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MODULO I
Che cosa studia l’antropologia
L’antropologia vuole capire l’essere umano nella sua dimensione culturale:
ognuno di noi nasce e vive dentro una cultura che, al pari del suo patrimonio genetico e delle sue caratteristiche biologiche, influenza profondamente ciò che è e ciò che fa. Lo sguardo antropologico si basa su principi e metodi specifici: confrontare le culture, individuando analogie e specificità; leggere i fenomeni all’interno del loro sistema culturale; tradurre nella propria cultura, cercando di non tradirli, i pensieri e i concetti dell’altro. Ma ciò che più caratterizza l’antropologia è la necessità di svolgerla concretamente, a stretto contatto fisico con i gruppi di persone che si vogliono studiare.
L’antropologia fa parte delle cosiddette scienze umane, come la psicologia,
la sociologia e la pedagogia. Letteralmente significa “discorso sull’essere umano”; ma è una definizione vaga, perché molti altri sono i saperi che si occupano dell’uomo: oltre alle scienze umane, anche storia, filosofia, biologia, medicina, economia, linguistica, archeologia, geografia umana ecc. Per capire meglio in che cosa l’antropologia si differenzia da queste altre discipline, bisogna per prima cosa distinguere fra antropologia fisica e antropologia culturale (in altre tradizioni di ricerca sviluppatasi con i nomi di “antropologia sociale” e di “etnologia”): • la prima studia l’essere umano come organismo biologico, considerando aspetti come la variabilità fisico- somatica, l’adattamento all’ambiente, la sua diffusione a seguito dell’evoluzione, chiedendosi come, perché e quando siamo diventati gli animali che siamo; • la seconda, invece, è la scienza dell’uomo in quanto produttore di cultura e si focalizza sullo studio delle diversità culturali umane. Cultura e diversità
L’antropologia è lo studio della CULTURA , cioè dell’insieme di credenze,
pratiche e simboli appresi e condivisi dagli individui di una comunità. In verità, l’antropologia studia non “la cultura” ma “le culture”, nelle loro molteplici forme: è dunque la scienza della DIVERSITÀ CULTURALE. L’antropologia non vuole definire in astratto che cosa è una cultura, ma comprendere il CAMBIAMENTO CULTURALE , cioè come le culture si tramandano e si trasformano. La cultura occidentale ha spesso riconosciuto negli altri popoli un’ ALTERITÀ , una diversità radicale, che l’antropologia ha il compito di interpretare e di decodificare. Il suo oggetto di studio è la differenza culturale intesa non più come caratteristica delle popolazioni lontane, ma come qualcosa che è disseminato ovunque. Le società oggi sono più che mai meticce, hanno confini confusi e mutevoli. Per questo gli antropologi sono dappertutto; ma rispetto a qualche secolo fa, lavorano più spesso nelle metropoli che nei villaggi. La natura culturale degli esseri umani
Ma che cos’è esattamente la cultura? Nel linguaggio comune, generalmente
è intesa come il patrimonio di conoscenze possedute da un individuo; “farsi una cultura”, in questa accezione, significa dotarsi di una formazione umanistica, distinguersi come individuo “colto”. Ma all’antropologia interessa la cultura in un’accezione più ampia, come l’insieme di credenze, pratiche e simboli appresi e condivisi dagli individui di una comunità. Questa definizione, che come vedremo è stata coniata nel 1871 da uno dei fondatori dell’antropologia culturale, Edward B. Tylor p. 49, si riferisce a tutti gli esseri umani e include elementi sia concreti (strumenti, vestiti, tecnologie, pratiche, usanze) sia intangibili (credenze, valori). Tutte queste realtà servono a mediare con l’ambiente in cui ci si muove. L’essere umano è infatti un organismo bio-culturale, la cui esistenza è segnata dall’interdipendenza fra processi sociali, culturali, psichici e biologici. A differenza delle altre, la nostra specie è biologicamente incompleta, per quanto riguarda l’anatomia e l’istinto. I cuccioli animali generalmente raggiungono presto l’autonomia, crescono in fretta e mettono in atto schemi comportamentali immediatamente adeguati. I piccoli umani hanno invece bisogno di tempi più lunghi e di una lunga inculturazione da parte degli adulti. E la nostra struttura anatomica non ci avvantaggia: non siamo rapidissimi, non sappiamo volare, abbiamo bisogno di coprirci e di ripararci dagli agenti atmosferici. Tuttavia, è stata proprio questa carenza anatomica a consentire al genere umano di sviluppare la capacità di adattarsi e di vivere in tutte le aree del pianeta. Per farlo, però, ha dovuto sviluppare una componente culturale che gli permettesse di agire nel mondo, prima di tutto creando strumenti da usare come “prolungamenti” degli arti: se è vero che non siamo anatomicamente equipaggiati per vivere nell’Artico, è altrettanto vero che siamo in grado di fabbricare indumenti in pelliccia, ripari per isolarsi dal freddo e armi per cacciare e difendersi.
In maniera schematica, possiamo dire che la cultura ha le seguenti
caratteristiche: • è operativa, perché permette di relazionarsi pragmaticamente con l’ambiente; • è selettiva, ossia seleziona – o scarta – modelli del passato da applicare alla situazione attuale; • è plurale: nei diversi luoghi del pianeta gli esseri umani non nascono con una cultura specifica, ma con una predisposizione ad attuare alcune fra le molte opzioni possibili. Piuttosto che di cultura bisognerebbe dunque parlare, al plurale, di culture; • è porosa, in quanto non ha confini ben definiti. Come possiamo, per esempio, tracciare il confine fra la cultura italiana e quella inglese? Certamente esse hanno più somiglianze che con la cultura inuit, ma d’altra parte sono anche molte le cose che le differenziano; • è stratificata, poiché comprende diverse sottodivisioni, come le sottoculture o i gruppi etnici. Il fatto che un gruppo condivida una cultura non significa che tutti gli individui che ne fanno parte pensino o agiscano allo stesso modo; • è dinamica. Questa è la caratteristica più importante della cultura: cambia costantemente in risposta a fattori interni ed esterni. Poche popolazioni vivono o hanno vissuto in totale isolamento: le migrazioni e le relazioni matrimoniali o commerciali hanno da sempre favorito il movimento di idee da un’area all’altra del pianeta, determinando un continuo cambiamento culturale. Per questo possiamo dire che la cultura è qualcosa che costruiamo sempre in relazione a qualcun altro. È un processo in continua elaborazione, tanto che l’antropologo italiano Marco Aime (n. 1956), per definirla, ha proposto di usare l’immagine di un cantiere sempre aperto, in cui si smonta e si rimonta, a volte prendendo a prestito o cedendo pezzi ad altri cantieri. La continua trasformazione delle culture;
Da quanto abbiamo detto, possiamo definire l’antropologia come la scienza
che studia la cultura umana nelle sue molteplici forme, dunque la scienza delle culture, o meglio ancora la scienza della diversità culturale. Le analogie e le differenze tra le culture umane hanno da sempre rappresentato una questione per storici, filosofi, geografi e antropologi. È evidente che esistono “universali culturali”, ossia caratteristiche riscontrabili sempre e ovunque. George Murdock (1897-1985), un antropologo che negli anni Sessanta ha compilato un atlante delle popolazioni umane, ne ha individuati circa una sessantina, tra cui: • comunicazione, cioè un modo distintivo di esprimersi; • sistema etico/giuridico, cioè un insieme di regole sul dire la verità, sull’uccidere, sul rubare ecc.; • diritti e responsabilità, cioè un’idea sui comportamenti appropriati a seconda dell’età e del genere; • miti e ideologia: una concezione del soprannaturale, spesso ritualizzata in una religione, e un insieme di idee e di valori sul mondo; • decorazione corporea e/o abbigliamento, con vestiti e accessori da usare o da vietare; • struttura familiare, ossia un’idea di come si compone il nucleo familiare; • regole sessuali: tutte le culture vietano la procreazione o il matrimonio con parenti stretti, ma il resto delle regole varia di caso in caso; • preferenze alimentari, ossia quali sono i cibi buoni e cattivi, appropriati o vietati. Nonostante l’esistenza inconfutabile di comportamenti apparentemente identici, è evidente che le differenze sono più delle costanti, anche rispetto a tratti culturali apparentemente “universali”. Questa mole di diversità, che l’antropologia ha il compito di documentare, descrivere, spiegare, interpretare, è il risultato dell’interazione di variabili sociali, culturali, ambientali e tecnologiche: per esempio le risorse naturali disponibili, le tecnologie possedute, gli scambi, le influenze esterne ecc. Lo studio della cultura e la ricerca antropologica
L’INCULTURAZIONE ● Il ritmo sempre più accelerato con cui evolvono
le civiltà ha condotto gli antropologi a interessarsi sempre meno a definire in astratto che cosa è una cultura – quali sono le sue funzioni o le strutture su cui si regge – e sempre più a capire come le culture si tramandano, si trasformano e si incrociano l’una con l’altra. La cultura si trasmette in diversi modi. Attraverso l’inculturazione (o socializzazione) l’individuo la acquisisce dal proprio gruppo (famiglia, gruppo etnico, comunità religiosa, classe sociale ecc.) o di un suo segmento, tramandandola a sua volta ai figli. In questo caso la trasmissione culturale ha una dimensione intergenerazionale, che ne assicura una certa continuità e stabilità nel tempo, perché molti elementi del passato (tradizioni, valori), trasmessi ai figli, sono preservati e riportati nel presente. Tuttavia, il passaggio da una generazione a un’altra comporta anche una certa dose di cambiamento: non tutti i tratti culturali sono selezionati e trasmessi. Sono sempre possibili innovazioni e scoperte, che affermatesi in una generazione passano al patrimonio culturale di quella successiva. L’ACCULTURAZIONE ● La cultura si trasmette anche per acculturazione, ossia per acquisizione – consapevole o inconsapevole – di una cultura o di alcuni tratti culturali di un altro gruppo. In questi casi il cambiamento culturale prevale sulla continuità. L’emigrazione è uno dei casi di acculturazione in cui due sistemi culturali a contatto si “scambiano” e “trasformano” i modelli di comportamento di ciascun gruppo. Per descrivere questi processi di scambio, l’antropologia moderna ha introdotto alcune metafore, come quella di “ibridismo”, di “meticciato” e di “creolismo”. Ibridismo è un termine preso a prestito dalla biologia, dove indica l’unione o l’incrocio di individui vegetali o di animali di razze e specie diverse. Il concetto di meticciato, invece, in origine definiva gli individui nati dall’incrocio fra i conquistadores spagnoli e portoghesi e le popolazioni amerindie precolombiane. In senso più ampio, oggi è usato come sinonimo di mescolamento culturale. Lo spagnolo criollo e il portoghese criolho si riferivano invece ai figli dei colonizzatori concepiti nelle Americhe con donne europee, amerindiane o africane. Per estensione, il concetto di creolismo è usato per descrivere processi particolarmente intensi di mescolanza culturale, come quelli dei Caraibi, del Nordest del Brasile o del Sud degli Stati Uniti. Qui la fusione fra culture è stata particolarmente forte, dando vita a forme nuove e del tutto originali nella cucina, nel ballo, nella pittura, nella letteratura e spesso anche nella religione. Un buon esempio di creolizzazione culturale è la cucina dei Caraibi, un vero e proprio mix di tradizioni: quelle indigene originarie, quelle dei conquistadores europei, ma anche quelle africane degli schiavi che lavoravano nelle piantagioni, a cui si sono aggiunte nel tempo influenze indiane e asiatiche. Non tutti i cambiamenti culturali sono “spontanei”, ossia scaturiti dalla normale dinamica di scambio tra due società. Vi sono anche casi in cui una cultura più forte – economicamente o militarmente – impone con la forza un cambiamento a un’altra. È il caso delle trasformazioni imposte dalle potenze coloniali nei continenti extraeuropei o di quelle pianificate da progetti e programmi di sviluppo. L’antropologia ha però mostrato come anche in questi casi l’acculturazione sia uno scambio a doppia direzione: è raro che le società dominate accettino completamente le innovazioni imposte e non elaborino qualche forma di reinterpretazione o adeguamento alla cultura dominante. L’antropologia della contemporaneità
L’antropologia contemporanea, più che un campo di studio, è una
prospettiva di analisi culturale, che deriva dall’adozione del paradigma della contemporaneità. Il paradigma della contemporaneità, in alternativa al paradigma dell’inattualità, è la base della produzione di una forma di conoscenza in cui è centrale il riconoscimento che tutti gli esseri umani sono avvolti dalla stessa cornice spazio-temporale della simultaneità. A lungo l’antropologia si è concentrata nello studio di presunti angoli di mondo, di quelle “isole felici” immerse in un eterno presente, atemporali, quindi ricche di una cultura incontaminata e priva di elementi moderni che ne guastassero l’armonia, senza riconoscere la comune matrice di contemporaneità che ci avvolge tutti. La ricerca antropologica diventa uno strumento centrale per costruire un campo discorsivo in cui collocare la diversità culturale, quale che sia la forma che assume e il posto o i posti in cui si manifesta, senza connotazioni in termini di esotismo, arretratezza, sottosviluppo, tradizionalismo, irrazionalismo, inefficienza, e altro, ma solo in termini politici, vale a dire evidenziando le gerarchie, le disuguaglianze, gli sfruttamenti, le violenze strutturali che ancora imperano in tutto il mondo, nonostante, anzi forse grazie alla globalizzazione, da questo punto di vista un proseguimento della conquista, del colonialismo, dell’imperialismo, e che l’antropologia inattuale spesso ha scambiato per scarti/differenze culturali. L’interpretazione della cultura secondo Geertz
Clifford Geertz, un antropologo culturale molto influente che ha
sviluppato, tramite il lavoro sul campo e le relazioni sociali che con questo ne conseguirono, un approccio positivo e concettuale dello studio della cultura. Clifford Geertz nasce il 23 agosto del 1926. È stato un eminente retore e fautore dell’antropologia simbolica ed interpretativa, che pone al centro della sua analisi i simboli. Secondo Geertz i simboli guidano l’azione e di conseguenza la cultura viene indicata come «un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche mediante le quali gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e atteggiamenti verso la vita». «Cerca la complessità e dalle un ordine». A partire da questa citazione del filosofo britannico Alfred North Whitehead, in riferimento alle scienze sociali, Geertz sviluppa l’analisi del concetto di cultura. Per rendere questa definizione più comprensibile dobbiamo pensare a questo sistema di cultura come ad un insieme di simboli e di significati; ad ogni simbolo corrisponde un significato preciso e ogni società, o più comunemente ogni persona, vi associa un interpretazione. Questi sistemi culturali possono essere trattati come dei testi; il ruolo degli antropologi è quindi quello di ricostruire sui diversi livelli di interpretazione il testo della cultura così da poterli analizzare e comprendere. Geertz è conosciuto per il suo grande lavoro sul campo, che l’ha portato a sviluppare numerose teorie. Il suo scritto più importante, “Interpretazioni di culture” (1973) presenta e analizza il concetto di cultura sotto vari fenomeni. Tra questi vi è una delle sue tesi più famose: il fenomeno sociale del combattimento dei galli a Bali. Durante la sua permanenza a Bali, per stabilire un contatto con gli abitanti, Geertz decise di recarsi insieme alla moglie ad uno di questi combattimenti. Nel testo, ci informa che i galli vengono allevati numerosi in quasi tutte le famiglie che possono permetterselo. Ma questi galli non sono propriamente animali domestici bensì galli da combattimento; vengono nutriti per diventare forti e vengono educati all’aggressività. Gli incontri avvengono all’interno del Tempio Pura Desa di Ubud, e sono autorizzati poiché organizzati per finalità spirituali, come sacrificio di purificazione offerto agli Dei. Gli animali vengono istigati dal proprio “padrone”, che gli tira con forza le piume del collo, una lama lunga una decina di centimetri è fissata con dello spago colorato a una delle zampe così da provocare la morte dell’avversario. Uno spettacolo crudo e spietato incitato dal pubblico che scommette tra loro. Lo studioso, analizzando questo fenomeno, riscontra molti più aspetti interessanti di quanti se ne possano immaginare; primo fra tutti l’identificazione psicologica e simbolica degli uomini con il proprio gallo, il quale viene considerato come il genitale maschile. Nella lingua balinese infatti, il termine “Sabung” (gallo) viene usato in senso metaforico e rappresenta l’eroe; le qualità maschili sono continuamente filtrate attraverso comparazioni incentrate sui galli. Oltre al significato virile, i galli sono anche considerati un’espressione simbolica di ciò che rappresenta l’esatto contrario della condizione umana: l’animalità alla quale è collegata un’altra dimensione simbolica della cultura balinese, il potere ultraterreno. Il combattimento assume quindi un significato molto profondo; è un rito in cui bene e male, animale e umano, terreno e spirituale si fondono in un combattimento cruento e si mettono in palio non solo soldi, che pur rappresentano un simbolo di importanza morale, ma anche onore, rispetto e stima tra singoli, tra famiglie e tra classi sociali. Altra caratteristica interessante è la durata degli incontri; velocissimi e in cui non c’è praticamente nulla da vedere. Venivano organizzati due o tre volte alla settimana e in un certo senso potevano essere considerati come degli eventi accessori. La conclusione cui giunse Geertz fu che questi combattimenti anziché essere avvenimenti frivoli, erano in realtà molto vicini al cuore degli interessi principali dei balinesi. Questo non perché lo status venga determinato dai combattimenti dei galli, ma perché in questa occasione esso viene messo in risalto e drammatizzato. Per la ricchezza e l’eterogeneità delle emozioni che offrono, dalla gioia al dolore, dalla rabbia all’eccitazione, questi combattimenti vengono considerati dai balinesi come le fasi fondamentali per l’educazione emozionale e per la consapevolezza della propria sensibilità. Il giorno dopo il combattimento Geertz scoprì che l’intero villaggio si era aperto verso di lui, essendo diventato il centro dell’attenzione e della cordialità della comunità. Questo esempio è da lui citato a conferma dell’importanza di essere accettati. Nello studio presentato nel libro lo studioso ci aiuta a comprendere e conoscere un mondo diverso dal nostro, in cui gli status sociali vengono determinati dallo scontro umano e animale. Gruppi parentali, individui, caste, classi privilegiate competono tra loro e ai nostri occhi tutto questo può essere visto come crudele, assurdo e da non imitare. «Molto di Bali affiora in un ring per galli. Perchè solo apparentemente vi combattono dei galli; in realtà sono uomini.»