando non solo la crisi climatica ma anche le
tensioni sociali che derivano dalla crescita della popolazione e dall’aumento
delle disuguaglianze.
- scenari di “business as usual” cioè di degrado: in sostanza l’umanità sfugge
al rischio di catastrofi ma evita anche le decisioni coraggiose. Continuare i
comportamenti attuali non garantisce una situazione di equilibrio, perché
in materia di clima, biodiversità, povertà, diritti delle persone siamo su un
piano inclinato. Si tratta dunque di una prospettiva di progressivo decadi-
mento delle condizioni umane, almeno per una grande massa della popola-
zione mondiale. Il “business as usual” diventa così uno scenario di violenza
diffusa, magari senza un conflitto generalizzato con armi nucleari, ma con
numerosi punti critici nel Pianeta. Del resto, l’Università di Uppsala conta
attualmente una sessantina di conflitti in corso nel mondo1.
Tenendo a mente questi tre esiti, vediamo dunque le possibili evoluzioni
della situazione globale, partendo da un’analisi demografica.

1
https://ucdp.uu.se/

108
Donato Speroni Tre scenari di guerra e pace

La popolazione mondiale

Secondo le ultime previsioni formulate dall’Onu (2022), l’umanità ha ap-


pena superato gli otto miliardi e arriverà oltre i nove nel 2050. Una crescita
vertiginosa (un secolo fa la popolazione globale era di due miliardi), favorita
soprattutto da due fattori positivi: l’abbattimento della mortalità infantile e l’al-
lungamento della speranza di vita. È ancora in atto una forte spinta all’aumento
della popolazione soprattutto in Africa, i cui abitanti passano da 250 milioni
nel 1950 a 2,5 miliardi nel 2050, ma nel complesso la crescita tende a rallentare.
Mentre le proiezioni formulate dall’Onu tre anni fa prevedevano che la popo-
lazione mondiale avrebbe raggiunto gli 11 miliardi a fine secolo, il recente ag-
giornamento propende per una stabilizzazione attorno ai 10,6 miliardi attorno
al 2080. Altri studi prevedono un più drastico calo delle nascite nella seconda
metà del secolo. A condizione ovviamente che la popolazione mondiale non
venga falcidiata da guerre, carestie, epidemie o altre catastrofi globali.
La prima domanda che dobbiamo dunque porci è se il Pianeta sia in gra-
do di sostenere una popolazione di questa entità. Il problema non riguarda la
quantità teorica di cibo: le tecniche agricole garantiscono ormai una produttivi-
tà in grado di sfamare tutti. La questione si pone invece in termini economici e
logistici. Quanto sta avvenendo in questi mesi, con le difficoltà di approvvigio-
namento di molti Paesi in via di sviluppo a seguito dell’invasione russa dell’U-
craina, ci descrive un sistema globale fragile, nel quale una guerra a migliaia di
chilometri di distanza provoca penuria alimentare, aumenti di prezzo, disordini
sociali.
È anche necessario tenere conto delle differenze nelle dinamiche demogra-
fiche dei diversi continenti. Attualmente l’età mediana in Africa è di 19,7 anni:
metà della popolazione di quel continente è al di sotto di quel limite. In Europa
è di 42,5 anni. L’invecchiamento della popolazione nel Nord del mondo (in
Europa, ma anche in Cina) metterà all’ordine del giorno il problema di una
immigrazione regolata, ma le classi politiche dei Paesi più avanzati dovranno
anche fare i conti con una spinta migratoria fortissima, ben al di là della capaci-
tà di accoglienza dei singoli Paesi. Per molti giovani africani e sudamericani la
migrazione verso l’Europa o gli Stati Uniti, per contribuire attraverso le rimesse
al benessere della propria famiglia, è una sorta di sfida eroica, da affrontare an-
che con il rischio di morte. Un sondaggio Gallup di qualche anno fa ci dice che
il 15% della popolazione mondiale adulta se potesse emigrerebbe in un altro
Paese: più di 750 milioni di persone che vorrebbero un futuro diverso, pronte
a cogliere qualsiasi occasione per fuggire dalle loro terre o dalle periferie delle
grandi metropoli del Sud del mondo (Esipova, Pugliese e Ray, 2018).

109
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

L’impatto del cambiamento climatico

La crisi climatica fornisce un valido contributo agli scenari distopici. La ri-


duzione dei ghiacciai polari potrebbe provocare un innalzamento dei mari che
costringerà ad abbandonare migliaia di chilometri di coste. Lo scioglimento del
permafrost metterà a rischio la stabilità delle costruzioni alle latitudini artiche
e libererà grandi quantità di metano che accelereranno il cambiamento clima-
tico. Ci sono anche ipotesi più drammatiche, come per esempio l’inversione
della Corrente del Golfo, che metterebbe l’Europa in una condizione climatica
paragonabile a quella del Labrador.
Queste ipotesi riguardano però la seconda metà del secolo, se i governi
mondiali non saranno riusciti a trovare valide ricette per mitigare l’effetto serra
e contenerlo entro il limite, già elevato, di due gradi. Dobbiamo però guardare
alle conseguenze di quello che sta già avvenendo e ai suoi impatti sociali. Già
oggi, l’inaridimento delle terre costringe milioni di persone ad abbandonare
le campagne, soprattutto in Africa, e le alluvioni mettono in ginocchio vaste
aree dell’Asia meridionale. Gli approvvigionamenti di acqua potabile diventa-
no problematici e i fenomeni meteorologici estremi sempre più minacciosi. Il
Mediterraneo è un’area fortemente investita da questi cambiamenti, come stia-
mo sperimentando anche in Italia. Un recente rapporto dell’Ipcc2 ha avvertito
che il cambiamento climatico minaccia tre miliardi di persone e ha segnalato la
debolezza degli interventi di adattamento finora messi in atto.
Secondo un calcolo della Banca mondiale, entro il 2050 si avranno almeno
200 milioni di “migranti climatici”, una categoria che attualmente non ha un
proprio status internazionale e viene assimilata ai migranti economici, anche se
in realtà è impossibilitata a ritornare alle terre d’origine. Altre stime portano a
valutazioni anche più elevate, se dovesse sostanzialmente ridursi la portata dei
fiumi che discendono dall’Himalaya. Nel complesso, possiamo prevedere che
il cambiamento climatico avrà conseguenze sociali estremamente rilevanti. Se
non verrà gestito adeguatamente, porterà a ulteriori conflitti, anche per assicu-
rarsi le risorse idriche sempre più scarse.

La sfida dei consumi di materia

Nel 2022 l’Earth overshoot day è stato fissato al 28 luglio. Il calcolo ci dice
che dopo 209 giorni, l’umanità ha consumato tutte le risorse prodotte nell’anno
dal Pianeta. Stiamo cioè consumando 1,7 pianeti all’anno, ma in realtà i limiti
nazionali sono molto variabili: l’Earth overshoot day degli Stati Uniti è il 13
marzo, quello dell’Italia il 15 maggio, solo Ecuador, Indonesia e Giamaica ar-
rivano a dicembre.

2
https://www.ipcc.ch/report/ar6/wg2/

110
Donato Speroni Tre scenari di guerra e pace

Fino a quando potremo continuare con questi consumi? La sfida è resa


ancor più difficile dalle stime della Banca Mondiale sulla “classe media” del
Pianeta, composta da chi guadagna dai dieci ai cento dollari al giorno. Attual-
mente si tratta di due miliardi di persone, ma tra vent’anni saranno cinque
miliardi: tre miliardi in più che vorrebbero, legittimamente, avere consumi pa-
ragonabili ai nostri. Automobili, elettrodomestici, ma anche cambiamenti di
dieta: in vent’anni, i cinesi hanno decuplicato i consumi pro capite di carne di
maiale. Anche le spinte all’innovazione, come il passaggio alle energie rinnova-
bili, creano tensioni sui materiali, come si vede dalle preoccupazioni crescenti
sulle “terre rare”.
Se i modelli di consumo non cambieranno in modo significativo, se l’eco-
nomia circolare non sarà in grado di rispondere almeno in parte a questi pro-
blemi, l’accaparramento delle risorse sarà una importante causa di conflitti nei
prossimi decenni.

La crescita delle disuguaglianze

L’obiettivo dell’Onu di abolire la povertà estrema entro il 2030 non potrà


essere raggiunto, a causa della pandemia, ma anche di ritardi che già si verifica-
vano prima dell’esplosione del Covid. Anche la fame e l’insicurezza alimentare
sono in aumento. Un recente articolo dell’Economist faceva notare come la cre-
scita stessa di alcuni Paesi emergenti porta a un aumento delle disuguaglianze
rispetto a quelli che invece rimangono fermi. Siamo ben lontani da un mondo
nel quale “nessuno resta indietro” come recita il preambolo dell’Agenda 2030
dell’Onu. Continuando con le dinamiche attuali, nella migliore delle ipotesi si
configura una “società dei due terzi”, nella quale un terzo dell’umanità resterà
al limite della sopravvivenza. Non c’è sostenibilità sociale in un mondo nel
quale tre miliardi di persone sono escluse dal progresso, ma sono in grado di
minare la sicurezza degli altri. Guerre, terrorismo, violenze di ogni genere ne
sono l’inevitabile conseguenza.

Catastrofe o degrado?

È facile immaginare che i fattori descritti finora porteranno a una situazione


di grande instabilità, protratta per molti anni. Di fronte a queste minacce le
democrazie saranno a rischio, perché l’insicurezza crea polarizzazioni insoste-
nibili. Se ne avvantaggiano i regimi autoritari: si può anche ipotizzare l’avvento
di un “secolo cinese” nel quale Pechino imporrà le sue regole a tutto il mondo e
controllerà in modo ferreo l’equilibrio mondiale. La Cina ha certamente i suoi
punti di debolezza, derivanti dalla mancanza di democrazia e di rispetto per i
diritti, ma i nuovi strumenti tecnologici rendono sempre più difficile ribellarsi

111
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

agli autocrati, in grado di controllare minuziosamente tutti i comportamenti


dei loro sudditi, fino addirittura alle espressioni facciali.
Se dunque continueranno le attuali tendenze, i possibili sbocchi sono solo
due: o una catastrofe inimmaginabile (conflitti nucleari, aumento degli “Stati
falliti”, sterminio di intere popolazioni), oppure un lento e progressivo degra-
do. Di questa ipotesi parla Jorgen Randers, un ricercatore norvegese che da
giovane, nel 1972, partecipò alla ricerca del Mit sui limiti dello sviluppo, pa-
trocinata dal Club di Roma, e quarant’anni dopo, nel 2012, ha fatto il punto
su quelle previsioni proiettandole in avanti di altri 40 anni. Nel suo libro 2052
scrive che con il perdurare delle attuali tendenze non necessariamente si va
incontro a una catastrofe, ma anche solo a un progressivo deterioramento della
qualità della vita. Il libro si conclude con venti raccomandazioni che possono
apparire paradossali. Tra queste: «Non insegnate ai vostri figli ad amare la na-
tura incontaminata» e «Investite nell’elettronica di intrattenimento e imparate
a usarla» (Randers, 2012). In un mondo superaffollato e squallido, meglio fug-
gire nella realtà virtuale dei videogiochi. Del resto, non è questa l’offerta che ci
arriva, dieci anni dopo il libro di Randers, dai progetti di metaverso?

Un percorso sostenibile

C’è un’alternativa a tutto questo? La firma dell’Agenda 2030 dell’Onu, il 25


settembre 2015, da parte di 193 Stati compresa l’Italia, induceva a sperarlo. I
17 obiettivi e i 169 target dell’Agenda coprono tutti i campi della sostenibilità,
dalla lotta alla povertà e alla fame alla tutela dei diritti e all’empowerment fem-
minile, dalla crisi climatica alla tutela delle specie di terra e di mare. L’Agenda
ha avuto un impatto rilevante. Ogni anno a luglio, nell’High level political fo-
rum, i Paesi partecipanti fanno il punto sui risultati raggiunti e presentano a
turno le loro Voluntary national reviews. L’esigenza di misurare gli Obiettivi
ha dato un impulso significativo alla statistica mondiale, soprattutto ni Paesi in
via di sviluppo. Nei Paesi più ricchi si sono sviluppate iniziative politiche che
hanno posto l’Agenda al centro dei loro programmi: la Commissione europea
di Ursula von der Leyen ha affidato la realizzazione degli Obiettivi a tutti i com-
missari, per uniformare all’Agenda l’azione di Bruxelles. In Italia, l’Alleanza
italiana per lo sviluppo sostenibile (ASviS) ha riunito oltre trecento associazioni
impegnate sugli Obiettivi, per formulare proposte comuni e promuovere la
cultura della sostenibilità.
Nel complesso però, sette anni dopo la sua approvazione e quindi quasi a
metà del suo percorso di tre lustri, si può prevedere che gli Obiettivi dell’A-
genda resteranno in parte inattuati. Non solo per la pandemia da Covid 19 e la
guerra in Ucraina, ma perché già prima di questi eventi il mondo era in ritardo
nell’attuazione degli impegni sottoscritti. Un esempio tra tanti: l’accordo per la
costituzione del Green climate fund per agevolare la transizione energetica dei

112
Donato Speroni Tre scenari di guerra e pace

Paesi meno sviluppati, prevedeva la raccolta a questo scopo di 100 miliardi di


dollari all’anno da erogarsi dal 2020, ma in realtà buona parte di questo impe-
gno è rimasto sulla carta.
Eppure, l’Agenda 2030 resta una bussola preziosa, per il suo valore politi-
co: rappresenta un punto di convergenza, quanto tutti gli Stati sono disposti
ad accettare, almeno in teoria, ed è auspicabile che prima del 2030 venga ela-
borato un nuovo documento programmatico al 2045 o al 2050. Inoltre, anche
quando i governi si sono mostrati negligenti nell’attuare gli impegni da essi
stessi sottoscritti, una grande mobilitazione della società civile ha fornito im-
pulsi nella direzione della sostenibilità.
Anche le imprese e la finanza hanno in parte cambiato i loro obiettivi: le
imprese con l’adozione dei parametri Esg (environment, social governance) per
presentare un volto sostenibile e la finanza con la progressiva valorizzazione
della “finanza verde” cioè di fondi e altri intermediari attenti ai criteri etici e
all’ambiente. Nel complesso, questo processo ha portato a parlare di una evo-
luzione dallo shareholder capitalism, nel quale lo scopo dell’impresa è soltanto
la remunerazione degli azionisti, allo stakeholder capitalism, nel quale l’impresa
deve guardare anche agli interessi, di dipendenti, consumatori, comunità locali
e ambiente. Il processo però è tutt’altro che concluso. Molti ritengono che la
costruzione di un mondo sostenibile richieda un “nuovo modello di sviluppo”,
cioè un’economia ancora basata sulle regole del mercato, ma nella quale il po-
tere nelle imprese è condiviso tra tutti i portatori di interesse (cfr. Mazzuccato,
2022).

I passaggi verso la sostenibilità

Abbiamo dunque visto una serie di fattori contrastanti:


- Le tendenze mondiali su clima, biosfera, disuguaglianze, tensioni sociali,
che portano a scenari catastrofici o di forte degrado.
- Un documento di impegni comuni tra tutti gli Stati, l’Agenda 2030, ma che
rischia di essere in buona parte inattuato.
- Una forte mobilitazione della società civile e una crescita di sensibilità nel
mondo delle imprese e della finanza verso i problemi della sostenibilità.
Quali sono le condizioni perché le spinte positive abbiano successo e por-
tino davvero a configurare uno scenario sostenibile? Possiamo provare a enun-
ciarne alcune.
- Un rafforzamento del multilateralismo, cioè della collaborazione interna-
zionale e della disponibilità a delegare poteri a organizzazioni sovranazio-
nali.
- Un cambiamento dei modelli di consumo: uso più razionale dell’energia,
meno viaggi inutili, meno consumi di carne.
- Una grande solidarietà internazionale, sia nel supportare le politiche di

113
Futuri 18 guerra e pace nel 2050

adattamento ai cambiamenti climatici già in corso, sia per prevenirne il


peggioramento, attraverso adeguati interventi di mitigation: l’Europa nel
complesso incide solo per l’8% sulle emissioni di gas serra. I suoi Paesi
sono stati tra i grandi inquinatori ed è giusto che sia all’avanguardia nella
riduzione delle emissioni, con l’abbattimento del 55% entro il 2030 e l’az-
zeramento entro il 2050, ma la partita dei prossimi anni si giocherà soprat-
tutto nei Paesi in via di sviluppo che devono crescere e quindi consumare
più energia e che devono essere aiutati a usare fonti meno inquinanti.
Non è difficile capire che queste condizioni sono ben lontane da una effetti-
va attuazione. La politica dipende dall’opinione pubblica e l’opinione pubblica
fatica ad accettare sacrifici per rischi che non percepisce come immediati. Che
cosa potrebbe determinare un cambiamento di atteggiamento? Possiamo fare
alcune ipotesi.
La prima è quella di un grande movimento mondiale che sorga dal basso
e imponga un cambio delle politiche. È l’auspicio espresso dal premio Nobel
Muhammad Yunus, il fondatore della Grameen Bank per i poveri, nel suo in-
tervento al Festival di Trento, invitando i giovani a creare in tutte le università
il movimento dei “tre zeri”: zero povertà, zero disoccupazione, zero emissioni.
Un’utopia, certamente, ma se si considera la velocità di comunicazione attra-
verso i social network e anche la maggiore facilità di dialogo garantita dal pro-
gressivo miglioramento delle traduzioni automatiche, un grande movimento
mondiale, spinto soprattutto dai giovani, potrebbe anche prendere consisten-
za. Già in parte lo si è visto con i Fridays for Future, ma ovviamente sarebbe
necessario dare concretezza alle politiche per raggiungere i tre zeri auspicati da
Yunus.
La seconda ipotesi è un cambiamento delle politiche mondiali a seguito di
qualche catastrofe. È nata così l’attuale impalcatura del multilateralismo: sia la
Conferenza di Bretton Woods che ha definito le caratteristiche del sistema mo-
netario globale, sia la Conferenza di San Francisco che diede vita alle Nazioni
unite, si sono svolte quando la Seconda guerra mondiale era ancora in corso.
Un grande shock potrebbe portare, se non alla nascita di un governo mondiale,
a un rafforzamento dei vincoli multilaterali orientati alla sostenibilità.
C’è poi una terza ipotesi, che ci riporta alle considerazioni inziali di questo
testo. Così come è avvenuto in altri campi, per esempio la finanza, i governi
potrebbero progressivamente affidare la soluzione dei loro problemi alla in-
telligenza artificiale: un processo graduale ma irreversibile. Come AlphaZero
nel gioco degli scacchi, le macchine potrebbero a quel punto ideare soluzioni
diverse dai nostri percorsi logici. Forse risolverebbero i problemi dell’umanità,
ma resta da capire su quali basi etiche e con quale ruolo riservato alla razza
umana.
Questi tre sbocchi a favore della sostenibilità: un grande movimento po-
polare, una crisi globale che costringe a politiche diverse, una nuova razionali-
tà indotta dalle macchine, non sono necessariamente alternativi e potrebbero

114
Donato Speroni Tre scenari di guerra e pace

combinarsi nel corso dei prossimi decenni. Sarebbero comunque una risposta
al degrado o agli scenari peggiori, ma in realtà solo il primo, e cioè una presa di
coscienza dei cambiamenti necessari da parte dell’opinione pubblica mondiale,
per quanto difficile è l’unico pienamente auspicabile.
Se questi sbocchi non si verificheranno, il futuro sarà segnato da guerre e
violenze. Con molte incognite, come abbiamo cercato di spiegare: chi deciderà
i conflitti, con quali criteri verranno gestiti e anche chi li combatterà.

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Could, “Gallup”, 10 dicembre 2018: https://bit.ly/2SEM6D5
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115
Into the Global Monetary System: Past Developments and Future Scenarios

by Oleksandr Sharov

Abstract

Money as an “idea”, as a category of Political Economy, has played a huge role in the
historical processes of Globalization. It was Monetary Globalization, namely the spread
of the cash nexus from the Kingdom of Lydia throughout the Middle East, the Mediterra-
nean, India and China, Europe, Africa and, finally, the Americas, that created a single Net-
work of Economic Relations comparable to the spread of language and writing, actually
making inter-human communication possible. On the other hand, Globalization itself has
also affected the Nature of Money and its functions, ultimately putting on the agenda the
emergence of Global Money. Generally speaking, Future Global Money as an element of
the World Economic Order is directly dependent on where and how the process of Glo-
balization will return in the coming years after a period – the current one – often portrayed
as “de-globalization”. And from how – peacefully or through military means – such a turn
will be made. Thus, the issue of the future of the Global Monetary System is divided into
two components: 1) what will be global money by its essence (actually, Global Money) and
2) in what specific form it will operate (Global Currency). In this article, after analysing
those scholarlarly accounts that foster a return to form of “gold standars”, we will focus on
(i) the latest developments of money exhancges, and (ii) the issue of Global Money. Past
and present developments are fundamental stesps in order to understand possible future
scenario of the Monetary System.

Global Money: Back to Gold?

The first attempt to return to the gold standard took place almost immedi-
ately after the end of the First World War of 1914-18 in the form of General
Agreements of the Genoa Conference of 1922. The second attempt was made,
respectively, after the Second World War – this time, its ideologues intended
to restore the limited form of the gold standard (in the form of the so-called
“gold-dollar” standard): that is, only for one currency (“dollar as good as gold”)
and only for the official monetary authorities). This very principle was the basis
of the Bretton Woods monetary system.
A well-known American economist, Charles Kindleberger (1910-2003;
professor at the Massachusetts Institute of Technology with extensive prac-
Futuri 18 scenari

tical experience in the BIS, the Fed and the State Department), compared
the need to use common money with the need to choose a common language
for communication between people of different nationalities. Of course, one
can use the services of a translator (intermediary), but in international scale,
translation (conversion) will be too burdensome (Kindleberger, 1967). In this
context, Kindleberger compared the French position of returning to the gold
standard to an attempt to return to the general use of Latin – which, of course,
is pleasing to those who love Ancient Rome and the Middle Ages but will mean
swimming against the tide of history.
So, no one had agreed on anything. For instance, just on August 15, 1971,
the US President Richard Nixon had announced on TV his decision to stop
exchanging dollars for gold altogether, even for central banks. The “golden
window” slammed shut. And, the gold-dollar standard was actually over. Yet
it should be noted that not everyone agreed with it at once, even in the United
States itself. Ronald Reagan, for example, while still a presidential candidate
included a clause on a return to the gold standard in his election program. In
fact, after the victory Regan created a special Commission on Gold which care-
fully studied this issue and issued a verdict: a return to the gold standard (in
any form) is not both possible and necessary.
The problem seems to have been finally solved. As a result, for two decades,
talking about the remonetization of gold was almost an issue of “bad manners”.
No wonder Anil K. Kashyap, a professor at the University of Chicago, cited
the gold standard as an ‘insane idea’: “I don’t know any reputable economist
who thinks it’s a wise idea, but it has great political appeal” (Freeland, The
New York Times, 2013). However, projects to return to gold money continue
to appear from time to time and are not always due to economic reasons. In
the New Millennium, the first scientifically sound idea of ​​the gold currency was
expressed at the International Conference on Stable and Just Global Monetary
System (proceedings of the International Conference on Stable and Just Glob-
al Monetary System, 2002), where it was presented in several reports. Among
these, in particular: Gold Dinar, paper currency and monetary stability: an Islam-
ic view, by Mahmood M. Sanusi; The Architecture of the Gold Dinar economy:
an academic perspective, by Umar Ibrahim Vadillo; and Euro and Gold Dinar:
a comparative study of currency unions, by Muhammad Anwar. In this frame-
work, the Malaysian Prime Minister Mahathir Mohammad (known for his crit-
icism of the current global financial system) liked the idea, and soon (in 2006)
gold dinars were put into circulation in Kelantan Province. And yet, the term
“put into circulation” does not accurately reflect the functions performed by
gold coins: they were kept in a bank (in a bank account or simply in storage),
used to pay for “zakat” (i.e., form of religious almsgiving), or (by agreement
of both parties) to pay for real estate. That is, in principle, as gold coins and
ingots are used in other countries as a means of investment. If we do not pay
attention to the special religious function, the “Gold Dinars” are no different

118
Oleksandr Sharov Into the Global Monetary System

from the South African Krugerrands, Russian “Chervonets” or other “bullion


coins”. So, the Gold Dinar project of Mahathir Mohammad, as one can say in
such cases, ended before beginning.
However, this is not the end of the matter, as another well-known “anti-glo-
balist”, ISIS leader Abu Bakr al-Baghdadi, has said that the “Golden Dinar”
should free Muslims from the financial order, which “enslaved and ruined”
them (Chulov, 2014). According to the ISIS-men themselves, if they want ordi-
nary people to buy eggs at the bazaar for gold coins, they will be forced to do
so. But real business will use real money (ibid).
In all cases, it is worth noting that even the optimistic “Golden Bugs” (how
are called supporters of the “gold standard” since the election campaign of
1896 US President McKinley) eventually come to one and of the same conclu-
sion: monetary gold (in coins and ingots) can still be used, but only as a means
of storing value and investment; as well as precious stones, securities, and, after
all, works of art. Though, such conclusions do not preclude new and new at-
tempts for the restoration of the gold standard.
Reflecting on the new situation in connection with the war against Ukraine
and the West, which was launched illegally by Russia, E. Colombatto speaks
about the possibility of “creating a solid, commodity ruble, in contrast to its
current fiat status. A hard ruble might be the best way to boost Russia’s pres-
tige, curb inflation, and meet Russian expectations of a stable currency, as it did
in Soviet Russia when Lenin introduced the gold ruble in October 1922”. But
he wonders: can oil or gas replace gold as a commodity standard? Could this
pave the way for other commodity-based currencies, such as the Chinese yuan?
A hard ruble would probably be a partial internal success, but only if it were
really hard are gold coins that individuals can keep and possibly hide. Liquid
rubles – certificates (paper money) backed by oil and gas will not work because
people will not trust the obligation to convert paper into gold, let alone gas or
oil. As for the “gold currency” we have already paid enough attention to its
“prospects”. And as Colombatto rightly points out, “in truth, we can conclude
that recent international tensions have probably killed all large-scale projects
for the golden yuan”. Just like the “gold dinar”, “gold ruble”, or other “gold
currency” (Colombatto, 2012).
But all explanations as for absence not only the impossibility, but, most im-
portantly, the lack of need to restore any form of gold standard seem futile. The
desire of neophytes to return to the “Golden Age” is like the naivete of first
love: no matter how many adults warn of its transience, the youngsters believe
that it is forever... And it’s great! In other words: we will not convince anyone
otherwise. Thus, one can compare the role of gold in modern conditions with
an old paraffin lamp, which lies somewhere in the Upper Storey in case of
Global Power outages. However, there is nothing wrong with new researchers
mentioning it and dreaming of a better Monetary System: over time, they will
still realize that achieving this goal is not about the Past, but about the Future.

119
Futuri 18 scenari

It is a pity only when politicians whose decisions the future of many people
depends on spend time on adapting a “paraffin lamp” instead of adjusting elec-
tricity.

Securitization of Money, or “Strange Money”

Meanwhile, there is no indication that the modern economy has exhausted


the possibilities of Credit as the main engine of economic activity, and even
more so, shows a tendency to return to simple forms of trade. This means that
Credit continues to be the main driving force of the entire economic process
and it continues to be the basis of Modern Money. Moreover, the development
and complication of credit relations lead to the emergence of new financial
instruments with monetary characteristics.
Actually, it is possible to see both the increase of quantity in the financial
sector and, at the same time, a qualitative increase in its value within the overall
economic system. Important is also the Securitization of Money by expand-
ing the performance of certain monetary functions (especially payment and
accumulation) to “moneyness” securities. For instance, Compound Derivatives
have been created to reduce the Riskiness of Market operations in conditions of
uncertainty and high Price Volatility. However, not all experts were convinced
of this role of Derivatives. In particular, Susan Strange argued that the Deriv-
atives boom had, in fact, made the system as a whole more volatile and prone
to Crisis. So, when such a Crisis began in 2008, another British expert, Nigel
Dodd (a professor at the London School of Economics), called the toxic assets
that detonated the “explosion” of the crisis the “Strange Money”. Dodd did
not mention financial derivatives directly but drew attention to the connection
between the financial and monetary systems – which S. Strange constantly em-
phasized – and the fact that, in his opinion, banks create not so much money as
risks (Dodd, 2011).
Surprisingly, some researchers are paying attention to Stocks and Bonds,
ignoring Financial Derivatives, which, in our opinion, are still more suitable
for this category. At the same time, derivative financial instruments are a form
of “quasi-money”, which leads to the conclusion that “monetary policy has lost
some influence on national liquidity conditions”. However, central banks have
superior information and «a broader and far more meaningful overview than
individual investors and, central banks can still exercise strong leadership on
financial markets» (Haiss and Sammer, 2010).
This potential is also confirmed by the development of operations with fi-
nancial derivatives by the central banks themselves. Thus,

for monetary transmission in emerging markets, the impact of derivatives on the


money channel is ambiguous because of the impact of the higher speed of tran-

120
Oleksandr Sharov Into the Global Monetary System

smission offset by the greater possibility of unstable financial inflow independent


of the central bank monetary stance. (…) In addition, central bank could become
active in incorporating signals from the derivative markets into monetary manage-
ment to reinforce consistency between monetary policy and market expectations
(Morales, 2001).

Financial innovation impact on the market structure and behavior of the


central banker, and the process of developing financial markets goes hand in
hand with the process of changing monetary theory and policy. The existence
of a certain influence of financial derivatives on monetary policy is uncondi-
tional, however, by and large, the question is whether to recognize derivatives
as de facto new money. According to D. Brian and M. Rafferty, derivatives are,
in essence, “behind the scenes” money, which ensures that different forms of as-
sets (and money) are not commensurate by government decree (for example, a
fixed exchange rate), and with the help of competing forces. That is, derivatives
merge the categories of capital and money: they provide additional liquidity to
the capital markets by making all assets look like money, and on the other hand,
they represent money itself as capital. Thus, the result is the elimination of
the difference between the sphere of production of goods (the so-called “real
economy”) and the monetary economy (Bryan and Rafferty, 2007). This view
could, in fact, arise if one would treat derivatives as a counterbalance to the mass
of commodities that play the role of their underlying assets. However, there is no
real balancing of the number of derivatives and the volume of at least the cor-
responding underlying assets (even taking into account the speed of circulation
of financial instruments).
In general, when considering this issue, it is necessary to start from the
existence of two definitions of “monetary base”: functional and instrumental.
The “functional” definition is based on the fact that the Monetary Base consists
of those assets the function of which allows to provide mandatory or excessive
provisions in the central bank; that is, those that can be used to make financial
transactions – Cash and Demand Deposits. Instead, the “instrumental” defini-
tion describes the monetary base in the form of specific financial instruments
– Banknotes and Treasury bills, Cheques, Postal/Savings contributions, and so
on.
The issue of the relationship between derivatives and the money supply
was once the subject of a special study by a group of experts from the Bank for
International Settlements (Hannoun Report), which pointed out the increasing
use of derivatives can services, either by transforming non-monetary financial
assets that carry price risk into closer substitutes for traditional (risk-free) mon-
ey, or a combination of both. Summing up, the researchers argue that

the existence of derivatives provides some opportunities which tend to reduce the
demand for cash balances. At the same time, the growing use of these instruments

121
Futuri 18 scenari

may increase money demand, making it difficult to assess the net impact. However,
neither theoretical reasoning nor available empirical evidence strongly support the
view that any single combination of the impacts analysed above should lead to a
significant change in the demand for narrowly defined money (Bank for Interna-
tional Settlements, 1994).

At about the same time, a group of American scholars also studied the ef-
fects of derivatives on the regulatory function of central banks and concluded
that “derivatives have no negative impact on central-bank control over mone-
tary aggregates. Nonetheless, to the extent that derivatives act to complete mar-
kets and provide information through more explicit prices, they may make it
more difficult for a central bank to surprise the public” (Hentschel and Smith,
1996).
They assumed that if commercial banks regularly used derivative markets
to hedge their risks on interest rates, foreign exchange rates and commodity
prices, then the desired level of excess reserves in the banking system would
be lower than it could be without the derivatives market. Thus, with the in-
crease in the use of derivatives, voluntary excess reserves will decrease, and in
turn will provide banks with more opportunity for credit issuance – i.e. will
increase the Money Multiplier. But the purpose of central banks, under such
conditions, is to ensure that commercial banks’ access to derivative transac-
tions reduces the volatility of the Monetary Multiplier (since the Central Bank’s
ability to conduct its own Monetary Policy is limited mainly by the volatility of
the multiplier, not its level). Such a reduction would increase effective control
over the money supply by the central bank. In other words, the experts’ con-
clusions were evasive, but generally reassuring (as we also see in the case of
cryptocurrencies), which was reflected in the IMF statistics, which suggested
including financial derivatives in the broader definition of money (M3), but did
not recommend doing so, believing that “their high degree of price variability
precludes the inclusion of most types of financial derivatives in broad money”
(IMF, 2000). However, later on the International Monetary Fund seems to have
made up its mind and is already clearly insisting that “financial derivatives…
are excluded from broad money” (IMF, 2016). However, according to O. Bierg,
money is never just money because it is characterized by a certain ontological
uncertainty, and any monetary system is characterized by the interaction and
transformation of various forms of money. So, in modern conditions, financial
markets act as repositories for the circulation of Post-Credit Money issued by
certain international banks (Bjerg, 2014).
Finally, it should be noted that cryptoassets are also increasingly being
treated as a kind of virtual securities and from this point of view, the option of
securitized money takes on a new form.

122
Oleksandr Sharov Into the Global Monetary System

Big Data Money and the Futures of Money

By the time we are writing, the World Monetary System continues to change
with unprecedented pace. As Benjamin S. Cohen noted, there are fewer and
fewer monetary imaginary landscapes accurately represented by the outdated
myth of One Nation/One Money. Today, monetary geography is better under-
stood in functionality than in material terms – that is, in currency spaces based
on flows (flow-based) rather than tied to a specific place (Cohen, 1998). This
suggests that the Monetary system of Post-Modern Globalization may be based
on a completely different principle than Monetary Sovereignty. That is, it may
not only not grow into “Super-Sovereignty”, but be based on the Network prin-
ciple in general, when the concept of Sovereign State completely disappears
and is replaced by Self-sovereign identity (SSI) – i.e. digital identifiers that are
managed in a decentralized way. This technology allows users to independently
manage their digital IDs, regardless of third-party vendors for storage and cen-
tralized data management. It opens up completely new opportunities for the
transfer of Property Rights in the broadest sense. In other words, these are new
opportunities for members of the Network Structure to create and transfer Money
without any intermediaries.
It turns out that a New Society of the Blockchain Technology is a Society
without information asymmetry and confidence. Thus, the Developers of Bit-
coin believed that the presence of an intermediary in the e-commerce system is
not only economically inefficient due to significant transaction costs, but also
unnecessary, because the problem of fraud is still not solved. Therefore, it was
concluded that an Electronic Payment system is needed, used to be based not
on trust in the Issuer of Money and the Monetary Regulator, but on clear cryp-
tographic proof of the authenticity of transactions. Blockchain experts argue
that large amounts of Data are very difficult to structure on their own and, even
more so, to operate on, but there are companies that know how to do it and
thus, monopolize Information; there are also Governments that collect and
consolidate Information about different actors, undermining all the founda-
tions of Confidentiality and Monopolies. We can say that the use of cryptocur-
rencies has been an attempt to circumvent the current and fundamental shortcom-
ings of State institutions and Financial Markets (Monopoly), which looks like an
Open Opposition to these Institutions.
One of the motives for the introduction of such a Means of Payment as Bit-
coin is direct, anonymous trade, in which the Parties have every opportunity to
directly settle via the Internet all the basic components of the agreement in the
shortest possible time. Thus, theoretically, Bitcoin settlements will have max-
imum Liquidity. However, a high-ranking Bundesbank official (K.-D. Thiele)
argues that “virtual currencies, meanwhile, which are transferred much like
goods, are a fabrication. That is not to consign them straight to the category
of ‘fraud’. Yet they have no intrinsic value, just an exchange value. You can’t

123
Futuri 18 scenari

consume or use them, only exchange them” (Thiele, 2017). But the actual Con-
sumer Value of Money (which determines their Value) is their Suitability for
Exchange (the ability to be a Monopoly Commodity Equivalent). That is, their
Exchange Value is their Consumer Value, which is a hidden “Golden veil” in the
functioning of Commodity Money but is clearly visible in the system of Credit
Money. Thus, the lack of Intrinsic Value can hardly be considered a serious argu-
ment against converting virtual Digital Money into Real and even Global Money.
Another thing is that their existing modern forms have real shortcomings that
hinder this process. These shortcomings have been repeatedly pointed out by
experts: the principle of its Issue (its creation), which is not related to the real
needs of the Economy; speculative Exchange Rate volatility; uncertainty of the
Issuer, and hence lack of responsibility for the issued funds; dependence on the
availability of electronic information network (in particular, the Internet), etc.
Paradoxically, the new form of Money does not seem to be based on trust
in the Issuer (as Credit or Fiat Money do), but on distrust of traditional Issuers
such as Governments and Central banks. In other words, it is based on “Neg-
ative Trust”, a kind of illogical, unfounded belief that because, according to
“crypto-optimists”, the official Monetary Authority has lost all trust, any alter-
native to official Money is better and more reliable.
The main problem with the Future of Money is that Money itself is becom-
ing technology. This is the technology of payments, as well as a Store of Val-
ue. Money provides a less reliable payment system than new technologies. But
Digital Currencies also have many disadvantages due to the way the Financial
System is regulated. However, these problems do not arise due to the imper-
fection of technology, but due to the System of Regulation and restrictions on
Monetary Technology. It is as if we have reached the “end of history” as soon
as we talk about developing ways to create Money and put it into Circulation.
Because few Governments tend to imagine Monetary Systems different from
the current ones, Monetary Issues are quickly reduced to pragmatic realism,
in which the existing order is given the right to determine the conditions of its
own support, and politicians are willing to reduce themselves to simple admin-
istrators working for assistance to the system under these conditions (Bjerg,
2014). A Special Report by the European Chapter of the Club of Rome (a
non-governmental organization affiliated with the well-known Club of Rome),
points to the existence of certain problems that fall out of the Mainstream
economy (a kind of collective blind spot), which include: i) the hegemony of the
idea of ​​a single central currency; ii) a monopoly on the national currency cre-
ated by banks’ debt – i.e. Credit Money, and iii) the existence of central banks
as Performer of the Monetary Monopoly. These three “blind spots” explain
why there is such a strong and lasting resistance to revising the paradigm of a
single, monopolistically created currency (Lietaer, Arnsperger and Goerner,
2012). However, over time, the above-mentioned shortcomings can be elimi-
nated in new modifications of the Digital Currency, and Network Actors will

124
Oleksandr Sharov Into the Global Monetary System

significantly displace the Traditional Actors of the Global Economy – that is,
the State and even Multinational Corporations and Banks. And then the time
will come for Global Digital Money.
Concluding, the probability of these Options – in our opinion – will be de-
termined by the course of Economic Globalization: a significant setback (due
to, for example, Natural or Social Catastrophe on a Global Scale), in principle,
may lead to the need to return to Commodity Money (gold). But if we remain
optimistic about the possibility of Apocalyptic Developments, we must recog-
nize the inevitability of Credit Money (considering their qualitative develop-
ment). Instead, we intend to emphasize the relativity of such “No Alternative”
situation, given the Medium-Term (within one to three decades) nature of such
a Monetary status quo. Outside this period (and with the slowdown in Globali-
zation) there will be irreversible processes of Digitalization of the Monetary
Area, which will change the Essence of Money, leading to a new form of Mon-
ey: Information Money.

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126
La crisi dell’immaginazione storica.
Trasformazioni climatiche, memorie sovversive e futuri alternativi

di Andrea Apollonio

Abstract

Accelerated climate change produces disruptive repercussions on the way we expe-


rience the historical process. The regime of historicity that seems to permeate discourses
and semantics about these transformations holds us to the narrow perspective of a sterile
present. How can we emancipate ourselves from this disposition that tremendously limits
our ability to re-imagine ourselves, our economic behaviour, our models of political organi-
zation? The article intends to explore these ideas, dialoguing with an illustrious predeces-
sor – Paul Valéry – and assessing the possible horizons opened up by this critical juncture.

“L’intera storia umana, nella misura in cui è la manifestazione del pensiero, è stata
forse soltanto l’effetto di una specie di crisi, di una spinta aberrante, paragonabile a
una di quelle brusche variazioni che si possono osservare in natura e che scompaiono
altrettanto stranamente di come sono nate? Vi sono state specie instabili, e certe
mostruosità quanto a dimensione, potenza, complicazione, le quali non sono durate.
Chi può dire se tutta la nostra cultura non è in realtà un’ipertrofia, una deviazione,
un insostenibile sviluppo, che un centinaio o due di secoli sono riusciti a produrre ed
esaurire?” Questa è senza dubbio una teoria piuttosto esagerata, che esprimo qui uni-
camente per farvi provare, in maniera forse un po’ grossolana, tutta la preoccupazione
che possiamo avere riguardo al destino dell’intelletto. Ma è troppo facile cercare di
giustificare i propri timori.
(Valéry, 1994)

La grande accelerazione

Vorrei subito esprimere l’idea attorno alla quale ruotano questo articolo e
le riflessioni degli autori che interpello: le trasformazioni climatiche accelerate
imprimono pressioni importanti sul nostro modo di fare esperienza dei tempi
storici e di agire in essi.
Prima di sviluppare questa idea, vanno fatte alcune premesse relative al
rapporto tra cambiamenti climatici e l’idea di crisi. Tali trasformazioni, infatti,
sono incubatrici di crisi molteplici: crisi planetaria in senso lato, se si conside-
ra che le previsioni più negative riconoscono in questi processi un’alterazione
delle condizioni base per la sussistenza della vita sulla terra; crisi dell’ideologia
Futuri 18 scenari

dello sviluppo, poiché tradiscono le promesse velleitarie del progresso come


sviluppo e consumo illimitato per tutti; crisi del sistema nazionale, poiché la
grande accelerazione rivela la fragilità del quadro organizzativo e del principio
responsivo degli stati nazionali, incapaci, se divisi, di rispondere efficacemente
alle trasformazioni ecologiche e alle altre sfide del mondo globalizzato (Spol-
tore, 1992).
Il mutamento climatico infrange il sogno prometeico di dominio della natu-
ra di una particolare costellazione culturale, la modernità occidentale1. Quindi,
secondo diversi autori, inibisce la persuasività e la capacità orientativa di me-
tanarrazioni e cosmologie dicotomiche (Descola, 2005; de Castro, 2019; La-
tour, 2020). Gli umani riscoprono l’impatto geologico della loro operosità e
ritrovano nella “natura” soggettività e forze agentive imprevedibili, caotiche.
In questo senso, il popolo dei moderni assiste alla messa in discussione de-
finitiva della sua ontologia, il naturalismo (Descola, 2005) che, attraverso una
rigida dicotomia tra natura e cultura, ipostatizza la differenza tra umani e non
umani attribuendo ai primi soggettività, agentività, intenzionalità, riflessività e ai
secondi oggettività, disponibilità e inesauribilità. Seguendo questa impostazione,
tale dicotomia va inequivocabilmente ripensata di fronte all’irruzione definitiva
di una «trascendenza che pensavamo di aver trasceso e che ora ritorna più forte
che mai» (Danowski e de Castro, 2017). Beninteso, si tratta, in questo senso, di
una crisi assolutamente “nostra”. A dimostrazione di ciò, l’archivio etnografico
dell’antropologia ha registrato molti casi di gruppi socioculturali abili a valoriz-
zare le interdipendenze tra umani e non-umani e ad attribuire ai secondi sogget-
tività e intenzionalità, rendendo intima e familiare la relazione con l’ambiente,
con l’atmosfera e con la sua imprevedibilità (Van Aken, 2020; de Castro, 2019).
In sintesi, stiamo riscoprendo l’inadeguatezza delle nostre categorie di pensie-
ro, incapaci di cogliere e interpretare i fenomeni in atto. Ovvero, tra struttura
(mondo, realtà, fenomeni) e semantica (linguaggio, concetti) si è manifestato uno
scollamento che solo il tempo, forse, potrà ridurre (Koselleck, 2009).
Queste trasformazioni, che compongono davanti ai nostri occhi un orizzon-
te cataclismico, si spiegano secondo la categoria di “crisi come decisione ulti-
ma” (Koselleck, 2009), quindi non crisi come momento dialettico di passaggio
o concetto periodale iterativo; né crisi come crisi permanente; ma crisi come
preludio di una potenziale catastrofe definitiva per il mondo sociale, momento
apocalittico di una scelta irrevocabile.
La ragione dell’enfasi con la quale si associa l’idea di “crisi definitiva” a
queste trasformazioni non va ricercata tanto nei “cambiamenti climatici” in sé,
quanto nella qualità dell’ “accelerazione” 2, relativa al superamento repentino
1
La “modernità” è una costellazione storica, culturale e materiale che non si presta a definizioni
chiare ed univoche; essa va intesa come plesso fenomenico, contenitore di tendenze molteplici, tal-
volta contradditorie e paradossali (Jedlowski, 2001). È anche alla luce di questa qualità che si spiega
la parziale incongruenza concettuale dei diversi tentativi di definizione.
2
Il tema dell’accelerazione, nel senso di una velocizzazione dei ritmi della vita, è stato indagato

128
Andrea Apollonio La crisi dell’immaginazione storica

dei valori critici dei parametri ambientali (Danowski e de Castro, 2017) e a un


processo di sfasamento temporale, che in fondo è l’aspetto che rende davvero
perturbanti (Van Aken, 2020), inafferrabili e incomunicabili questi processi. Le
precisazioni fatte sino ad ora, in particolare le idee di “orizzonte cataclismico”
e di “crisi come decisione ultima”, ci inducono a pensare che si tratti di feno-
meni assolutamente inediti; in parte, ovviamente, lo sono.
Tuttavia, per sviluppare in modo originale le nostre considerazioni, credo
sia utile rivolgersi a un predecessore illustre, ragionando in modo analogico.
Paul Valéry, poeta e intellettuale francese, vive a cavallo dei secoli XIX e XX;
più precisamente, vive tra la fine della guerra franco-prussiana (1871) e la fine
della seconda guerra mondiale (1945). Si tratta, evidentemente, di un’epoca
totalmente “altra”. Ciononostante, in una conferenza per l’Université des An-
nales il 16 gennaio 1935 l’autore registra una “crisi dell’accelerazione” che, per
certi versi, ricorda la nostra. Nella relazione, intitolata Le bilan de l’intelligence,
ma anche in alcuni scritti precedenti, che si situano tra il 1919 e il 1935, il poeta
si interroga sulle ripercussioni del boom tecnologico e industriale su quella
che lui chiama in modo piuttosto allusivo “intelligenza”, che io, consapevole
di non essere un buon esegeta, interpreto come capacità creativa, immaginifica
e progettuale dell’intelletto umano, anche in senso politico3. Parla di un’altra
epoca, in un’altra epoca, a un’altra epoca. Riflette sul grande progresso scienti-
fico, intellettuale, quindi tecnologico che produce un’accelerazione tremenda e
disorientante nei primi decenni del XX secolo: l’avvento della società di massa,
l’elettrificazione dei centri urbani.
Il lettore potrebbe pensare che nell’accelerazione di cui è testimone Valéry
manchi l’orizzonte cataclismico e che questa mancanza la renda irrimediabil-
mente diversa dall’accelerazione di cui facciamo esperienza oggi. Questo dub-
bio è, almeno in parte, infondato, se si considera che quelle trasformazioni
tecnologiche e sociali si collocano sullo sfondo di una guerra passata e di una
guerra incombente, i cui segni politici premonitori sono evidenti; della tecno-
logizzazione del settore bellico, fenomeno che pochi anni dopo avrebbe pro-
dotto l’incubo della proliferazione delle armi di distruzioni di massa; nonché

approfonditamente dal sociologo e filosofo Hartmut Rosa come regime del tempo proprio della mo-
dernità e della tarda modernità. Più precisamente, l’autore sostiene che essa sia la qualità precipua,
pervasiva e “totalitaria” dei ritmi sociali nella modernità occidentale. Tale qualità si traduce in una
profonda riconfigurazione delle convenzioni sociali legate al tempo e produce forme di alienazione
temporali, spaziali, ma anche relative alla percezione di sé e degli altri; essa corrompe le vite indivi-
duali allontanandole da un ideale di “vita buona” (cfr. Rosa, 2015).
3
Sono diversi i passaggi degli essais quasi politiques, anche precedenti alla conferenza del 1935,
nei quali il poeta allude a questa capacità immaginifica e progettuale distintiva degli esseri umani:
«L’uomo è quell’animale separato, quello strano essere vivente che si è opposto a tutti gli altri, che si
innalza al di sopra di tutti gli altri grazie ai suoi…sogni, grazie all’intensità, alla concatenazione, alla
diversità dei suoi sogni! Grazie ai loro straordinari effetti che modificano addirittura la sua natura e
non solo la sua natura, ma anche la natura stessa che lo circonda e che egli cerca instancabilmente di
sottomettere ai suoi sogni.» (Valéry 1994, p. 41)

129
Futuri 18 scenari

della progettazione e dell’edificazione di “razionali” e disumani “dispositivi di


annientamento” (Mantegazza 2001), i campi di sterminio. Ad ogni modo, leg-
gendo il testo di questa conferenza si ha l’impressione che, mutatis mutandis, in
diversi passaggi Valéry parli anche a noi; che parli del nostro secolo, dei nostri
tormenti. Vale la pena condividere alcuni frammenti, così da proiettarci nel
tema con l’ausilio di alcune analogie.

(…) possiamo constatare in tutti i campi un disordine di cui non è possibile im-
maginare la fine. (…) Questo stato che chiamavo “caotico”, è l’effetto combinato
delle opere e del lavoro accumulato dagli uomini. Esso dà l’avvio sicuramente ad
un certo futuro, ma ad un futuro per noi impossibile da immaginare; ed è questa,
fra le altre novità, una delle novità più grandi. Partendo da ciò che sappiamo, non
possiamo più dedurre una qualsiasi immagine del futuro alla quale possiamo con-
ferire la minima credibilità. (Valéry 1994, pp. 103-104)

Insomma, abbiamo il privilegio – o l’interessantissima sfortuna – di assistere ad


una trasformazione profonda, rapida, irresistibile, di tutte le condizioni dell’azione
umana. (Ivi, p. 107)

Valéry non fu scienziato sociale; tuttavia, certamente intercettando timori


che attraversavano gli ambienti intellettuali europei dell’epoca, ma anche in
virtù della sua sensibilità poetica, mi sembra sia stato in grado di percepire e
di registrare le inquietudini più profonde e embrionali del suo tempo, ancora
non apertamente dispiegate, che somigliano alle nostre. Si rilevano, nelle sue
parole, due enormi temi che si ricollegano al nostro secolo e che, io credo, sono
due facce della stessa medaglia: il tema dell’accelerazione e il tema della crisi
del tempo.
Il tema dell’accelerazione riguarda il carattere repentino delle grandi tra-
sformazioni che investono anche l’Europa di inizio XX secolo, così repentino
da non lasciarsi governare, né concettualmente né politicamente. Questo aspet-
to mi pare richiami l’esperienza che facciamo delle trasformazioni climatiche
accelerate. Esse sono difficilmente afferrabili, concettualmente e politicamen-
te; ma anche difficilmente comprensibili, narrabili. Di fronte ad esse, ritengo
che siano tre gli atteggiamenti più diffusi: in primo luogo, prese di posizione
tecniciste ed emergenzialiste; in secondo luogo, l’ostinato diniego del fenome-
no; infine, l’accettazione passiva della condanna cataclismica. Qui veniamo al
secondo tema: la crisi del tempo e il futuro inimmaginabile. Anch’esso ci ricon-
duce all’esperienza di noi contemporanei. Mi sembra, più precisamente, che
queste trasformazioni ambientali accelerate, che producono immensi riverberi
sul piano politico e sociale, inneschino una crisi della capacità dei gruppi so-
ciali di pensarsi nel tempo storico e di immaginarsi in questa accelerazione. Per
usare un’espressione più chiara, potremmo definire questo stato “crisi dell’im-
maginazione storica”.

130
Andrea Apollonio La crisi dell’immaginazione storica

Per riassumere: da un lato si assiste a una grande accelerazione, quella delle


trasformazioni climatiche; dall’altro, si osserva un grande stallo: la nostra inca-
pacità di proiettarci, assieme a questa accelerazione, nel futuro. Due paiono le
fondamentali “immagini dell’avvenire” a cui ci riconducono questi fenomeni, e
assieme costituiscono una condizione di impasse: o un futuro umano che esclu-
de queste trasformazioni – un futuro impossibile – o un futuro in un mondo
alterato, che non appartiene più agli umani e viceversa – un futuro indesidera-
bile. Tertium non datur.

La crisi dell’immaginazione storica

Non guardiamo più il passato come un figlio guarda il proprio padre, dal quale
può imparare qualcosa, ma lo guardiamo come un uomo adulto guarda un bambi-
no… (Valéry 1994, p. 104)

La nostra particolare novità consiste nel carattere inedito dei problemi stessi e
non nella loro soluzione; negli enunciati e non nelle risposte. Da questo deriva la
sensazione generale di impotenza e di incoerenza che domina nelle nostre menti,
che le doma, e le mette in uno stato di ansia al quale non possiamo abituarci e del
quale non possiamo prevedere la fine. Da un lato, abbiamo il passato che non è né
abolito né dimenticato, un passato dal quale non possiamo trarre quasi nulla che ci
orienti nel presente e ci permetta di immaginare il futuro. Dall’altro lato, abbiamo
un futuro privo di qualsiasi figura. (Valéry 1994, p. 108)

L’immagine che Valéry propone per descrivere la sua esperienza dei tempi
storici – sua e dei suoi contemporanei – è straordinariamente efficace. Questa
immagine mi sembra racconti molto anche del nostro rapporto (di noi occi-
dentali contemporanei) con le transizioni epocali che osserviamo. Il passato
non offre alcuna risorsa per interpretare un fenomeno sostanzialmente inedito
(l’alterazione quasi irrimediabile delle condizioni base per la sussistenza della
vita sulla Terra) e il futuro, di fronte a questa catastrofe definitiva, pare inim-
maginabile, privo di qualsiasi figura.
La grande accelerazione indotta da queste trasformazioni imprime riverberi
sul nostro regime di storicità. Si tratta di un concetto formulato da François
Hartog che designa il tipo di legame che una società intrattiene con il passato,
il presente e il futuro; in senso lato, la modalità di coscienza di sé di una comu-
nità umana in rapporto ai tempi storici (Hartog, 2007). Nei termini di Reinhart
Koselleck, invece, potremmo definire il regime di storicità come la specifica
configurazione sociale del rapporto tra esperienze passate e orizzonte delle at-
tese (Koselleck, 2007). Pur trattandosi di un concetto da usare con cautela,
considerato il livello di generalizzazione, e pur ammettendo la compresenza e
la sovrapposizione sincronica di più regimi, esso rimane uno strumento concet-

131
Futuri 18 scenari

tuale e metodologico utile per rilevare le trasformazioni dominanti nel modo di


esperire il tempo storico in un dato contesto socioculturale (Calligaro, 2015).
François Hartog spiega che l’esperienza contemporanea dominante del
tempo è quella del presentismo, di un presente perpetuo: «Tutto avviene come
se non vi fosse che il presente» (Hartog, 2007). Il concetto indica una disposi-
zione sociale (e scientifica) verso i tempi storici che privilegia il punto di vista
del presente a scapito del passato e del futuro, non più riconosciuti come oriz-
zonti di trascendenza. È l’ipertrofia del presente, sua estensione e tracimazione
nei regni del passato e del futuro; ovvero, un presente tracotante rispetto al
quale passato e futuro sono funzionali (Hutton, 2005). Paul Connerton giunge
a conclusioni simili nella sua diagnosi delle specifiche modalità di oblio della
società moderna e tardo-moderna e riconduce l’esperienza contemporanea del
tempo (tanto autobiografico quanto storico), quella dell’iperpresente, a una
condizione di sovrainformazione. Si tratta, nella sua prospettiva, di una dimen-
sione strabordante che svuota di senso il passato e il futuro, alterando la me-
moria culturale con l’eccesso di informazioni, stimoli e mobilità, e rendendo in-
concepibile una coerenza storica a lungo termine (Connerton, 2010; Jedlowski,
2001). In questo senso, l’aumento esponenziale di pratiche memoriali e di ri-
flessioni accademiche sulla memoria collettiva che avviene a partire dagli anni
Ottanta del secolo scorso è il sintomo di un paradosso che segna il nostro stato:
da una parte, la proliferazione di forme di cultura ipermnesica (pratiche di
patrimonializzazione e commemorazione, ossessioni archivistiche); dall’altra,
il carattere postmnemonico delle strutture del tempo della politica economi-
ca contemporanea (la temporalità del consumo, delle carriere lavorative, della
produzione di informazione), che, paradossalmente, genera sistemicamente le
prime (Connerton, 2010).
Lo storico francese Pierre Nora ha espresso considerazioni complementari
riflettendo, a metà degli anni Ottanta, sul tema dell’accelerazione della storia
e sulla fine della memoria come tradizione vitale4: «Si parla tanto di memoria
perché essa non esiste più» (Nora, 1984). Nella prospettiva di Hartog (2007), il
cosiddetto memory boom è sintomo del progressivo rafforzamento egemonico di
un regime di storicità presentista, quindi di una disposizione sociale verso i tempi
storici per la quale passato e futuro sono funzionali alla definizione di un presente
ipertrofico. Più in generale, secondo l’autore, il passaggio da un regime di storici-
tà “futurista”, votato all’idea di progresso, che emerge con e dopo la Rivoluzione
francese, all’egemonia di un regime presentista va collocato parallelamente ai fe-
nomeni di crisi del sistema nazionale europeo, dell’eurocentrismo e del naziona-
lismo come orizzonte di trascendenza che identifica nel passato un mito delle
origini e nel futuro un telos a cui tendere (Calligaro, 2015).

4
Tale dinamica, secondo l’autore, caratterizza il XX secolo e obbliga i soggetti e le collettività
a vivere una condizione di un presente che subito si fa storia, di contemplazione malinconica del
passato e di attesa ansiosa del futuro (Di Pasquale, 2018)

132
Andrea Apollonio La crisi dell’immaginazione storica

È forse il passaggio critico i cui prodromi sono colti da Paul Valéry quando
scrive i suoi primi essais quasi politiques, in particolare “La crise de l’esprit”,
due lettere pubblicate nel 1919:

Un brivido incredibile ha percorso le vene dell’Europa. Essa ha sentito, attraverso


tutti i suoi nuclei pensanti, che non si riconosceva più, che cessava di assomigliare
a se stessa, che stava per perdere coscienza, una coscienza acquisita, dopo secoli di
disgrazie sopportabili, grazie a migliaia di uomini di prim’ordine, grazie alle innu-
merevoli circostanze favorevoli della sua geografia, della sua storia, delle sue razze.
(Valéry 1994, p. 28, prima lettera)

L’Europa diventerà forse quello che è in realtà, e cioè un piccolo capo del conti-
nente asiatico? Oppure l’Europa rimarrà quello che appare, e cioè la parte prezio-
sa dell’universo terrestre, la perla della sfera, il cervello di un vasto corpo? (Valéry
1994, p. 35, seconda lettera).

Vengo al punto: questo slittamento del regime dominante di storicità nel


contesto socioculturale occidentale oggi subisce ulteriori riverberi, in partico-
lare se si considera la semantica delle trasformazioni climatiche che viviamo.
Se il presentismo è caratterizzato dall’autoreferenzialità del presente, di fron-
te alla grande accelerazione contemporanea assistiamo a una ancora maggiore
ipertrofia di questa dimensione. L’esperienza dei contemporanei pare assoluta-
mente svincolata da ogni legame con il passato. Il futuro non scompare ma non
evoca più ideali di progresso; appare minaccioso, oscuro, incomprensibile; nel
caso delle trasformazioni climatiche, cataclismico.
Deborah Danowski e Viveiros de Castro registrano questo slittamento nella
disposizione verso i tempi storici in riferimento alle trasformazioni climatiche
accelerate. Secondo gli autori «il futuro cessa di essere fatto della stessa materia
del passato, diviene radicamente altro, “non nostro”, un tempo che esige la
nostra scomparsa per poter apparire» (Danowski e de Castro, 2017). Viviamo
il tempo di un’accelerazione che obbliga a confrontarci con un futuro impre-
vedibile. In questa prospettiva, la nostra esperienza sociale del tempo rimanda
a quella che gli antropologi evoluzionisti, talvolta commettendo tremende ge-
neralizzazioni, associavano alle cosiddette società primitive: chiuse all’avveni-
re, prive della consapevolezza della loro trasformazione, costituite in funzione
della loro riproduzione.
La crisi in atto è, da questo punto di vista, crisi della capacità di pensarsi di-
versi, di sognare altri futuri, di immaginare non un altro mondo, ma «un nuovo
popolo» (Danowski e de Castro, 2017). Parafrasando la proposta concettuale
di Arjun Appadurai, potremmo dire che si tratta della crisi della capacità di
aspirare; una specifica capacità culturale che non è semplicemente individuale.
Secondo l’antropologo, «le aspirazioni fanno parte di idee etiche e metafisiche
più ampie che derivano da norme culturali più vaste […] non sono mai sem-

133
Futuri 18 scenari

plicemente individuali. Si formano nell’interazione e nel vivo della vita sociale»


(Appadurai, 2004).
Dimitri D’Andrea, ragionando sui fattori cognitivi, antropologici e istitu-
zionali che ostacolano l’adozione di comportamenti e norme per la gestione
delle trasformazioni climatiche accelerate, identifica come aspetto determinan-
te l’incapacità dei contemporanei di emanciparsi dall’immagine del mondo5
della modernità per la sua seduttiva performatività economica e materiale, no-
nostante il suo fallimento sia un fatto inequivocabile (D’Andrea, 2021). Alla
luce del presente discorso, possiamo suggerire che la permanenza di questa
immagine del mondo, di questa disposizione sociale al mondo ancora troppo
moderna, non derivi più solo dalla sua capacità seduttiva; al contrario, essa
persuade sempre meno. Ma dall’impossibilità, di fronte ad un orizzonte cata-
clismico collettivo, di pensare ad altro; o meglio, di costituire un nuovo popolo.
Questa condizione mi sembra venga colta anche da Hartog: «Questo presenti-
smo non è, o non è più, il nostro. Noi, al contrario, non cessiamo di guardare in
avanti e indietro, ma senza uscire da un presente di cui abbiamo fatto il nostro
solo orizzonte» (Hartog, 2007). Potremmo chiamare questa disposizione, che
a mio avviso connota l’atteggiamento dominante nell’interpretazione della tra-
sformazione e dell’accelerazione che viviamo, “presentismo sterile”.

Oltre il presentismo sterile

Dinanzi ai nostri occhi pare stagliarsi un orizzonte cataclismico e, innegabil-


mente, le condizioni di un cataclisma si stanno disponendo progressivamente.
Tuttavia, l’idea di “orizzonte” contiene in sé una via d’uscita metaforica. L’oriz-
zonte è una linea apparente; ha certamente a che fare con la realtà, ma con la
realtà percepita, filtrata dai nostri organi di senso. Ha a che fare con la nostra
percezione, la nostra immagine del mondo, i nostri a priori. Non è tanto inganne-
vole, quanto parziale; soprattutto, risente dei nostri cambiamenti di prospettiva.
Vorrei quindi concludere il mio ragionamento con un accenno di pars construens,
prendendo in prestito per un’ultima volta le suggestioni di Valéry.

Eccoci di fronte ad un problema: si tratta di sapere se questo mondo straordi-


nariamente trasformato, ma terribilmente sconvolto da tanta potenza applicata
con tanta imprudenza, potrà finalmente acquisire uno statuto razionale, recupe-

5
La nozione di “immagine del mondo” (Weltbild) è parte del lessico weberiano ed è definita
da Dimitri D’Andrea come segue: «The notion of world image indicates the tendentially coherent
assemblage of beliefs relating to the world as a totality of experience that performs the fundamental
function of practical orientation. [...] The world image is an internally articulated construction in
which local images (of nature, humanity, society and history) coexist in a tendentially but not neces-
sarily coherent way. What is more, the trajectory of modernity can be read in the light of the dissonant
coexistence between different components in the image of the world» (D’Andrea, 2021).

134
Andrea Apollonio La crisi dell’immaginazione storica

rare rapidamente, o piuttosto raggiungere rapidamente, uno stato sopportabile di


equilibrio. In altre parole, il pensiero sarà forse in grado di farci uscire dallo stato
nel quale lui stesso ci ha messo? […] L’intera questione si riduce perciò a quanto
segue: il pensiero umano potrà mai superare ciò che lo stesso pensiero umano ha
fatto? L’intelletto umano riuscirà mai a salvare il mondo e successivamente se stes-
so? (Valéry 1994, p. 110)

Se non è più possibile recuperare l’esperienza del tempo degli antichi, della
storia come magistra vitae, perché guardiamo il passato come un adulto guarda
un bambino; se non è più possibile adottare il futurismo moderno e la fede cieca
(e ottusa) nel progresso; ma se il presentismo sterile che domina le nostre menti
ci impedisce di immaginare futuri possibili; forse la strada da seguire sta nel
giocare creativamente con le dimensioni di passato, presente e futuro, cercan-
do di recuperare una disposizione che, se proprio deve essere così orientata al
presente per essere accessibile a noi contemporanei, che sia almeno generativa.
È importante chiedersi quale idea di futuro fallisca di fronte a questa crisi epo-
cale. Ma una seconda domanda, altrettanto urgente, apre spazi di riflessione im-
mensi e costruttivi: l’erosione dell’egemonia culturale di una certa immagine del
mondo – quindi di un paradigma antropologico, sociale, politico ed economico
– può aprire la strada al riscatto di cosmologie e futuri alternativi? Questa stessa
domanda ci costringe a adottare una disposizione diversa rispetto all’esperienza
che viviamo. In questa prospettiva, non tutto va ricostruito. Un enorme serbatoio
di possibilità, ad esempio, giace nelle aspirazioni incompiute e nelle memorie di fu-
turi alternativi immaginati in passato e attende di essere riscoperto, anche in modo
critico (Jedlowski, 2017). Il ricordo, in questo senso, può svolgere una funzione
contrappresentistica, ovvero può evidenziare le criticità del presente e motivare
l’agire sovversivo (Assmann, 1997). In altre parole, ricordare può essere un modo
di dissociarsi dai fatti come sono (Marcuse, in Assmann, 1997). Queste riflessioni ci
aiutano a comprendere il corso storico come un intreccio di potenzialità, a eman-
ciparci da visioni eccessivamente rigide e teleologiche. In questo senso va intesa la
riflessione di Aleida Assmann sul rapporto tra storia e memoria collettiva: la prima,
a differenza della seconda, è una riserva latente di possibilità che tende ad accoglie-
re anche il diverso, il sorpassato, le aspirazioni incompiute, quegli elementi che non
intrattengono un rapporto vitale con il presente. Ma la seconda deve intrattenere
un rapporto attivo con la prima; deve poter attingere alla storia come serbatoio
generativo di possibilità, di cammini alternativi (Assmann, 2002).
Se la modernità ha accentuato il dislivello tra esperienza e aspettativa, reci-
dendo il legame tra la seconda e la prima attraverso l’idea di progresso, oggi, di
fronte alla crisi dell’egemonia di questa “immagine del mondo” e al pervasivo
presentismo sterile che ne consegue bisogna sforzarsi di leggere il passato come
un “non ancora” e non come un “non più” (Jedlowski, 2017), nonché di rico-
noscere e recuperare la dimensione salvifica delle “crisi”, delle “catastrofi”, delle
“apocalissi”. Questa accelerazione è un fatto inequivocabile, ma la sua tragicità

135
Futuri 18 scenari

cataclismica lo è solo in parte e gli esiti possono essere molteplici a seconda delle
risposte sociali, politiche, culturali. Il mutamento, anche così radicale, totale e
perturbante come quello innescato dalla crisi climatica e ambientale, contiene
potenzialità generative e può concorrere a riabilitare cosmologie e ontologie “al-
tre”, alternative al “naturalismo moderno”, storicamente contingente e limitato
(Descola, 2021), modi di vita alternativi (De Castro, 2019; Van Aken, 2020); so-
prattutto, altre temporalità. È in questo senso che può essere interpretato il mo-
nito latouriano: «Gaia è una potenza di storicizzazione. (…) è il solo mezzo per
far tremare nuovamente di incertezza i moderni (…) esigendo quindi che inizino
finalmente a tenere in seria considerazione il presente» (Latour, 2020).
In sintesi: un’altra disposizione, maggiormente generativa, può aiutarci a uscire
dall’impasse di pensiero nella quale siamo condannati a sostare fino alla “fine del
mondo”. Una disposizione che intenda il corso storico come fascio di possibilità
e di diramazioni possibili; che consideri il passato non come un “non più”, ma un
“non ancora”, terra di progetti incompiuti, indecisioni da riattualizzare; e il futuro
come terra da esplorare (Jedlowski, 2017). Ritengo che sia un dovere intellettuale,
oggi, quello di mettere in discussione la “semantica dei tempi storici” che mi pare
attanagliare gran parte dei discorsi e delle prese di posizione sulle trasformazioni
climatiche accelerate in un orizzonte chiuso, nel quale le vie percorribili paiono
fondamentalmente due: l’accettazione della condanna cataclismica e il diniego
dell’accelerazione. Nel primo caso, un futuro senza di noi, indesiderabile e inaccet-
tabile; nel secondo, un futuro nostro ma illusorio; un futuro impossibile.
Il lettore si starà chiedendo, a questo punto, a quale pubblico siano rivolte
queste ingiunzioni tanto perentorie quanto piuttosto generiche. Non mi illudo
che questa impostazione possa risolvere la gravità della crisi ambientale in atto
e aiutare a moderare e mitigare direttamente le tendenze disastrose che si ma-
nifestano; né che si possano sostituire regimi di storicità e semantiche collettive
senza incappare in resistenze e ostacoli. Tuttavia, credo che sia proprio questo
l’obiettivo culturale del lavoro intellettuale; esso può concorrere a revitalizzare
il nostro presentismo sterile. Come narriamo questi cambiamenti? Quali mes-
saggi lanciamo nella sfera pubblica? Quali narrazioni scientifiche, artistiche e
culturali circolano nella sfera pubblica rispetto a queste trasformazioni? Come
raccontiamo e diamo senso a questa esperienza perturbante? Forse, un simile
sforzo autocritico può aiutarci a risolvere la “crisi dell’immaginazione storica”,
ovvero la crisi della capacità dei singoli e delle comunità politiche di collocarsi
nel corso storico e concepire futuri altri, di immaginarsi diversi e di realizzarsi
collettivamente attraverso l’assunzione di responsabilità e di nuove prassi di
vita. Per parafrasare la proposta concettuale di Appadurai, si tratta di raffor-
zare la “capacità di aspirare”, che è una capacità culturale, in questo caso non
degli indigenti economici, ma di interi gruppi sociali “poveri” di risorse sim-
boliche e sfondi di significato che possano offrire interpretazioni generative ai
fatti che viviamo. Se si considera valida la riflessione di Appadurai; se le aspira-
zioni fanno parte di idee etiche e metafisiche più ampie che derivano da norme

136
Andrea Apollonio La crisi dell’immaginazione storica

culturali più vaste; allora è su questo sfondo che gli sforzi delle energie culturali
della società vanno indirizzati; al fine di sostenere quello che Viveiros de Ca-
stro e Deborah Danowski definiscono il «gigantesco lavoro dell’immaginazione
contemporanea per produrre un pensiero e una mitologia adeguata al nostro
tempo» (de Castro e Danowski, 2017). Il dubbio che dovrà turbare le menti e
motivare le energie intellettuali, culturali e artistiche della società, quindi, è il
seguente: sapremo immaginarci diversi? Sapremo costituire un nuovo popolo?

Questo articolo è stato presentato il 10 settembre 2022 al Convegno della fondazione Era-
nos 2022: Earth Symbols: The Inhospitable Planet and the Thought of a New Habitability
(Ascona, Svizzera)

Bibliografia

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138
Grande accelerazione e scomparsa del futuro.
Tempo, comunicazioni, progresso e velocità tra la fine dell’Ottocento
e i primi decenni del Novecento

di Lorenzo Fattori e Luigi Maria Sicca

Abstract

In one of his works, Marc Augé asked What happened to the future? (2009). It seems
to have disappeared from the horizon. But, to better understand future, it may be useful
to reflect on how it was imagined and represented in the past. Between the end of the 19th
and the beginning of the 20th century, the development of railroads and media quickly
transformed the world. Here we recall the links between transportation, media and the
idea of progress, as key elements to frame the concept of future.

Introduzione

In una sua opera di qualche anno fa, Marc Augé si chiedeva, significativa-
mente: Che fine ha fatto il futuro? (2009). Questo, nell’epoca odierna, sembra
quasi essere scomparso dall’orizzonte. Sono le tinte fosche, quelle della pande-
mia, della crisi climatica, della guerra, a dominare questi anni, con il contral-
tare di uno sviluppo tecnologico sempre più dirompente ma, a tratti, incom-
prensibile: la modernità è tramontata e il sentimento prevalente sembra essere la
nostalgia del passato, la «Retrotopia», individuata da Zygmunt Bauman (2017),
che ristagna in un eterno e ipertrofico presente (Bauman, 2002; Hartog, 2007).
A una sempre crescente potenza degli strumenti tecnici a disposizione dell’u-
manità corrisponde, paradossalmente, una sempre minor percezione di poter
influire sul proprio comune destino (Augé, 2009). A ciò si aggiunga l’emergere
di una narrazione, in fondo senza tempo e sempre viva in ogni tempo, di tempo
in tempo, interna a tutte le dialettiche generazionali (per cui vecchio è da buttar
via e giovane è bello) entrata a far parte a cavallo del nuovo secolo (che è anche
nuovo millennio), nel linguaggio prevalente: anche complice, probabilmente, la
riduzione dello spazio-tempo indotto dall’affermarsi massivo nelle nostre vite
delle tecnologie informatiche. Narrazione non di minoranza che in tempi recenti
è assurta anche a narrazione politica (di maggioranza), mediata da una recen-
tissima (in termini di storia economica e industriale) metafora metalmeccanica.
Eppure, in fondo, come è stato recentemente affermato: non c’è «nulla di più
vecchio di una gioventù emergente, ma è anche vero il contrario» (Sicca, 2022).
Non può non destare interesse, per le (cono)scienze sociali, questa trasfor-
Futuri 18 scenari

mazione, che si rivela come uno dei più macroscopici cambiamenti in termini
di percezione e senso della prospettiva (Sicca, 2019) che si sia verificato, perlo-
meno a partire da quella fase storica contraddistinta dai processi di moderniz-
zazione industriale
Ma, prima ancora di darsi le risposte giuste, è necessario affinare le proprie
domande: e per questo può essere utile guardarsi alle spalle. Per capire meglio
chi sia la vittima di questa sparizione, cosa sia (stato?) il futuro, può essere utile
provare a capire come questo veniva immaginato, rappresentato e desidera-
to nel passato. Questo nostro sguardo, per il quale indosseremo gli occhiali
dell’approccio fenomenologico-costruttivista (Berger e Luckmann, 1969; Czar-
niawska, 2020), si rivolgerà verso la fase storica che inizia negli ultimi anni del
XIX e prosegue per la prima parte del XX secolo: anni in cui si è passati da una
fase crescente di sviluppo – con l’apice nella Belle époque – alla drammatica in-
dustrializzazione della distruzione a cavallo tra le due guerre, con una fase pre-
paratoria prima della Grande guerra e una successiva che precede la Seconda
guerra mondiale, fino alla drammatica esperienza della corsa alle armi nucleari
che pensavamo interrotta e che di fatto gli eventi di questi primi decenni del
nuovo millennio restituiscono come irrisolta, dentro e fuori l’Europa, in tutta
la loro durezza e materialità.
Un contesto, dunque, quello di oggi e di domani, che ha un momento cru-
ciale nel recente passato del primo ventennio del Novecento nel quale «tempo
e mezzi di comunicazione diventano elementi fondamentali per la comprensio-
ne» (Sicca, 2019). È su di essi che ci concentreremo in questo lavoro, cercando,
con una inevitabilmente sintetica carrellata, di far emergere alcuni elementi
che, rispetto al futuro, siano maggiormente indicativi. Non è nostra intenzione,
in questa sede, procedere a una disamina accurata di tutti i diversi modi di
concepire, immaginare o raccontare il futuro che si sono sviluppati anche solo
nel Novecento: sarebbe impossibile. Ciò che ci proponiamo di fare è invece di
individuare alcuni elementi cardine: nello specifico, andremo a tratteggiare,
partendo dal processo di sincronizzazione del tempo, come lo sviluppo dei
trasporti, assieme a quello del cinema, la velocità e l’idea di progresso abbiano
catalizzato, tra fine Ottocento e prima metà del Novecento, la percezione che
si aveva del futuro nella società occidentale.

La sincronizzazione del tempo

Per fissare un punto di partenza per questa nostra riflessione potremmo


prendere la conferenza di Washington del 1884: con la Conferenza interna-
zionale dei meridiani, tenutasi in quell’anno nella capitale statunitense, ven-
ne stabilito il meridiano fondamentale, quello passante per l’Osservatorio di
Greenwich, e precisato il calcolo dei fusi orari. Stephen Kern definisce questa
conferenza come «Lo sviluppo più significativo nella storia dell’uniforme tem-

140
Lorenzo Fattori e Luigi Maria Sicca Grande accelerazione e scomparsa del futuro

po pubblico, dopo l’invenzione dell’orologio meccanico nel secolo quattordi-


cesimo» (1988): questo punto di svolta segna, per l’essere umano (inizialmente
solo) occidentale, il definitivo passaggio da una percezione del tempo come na-
turale, scandita dall’avvicendamento dei ritmi tradizionali della natura (la suc-
cessione delle stagioni, la semina, il raccolto...) che ha contraddistinto l’epoca
medioevale e, in parte, anche la modernità preindustriale, ad una percezione di
tempo in astratto, misurato precisamente dall’orologio. Dunque, una profonda
cesura nella percezione del mondo, tra un prima e un dopo: siamo nel pieno di
quel processo, legato allo sviluppo delle rivoluzioni industriali, che conduce
l’attività produttiva ad affrancarsi sempre più dai condizionamenti della natura
organica (Sombart, 1967).
È la nascita della ferrovia – il mezzo di trasporto industriale per eccellenza
– a costringere il mondo a confrontarsi con una velocità (che è tema non secon-
dario, e sul quale torneremo a breve) sempre crescente e, dunque, con il biso-
gno di misurare con accuratezza il tempo, per prevedere con cura il percorso
di questo nuovo mezzo e scongiurare possibili disastri. Se prima, infatti, ogni
città o regione aveva la sua ora locale, ciò rischiava di generare conseguenze
disastrose con l’aumento della rapidità dei trasporti, dovuto all’applicazione
ad essi della potenza del vapore; essa, nelle parole di Wolfgang Schivelbusch,
«appare qui come una potenza che, autonoma rispetto alla natura, ha la meglio
su di essa: un’energia artificiale che si contrappone alle forze naturali» (1988).
La necessità di coordinare le operazioni spinse perciò le compagnie ferroviarie
americane, il 18 novembre 1883, a uniformare i loro orari di servizio, decisione
che fece da apripista alla conferenza del 1884. Il trasporto e la velocità hanno
dunque cambiato la percezione umana del tempo (e dello spazio): nel tardo
Ottocento, il treno sincronizzava gli orologi mondiali.
Un’altra tecnologia si sviluppa quasi contemporaneamente alla ferrovia, e
anch’essa cambia il mondo: il cinema, secondo Alberto Abruzzese «arte della
fabbrica nel senso che racchiude in sé le forme e l’ideologia della moderna ci-
viltà industriale» (1973), che a sua volta sincronizza l’immaginario dell’epoca.
Così, mentre il treno permette di scoprire e attraversare (e colonizzare, svilup-
pare, cambiare e finanche distruggere) luoghi del mondo prima inaccessibili o
irraggiungibili, il cinema permette di vedere e raccontare luoghi e narrazioni
altrimenti irrappresentabili. Non a caso Roberto Scanarotti ha definito queste
tecnologie, assieme, «le due macchine del movimento» (1997). Il susseguirsi dei
paesaggi al di fuori del finestrino del treno e il simile susseguirsi delle immagini sul-
lo schermo cinematografico, accompagnate dallo sviluppo del telegrafo, del telefo-
no e della radio, ben rappresentano l’inusitata accelerazione degli stimoli sensoriali
a cui queste tecnologie sottopongono l’essere umano all’epoca del loro affermarsi
(McLuhan, 1967; Abruzzese, 2003; Frezza, 2006). E questi processi, a loro volta,
intrattengono più di un’analogia con l’accelerazione degli stimoli sensoriali che l’es-
sere umano di oggi ancor più subisce con lo sviluppo sempre più veloce della rete
Internet e delle tecnologie di comunicazione contemporanee (Rosa, 2015).

141
Futuri 18 scenari

Come scriveva Marshall McLuhan ne Gli strumenti del comunicare: «Gli


effetti della tecnologia non si verificano infatti al livello delle opinioni o dei
concetti, ma alterano costantemente, e senza incontrare resistenza, le reazioni
sensoriali o le forme di percezione» (1967). E dunque «il cinema rallenta, acce-
lera, inverte e combina i decorsi temporali; mentre telegrafo, telefono e radio
creano una rete mondiale di comunicazione che ridefinisce uno spaziotempo
globale» (Sicca, 2019), per la prima volta nella Storia. Allora, il mondo a cavallo
tra l’Ottocento e il Novecento, sull’onda dello sviluppo tecno-scientifico e della
sua accelerazione sociale (Rosa, 2015), colpito da sempre crescenti scariche
sensoriali, correva sempre più forte verso il futuro, un futuro che immaginava
perlopiù roseo e nel quale pensava di poter godere dei frutti della travolgente
affermazione di queste nuove tecnologie: ovvero, in sintesi, del progresso.

Il futuro tramite il progresso

L’idea di progresso è un concetto cardine: un peculiare substrato escatolo-


gico che s’intravede tra le grandi narrazioni menzionate da Lyotard (1981), e
che ha rappresentato il maggior elemento di tensione verso il futuro per la mo-
dernità e non solo. Si tratta dell’ultimo lascito della concezione finalistica della
Storia, che rappresenta uno degli elementi di fondo della cultura occidentale
(Bury, 2019; Löwith, 2010).
Il progresso tecnologico e scientifico degli anni a cavallo tra XIX e XX
secolo, nonostante la violenza della Prima guerra mondiale e della di poco suc-
cessiva crisi economica del 1929, ebbe, quasi paradossalmente, uno dei suoi
momenti di massima celebrazione negli anni Trenta: in particolare, nell’Espo-
sizione Universale, denominata non a caso «A Century of Progress», tenutasi
a Chicago dal 27 maggio al 1° novembre 1933, con una seconda sessione dal
1° giugno al 31 ottobre 1934. Il «secolo di progresso» a cui si riferiva il nome
era quello trascorso dalla nascita della città che ospitava l’evento, il cui motto
fu «Science Finds, Industry Applies, Man Adapts», e che aveva anche lo sco-
po di far intravedere un futuro prossimo e prospero verso cui l’innovazione
scientifica avrebbe condotto un Paese ancora ferito dalla Grande depressione.
È però evidente che il rimando a cent’anni di progresso – già nelle intenzioni
degli organizzatori – non si riferisse soltanto all’età della città sorta sulle spon-
de del lago Michigan, ma, più in generale, anche al lungo periodo di sviluppo
economico e industriale trascorso fin dalla metà dell’Ottocento, sviluppo che si
sperava potesse essere rilanciato dopo la drammatica crisi finanziaria del 1929.
Quest’esposizione, com’è evidente, veniva inaugurata appena qualche mese
dopo la salita al potere del nazismo in Germania, un tassello del cupo mosaico
degli anni successivi, in cui le migliori speranze andarono tragicamente deluse.
Le esposizioni universali dell’epoca restano però eventi molto rappresen-
tativi: sono uno degli elementi che compongono il processo con cui il mondo

142
Lorenzo Fattori e Luigi Maria Sicca Grande accelerazione e scomparsa del futuro

si trasforma da un insieme di luoghi fortemente separati – locali – a un unico


luogo globale, processo che – simboleggiato, per quanto attiene allo svilup-
po dei mezzi di comunicazione di massa, dalla famosa espressione di Marshall
McLuhan, villaggio «planetario» (2011) o «globale» (1967) – diventerà uno dei
caratteri dominanti del tardo XX secolo. Esse furono innanzitutto concepite
come spazi in cui i prodotti dello sviluppo tecnologico-industriale venissero
mostrati al mondo: la prima, denominata «Great Exhibition of the Works of
Industry of All Nations», si tenne nel 1851 a Londra e aveva lo scopo di presen-
tare la leadership tecnologico-industriale dell’Impero britannico. Sin da questa
prima occasione, e fino all’esposizione di Chicago, la centralità nelle grandi
esposizioni (che si susseguivano a cadenza irregolare) era riconosciuta agli
avanzamenti tecnologici e alle invenzioni. In una successiva fase, le esposizioni
universali hanno dato maggiormente risalto, rispetto al solo sviluppo tecnologi-
co, al progresso culturale e sociale, mentre dall’appuntamento del 1988 in poi
si sono caratterizzate principalmente come vetrine in cui il Paese organizzatore
potesse mettersi in mostra e migliorare la propria immagine, pur mantenendo
un netto orientamento al futuro.
Balza agli occhi che proprio tra i mezzi di trasporto possiamo trovare uno
dei protagonisti di queste esposizioni, prodotti dello sviluppo tecnologico che
rappresentano, per la loro velocità, potenza o estetica la tensione al futuro
dell’epoca: il treno. Questo si presenta, però, a partire dagli anni Trenta, in
una nuova forma: quella degli streamliners. Dopo i primi studi di aerodinamica
applicati al campo ferroviario in Francia, all’inizio del Novecento, fu negli anni
Trenta che la pratica di costruire carenature aerodinamiche rinnovò l’immagine
del treno. Proprio in occasione dell’Esposizione universale del 1933 vennero
presentati i primi due streamliners, mezzi leggeri e veloci a trazione diesel-e-
lettrica e dall’estetica innovativa e rispettosa dei dettami dell’aerodinamicità,
la cui estetica era fortemente debitrice dello stile Art Déco. Tra questi vi era il
celebre Pioneer Zephyr costruito dalla Budd in acciaio inossidabile (Schafer e
Welsh, 1997): una freccia d’acciaio, veloce e lucente come non si era mai vista
prima, che incorporava e restituiva assieme le idee di velocità e di progresso.
L’immagine del treno, dunque, si rinnovava assumendo forme eteree ri-
chiamanti la velocità e la leggerezza, grazie all’introduzione di carenature che
occultavano gli elementi meccanici. In questo campo, designer come Raymond
Loewy e Richard Dreyfuss (oltre che i committenti), diventati in breve vere
e proprie celebrità, facevano a gara tra chi proponeva le creazioni più ardite
(Solomon, 2015), e presto la moda dello streamlining travalicò i confini dell’in-
dustria ferroviaria, estendendosi alle automobili, agli arredamenti, e finanche
agli oggetti di consumo.
Nell’evocare accelerazione e innovazione, nulla era più efficace di queste
nuove forme, curve e filanti, che presto si diffusero ben oltre i confini statuni-
tensi e sembravano rappresentare il futuro del trasporto. Lo testimonia un’al-
tra esposizione universale, quella tenutasi a New York tra l’aprile del 1939 e

143
Futuri 18 scenari

l’ottobre del 1940, e il cui motto fu «Building the World of Tomorrow». Tra i
protagonisti di questa mostra vi fu, nuovamente, un treno: si trattava del primo
veicolo ad alta velocità a trazione elettrica, l’elettrotreno italiano tipo «200» che
(anche per la volontà propagandistica del regime al potere in quegli anni) aveva
conseguito svariati record, tra cui quello mondiale di velocità del 1939 ottenuto
raggiungendo i 203 km/h.
È infatti il richiamo della velocità l’altro tassello della tensione e
dell’immaginario orientati al futuro, elemento che si lega allo sviluppo tecno-
logico e all’estetica per formare un complesso reticolo di significati, una vera
e propria «ideologia del progresso attraverso lo sviluppo della velocità dei tra-
sporti» (Virilio, 2005). Ma l’idea di velocità, come quella di progresso, non
è certo meramente tecnologica o storicamente connotata. Quindi il «futuro»
stesso non è relegabile alla sola prova di realtà. È invece questione d’ogni tem-
po, proprio in relazione a quella dialettica tra percezione del cambiamento e
senso della prospettiva di cui si diceva; probabilmente e almeno in parte punta
dell’iceberg di quella tensione, che è anche biologica, ormonale e di orizzonte
di vita materiale, prima ancora che di orizzonte esistenziale, che lega inesora-
bilmente le generazioni, padri e figli, parricidi e infanticidi: nodo gordiano di
certo impossibile da spezzare con semplicismi rottamatori.

Il futuro nella velocità

Il mito della velocità è il nome di una mostra, tenutasi al Palazzo delle Espo-
sizioni di Roma dal febbraio al maggio del 2008, durante la quale sono stati
esposti assieme diversi prodotti del design, dell’arte e dell’industria italiani: dal-
le automobili ai quadri, agli oggetti di consumo e ad altro. Tutti questi prodotti
sono legati dal tratto comune di condividere un legame con il concetto, appun-
to, di velocità. Nell’introduzione al catalogo della mostra i curatori, Eugenio
Martera e Patrizia Pietrogrande, sottolineano il nesso tra velocità e modernità
(2008), due costrutti che sembrano imbevuti l’uno dell’altro. Nel titolo di que-
sta mostra sembra di trovare un’eco delle parole di Paul Adam, scrittore fran-
cese, che, a inizio Novecento, usò un’espressione simile: egli scrisse di un vero
e proprio “culto della velocità” (1907).
La ricerca di una velocità sempre crescente iniziò già nell’Ottocento, con
una corsa allo sviluppo di macchine sempre più potenti e rapide. Tra queste, fu
ancora una volta innanzitutto il trasporto ferroviario a mostrare le rivalità più
aspre, tra compagnie ferroviarie rivali e finanche, nel caso europeo, tra Stati
confinanti (Wolmar, 2011).
Qualcosa di analogo lo racconta nuovamente Stephen Kern, facendo rife-
rimento alla competizione tra le compagnie di navigazione transatlantica: la
corsa alla conquista del Nastro Azzurro, il trofeo assegnato all’imbarcazione
capace di attraversare più velocemente l’Atlantico, vide nel 1897 la vittorio-

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Lorenzo Fattori e Luigi Maria Sicca Grande accelerazione e scomparsa del futuro

sa sfida della Germania alla compagnia inglese Cunard, che ne era detentrice
(Kern, 1988). A quel punto, sottolinea Kern, era in gioco il prestigio nazionale
dell’Inghilterra, il cui governo sovvenzionò la costruzione di una nave in gra-
do di riprendersi il titolo, innescando una nuova competizione tra le diverse
compagnie inglesi che, qualche anno dopo, ebbe un ruolo determinante nell’af-
fondamento del Titanic: andare veloce può avere un prezzo altissimo. Tale era
però l’attrazione per la velocità che «il pubblico richiedeva velocità maggiore
ogni anno e rifiutava di frequentare le linee più lente» (Kern, 1988). Anche
Italo Calvino ha messo in evidenza il legame velocità-progresso, in un passag-
gio delle sue Lezioni americane: «Il secolo della motorizzazione ha imposto la
velocità come un valore misurabile, i cui records segnano la storia del progresso
delle macchine e degli uomini» (2022).
La velocità, tra il tardo Ottocento e i primi del Novecento, esercitava dun-
que un fascino crescente, che non solo non lasciava indifferente il pubblico
generico, ma riguardava anche intellettuali e artisti. Tra questi si collocavano
i membri della celebre corrente del Futurismo: a loro si deve l’istituzione del
più eloquente collegamento tra la velocità e il futuro, a partire dal nome che
scelsero e da quanto rappresentarono nel proprio Manifesto di Fondazione del
Futurismo (Marinetti, 2015). Questo, scritto da Filippo Tommaso Marinetti e
pubblicato inizialmente a Parigi, su Le Figaro, nel 1909, richiamava e mescola-
va suggestioni sia della ferrovia (dalla locomotiva alle gallerie), sia di un nuovo
mezzo di trasporto, che presto si sarebbe affermato come uno dei più rappre-
sentativi del Novecento: l’automobile. In altri testi del futurismo sono proprio
l’automobile e l’aeroplano a prevalere sul viaggio in treno: questi nuovi veicoli,
più rapidi e direttamente governabili dal singolo individuo, catalizzavano con
più forza le suggestioni della velocità e del movimento che costituiscono il sog-
getto centrale dell’estetica futurista (Ceserani, 2002).
Indipendentemente dal tipo di prodotto artistico, che sia un quadro, una
lirica o altro, l’arte futurista è pervasa di immagini di mezzi di trasporto, treni,
aerei e automobili, che rappresentano movimento, potenza e soprattutto velo-
cità; e se ciò, inizialmente, destò sorpresa e scandalo, in breve tempo mostrò di
saper intercettare le percezioni e il gusto del pubblico dell’epoca. La presenza
del mezzo di trasporto nell’arte di quegli anni, in breve tempo, si espanse ben
oltre i confini italiani e delle avanguardie artistiche, diventando un fenome-
no che coinvolse artisti e autori francesi, inglesi e statunitensi. Secondo Eric
Hobsbawm, lo sviluppo delle avanguardie artistiche nel periodo precedente la
Prima guerra mondiale fu uno spartiacque profondo per l’arte stessa (2005);
e questo fenomeno, peraltro, anticipò «di parecchi anni l’effettivo crollo della
società borghese liberale», che segna l’inizio del «Secolo breve» (Hobsbawm,
1997).
La corsa verso il futuro, l’accelerazione sociale e il sempre più spinto pro-
gresso tecnologico-industriale della società tardo ottocentesca e della prima
parte del Novecento ebbero infatti anche, come corollari inseparabili, le due

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Futuri 18 scenari

guerre mondiali, contraddistinte dall’industrializzazione della morte e della di-


struzione. Ciononostante, l’idea di futuro non era ancora affondata per sempre.

Conclusioni

La fase più che trentennale che intercorre tra il 1914 e il 1945, cioè tra
l’inizio della Prima e il termine della Seconda guerra mondiale, rappresenta
un’unica lunga stagione di guerre, tensioni internazionali e crisi. E però all’in-
terno – cronologicamente parlando – di questa stagione si collocano alcune
delle più rilevanti (per le riflessioni che qui abbiamo condotto) trasformazioni,
destinate a lasciare il segno fino – perlomeno – alla fine della modernità, e oltre:
è infatti nel primo ventennio del Novecento che si affermano gli studi di Albert
Einstein, fondamentali innanzitutto per la nostra concettualizzazione di tempo,
spazio, moto e velocità: «Con Einstein, il moto è relativo […]. Quindi, per due
osservatori in moto relativo, le descrizioni spaziotemporali degli eventi sono
diverse, ma la velocità della luce è la stessa, le distanze spaziali sono diverse
(contrazione delle lunghezze), gli intervalli temporali sono diversi (dilatazione
dei tempi), le velocità minori di quella della luce sono diverse)» (Sicca, 2019).
E poi, la percezione, che acquista nuovo significato alla luce della scoperta,
da parte di Sigmund Freud, di un luogo conflittuale interno all’essere umano,
l’inconscio.
Così, nonostante le drammatiche vicende delle guerre mondiali, altri modi
di immaginare, rappresentare e desiderare il futuro sarebbero emersi, alimen-
tati dalle trasformazioni nella comprensione di tempo e spazio, dalla scoperta
dell’inconscio e dell’indeterminazione, per poi anch’essi attraversare nuove
crisi. L’idea di un progresso inarrestabile, nella seconda metà del Novecento,
non era definitivamente tramontata: nel periodo successivo alla fine del secon-
do conflitto mondiale, caratterizzato dal boom economico e dal baby boom
demografico, si ripresentò l’ipotesi di uno sviluppo progressivo, peraltro, sta-
volta, esteso a livello mondiale. Non si trattava però, in questo caso, della pre-
figurazione di un singolo futuro, ma di una differenziazione, nelle confliggenti
prospettive del libero mercato, del socialismo reale, e della liberazione dalla
dominazione coloniale per tanti territori fuori dai due blocchi, fin quasi alla
contemporaneità.
Non possiamo, in questa sede, andare oltre. Non era nostra intenzione –
l’abbiamo scritto sin dall’inizio – né nelle nostre possibilità rispondere alla do-
manda che pone Augé, con la quale abbiamo aperto questo testo: «che fine ha
fatto il futuro?». Ma confidiamo di aver individuato qualche elemento – tra
tempo, comunicazioni, progresso e velocità – utile a mettere a punto un iden-
tikit dello scomparso. A nostro avviso, tuttavia, «le risposte a questioni così
rilevanti risiedono nell’impalpabile intreccio che tiene insieme scienza, cultura
e organizzazione e nel ruolo della tecnologia, che trasforma i mezzi di comu-

146
Lorenzo Fattori e Luigi Maria Sicca Grande accelerazione e scomparsa del futuro

nicazione» (Sicca, 2019) e le percezioni. Ieri, come oggi, cambiano i modi di


percepire la realtà, modificando tutti noi e ciascuno, fino a incidere su ogni
forma di organizzazione sociale, che è immersa «in un’architettura relazionale
per definizione intersoggettiva» (Sicca, 2022).
Infine, una segnalazione, a proposito del legame tra arti e futuro, che qui
abbiamo brevissimamente accennato con il riferimento al Futurismo. Il prossi-
mo numero di questa rivista, Futuri 19, ospiterà contributi accomunati proprio
da tale fil rouge, originati dalla call for papers intitolata «Corpi performativi: il
progetto verso il futuro, fra arti multimediali e aurore digitali», con il patroci-
nio morale di puntOorg – International research network.

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148
VIP: Voyeurismo in Panopticon. Il dominio in Squid Game

di Marica Castaldi

Abstract

What can the Squid Game series teach us both for the present and for the future? A
dystopian imagery that is not far from our lives. It suggests a “Weltanschauung” (world view)
that is not impossible to imagine. A logic of domination, voyeurism and surveillance. A world
where economic capital is worth more than life itself. A society where all needs, even the
strangest, can be immediately filled. Anyone who does not survive this logic disappears...
Squid Game makes us reflect on a future in which even surveillance becomes exclusive.

Molte volte le idee di successo nascono dalle esperienze personali, come


per la serie tv sud-coreana Squid Game, una delle grandi sorprese della scorsa
stagione televisiva, che mette in scena i disagi vissuti in prima persona dal re-
gista Hwang Dong-Hyuk e riflette le disuguaglianze sociali ed economiche del
suo paese, una società profondamente classista, espressione di un capitalismo
rigido e bloccato. Anche la proiezione della serie ha subìto un percorso trava-
gliato. Una sceneggiatura considerata troppo inverosimile è costata a Hwang
Dong-Hyuk ben dieci anni di rifiuti, fino a trasformarsi in show e trovare la
luce come tale il 17 settembre 2021 sulla piattaforma di streaming Netflix. Cre-
do che anche la storia travagliata della realizzazione della serie possa essere
elemento di riflessione: perché dopo dieci anni, e proprio su Netflix? Perché
proprio una piattaforma di streaming che distribuisce sulla “grande rete”, in
Internet, e non attraverso network nazionali? Sarà forse il nuovo modo di fare
esperienza nel mondo? Cercherò di dare una spiegazione più avanti, sempre
servendomi degli eventi che Squid Game propone.
Sono molti i contenuti che la serie ci offre nei suoi nove episodi. Tutto
comincia con 456 persone, esseri umani, prima che giocatori. Persone che co-
minciano questo gioco perché si trovano in pessime situazioni sociali ed econo-
miche: debiti, ludopatia, fallimenti, emblema di una vita irreparabile all’interno
della logica capitalistica.
Questi “falliti” vengono selezionati a uno a uno e posti di fronte a due scel-
te: rimanere poveri per sempre o partecipare a una gara di giochi per cercare
di vincere un montepremi. La gara è composta da giochi per bambini, all’ap-
parenza semplicissimi.
Futuri 18 scenari

Giochi che segnano il passaggio dall’infanzia alla vita adulta. Uomini che, non
avendo indipendenza economica, sono ancora considerati dalla società dei bambini.
Sembrerebbero banali gare di resistenza, giochi televisivi con un compenso in
denaro, chi arriva alla fine vince tutto. Ma in Squid Game chi non arriva alla fine
del gioco, chi non vince, perde tutto: perde la sua vita. Il giocatore che non passa
il livello decede, non esiste più. Scompare dalla sua vita senza nessuna spiega-
zione. Rimane, però, immagazzinato negli archivi degli organizzatori dei giochi,
schedato, profilato e memorizzato, creando così una nuova società nascosta.
Squid Game ha destato scalpore proprio a causa di questa disumanizzazione
dei giocatori. Privati della propria identità, divengono dei numeri. Sono sche-
dati, analizzati e anche “quotati” dagli spettatori di questo atroce gioco. Una
serie che lascia con il fiato sospeso e con molti dubbi. Avere un capitale econo-
mico è più importante che avere una vita? Oltre ai giocatori ci sono coloro che
dispongono del capitale, e oltre ad avere una vita possono permettersi anche la
soddisfazione di determinati vizi o bisogni particolari. Tra questi quello di as-
sistere a questi giochi crudeli dal vivo. Questi uomini privilegiati scommettono
sui giocatori, puntano denaro, fanno stime su chi sarà il vincitore dell’ultimo
gioco, “il gioco del calamaro”: un gioco per bambini di tradizione coreana. Una
serie che, come cercherò di analizzare in questo articolo, sembra narrare una
“società iper-soddisfacente” e con una logica “cannibale”. Una società che for-
se lascia ripensare anche al futuro: un futuro dove ogni bisogno è sempre più
“pret à porter”, ma soprattutto un futuro dove quei giocatori potremmo essere
noi. Sorvegliati e profilati sempre di più. Cercherò di traslare Squid Game nella
società contemporanea.
Alla fine proverò ad analizzare possibili scenari futuri che la serie ci propone.

Very Important Person

Da sempre abbiamo usato l’acronimo “VIP” per intendere Very Important


Person: persone di una certa rilevanza, idoli, icone. Persone famose a cui vor-
remmo somigliare e che vorremmo imitare. In questo caso peculiare descrivo
dei personaggi all’interno della serie Squid Game che godono di una certa rile-
vanza, i quali hanno il primato per la soddisfazione di determinati desideri…
Un primato che secondo la concezione bourdieusiana li fa essere i dominatori
nella logica del dominio. Un ordine sociale che si crea, secondo questa visione,
con la forza e la predominanza di un gruppo e la fragilità e sottomissione di un
altro gruppo.
Lo storico e linguista Johan Huizinga in Homo Ludens, pubblicato nel 1938,
afferma che «l’uomo non è solo homo sapiens e homo faber, ma è anche homo
ludens (Huizinga, 2002)». Partendo da questa asserzione possiamo affermare
con convinzione che il gioco si manifesta in tutte le tappe evolutive dell’uomo,
anche se in modi diversi.

150
Marica Castaldi VIP: Voyeurismo in Panopticon

Se il gioco è “fare come se”, perché nel caso di Squid Game può essere così
crudele?
Riprendiamo i VIP: nella serie sono uomini aristocratici, ricchi, politici.
Sono gli aggregati di interessi politici che il sociologo Max Weber in una famo-
sa conferenza del 1919 definisce «monopolio della violenza legittima» (Weber,
1997)1. Nessuna definizione sembra più calzante nel definire i VIP di Squid
Game.
Violenza legittima perché nel “Gioco del Calamaro” essa è autorizzata, re-
golarizzata; sei personaggi invitati ad assistere a giochi mortali dal vivo. A que-
sti dobbiamo aggiungere il presentatore, “homo ludens” per eccellenza nella
serie tv: l’anziano che decide di vivere il gioco stesso. Sette VIP che potrebbero
essere la rappresentazione dei sette vizi capitali. Lussuria, mostrata molto bene
nelle loro maschere e nella location d’arrivo. La gola, intesa come abuso ecces-
sivo di tutte le bellezze terrene: il vino, le esperienze carnali. L’ira e la superbia,
nel voler vincere le scommesse su chi riuscirà a portare a casa il montepremi.
L’avaro, invece, presta molta attenzione nel puntare su chi vincerà. L’invidia,
insita in ciascuno di loro. Sette VIP travestiti da animali: dall’orso, al gufo, al
leone… Animali forti, considerati superiori.
Il Front Man apre le danze, e dà il via agli spettacoli. I giochi sono pro-
gettati per soddisfare i loro desideri, i loro “gusti difficili”, come li ha definiti
uno dei VIP. Gusti che normalmente potrebbero sembrare bizzarri. Potrem-
mo definirli propensioni devianti, ovvero, con una definizione più statistica,
“tutto ciò che varia rispetto alla media”; o anche “tutto ciò che diverge dalla
norma sociale”. Esattamente su questo bisognerebbe focalizzare l’attenzione:
fenomeni di questo tipo non li ritroviamo solo in serie tv o film, si sono, sono
presenti in società, seppur nascosti. Sono fenomeni che hanno una storia lun-
ga e che non possono non esser stati incentivati dalle nuove tecnologie. Se
viviamo in una “società uberizzata”2, non è più semplice poter soddisfare i
nostri bisogni? I VIP potrebbero essere utilizzati come metafora per descrivere
una “società iper-soddisfacente”? Società dove tutto può essere esaurito attra-
verso un click. Un mondo dove tutti sono “sbirciatori”, e controllori.
Con il termine “Voyeurismo in Panopticon” intendo indicare la possibilità
che abbiamo di poter sbirciare gli altri, senza essere visti; il nuovo modo di
poter fare esperienza nel mondo, non sempre palesato. Un modo che segue le
orme dell’antichità e che si plasma con le tecnologie di oggi. Se per “Voyeuri-
smo in Panopticon” intendiamo l’osservare senza essere visti, dobbiamo tener
conto di eventuali problematiche. Come la serie stessa mostra, non sempre è
facile nascondere l’anonimato. Non è così difficile poter togliere una maschera,
o farla togliere ad altri. Sono questi possibili errori in una macchina quasi per-
1
“Herrschaft”, il dominio, inteso come il potere di tipo coercitivo della sfera politica.
2
“Uberizzazione” sta a indicare il modello economico ripreso dalla piattaforma Uber, dove
l’individuo fa esperienza con il mondo da solo, eliminando gli intermediari. Sempre più da solo ed in
maniera immediata può soddisfare i propri bisogni.

151
Futuri 18 scenari

fetta come il sistema orwelliano del “Big Brother” che confluiscono verso un
“Sesto Potere” (Bauman, 2015). Questa facoltà supera i tre poteri delineati da
Montesquieu e va oltre quelli esercitati dalla stampa e la televisione, divenendo
un potere nelle mani di tutti.

Il Voyeurismo: dalla pornografia alla morte

Perché pornografia e morte? La pornografia è sempre stata vista come un


propulsore, ha spinto alla creazione di nuove tecnologie. Ulteriore catalizzatore
è la violenza.
Questi due propulsori possono completarsi; a volte, come in questo gioco,
uno non esclude l’altro. La serie Squid Game potrebbe essere senza proble-
mi un’opera diretta e scritta da James Graham Ballard: sesso, violenza, psiche
umana sono i perni della sua scrittura. Già agli inizi degli anni Settanta il gran-
de scrittore inglese affermava che era “il corpo umano che diventa paesaggio”.
«L’organismo umano è una mostra di atrocità in cui egli è il volontario spetta-
tore» (Ballard, 2014). Una serie che sembra esser stata partorita proprio da La
mostra delle atrocità: una mostra di epifanie di morte e pornografia, dove, come
affermerebbe Ballard, «un incidente d’auto potrebbe essere più stimolante di
un’immagine pornografica» (Ballard, 2014).
Con la sua prospettiva psicoanalitica e surrealista riusciamo a trovare un senso a
una serie che attraverso la morte intrattiene gli spettatori. In La mostra delle atroci-
tà, uno dei romanzi più famosi di Ballard, vi sono degli elementi che si ripresentano
all’interno della serie sudcoreana. La “morte concettuale”: morte creata, studiata
a tavolino e ideata, alla stregua dei vari giochi proposti. Giochi mortali creati per
soddisfare i “gusti difficili” dei VIP. E “la morte alternativa” ovvero «la riproposi-
zione delle varie tragedie messe in scena. Queste tragedie hanno luogo nella mente
ed in parte nel mondo esterno, e rappresentano il tentativo di dare senso attraverso
questi drammatici eventi attribuendo loro una dimensione morale, anche forse una
misura ed una speranza» (Ballard, 2014). Nel caso di Squid Game, una morte “giu-
stificata” da una vita reale che non avrebbe potuto dare benefici ai giocatori. Un’e-
sistenza ormai segnata da disuguaglianze sociali ed economiche. Giocatori vittime
di quel “capitalismo egoista” di cui parla Oliver James:

Le tossine più nocive del capitalismo egoista sono quelle che sistematicamente
incoraggiano l’idea che la ricchezza materiale sia la chiave per la realizzazione per-
sonale, che i ricchi sono i vincenti e che per puntare in alto non serve altro che
lavorare sodo, indifferentemente dal retroterra familiare, etnico o sociale di prove-
nienza. Se poi non riesci, l’unico da biasimare sei tu. (James, 2009).

Una vita che vede come unica via di scampo una morte alterativa, rendendo
eroi, secondo quest’ottica, i VIP e gli organizzatori del gioco.

152
Marica Castaldi VIP: Voyeurismo in Panopticon

Grazie a Ballard si comprende il nesso fra sesso e violenza, un nesso che


crea un potente catalizzatore di mutamento sociale: riusciamo a giustificare la
nostra volontà e il nostro piacere nel guardare serie di questo tipo. Tra i temi
trattati da Ballard non manca il voyeurismo, logica centrale del ruolo dei VIP
all’interno della serie. Non casualmente parliamo di “mostra di tutte le atro-
cità”. Mostrare, far vedere; voyeurismo che riesce a donare, secondo lo scrit-
tore, un equilibrio fra mente e corpo, realizzando un nesso fra organismo e
sistema nervoso. Traumi, paura, gioia, sono tutte emozioni che si imprimono
nella nostra memoria e la principale spiegazione risiede nell’analisi neuroscien-
tifica: la memoria e le emozioni condividono il medesimo spazio all’interno del
nostro cervello. Questo collegamento, in maniera molto breve, è responsabi-
le della nostra sopravvivenza: osservare, provare emozioni e immagazzinarle è
importante per la conservazione dell’essere umano. Secondo una definizione
tipizzata, per “voyeurismo” intendiamo “l’atto di sbirciare, osservare, guardare
l’attività sessuale.” Il termine prende vita in un ambito puramente sessuale,
ma questa sfera non esaurisce del tutto il concetto di voyeur (che deriva dal
francese, inteso come “colui che guarda”). “Voyeur” è un termine che viene
utilizzato generalmente per indicare tutti coloro che guardano, sbirciano e tro-
vano piacere nell’osservare gli altri e le loro più disparate attività, non visti. Il
voyeurismo esiste da sempre: che sia lo sbirciare all’interno delle case o la cu-
riosità nel leggere le lettere altrui, è un fenomeno diventato sempre più diffuso
con la cultura di massa, con la creazione delle prime riviste pornografiche e dei
film. Ricordiamo, infatti, il primo film erotico Le coucher de la Mariée di Albert
Kirchmer, girato nel 1896: un cortometraggio muto che con lo sguardo sincro-
nico di oggi non ci sembrerebbe tanto sconvolgente.
Arriviamo verso quel tipo di voyeurismo che più ci interessa per analizzare
la serie Squid Game. Un voyeurismo che è altrettanto antico: il voyeurismo della
morte, tanto rilevante quanto quello del porno. Un atto di osservazione da far
risalire all’epoca romana. Ci basta volgere lo sguardo alla cultura cristiana e
alla storia di Gesù per comprendere come questo voyeurismo è sempre esistito.
Anche le esecuzioni dal vivo nel Medioevo, una fiumana di persone riunite con
lo scopo di assistere a uno spettacolo necroforo, “lo spettacolo della morte”.
Con l’evoluzione tecnologica quel “sublime spaventoso” lo ritroviamo anche
su altri registri, fino ad arrivare a una fruizione diversa della spettacolarizza-
zione della morte, in cui il voyeur può guardare l’esecuzione mentre è seduto
comodamente sul suo divano. Focus principale di quella “società dello spetta-
colo” di cui ci parlava Guy Debord nel 1967:

Oltre alla spettacolarità diffusa descritta da Debord, si apre una dimensione simu-
lativa, il virtuale, questo contrassegnato da un dileguarsi della realtà. È il feticismo
della merce informatica, dello spettatore simulativo che sul piano ideologico, ten-
de a stabilizzare la presa dell’economia dell’immaginario. (Stanziale, 2008).

153
Futuri 18 scenari

Grazie al web, gli streaming di video sulla morte sono sempre più diffusi.
I VIP di Squid Game non sono altro che voyeur che con i loro enormi schermi
assistono alla spettacolarizzazione della morte. I VIP fanno trapelare quanto
sia ancora più emozionante vedere lo spettacolo dal vivo, quanto il processo di
catarsi, godendosi lo spettacolo reale, possa essere migliore. Ma… gli spettatori
di Squid Game che ruolo hanno? Anche i fruitori della serie si impersonano nel
voyeur. D’altronde il film non è creato proprio per guardare la storia di qual-
cun’altro? Tutti i consumatori, insieme ai VIP, hanno preso visione dei giochi.
Da voyeur, ma con una consapevolezza diversa, la finzione. «E senza dubbio il
nostro tempo… preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappre-
sentazione alla realtà, l’apparenza all’essere» (Feuerbach, 2008).
Lo spettacolo riesce proprio perché, come afferma Debord «l’alienazione
va a vantaggio dell’oggetto contemplato… L’esteriorità dello spettacolo, in rap-
porto all’uomo agente, si manifesta nel fatto che i suoi gesti non sono più i suoi,
ma di un altro che glieli rappresenta» (Debord, 2008).
I VIP e i fruitori della serie si identificano nei giocatori, provano le stesse
emozioni, cercano di riflettere sulla soluzione del gioco insieme a loro. La grati-
ficazione risiede proprio nell’alienazione concreta. Quando il giocatore muore
il voyeur non decede, e ritrova in questo processo una gratificazione: ciò porta
lo spettatore a rivivere questi crudi momenti con lo scopo di ridare sicurezza
a sé stesso, proprio come le favole e le fiabe per i bambini3. Nei racconti per
bambini le fate o animali sanno di essere ascoltati e guardati? Le storie sono già
scritte, siamo noi che le leggiamo e le ascoltiamo frementi di conoscere come
finiranno, in attesa del colpo di scena.

Osservazione panottica

Squid Game è alla stregua di un esperimento sociale. L’esperimento ha luogo


in una vera e propria istituzione totale: ci sono dinamiche di gruppo, istinto di
sopravvivenza individuale, creazione di relazioni e anche senso di appartenenza.
Come in ogni esperimento, ci sono osservati e osservatori. I giocatori sono i sog-
getti dell’esperimento. Soggetti che non hanno idea di essere merce di spettacolo
per qualcuno. Abbiamo poi gli osservatori, coloro che guardano tutto senza farlo
sapere. Questa è l’idea del Panopticon (ideato dal filosofo e giurista Jeremy Ben-
tham nel 1971): un idealtipo di carcere che “lascia vedere tutto”. Un luogo in cui
i detenuti sono osservati ma non possono osservare. I VIP si godono lo spettaco-
lo, mentre i giocatori possono solo guardare ciò che gli viene fatto vedere.
La serie ripropone il cosiddetto Panopticon standard, quello che Zygmunt
Bauman definisce “la rigidità del Panopticon”. Vien da sé lo stretto collegamento

3
La fiaba è caratterizzata da luoghi e personaggi magici. La favola si svolge in luoghi reali, i
protagonisti sono animali che incarnano vizi e virtù umane.

154
Marica Castaldi VIP: Voyeurismo in Panopticon

con il voyeurismo, il vedere senza che gli altri sappiano che li stiamo vedendo.
Un tipo di voyeurismo panottico che ritroviamo anche nella vita di tutti i giorni.
Tutti siamo voyeur in panopticon: tutti noi siamo controllori, alla stregua della
guardia nel carcere di Bentham, per esempio controllando il profilo social di
un altro, e quasi sempre senza lasciare tracce. I VIP di Squid Game potrebbero
essere la metafora di “un mondo del controllo velato”, un mondo dove tutti noi,
comodamente seduti sul nostro divano, possiamo guardare senza farci scoprire,
in cui lo smartphone diventa un vero e proprio Panopticon digitale? Ma se si
analizza attentamente il Panopticon nella serie, si possono notare delle “falle”
generate dal binomio “vedere-essere visti”. L’anonimato dei VIP, e delle guardie
nel gioco, è garantito dalle maschere. Queste, però, non sono difficili da togliere.
L’anonimato è un problema, nel gioco come nella vita reale.
Nella serie, l’oblio viene minato dal poliziotto coreano: un personaggio che crea
problemi nel Panopticon, che dà vita al passaggio dal “sistema panottico rigido” al
“sistema post-panottico”. Squid Game mostra quindi come l’efficacia del Panopti-
con sembra essersi esaurita, dando vita a un nuovo sistema: il sistema “post-panot-
tico”. Quel sistema in cui, secondo Zygmunt Bauman, non è più vero che c’è un
unico controllore, ma siamo tutti controllori. Ed è proprio il mondo in cui viviamo,
in cui «siamo controllori, siamo controllati e facilitiamo il nostro controllo» (Bau-
man e Lyon, 2015). I VIP vengono scoperti dal poliziotto, il quale documenta tutto
ciò che accade attraverso il suo smartphone. Anche noi, allo stesso modo, abbiamo
la possibilità di mostrare a tutti cosa si cela all’interno del Panopticon.

Una società “just in time”

I VIP nella serie vengono dipinti come uomini crudeli, aristocratici “a sangue
freddo” che trovano piacere nel guardare spettacoli di morte: dei “Voyeur in
Panopticon” che hanno nelle loro mani “il monopolio della violenza legittima”.
Definito cosa significa voyeur, analizzato il concetto di Panopticon, possiamo
affermare che i vizi di questi VIP non sono del tutto fuori dal comune. Non
sono dei casi isolati. Non sono propriamente persone devianti. Questi uomini
potrebbero essere la messa in luce di una società che ama osservare, sorvegliare e
controllare. I nuovi dispositivi ci offrono la possibilità di poter soddisfare imme-
diatamente bisogni più disparati, tra cui quelli del controllo e dell’osservazione.
Una logica di soddisfacimento dei bisogni che comincia a nascere con la storia
dell’industria, con le grandi esposizioni, con il cinema definito “il sogno ad occhi
aperti”, la radio, la televisione, il telefono. Una logica industriale che subisce una
trasformazione dal one best way (un unico modo migliore) al one better fit (un
migliore adattamento). Un mutamento che ha investito ognuno di noi.
I VIP descritti nella serie non sono altro che figli del just in time: la nostra
società ha come componenti individui che si riconoscono nell’idea di un mi-
gliore adattamento, utile per soddisfare le proprie esigenze. Sia i giocatori che

155
Futuri 18 scenari

i VIP si trovano in quel panopticon perché hanno dei vizi, hanno dei bisogni. I
giocatori hanno problemi economici, hanno bisogno di soldi. Decidono di par-
tecipare a un gioco che promette un montepremi immediato; avrebbero potuto
trovare un’alternativa più onesta, anche se più faticosa; travolti dall’idea del
lavoro come senso di realizzazione, il lavoro per loro non sarà solo un mezzo
ma diventerà il bisogno primario (cfr. Marx, 2004).
I VIP, invece, hanno l’esigenza di soddisfare i loro bisogni voyeuristici. Per-
sone totalmente adattate nella logica capitalistica che hanno come unico scopo
riuscire, con tutti i mezzi a loro disposizione, a soddisfare immediatamente tut-
ti i loro interessi. Metafora dei bisogni come propulsore della vita dell’uomo.
Oggi potremmo definire la “piramide dei bisogni” di Abraham Maslow (2010)4
del 1954 come tendente sempre più verso l’alto, all’infinito.
Squid Game rende lampante l’idea di una società con una “logica cannibale”
(cfr. Bruckner, 2001), dove l’insaziabilità è all’ordine del giorno. Tutti quotidia-
namente soddisfiamo una miriade di bisogni: alcuni considerati devianti, altri
perlopiù comuni. Non è difficile poter andare sul web o penetrare nel deep web
e cercare video di morte, video pornografici e altro ancora. Viviamo nell’epoca
della “sorveglianza liquida”: una liquidità presente nella vita quotidiana e soprat-
tutto nella sfera dei consumi. Volume, varietà e velocità formano lo spazio dei
big data, una congerie di informazioni che si riordina con il fine di profilarci e
di guidare le nostre scelte ed i nostri acquisti. Una liquidità che permette a tutti
di essere dei voyeur, e dei dati che ci “obbligano” a essere dei voyeur. Possiamo
esserlo anche senza lasciare tracce, sebbene sappiamo che “la maschera non è
difficile da togliere”. Siamo dei controllori perché «anche scorrere la home dei
social network è osservare e controllare» (Lyon, 2020): addomesticamento della
sorveglianza”, come scrive David Lyon. Siamo dei “Voyeur in post-Panopticon”.
Ognuno di noi, in un determinato contesto o situazione, può essere un VIP.

Il dominio in Squid Game: che fine fanno i dominati?

Se finora in queste pagine mi sono occupata di analizzare il ruolo dei do-


minatori, dei VIP, credo sia doveroso puntare qualche faro anche sul ruolo
dei giocatori all’interno della serie sudcoreana. Nella logica del dominio non
possono esserci dominatori senza dominati. La serie è incastrata perfettamente
nel sistema capitalistico: i dominati cercando di vincere diventano tra di loro
“homo homini lupus”, persone che farebbero qualsiasi cosa pur di aggiudicarsi
il bisogno vitale, “il capitale”. La relazione giocatori- VIP rimanda immediata-
mente a un circolo vizioso. Un “capitalismo egoista” che porta all’immediato
bisogno di possedere un cospicuo capitale; ed è un cospicuo capitale che spro-
na il bisogno di soddisfazione di “gusti difficili”.

4
Bisogni: fisiologici, di sicurezza, appartenenza, stima, autorealizzazione.

156
Marica Castaldi VIP: Voyeurismo in Panopticon

Squid Game è una serie distopica che denuncia queste disuguaglianze. De-
nuncia il “realismo capitalista” e descrive duramente la società, in particolare
quella sudcoreana. E se la serie non fosse distopica? Se le disuguaglianze ve-
nissero rappresentate senza questa ferrea rigidità, ma liquidità? Ritornerebbe
qui tutta l’analisi fatta precedentemente. Un voyeurismo in post-panopticon
all’interno del quale giocatori e VIP sono l’uno il voyeur dell’altro. Attraverso
i social network, panopticon liquido, tutti possono osservare la vita altrui. Una
logica che, alla stregua della rigidità panottica, suscita emozioni e sentimenti
partoriti dal sistema capitalistico egoista: invidia, avarizia, gola… tutti vizi che
inizialmente ho accostato ai VIP.
Se ora volessi riscrivere la serie in modo più realistico e attuale, descriverei una
società composta da una moltitudine di individui. Questi “flaneur” curiosi, non
tanto dei nuovi magazzini e delle vetrine, ma della vita altrui, con la schiena gobba
e il collo inclinato verso il basso mentre scorrono la home dei loro social network,
intenti nello sbirciare la vita degli altri e tenere tutto sotto controllo, sono al tempo
stesso abbagliati dall’illusione della meritocrazia. Con l’ingordigia delle ricchezze
altrui e la voglia di soddisfare i propri bisogni siamo catapultati in uno Squid Game
ogni giorno, dove i ricchi mostrano che sono ricchi e i poveri cercano di tutto per
diventare ricchi. Questo Squid Game avviene sotto gli occhi di tutti.

Che futuro ci lascia immaginare “Squid Game”?

Romanzi, film, serie televisive, il più delle volte sono degli “anticipatori” o
“previsori” di scenari futuri. Cosa può farci immaginare per il futuro la serie
Squid Game? Cercherò di dare una mia possibile interpretazione basandomi su
quanto messo in scena nella serie, analizzando l’immersione che ogni episodio
ha nella contemporaneità, come ho cercato di fare nei paragrafi precedenti. Mi
focalizzerò su un episodio in particolare, il quinto. Il poliziotto coreano, che
mina la rigidità del panopticon e dà vita al cosiddetto post-panopticon, riesce a
scovare la stanza degli archivi. Ogni giocatore era stato profilato e schedato. È
proprio l’archivio il nodo fondante per un’eventuale analisi verso il futuro: uno
schedario che non solo raccoglie i dati delle 456 persone che ci hanno accom-
pagnato nella visione della serie, ma si scopre essere molto più ricco.
Il gioco è stato riproposto per più anni: una volta eliminati dal gioco, i
partecipanti scompaiono dalla vita reale senza una spiegazione, ma rimangono,
paradossalmente, schedati e profilati all’interno dell’organizzazione dello Squid
Game. La sorveglianza in questione viene definita “ban-ottica”, un termine che
fa riferimento all’utilizzo dei dati che hanno lo scopo di “bannare”, eliminare de-
terminati soggetti, gruppi, territori (Bigo, 2006). La sorveglianza ban-ottica è un
concetto di recentissima definizione, di cui Squid Game ci mostra egregiamente
una sua esemplificazione. Una vigilanza volta a coprire scandali, interessi, corru-
zione. Questo, come si evince dalla serie, è possibile grazie soprattutto alla coper-

157
Futuri 18 scenari

tura di quei Vip i cui tratti e attributi ho cercato di analizzare precedentemente.


Potrebbe essere messa in pratica questa tipologia di sorveglianza ban-ottica? È
già attiva una sorveglianza di questo tipo? Sarà una pratica che può portare a ri-
pensare al futuro? Sorveglianze di questo genere esistono, di fatto, in alcune aree
e paesi del mondo. Il processo sempre più dirompente della “datificazione della
società” e l’aumento della cosiddetta “sorveglianza sociale” (o sub-veglianza),
all’interno della quale siamo tutti controllori e controllati, potrebbe far emergere
il desiderio di riappropriazione di quella “violenza legittima”, quella istituziona-
le, del potere costituito, ma che di fatto è sempre stata nelle mani dei privilegiati,
di cui i VIP di Squid Game sono una rappresentazione.
Potremmo lasciare una porta aperta su questo argomento quando puntia-
mo lo sguardo verso il futuro…

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Filmografia

Coucher de la Mariée (Le), di Albert Kirchmer, Francia (1896).


Squid Game, di Hwang Dong-hyuk, Corea del Sud (2021–).

158
Crash test

di Flavio Torba

Questo corpo, quasi invisibile sotto il lenzuolo, annuisce e inizia a sibilare.

«Sì che mi ricordo di quel giorno.


Tu vuoi parlarne perché qui il tempo non passa mai e gli ospedali ti mettono
a disagio. Non vuoi stare a guardare questo vecchio che si consuma senza aver
qualcosa di cui blaterare. Questo vecchio che una volta era un ragazzino come
te, solo che poi ha preso una strada diversa. A te i libri, a me le armi. A te la
cattedra e a me gli AK-47, il Congo, il Sudan.
E allora parliamo. Qui non abbiamo nulla da fare se non parlare o stare ad
ascoltare questo bastardo che mi divora da dentro. Se facciamo silenzio, possia-
mo sentirlo che continua a mangiarmi, metastasi dopo metastasi.
Parliamo. Ma sarò io a raccontare. Non una parola di protesta. Non una
correzione. Parleremo non solo di quel giorno, ma di trent’anni in un paio
d’ore.»

Tende la mano verso il bicchiere che gli porgo. Lo aiuto a bere. Un po’ d’ac-
qua gli cola da un lato della bocca quando poggia la testa sul cuscino.

«Ricordo che uscii dal paleoscopio completamente nudo, come da prassi.


Con la ConVon si viaggia leggeri, palle al vento nel flusso di elettroni.
Lo shock termico nel passaggio dall’aria condizionata del laboratorio al cal-
do torrido della grotta esterna del bunker quasi mi buttò a terra. In termini
di spazio, non saranno stati più di venti metri, ma lo sbalzo di temperatura fu
pesante.
Due minuti dopo arrivò anche la mia attrezzatura: viveri per qualche giorno
e di che vestirmi.
Mi misi indosso una tunica di tessuto grezzo, alla maniera degli antenati
dei Galla – o, almeno, così avevano detto le teste d’uovo dell’Università, i tuoi
colleghi – e un otre di pelle pieno d’acqua.
E anche una Desert Eagle, molto grossa e molto scenica, ma efficace in caso
di indigeni troppo curiosi. La nascosi in una fondina sotto la tunica e uscii a
fare il lavoro sporco per voi, gente pagante ma noiosa.
A chi interessa se gli invasori preellenici usavano davvero i falcetti per ca-
strare i nemici, come nel mito di Urano?
Futuri 18 narrazioni

Però, quando venni a sapere che avrei fatto da apripista a te, non mi di-
spiacque.
Farò fuori un paio di trogloditi per il mio amichetto d’infanzia, mi dissi,
così lui poi potrà venire e studiare con calma e scrivere il suo libro.
Ma il mio interesse primario era non arrivare troppo vicino a quei falcetti,
non so se mi spiego.»

Si interrompe, come per ricordare. Un accesso di tosse lo scuote e per un


attimo temo si possa rompere. Quando torna la calma, ricomincia anche il rac-
conto:

«Il programma prevedeva una scarpinata di circa tre ore sotto il sole spieta-
to, dal bunker del paleoscopio fino al villaggio di caprai che sarebbe diventato
Mogadiscio.
L’Uebi Scebeli però non si vedeva. Me lo sarei dovuto trovare a nord, a cir-
ca un chilometro di distanza, ma al suo posto c’era solo un avvallamento secco.
L’acqua del fiume sembrava prosciugata da parecchio tempo.
La faccenda puzzava, ma mi misi in cammino. Le informazioni delle teste
d’uovo della ConVon e dei loro amici geologi potevano essere sbagliate.
Me lo ripetevo come un mantra.
Hanno sbagliato. Che cazzoni. Si sono sbagliati.
Prima di accorgermi della loro presenza, camminai nell’ombra delle torri
per almeno trenta secondi, stordito dal calore disumano, atroce anche per un
mercenario che sulle guerre civili subsahariane ci ha prosperato.»

Sono qui accanto a lui, ma i suoi occhi non mi vedono, persi nella memoria.

«Quelle torri. Quella specie di alveare. Devi vederle prima o poi, quelle
torri. Enormi strutture, bianche come colonne di un tempio greco senza tetto.
Ecco, una città-tempio piena di oracoli muti e iperconnessi.
Ho avuto modo di guardarla bene, negli anni, tanto bene da scolpirmi ogni
geometria nelle retine. Se la si guarda al tramonto, col sole che cala dietro di
essa, sembra che allunghi dita nere verso di te. E allora le colonne sembrano di
carbone incandescente, non marmo.
Si erano sbagliati, quei cazzoni della ConVon.
La luce mi friggeva la testa, ero svuotato di qualsiasi energia. Mi feci pren-
dere da suggestioni lovecraftiane di civiltà dimenticate e avanzatissime, ma pre-
ferii usare il rasoio di Occam. Se davanti agli occhi ho qualcosa di inconcepibile
per il passato, allora non sono nel passato.
Così si spiegava anche il fiume asciutto.
Feci l’unica cosa sensata da fare. Da buon bruto, me ne sbattei della virtù e
della conoscenza.»

160
Flavio Torba Crash Test

L’attenzione torna al presente, su di me. Il vecchio mi fa l’occhiolino, per


vedere se ho colto la battuta.

«Tornai al paleoscopio e attesi nel bunker la data di estrazione.


Tre giorni. Settantadue lunghissime ore in cui l’unica cosa che potevo fare
erano le flessioni e guardare l’orizzonte, sapendo che, nascoste dal riverbero, lì
c’erano le torri. Per quanto mi sforzassi di essere pragmatico, mi stuzzicavano.
Il paleoscopio, nel frattempo, trasmetteva in uscita i miei parametri vitali, la
mia posizione, ma non riceveva nulla.
Sapevano che ero vivo, forse. Sapevano dov’ero, probabilmente. Sapevano
anche quando ero?
La data di estrazione passò e fu chiaro che nessuno sarebbe venuto a pren-
dermi. Mi liberai di quella tunica da capraio e indossai l’equipaggiamento tat-
tico. Mi fece sentire meglio. Ero ingenuo, all’epoca: pensavo fosse un’altra gita
nel continente nero. Mi mancavano giusto trent’anni di esperienza, ma quelli
sarebbero arrivati dopo.
Non ci saranno strade tra le colonne. È come se fossero spuntate lì, o preci-
pitate dal cielo. Con i loro occupanti.
Merda, devo parlare al futuro o al passato?
Tra le colonne – palazzi, strutture, come vuoi chiamarli – non c’era nessuno.
Loro erano dentro, avvolti nei propri sogni. Le entrate si trovavano a un metro
e mezzo di altezza rispetto al terreno sabbioso.
Mi issai a forza di braccia e un pannello prese a scorrere autonomamente.
Dovevano funzionare come con delle fotocellule. Questa è una domanda con
cui la ConVon avrà piacere di confrontarsi, se non lo ha già fatto, così come le
mille altre che verranno dopo.
Entrai in un atrio circolare, con l’occhio allineato al mirino ma mentalmen-
te a bocca aperta. Poteva avere un raggio di dieci metri. Alle pareti c’erano altri
pannelli e, al centro, una specie di totem con pulsanti associati a simboli che
non avevo mai visto in vita mia.
Ne toccai uno a caso e il pavimento iniziò a sollevarsi, a viaggiare su per la
torre come un enorme ascensore.
Quando si fermò, ebbi solo l’imbarazzo di scegliere uno dei pannelli la-
terali. Scoprii che anche questo si apriva al mio avvicinarsi e conduceva a dei
corridoi laterali, a raggiera rispetto al locale centrale.
Entrai nell’alveare. I particolari sull’architettura li trovi nella relazione, se la
ConVon non ha insabbiato anche quelli.
Per poco non sparai al primo degli inquilini che mi capitò a tiro, appena
uscito dal suo loculo. Un evento raro, come imparai in seguito.
Ogni tanto ne vedevo vagare qualcuno per i corridoi, ma erano accadimenti
eccezionali. Mi vedevano e continuavano per la loro strada. Il loro disinteresse
mi disturbava, per un po’ mi ha anche inibito la spinta all’azione.
Pensavo che una volta accortisi della mia diversità mi avrebbero catturato

161
Futuri 18 narrazioni

per studiarmi. O quantomeno per mettermi in un museo. Ma non credo che


abbiano conservato il concetto di museo. A meno che non ci sia qualcosa del
genere nella loro connessione.
Una volta capito che non erano pericolosi e non portavano armi, mi stabilii
in uno di quei loculi non ancora occupati. Trovai la porta aperta. Un paral-
lelepipedo vuoto e bianco di superficie metallica tiepida. Quattro metri per
quattro, per due e mezzo di altezza. Dormii.»

Si ferma. L’icona di Quetzalcoatl incombe inerte sul letto. Il dio piumato


della vita non può fare nulla, neanche stavolta. Nonostante la volontà di ferro,
il respiro del vecchio è poco più di un rantolo. Come le parole.

«Ogni giorno che vissi lì, tranne forse i primi, era scandito da una routine
precisa. Sveglia, colazione ed esplorazione.
A ogni mia sortita rubacchiavo un paio dei loro flaconi di alimentazione.
Non avevo una poltrona tutta mia per assimilarli, così la prima volta ne forzai
uno facendo leva in uno stipetto.
Ne mangiai il contenuto con le mani. Aveva un buon sapore. Vischioso,
forse troppo zuccherino, ma tutto sommato accettabile.
Nessuno si è mai lamentato. Magari fossero stati così anche i miei veri vicini
di casa.
Quando entravo in un loculo mi prendevo sempre del tempo per contem-
plarli. Li vedo anche adesso. Guardo questo corpo deforme, distorto secondo
le necessità del suo tempo, e non vorrei mai essere come lui, qualunque cosa
stia vedendo o sperimentando in questo momento.
Scheletri ricoperti di pelle, arti atrofizzati e muscoli che hanno dimenticato
la fatica e l’esercizio. Tutti comodi in queste poltrone-nido.
Non ho mai capito cosa fosse in realtà quel complesso di colonne. Di certo
non un centro produttivo, almeno per come lo definiamo noi, con fabbriche,
miniere e via dicendo.
L’attività svolta da quegli esseri – umani, certo – forse rimarrà insondabile
per un bel po’ di tempo, anche per la ConVon.
Due occhi, due orecchie, una bocca. Eppure quell’innesto nella nuca me li
fa sentire più alieni di qualsiasi cosa abbia visto al cinema, forse perché sono –
saranno – reali.
E niente infezioni o grumi di pus. Nessuna cicatrice da operazione chirurgi-
ca. La mia impressione è che quell’orifizio sarà il frutto di modificazioni geneti-
che ad hoc, fatte per legare quegli esseri a qualsiasi cosa ci sia all’altro estremo
della connessione. Un adattamento come il corpo scheletrico e il cranio gonfio.
Come gli intestini che si scaricano in appositi e comodi alloggiamenti delle
poltrone. Come gli esofagi che accolgono i sondini di alimentazione delle pol-
trone. Forse anche la loro lingua sarà atrofizzata.»

162
Flavio Torba Crash Test

Un’infermiera si affaccia nella stanza. Ci riporta per una frazione di secon-


do a una realtà fatta di beep e odore di disinfettante, di lavanderia industriale.
Il suo viso prognato mi scruta, teso in una perenne espressione di rimprovero
scimmiesco. Si china per controllare il serbatoio del catetere sotto il letto. L’u-
niforme le si tende su un accenno di gobba. Dopo aver sostituito la busta, torna
a fatica in posizione eretta e caracolla in silenzio fuori dalla stanza.
La storia riprende:

«Avevo cibo e tempo per riflettere.


Il paleoscopio, quando opera nel passato, funziona con due slot di trasferi-
mento ogni 72 ore, uno per il viaggiatore e l’altro per il suo equipaggiamento.
Non chiedermi perché. Un tecnico ha provato a spiegarlo ma non è il mio cam-
po. Credo c’entri il tasso di inquinamento temporale.
Ad ogni modo, ipotizzai funzionasse così anche nel futuro e mi feci trovare
al paleoscopio allo scadere di ogni intervallo, ma quello rimaneva muto e im-
mobile. La ConVon non mi avrebbe riportato a casa.
Ero il testimone di un incidente. Dovevo entrare in contatto con popoli
appartenenti praticamente all’alba dell’uomo, e invece ero la prova vivente che
il paleoscopio funziona anche nell’altro senso. Credo che la ConVon lo sapesse
già.
Negli anni c’erano stati colleghi – altri mercenari, apripista per voi secchio-
ni – scomparsi mentre erano in missione con il paleoscopio.
Come Zanettini, che doveva perlustrare il territorio vicino alle linee di
Nazca e non è mai tornato al paleoscopio di Lima. O Bonilla, ufficialmente
disperso nella Mesopotamia di Hammurabi.
Mi convinsi che eravamo tutti manichini da crash test della ConVon. Per-
dite accettabili per collaudare il viaggio nel futuro, tecnicamente impossibile.
Ma se le cavie fossero tornate indietro c’era il rischio che rivelassero il grande
segreto aziendale.
Eravamo carne da cannone temporale. E il tutto era mascherato da missio-
ne culturale. Anche voi agnellini creduloni dell’Università avete le vostre colpe.
Cercai di mantenermi lucido, ma la paranoia prese il sopravvento. Non era
come essere rimasti bloccati nella giungla o all’interno di un territorio control-
lato dai signori della droga afghani.
Immaginai che avrebbero potuto considerarmi un testimone scomodo e mi
convinsi che sarebbero venuti a cercarmi per farmi fuori, quando a chiunque
sano di mente sarebbe stato palese che alla ConVon bastava lasciarmi lì.
Fu allora che stabilii la mia residenza nella stanza delle larve.»

Questo corpo, che prima era una macchina da guerra e ora è solo miseria
condensata, si drizza a sedere e mi artiglia la camicia prima che me ne possa
rendere conto.

163
Futuri 18 narrazioni

«Le hai mai viste tu le larve? Almeno in foto? Bene, allora sai di cosa parlo.
Si trovano – o si troveranno, per meglio dire – ai livelli inferiori delle torri,
sottoterra. Una volta capito come funzionava il sistema di glifi dell’ascensore,
mi fu facile salire e scendere a mio piacimento.
Chiunque fosse venuto a cercarmi là sotto sarebbe stato quantomeno di-
stratto dallo spettacolo, dandomi un po’ di vantaggio. Questo è quello che pen-
savo.
Se i miei vicini di poltrona erano l’orrore, allora quel sotterraneo era un
gabinetto di follia. Senza braccia, gambe, occhi. Sono sicuro che se la biologia
umana non avesse dei limiti insormontabili, avrebbero costruito le larve solo
con la testa. Una razza inferiore equipaggiata del minimo indispensabile.
Non c’era giorno in cui non mi chiedessi a cosa servissero quegli umanoidi
addormentati in cilindri di vetro pieni di acqua. Acqua? Una soluzione di qual-
che tipo, probabilmente.
Forse mi avvicinai al vero significato di quel girone infernale verso il mio
terzo anno di permanenza. Quegli esseri – umani, me lo dimentico sempre –
sono perennemente collegati a qualcosa, a fare qualcosa dentro un sistema in
cui per trent’anni cercai di entrare anch’io. E sono contento di non aver mai
trovato la soluzione. Ma se quel qualcosa funziona come il nostro internet, allo-
ra c’è bisogno di qualcos’altro in cui contenere dati, informazioni.
Ecco: server di carne. Server mutilati che non possono gridare, destinati
unicamente a conservare dati nel proprio cervello a uso e consumo dei propri
simili dei piani superiori, quelli ancora con braccia e gambe.
Vivere in mezzo a quelle bare di vetro e a quegli esseri contribuì ad aumen-
tare le mie manie di persecuzione.
Mi capitava di svegliarmi per qualcosa di più impalpabile di un rumore.
Sensazioni. Immaginavo l’arrivo di elementi estranei.»

Mi scuote.

«Allora mi alzavo e mi muovevo silenziosamente tra i cilindri, mimetizzato


tra i corpi galleggianti dei miei fratelli e le loro prospettive distorte dal liquido,
in cerca del mio boia.
Un giorno lo vidi.
Gli arrivai alle spalle, mentre guardava giù, nel pozzo di smaltimento delle
larve morte, aggrappato alla ringhiera di protezione, come il passeggero di un
traghetto che sta per avere un attacco di mal di mare, ma incapace di staccarsi
dall’abisso.
Non potevo biasimarlo. Il pozzo esercita un fascino perverso. Corpi che sci-
volano da condotti laterali verso il vuoto e, alla fine del volo, le lame. Zampilli
di sangue e tessuti come fontane. Il ronzio. Un ronzio così forte e immutabile
da risparmiarmi lo stridore delle ossa polverizzate. Quel ronzio mi aiutava a
dormire.

164
Flavio Torba Crash Test

Il mio boia si girò di scatto. Mi vide. Mi riconobbe.


Ma ormai ero troppo vicino.
Lo avrei colpito con un calcio allo sterno. Mi chiesi se cadendo avrebbe
urlato, turbando la quiete del santuario. Ricordo che il pensiero mi diede molto
fastidio.
Ti riconobbi appena in tempo. Eri rimasto lo stesso del giorno della mia
partenza, ma io ti ricordavo a malapena.
Mi era più facile richiamare la tua faccia da bambino, quella di quando gio-
cavamo insieme, quando gli altri ti prendevano in giro e io ti difendevo, oppure
mi accodavo. Dipendeva dell’umore.
L’importante è che non ti spinsi.
Facevamo un bel quadretto: un soldato decrepito e un archeologo ancora
giovane, davanti a un pozzo di macello.»

Mi lascia andare. Si rilassa, con il torace rimasto orfano del lenzuolo. Non
me la sento di coprirlo.

«Trent’anni. E per voi sarà passato solo... quanto? Dopo quanto ti sei accor-
to che il tuo apripista, il tuo vecchio compagno di giochi, non era tornato dalla
sua ultima missione?
Come hanno giustificato la tua proiezione nel futuro in avanti di trent’anni
rispetto all’obiettivo? Ancora con l’inquinamento temporale?
Non fa niente. Avrebbero comunque trovato un modo per farmi stare zitto,
se non fossi stato già un cadavere ambulante. Col polonio, magari.
Devi aver montato un bel casino per riuscire a convincere quelli della Con-
Von. Avrebbero potuto lasciare lì anche te. Si sarebbero volentieri liberati di un
altro piantagrane se il progetto ormai non fosse stato quasi pronto per l’avvio.»

Indica con un dito contratto il giornale sul comodino, quello che gli porto
regolarmente. Ogni volta gli stessi editoriali, gli stessi titoloni in prima pagina.
La stessa carta, lo stesso inchiostro.

«Ora la Configurazione Vonnegut è sulla bocca di tutti. Il viaggio nel futuro


è possibile e di dominio pubblico. Ci saranno premi e celebrazioni. L’Inaugu-
razione.
Sai come la chiamano? La Metropolitana del Tempo. Come se non fosse a
uso e consumo di una ditta privata.
Chi controlla il futuro controlla tutto e anche di più. Passato, presente, fu-
turo e tutte le forme ibride e alternative in mezzo. Terrificante.
Tutto ciò che il mondo potrebbe essere, e quello che non sarà mai, in mano
alla ConVon.
Pensa alla globalizzazione e trasponila sul piano temporale. Campagne di
conquista, sfruttamento, bolle economiche che scoppiano negli anni Cinquanta

165
Futuri 18 narrazioni

e si fanno sentire nel Medioevo. Padroni inquisitori che assillano via videoter-
minale giovani di generazioni non ancora nate.
Quelli della ConVon possono mandarmi tutti gli inviti che vogliono.
Io non sono un eroe. Una volta ero un soldato, per soldi. Ora sono un ma-
nichino.
E poi, non ce la farei neanche con una sedia a rotelle.»

Gli occhi che hanno spento decine di vite da dietro un mirino si chiudono.

«Devi andare. Voglio godermi il tempo che mi resta, finché ha un senso.»

Lo accontento. Sono quasi alla porta, sollevato, già libero, quando mi ri-
chiama per l’ultimo consiglio:

«Butta l’orologio.»

Penso a quello che potrei dirgli prima di andare.


Che gli rimangono solo due ore e trentasei minuti di vita.
Che anche la prossima volta che verrò a trovarlo mi racconterà delle stesse
ossessioni.
Che sono proprio le sue ossessioni, tramutate in realtà dalla ConVon, che
mi consentono di tornare ogni volta al suo capezzale.
E invece nulla. Non dico niente. Mi godo una boccata d’aria fresca in corri-
doio. Espiro e mi avvicino a uno dei finestroni. Poggio la fronte al vetro.
Fuori, il cantiere lavora, fedele alla crescita e al progresso. Enormi fonda-
menta circolari emergono dalla terra, coronate da gru e sorveglianti armati.
Questa non è Mogadiscio, non è la Mesopotamia. Questo è il Primo Mon-
do, agli albori di una nuova colonizzazione.
Un furgone si è appena accostato al ciglio dello scavo. Il portellone poste-
riore si apre e un gruppo di uomini in catene si riversa all’esterno. Sono perlo-
più nudi. Alcuni hanno indosso solo un lercio perizoma di lino o una pelle di
animale.
Un’infermiera, forse la stessa neanderthalensis di prima, o forse un’altra, mi
grugnisce contro dall’altra estremità del corridoio.
«Ok, Java. Vado» le dico, ma non mi muovo.
Riporto l’attenzione al cantiere giusto quando dal gruppo di schiavi si stac-
ca una creatura pelosa, una specie di ominide che cerca la libertà correndo
ancora a quattro zampe.
Uno dei sorveglianti alza il fucile.
Distolgo lo sguardo prima dello sparo.

Racconto apparso per la prima volta su Specularia il 22 ottobre 2022. Si rin-


grazia Andrea Viscusi per la concessione dei diritti di ripubblicazione.

166
Autorə

Andrea Apollonio è dottorando in Mutamento sociale e politico presso l’Universi-


tà di Torino e l’Università di Firenze. Si occupa di costruzione sociale del passato
e uso politico della memoria collettiva in Europa e Giappone. È stato cultore della
materia e tutor di lingua e cultura giapponese presso l’Università di Milano-Bicoc-
ca.

Filippo Barbera è Professore ordinario di Sociologia Economica all’Università di


Torino, dove insegna Teoria sociale applicata, Sviluppo locale e Innovazione socia-
le. È inoltre Head of Research di Forwardto e affiliato del Collegio Carlo Alberto.
Si occupa di innovazione sociale, economia fondamentale e sviluppo delle aree
marginali.

Marica Castaldi è laureata in Scienze Sociali presso l’Università di Napoli Federico


II. I suoi interessi e studi vertono sull’analisi della società digitale.

Valentina Chabert è caporedattrice dell’area Ambiente ed Energia di Opinio Juris


– Law and Politics Review. Laureata in Comparative International Relations all’U-
niversità Ca’ Foscari di Venezia, ha studiato giornalismo geopolitico all’Eastwest
European Institute e lavorato per il Consiglio d’Europa.

Thomas F. Connolly è Professore di Humanities & Social Sciences e Fellow del


Center for Futuristic Studies presso la Prince Mohammad Bin Fahd University.
Titolare della Medaglia Parlamentare della Repubblica Ceca. Il suo prossimo libro
Good-bye Good Ol’ USA. What America Lost in World War II: The Movies, The
Home Front and Postwar Culture è in uscita per la Houghton Mifflin/PMU Press.

Mara Di Berardo è co-chair del nodo italiano del Millennium Project, per il quale
è responsabile della comunicazione. È altresì Communication officer del Foresi-
ght Europe Network dal 2021 e membro di Futura Network di ASviS-Alleanza
Italiana per lo Sviluppo Sostenibile. Ha ricoperto incarichi presso l’Istituto per
le Applicazioni del Calcolo e l’Istituto Nanoscienze del Consiglio Nazionale delle
Ricerche.

Gabriele Di Francesco è docente di Sociologia Generale presso l’Università “G.


d’Annunzio”, Chieti-Pescara, già presidente del Corso di studio in Servizio Socia-
le. Tra i suoi interessi scientifici: metodologia della ricerca, etnografia, sociologia
storica, sostenibilità ambientale, dipendenze patologiche, sociologia dell’alimenta-
zione. Giornalista-pubblicista dirige le riviste scientifiche Ratio Sociologica, Journal
of Social Housing e Studi Medievali e Moderni.
Annamaria Dichio è Digital Promoter del PID – Punto Impresa Digitale della
Camera di Commercio della Basilicata e formatrice su tematiche inerenti digitaliz-
zazione e Industria 4.0, nonché docente di Filosofia e Storia nei Licei. Già vicepre-
sidente della sezione lucana della Società Filosofica Italiana, è socia della SIpEIA
– Società Italiana per l’Etica dell’Intelligenza Artificiale.

Adolfo Fattori è Professore di Fenomenologia dei Media all’Accademia di Bel-


le Arti di Napoli, già docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi
all’Università Federico II di Napoli. Membro del Consiglio scientifico dell’Italian
Institute for the Future. Tra le sue pubblicazioni: Di cose oscure e inquietanti. Im-
maginario, letteratura e serie tv (2019).

Lorenzo Fattori è assegnista di ricerca in Organizzazione aziendale presso la


Scuola Superiore Meridionale. Si occupa principalmente di studi sui trasporti e
sui processi mediali. Tra le sue pubblicazioni: Motori e miti della modernità (2021).

Maurizio Hernandez Ramirez è economista e membro del direttivo dell’Associa-


tion of Professional Futurists (APF). Ha ricoperto incarichi di insegnamento alla
Harvard Kennedy School, Accademia Cinese delle Scienze Sociali, Università della
California a Irvine, The Quality of Government Institute in Svezia, Banca latinoa-
mericana di sviluppo. È fondatore in Messico della Universidad del Futuro®.

Paolo Jedlowski è Professore ordinario di Sociologia all’Università della Calabria,


dove coordina il Dottorato in Politica, cultura e sviluppo. Ha insegnato anche
all’Università di Napoli “L’Orientale” e all’Università della Svizzera Italiana. Già
vicepresidente dell’Associazione Italiana di Sociologia, è tra i fondatori della socio-
logia della memoria in Italia. Tra le sue pubblicazioni: Memorie del futuro (2017).

Vincenza Pellegrino è Professoressa associata all’Università di Parma, dove inse-


gna Politiche sociali e Sociologia della globalizzazione. È stata consulente del Con-
siglio d’Europa e della Regione Emilia-Romagna (“Community Lab”). Membro
del Consiglio scientifico dell’Italian Institute for the Future. Tra le sue pubblica-
zioni: Futuri possibili. Il domani per le scienze sociali di oggi (2019).

Gloria Puppi è condirettrice dello Speculative Design Hub dell’Italian Institute


for the Future, di cui è membro del consiglio direttivo. Si occupa di speculative
design anche attraverso Novus Lab e ha creato il metodo “Futurize Me” per fa-
cilitare la creazione di scenari, oggetti e servizi futuri. È inoltre sceneggiatrice e
narrative designer.

Oleksandr Sharov è ricercatore presso il National Institute for Strategic Studies e


l’Institute of Economics and Forecasting di Kiev. Negli anni Novanta ha ricoperto
l’incarico di Vicegovernatore della Banca Nazionale dell’Ucraina e negli ultimi due

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decenni ha servito come diplomatico sia all’estero che presso il Ministero degli
Esteri, come responsabile delle relazioni con le organizzazioni finanziarie interna-
zionali.

Luigi Maria Sicca è Professore ordinario di Organizzazione aziendale presso


l’Università degli Studi di Napoli Federico II e coordinatore del Ph.D. in Law
and Organizational Studies for People with Disability presso la Scuola Superiore
Meridionale. È inoltre Direttore scientifico di puntOorg International Research
Network.

Donato Speroni è responsabile della redazione di ASviS-Alleanza Italiana per lo


Sviluppo Sostenibile. È stato vicedirettore del settimanale Il Mondo, direttore cen-
trale per le relazioni esterne dell’Eni e responsabile immagine dell’Istat. Ha inse-
gnato per 15 anni Economia e statistica all’Istituto per la formazione al giornalismo
di Urbino. Tra le sue pubblicazioni: 2030. La tempesta perfetta (con G. Comin,
2012).

Flavio Torba non esiste, ma ciò non gli impedisce di contemplare l’orrore. Ha pub-
blicato racconti su antologie e litblog (Verde, L’Ircocervo, Malgrado Le Mosche, la
nuova carne). Alcuni suoi racconti lunghi sono stati pubblicati nelle collane di De-
los Digital. Link portfolio e social: linktr.ee/flaviotorba

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FUTURI n. 18
Rivista italiana di futures studies
Anno IX / Dicembre 2022
Semestrale
ISSN 2284-0923
www.futurimagazine.it

Direttore:
Roberto Paura

Comitato editoriale:
Adriano Cozzolino
Alessandro Mazzi
Carmen Papaleo
Daniela Porpiglia
Luigi Somma

Comitato scientifico:
Carolina Facioni (coordinatrice)
Antonio Camorrino
Riccardo Campa
Fabio Corbisiero
Piero Dominici
Adolfo Fattori
Gabriele Giacomini
Jennifer Gidley
Vincenza Pellegrino
Roberto Poli
Elisabetta Ruspini
Erik Stengler
Oleksandr Sharov
Donato Speroni
Giuseppe Zollo

Progetto grafico e impaginazione:


Chiara Manzillo

Cover:
Fabio Caiazzo

Italian Institute for the Future


Via Gabriele Jannelli, 390
80131 Napoli
www.instituteforthefuture.it
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