Verga Italian Edition
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RITRATTI DI AUTORI ITALIANI MODERNI
E CONTEMPORANEI NELLA STORIA DELLA CRITICA
VERGA
MILELLA — LECCE
METROPOLITAN <e f_1
TORONTO |,
LIBRARY __—S
Languages
ISBN 88-7048-072-0
MAY 2 5 1987
PARTE PRIMA
Pi Re:QuE: led
8
cui guardano i patriotti italiani — de / carbonari della mon-
tagna, nazioni di cui Verga aveva imparato alla scuola di
Abate ad apprezzare la mentalità e di cui conosceva e ammi-
rava la storia. Una società cioè retta da una classe dirigente
in grado di esercitare, da un lato, una sovranità morale oltre
che economica, dall’altro, di garantire, grazie alla benevola
disposizione verso le classi subalterne, quella pacifica convi-
venza sociale che costituiva uno degli obiettivi primari
dell’ideologia interclassista cara alla borghesia risorgimentale.
Che fosse un mito ancora ingenuo ed immaturo lo pro-
vano, però, sia la mancanza oggettiva, nella situazione meri-
dionale, di una fascia consistente di borghesia in grado di
realizzare quel progetto e rendere egemonici quei valori, sia
la logica manicheistica a cui quel modello viene subordinato
nella strutturazione dei romanzi. La produzione giovanile di
Verga: dominata, infatti, dal culto romantico dell’individuo
d’eccezione capace con il suo eroismo di riscattare la schiavi-
tù di tutto un popolo, finisce coll’assoggettare l’intento di ri-
costruzione realistica ad un meccanismo narrativo ricco di
colpi di scena e di paradossali agnizioni in cui la dialettica
storica e sociale tra oppressori ed oppressi, patriotti e domi-
natori stranieri, si trasforma in una astratta e inverosimile
contrapposizione tra buoni e cattivi.
Nasce da quest’impegno unitario e da una profonda
aspirazione all’integrazione nel ceto intellettuale nazionale
anche il primo viaggio a Firenze, allora capitale d’Italia, nel
1865, e la decisione, più tardi, di stabilirvisi nella convinzio-
ne che «per diventare qualche cosa», per svolgere cioè un
ruolo che contasse nella cultura italiana post-risorgimentale,
bisognasse vivere lì dov’era «il centro della vita politica e in-
tellettuale d’Italia» per farsi conoscere e conoscere, «respi-
rarne l’aria insomma».
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vaudeville servono da supporto alla delineazione di alcune fi-
gure sociali emblematiche i cui comportamenti indicano tutti
i modi possibili — diversi e antitetici — con cui le classi do-
minanti potevano realizzare o tradire il proprio compito di
guida economica e morale del paese.
La polemica contro l’aristocrazia cittadina (impersonata
nei Nuovi tartufi dalla cinica coppia senza scrupoli formata
dalla contessa Giulia di Monterosso e da Giorgio di San Gio-
condo; in Rose caduche dalla frivola contessa Baglini e dal
suo Cavalier servente Falconi) rea di aver sacrificato al gioco
fatuo e immorale della mondanità anche i sentimenti, si spo-
sa al timore che quelle norme di vita possano sedurre e tra-
viare l’ingenua, attiva e morigerata borghesia di provincia. È
questa, infatti, che va difesa e additata ad esempio di opero-
sità, lealtà e sanità morale alla nazione intera, perchè in essa
e nelle sue virtù da «galantuomini» si riconosca interamente.
I suoi caratteri qualificanti sintetizzati — nei Nuovi Tartufi
— nella figura di Prospero Molmenti e soprattutto in quelle
dei suoi amici Alberto Varese e Rodolfo Zanotti, — in Rose
caduche — nella coppia formata da Paolo Avellini e Lucre-
zia rimandano, inequivocabilmente, alle virtù dei ceti medi.
Alla classe dei piccoli e medi proprietari terrieri della
Toscana appartiene infatti Prospero Molmenti, «provinciale
di pochi studi, ma di cuore retto»5, titolare di una azienda
vinicola grazie alla quale si è conquistato, oltre ad un solido
patrimonio, stima e rispetto altrui. Paolo, uno dei protagoni-
sti di Rose caduche, giovane e valente avvocato, rappresenta
invece l’attiva e onesta borghesia professionale cittadina; no-
nostante gli ambienti e le consuetudini di vita diverse, questi
personaggi hanno in comune una medesima filosofia della vi-
ta: quella distaccata maturità, cioè, che deriva dalla serena e
ll
consapevole accettazione dei vantaggi di una vita medio-
borghese fondata su un sapiente ed equilibrato dosaggio tra
l’amore per il lavoro e quello per la famiglia.
Nei valori della borghesia provinciale che informavano il
progetto fiorentino Verga aveva trovato, dunque, le indica-
zioni per concretare, in un confronto realistico con la situa-
zione sociale post-unitaria, la propria immagine utopica di
società; eppure anche quel modello o meglio il riformismo
ottimistico che ne sosteneva il disegno, era destinato, ben
presto, a rivelarsi velleitario, così come velleitarie e ingenua-
mente pedagogiche appaiono oggi quelle lontane opere di
Verga.
L’impatto diretto, negli anni del trasferimento a Mila-
no — città non a caso preferita per la sua maggiore centrali-
tà nei processi di sviluppo del mondo contemporaneo —,
con i meccanismi di un’economia fondata prevalentemente
sulla speculazione finanziaria e commerciale; la frequentazio-
ne di una società aristocratica la cui sopravvivenza era ga-
rantita dalla perpetuazione di profitti parassitari; lo scontro
con un sistema editoriale sempre più dominato dalle leggi di
mercato; la constatazione che i disvalori di quel mondo era-
no destinati a corrompere anche gli strati subalterni della so-
cietà, dovevano, infatti, corrodere progressivamente la fidu-
cia di veder realizzato un modello di sviluppo capace di sal-
vaguardare, accanto alle ragioni prettamente economicistiche
del progresso, quelle, altrettanto fondamentali, della crescita
morale e civile del paese.
La famosissima polemica della prefazione ad Eva non si
capirebbe senza la volontà di denunciare — a chi era in gra-
do di valutarne i tragici effetti — il tradimento perpetrato
nei confronti del concetto romantico-risorgimentale di civil-
tà, degradato, nella pratica di vita delle classi dirigenti, a
mero e meschino benessere materiale.
Delusione storica, scacco sociale, si sommano così in
Verga alla coscienza della profonda inattualità del ruolo di
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ideologo borghese, e modificano, fin dai primi anni milanesi,
l’atteggiamento dello scrittore nei confronti della propria
materia (la realtà) e dei modi, soprattutto, di rappresentarla.
Ne nasce la decisione — già evidente nella scelta di filtrare
tutto il racconto attraverso la testimonianza diretta di un
personaggio — di ridurre al minimo il proprio spazio di in-
tervento a favore di una ricostruzione quanto più diretta
possibile dei fatti. «Eccovi una narrazione — vi si legge nella
prefazione -— sogno o storia poco importa, ma vera, com’è
stata o come potrebbe essere, senza rettorica e senza ipocri-
sie»©. Eva dunque rappresenta una svolta nello sviluppo del-
la produzione verghiana. Da una parte, infatti, lo scrittore,
facendo propri i violenti toni scapigliati, accentua il proprio
moralismo. Dall’altra, però, rappresentando le alterne vicen-
de di un amore incapace di sottrarsi ai condizionamenti ma-
teriali della vita (esso si alimenta al profumo inebbriante del
palcoscenico e del lusso, mentre langue tra le difficoltà pro-
saiche del ménage piccolo-borghese) e giustificando l’atteg-
giamento di chi, come Eva, vivendo in quella realtà corrotta,
ne riconosce ed accetta la logica materialistica, Verga espri-
me il desiderio di divenire il cronista spassionato, se non ci-
nico, della costitutiva — per quanto amara — materialità
della vita.
Saggiata, dunque, in Eva, la possibilità, una volta defi-
nitivamente dissolta l’illusione pedagogica, di attribuire
all’arte una nuova funzione: quella di testimone disincantato
dei concreti processi sociali, Verga si impegna alla realizza-
zione di un romanzo d’argomento contemporaneo capace di
analizzare e rappresentare il profondo disorientamento delle
giovani generazioni, sviscerando le ragioni di quella crisi e
denunciandone le responsabilità. Rientrano in quest’ambizio-
so progetto, che è tutt'uno — significativamente — con la
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convinzione di contribuire alla nascita e allo sviluppo del ro-
manzo di argomento contemporaneo, sia Tigre reale che Eros
da cui Verga si aspettava successo di pubblico e riconosci-
menti critici. Questi romanzi intendono fondere l’obiettivo di
una narrazione oggettiva in terza persona con l’evidente vo-
lontà di scoprire, nell’intricato intreccio di contraddizioni tra
slanci ideali e meschinità egoistiche, le ragioni dello scacco
esistenziale di un’intera generazione, per consegnarne i risul-
tati al lettore che, trovandovi in qualche modo riflessa una
parte di sè, ne avrebbe potuto dedurre una preziosa lezione
di vita. La lezione è, in questo caso, trasparente e ripropone
la convinzione che la superficialità, l’incoscienza, l’inettitudi-
ne degli sbandati protagonisti sia il frutto dell’appartenenza
ad una società aristocratico-borghese che, vivendo di rendita
in un mondo artificioso e artificiale, è incapace tanto di ci-
mentarsi con i reali problemi della vita, quanio di porre un
limite alla propria sfrenata ricerca del piacere. Le colpe so-
no, dunque, di chi non ha saputo creare per questi giovani le
occasioni concrete per un impegno serio e fattivo nella real-
tà.
«Giorgio — commenterà il narratore in Tigre reale —
era arrivato alla maturità della giovinezza senza un ostacolo,
senza una contrarietà, senza avere l’occasione d’impiegare
una sola delle sue facoltà virili nelle lotte della vita»7, men-
tre Alberto, il protagonista di Eros, sconta sia le colpe di
una famiglia che l’ha privato del suo sostegno morale, sia gli
effetti negativi dell’essersi trovato erede di una fortuna senza
doverla, neppure, amministrare.
L’alternativa a quel naufragio morale sta nella capacità
di fare appello alle forze produttive del paese identificate,
ancora una volta, da Verga, con la piccola e media borghesia
di provincia. Non è un caso che alle deboli figure dei prota-
gonisti in crisi Verga contrapponga due donne con la loro
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dolcezza e modestia, ma, soprattutto, con il loro senso del
dovere e il loro attaccamento ai valori autentici della convi-
venza quotidiana, così come non è certamente privo di signi-
ficato il fatto che entrambe provengano da ambienti familia-
ri e sociali permeati dai valori cari a quei ceti (piccolo e la-
borioso proprietario terriero toscano il padre di Adele in
Eros, industrioso negoziante di zolfi quello di Erminia in 7i-
gre reale).
Poco importa allora se Giorgio, scosso dall’esempio del-
la dignità umana della moglie, che ha saputo resistere al sen-
timento d’amore nato in lei per il cugino, rinsavirà e se, in-
vece, il meno fortunato Alberto, alla morte della moglie, di
cui non ha saputo apprezzare la dedizione, si ucciderà perchè
entrambi, e con essi il lettore, dovrebbero comunque avere
capito che il senso e il significato più autentico della vita
vanno cercati sul piano concreto della quotidianità e che la
salvezza da ogni forma di spleen sta nella capacità di anco-
rarsi ai valori delle forze oneste e laboriose del paese.
Tigre reale, Eros in particolare, paragonati al Monsieur
de Camors di Feuillet, ebbero un buon successo a conferma
dell’esistenza in quegli anni di un pubblico che al romanzo
chiedeva di rappresentare le proprie problematiche sentimen-
tali e morali e che, dunque, in quelle vicende, e forse soprat-
tutto in quell’opposizione di fondo tra l’abbagliante attrazio-
ne della ricchezza e del piacere e l’imperioso richiamo al sen-
so di responsabilità morale e civile connaturato al proprio
ruolo dirigente, riconosceva alcuni tratti della propria con-
tradditoria e lacunosa affermazione come classe borghese;
eppure se Verga avesse continuato a produrre romanzi
realistico-borghesi sulla falsariga di questi oggi il suo nome
sarebbe noto solo agli studiosi di professione e quelle opere,
conclusa la loro stagione di consumo, sarebbero state defini-
tivamente dimenticate.
È vero infatti che il Verga verista autore delle novelle di
Vita dei campi appare, ancor oggi, a chi abbia seguito le vi-
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cende della sua prima fase artistica, uno scrittore incredibil-
mente diverso. Mutati completamente problematica e am-
biente sociale, il realismo verghiano presenta uno stile, un
linguaggio, una tecnica compositiva profondamente nuove e
rivoluzionarie. Si comprende come per spiegare questa tra-
sformazione i critici abbiano parlato di conversione; essa
non si giustifica, infatti, con la semplice sostituzione della te-
matica, da borghese a popolare, come suggeriva il program-
ma della letteratura realistica di quegli anni, nè è totalmente
riducibile alla scoperta — peraltro determinante come ve-
dremo — di un procedimento tecnico-formale come l’imper-
sonalità.
A confermarlo stanno, da un lato, Nedda (1874), la pri-
ma novella di ambiente contadino, in cui l’evidente somi-
glianza della vicenda della povera raccoglitrice di olive con
quella dei personaggi di Vita dei campi non è sufficiente a
qualificare in senso verista il racconto che, filtrato attraverso
l’ottica paternalistica del narratore-autore, assume un carat-
tere fondamentalmente patetico; dall’altro, Rosso Malpelo
(1878) in cui l’acquisizione dei canoni veristici non rende
completamente ragione della profondità e coerenza con cui
Verga espone i principi costitutivi di quello sconvolgente pes-
simismo darwinistico di cui Rosso si fa portavoce.
Poco sappiamo ancora di questi anni compresi tra il
1875, data di pubblicazione degli ultimi romanzi borghesi, e
il primo accenno al ciclo dei Vinti nella lettera a Salvatore
Paola del 1878.
Se possiamo dire di conoscere le tappe attraverso cui
prende forma la poetica verista (la collaborazione con l’ami-
co e sodale Luigi Capuana; l’influenza della narrativa fran-
cese, le polemiche suscitate dalla pubblicazione nel 1877
dell’ Assomoir di Émile Zola; le discussioni al Caffè Biffi sul
problema dell’impersonalità) più vaghi restano sia i tempi sia
i modi della progressiva, e oggi non più negabile, acquisizio-
ne della filosofia positivista di matrice darwiniana e della
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conseguente elaborazione di un sistema di pensiero coerente-
mente materialistico, sia i percorsi ideologici attraverso cui
Verga perviene ad una posizione di ribadita fedeltà conserva-
trice allo Stato, ma di profonda e disincantata sfiducia nella
possibilità di un suo sviluppo realmente progressivo.
Certo è che quella «conversione» dovette essere il frutto
di un lungo processo di riflessione critica oltre che di ricerca
e sperimentazione sul piano formale; una riflessione che non
potè non essere condizionata dalle vicende politiche ed eco-
nomiche di quegli anni cruciali quando sul tappeto, al centro
cioè dei dibattiti politici e degli scontri tra i partiti, stavano
alcune scelte di fondo in materia di sviluppo economico e
sociale.
Si è già detto come Verga, formatosi ai valori di
un’ideologia liberale di stampo risorgimentale, dovesse sen-
tirsi profondamente estraneo ed ostile agli obiettivi politico-
economici di una borghesia finanziaria e commerciale (quel
mondo di «Banche e di Imprese» che già aveva stigmatizzato
nella prefazione ad Eva) che, fondando la propria suprema-
zia economica sul meccanismo improduttivo della speculazio-
ne, andava sostituendo la ragione utilitaristica ad ogni altro
valore. Va aggiunto che egli non poteva non sentirsi profon-
damente deluso dall’alleanza venutasi a creare tra alta finan-
za e grande proprietà terriera; alleanza che, ribadendo l’in-
tangibilità del latifondo meridionale, tendeva a perpetuare e
spesso ad inasprire gli effetti deleteri sul piano sociale di
questa divisione della proprietà. Eppure questa situazione
doveva apparire, almeno nei primi anni milanesi, a Verga, il
retaggio di una vecchia ed ingiusta strutturazione della socie-
tà che lo sviluppo produttivo avrebbe dovuto o potuto elimi-
nare.
Il confronto oggettivo, d’altronde, tra le varie ipotesi di
sviluppo era ancora, a metà degli anni Settanta, aperto; il
suo esito si giocò proprio nel periodo dell’avvicendamento
elettorale tra Destra e Sinistra ed ebbe come posta in gioco
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la linea di politica economica più idonea a fare «anche
dell’Italia un paese moderno.
In rapporto a questo clima politico acquistano forse un
significato non episodico sia l'adesione di Verga alla fonda-
zione della «Rassegna settimanale», una rivista che sosteneva
un progetto di alternativa agraria in grado di promuovere
l’estensione della piccola e media proprietà terriera, sia la
sua collaborazione alla «Biblioteca dell’artigiano», un perio-
dico che puntava ad un riformismo interclassista capace, ga-
rantendo un progresso senza scosse, di battere il socialismo e
vanificare ogni tentazione rivoluzionaria. Se ne ricava infatti
una posizione politica che non esce dai limiti ideologici di un
atteggiamento conservatore, che non sfugge, soprattutto, alle
mistificazioni di una rappresentazione della dinamica sociale
fondamentalmente interessata al mantenimento dello status
quo, all’egemonia non discussa nè discutibile della classe
borghese, ma che, per giustificare alla propria coscienza la
legittimità di quell’egemonia, pretendeva che quel dominio si
esercitasse secondo criteri, da un lato, di autorevolezza pro-
duttiva e morale, dall’altro di filantropia interclassista. Era
una posizione questa comune, d’altronde, a gran parte
dell’intellettualità democratica del tempo — De Sanctis com-
preso — e che si rifletteva soprattutto nella convinzione che
il progresso economico dovesse essere inscindibile dall’eleva-
zione morale e intellettuale della nazione.
Eppure proprio quella linea che mirava, appoggiando la
crescita dei ceti medi, alla realizzazione di quello spontaneo
processo di accumulazione primaria che aveva costituito la
base della trasformazione borghese-capitalistica in paesi co-
me l’Inghilterra, doveva risultare, per il ritardo che lo svilup-
po italiano presentava rispetto agli altri paesi europei, per-
dente, inefficace a garantire una crescita industriale che, se
stentava a decollare, non poteva però essere ulteriormente ri-
mandata. Le scelte protezionistiche di quegli anni sanziona-
rono infatti il definitivo tramonto di quel progetto.
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L’amarezza per l’oggettiva e sempre più evidente incom-
patibilità tra obiettivi produttivi e rispetto dei valori fonda-
mentali dell’etica borghese, sommandosi, in un nesso diffici-
le da districare, alla lucidità disincantata di un atteggiamento
scientifico-deterministico che spinge lo scrittore a ricercare,
con sempre maggiore ostinazione, le motivazioni dell’agire
umano nei fattori materiali ed egoistici, diventa, così, una
delle componenti determinanti di quel pessimismo conossciti-
vo che è alla base dell’intero progetto verista, della ferma
volontà cioè di analizzare e rappresentare la società, a tutti i
suoi livelli, svelando senza pietà, nè reticenze, i nessi più
profondi e segreti — sempre meschini — che ne guidano e
dirigono il corso.
È il progetto esposto da Verga con piena consapevolezza
nella prefazione ai Vinti con il suo sintomatico rovesciamen-
to dell’immagine del progresso (un rovesciamento, già evi-
dente, d’altronde, nella tragica metafora della marea, primo
titolo del ciclo), la cui abbagliante luminescenza, vista da vi-
cino, appare costituita da un pullulare di vizi, miserie e me-
schinità umane.
Il verismo verghiano è tutt’uno con questa graffiante
critica del progresso borghese che, preservando lo scrittore
dai rischi di apologia del sistema, gli permette di svelarne la
duplicità di fondo, la contraddizione costitutiva cioè tra la
sua aspirazione al benessere e l’asservimento ad una logica
economica che, essendo fine a se stessa, non può non tra-
sformare quella ricerca in una spietata lotta concorrenziale
destinata a far trionfare l’egoismo e il cinismo dei più forti o
dei più furbi.
È vero, però, — e non lo si sottolineerà mai abbastanza —
che il verismo verghiano deve gran parte della sua validità
critica e gnoseologica all’abilità con cui lo scrittore seppe
realizzare una strutturazione formale del racconto capace di
esprimere questa nuova consapevolezza umana e intellettua-
le;
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L’impersonalità, motore e sostegno di tutta la poetica
verista, esprime infatti la volontà di porre tra sè e la materia
da rappresentare una distanza che renda impossibile ogni in-
terferenza da parte dell’autore. Ciò che Verga sentiva di do-
ver mimetizzare, in maniera tanto più pressante quanto più
distante dal proprio risultava l’ambiente da rappresentare,
era l’inevitabile deformazione che i propri codici interpretati-
vi, a partire da quelli linguistici, via via fino a quelli, ben più
inquinanti, del giudizio morale da esprimere sui fatti, avreb-
bero fatto subire alla rappresentazione. Una esigenza, inol-
tre, che doveva divenire tanto più urgente in Verga quanto
più egli andava scoprendo e constatando l’incolmabile scarto
che divideva la propria immagine ideale di società dalle sue
spietate leggi oggettive. Conseguire l’impersonalità era, dun-
que, il modo più efficace per sottrarsi ai propri miti, oltre
che lo strumento più idoneo per difendere la rappresentazio-
ne dal proprio risentito moralismo.
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punto di vista, di confermare il carattere disumanizzante del-
le leggi che regolano la vita associata.
La visione del mondo.in base.alla quale il narratore di
Vita dei campi, e dei Malavoglia in particolare, riferisce e
giudica è infatti un sistema di interpretazione grettamente
economicistico. Il narratore popolare valuta non solo gli av-
venimenti, ma anche i sentimenti umani secondo un metro
riduttivamente economico che tende a riportare ogni motiva-
zione a quella, esclusiva, del tornaconto personale; non con-
cependo altra giustificazione all’agire umano al di fuori
dell’utile materiale è incapace di capire qualunque forma di
rapporto disinteressato; sia gli affetti familiari, sia l’amore,
sia, più in generale, ogni manifestazione di solidarietà umana.
L’impersonalità finisce così col fornire un fondamento
oggettivo alle amare convinzioni ideologiche di Verga dato
che la società descritta da quell’ottica appare dominata, a
tutti i suoi livelli, compreso quello arcaico-rurale, dalla spie-
tata legge della sopraffazione. Ad osservarlo meglio non è
difficile scoprire però che il punto di vista brutalmente mate-
rialistico del narratore popolare non è del tutto attendibile;
se così fosse la delega della narrazione ad un simile narratore
rischierebbe non tanto di constatare e rilevare il cinico anta-
gonismo che domina i rapporti umani nella società borghese,
quanto di approvarlo. Va chiarito invece che l’impersonalità
non comporta affatto, da parte di Verga, la subalternità al
dato di fatto, nè, tanto meno, l’abdicazione ad una scala di
valori autentici con cui giudicare e condannare le tragiche
conseguenze umane di quella conflittualità. Il fatto è che es-
sa rende implicito questo giudizio affidandolo alla tensione
che si istituisce tra due sistemi di valutazione non solo diver-
si, ma inconciliabili: quello economico del narratore da un
lato; quello etico proprio sia agli eroi verghiani, sia all’auto-
re e al suo pubblico, dall’altro.
L’ottica secondo cui il narratore popolare interpreta gli
avvenimenti si rivela, dunque, in questo latente confronto-
21
scontro che è alla base di tutta la produzione verista, tenden-
ziosa e produce un effetto, come è stato felicemente definito,
di pseudooggettività*.
Il cinismo del narratore, la sua, più o meno inconsape-
vole, mala fede nello stravolgere i fatti — esemplarmente il-
lustrata dalle prime righe della novella Rosso Malpelo: «Mal-
pelo si chiamava così perchè aveva i capelli rossi; ed aveva i
capelli rossi perchè era un ragazzo malizioso e cattivo, che
prometteva di riescire un fior di birbone»? — si evidenzia, in-
fatti, nella drammatica tensione con un sistema non distorto
di valori, e, più concretamente, con una visione del mondo
in cui l’aspirazione al miglioramento economico, considerato
anche da Verga la molla effettiva di ogni progresso, non
escluda, però, nè il rispetto per le esigenze degli altri, nè la
possibilità di coltivare affetti e sentimenti disinteressati.
È l’etica di vita di tutti coloro che, sebbene emarginati o
destinati, comunque, a risultare sconfitti, sostengono con la
loro solidarietà umana i diritti calpestati da quello spietato
sistema concorrenziale, ma soprattutto quella della famiglia
Malavoglia, di Padron ’Ntoni in particolare, il cui tenace at-
taccamento ai suoi principi assume una tragica grandezza.
Si tratta di una filosofia della vita — formulata con di-
gnità e autorevolezza grazie al ricorso al discorso diretto —
che non a caso si sottrae alla mediazione deformante dell’in-
diretto libero; questo infatti è uno degli strumenti — indub-
biamente geniale ed innovativo — grazie ai quali Verga crea
quella simbiosi tra la mentalità del narratore e le convinzioni
della «comune degli uomini» con cui conferma l’oggettività
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oltre che l’immodificabilità del brutale sistema di sopraffa-
zione umana di cui va scoprendo e rappresentando le leggi.
Attraverso il profondo rispetto che gli eroi verghiani
manifestano per i fondamentali valori della convivenza uma-
na si esprime, ancora una volta, l’alternativa ideologica lega-
ta alla sopravvivenza di quel ceto onesto e industrioso di pic-
coli proprietari, di cui / Malavoglia, attraverso le vicende
della famiglia di Padron ’Ntoni, descrivono il drammatico
declassamento sociale — da proprietari di barche a salariati
— vittime di un sistema economico che aggiunge nuovi a
vecchi raggiri e soprusi. Essa ha perduto, però, ogni caratte-
re propositivo; la consapevolezza, infatti, che è proprio la fe-
deltà ai valori di una produttività onesta a determinare la ro-
vina economica della famiglia Malavoglia (evitabile se essi
avessero saputo o potuto accettare la logica capziosa e diso-
nesta dell’avvocato che li invitava a non pagare il debito
contratto con Zio Crocifisso) toglie ogni aspetto riformistico
a quella contrapposizione, assegnandole, tutt’al più, la fun-
zione di una utopica — e per questo così tragica e struggente
— tensione tra ciò che l’Italia borghese avrebbe potuto esse-
re mantenendosi fedele ai valori della sua ascesa, e ciò che,
invece, era divenuta.
Questa tensione anima tutta la produzione verista e pro-
duce quello sdegno impotente nei confronti della sconfitta
dei valori autentici che è una delle ragioni del persistente fa-
scino dell’arte verghiana. L’opposizione tra i due diversi mo-
di di concepire e praticare la ricerca del progresso (interna
allo stesso mondo di Aci-Trezza, dove si esprime nel contra-
sto esemplare che divide, nel romanzo, la comunità pettego-
la, insensibile ed egoista degli abitanti del villaggio dai perso-
naggi capaci di provare e manifestare una profonda solida-
rietà umana) investe la rappresentazione di tutti i livelli della
società: l’ambiente contadino come quello del sottoproleta-
riato urbano, la borghesia di provincia, come il mondo ari-
stocratico borghese della mondanità cittadina. Essa serve a
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smascherare, in alto come in basso, la corruzione e degrada-
zione umana che il totale asservimento al culto del benessere
materiale comporta.
Con alcune differenze però che scandiscono il progressi-
vo incupirsi del pessimismo verghiano e segnano alcune tap-
pe nella evoluzione della produzione verista.
Mentre in Vita dei campi, nei Malavoglia e nel Marito
di Elena, l'alternativa ideale è incarnata da alcuni dei perso-
naggi stessi, a partire dalle raccolte del 1883, in cui Verga
saggia contemporaneamente due realtà lontane e diverse, ma
altrettanto degradate — da un lato nelle Rusticane la realtà
contadina meridionale, dall’altro in Per /e vie il mondo del
sottoproletariato urbano — quell’alternativa diviene sempre
più debole.
Nessuno dei personaggi è ora più in grado di assumere
coscientemente la difesa di quei principi di vita; il loro defi-
nitivo tramonto è già sanzionato, senza possibilità d’appello,
in una novella emblematica delle Rusticane: Pane nero, che
ricostruisce la parabola di degradazione che quei valori han-
no ormai subìto anche all’interno della famiglia tradizionale.
Venuto a mancare, con la morte del padre, il sostegno
morale ed economico di quel fragile equilibrio produttivo su
cui si fondava la possibilità di sopravvivenza della piccola
proprietà contadina, i figli di fronte alle crescenti difficoltà
che la fedeltà a quel sistema di vita comporta, finiranno col-
lo scendere a patti colla morale comune. A differenza di
quanto avveniva nei Malavoglia, dove il solo sospetto della
tresca tra Lia e Michele fa sentire disonorata l’intera fami-
glia, qui la colpa di Lucia, divenuta l’amante del padrone,
non è più sentita come un marchio infamante. Il conforto,
per quanto amaro, per l’agiatezza e la posizione sociale che,
con essa, Lucia si è procurata, è già in grado di risarcire, al-
meno in parte, quel disonore. Che il punto di vista dei valori
disinteressati continui, però, a fornire il metro di giudizio
per valutare e stigmatizzare — se pure implicitamente — il
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grado di disumanizzazione a cui era pervenuta la società mo-
derna, non è difficile da dimostrare.
È proprio il confronto latente con una diversa e più
umana ipotesi di sviluppo borghese a insinuare, infatti,
nell’apparente neutralità della resa oggettiva, sia il sottile ma
graffiante sarcasmo che si avverte nei confronti delle classi
dirigenti (evidentissimo in novelle come // Reverendo o Don
Licciu Papa) considerate, di quella degradazione, le respon-
sabili dirette, sia la raggelata pietà che infonde alla rappre-
sentazione delle classi popolari, giudicate invece le vittime
principali, e per di più inconsapevoli, di quella corruzione,
quella «malinconia soffocante»!° di cui già parlava Verga.
Estremamente significative, e proprio da questo punto
di vista, sono le novelle milanesi della raccolta Per /e vie
ingiustamente sottovalutate dalla critica; le più zoliane non
solo per l’omologia tra gli ambienti rappresentati, ma per
l’implicita connessione prospettata in esse tra il fascino per-
verso esercitato sui ceti subalterni dai modelli di compor-
tamento di una società corrotta e parassitaria e la degrada-
zione umana di cui quelle novelle vogliono essere una testi-
monianza.
Sartine, modiste, crestaie, ballerine di scena, ma anche —
ed è un dato sociologico su cui converrebbe riflettere — arti-
giani e operai come Carlino, uno dei personaggi de // cana-
rino del n. 15, o l’uomo dalla barba rossa de L'ultima gior-
nata — non possono che essere vittime predestinate di una
società in cui «c’è gente che spende cento lire, e più al ve-
glione, o al teatro; e delle signore che per coprirsi le spalle
nude hanno bisogno di una pelliccia di mille lire»!!; di una
25
classe dirigente cioè che ha sovvertito quella gerarchia tra va-
lori etici ed interessi egoistici che poteva costituire l’unico ar-
gine al dilagare tlelle esigenze sopraffatorie legate alla pro-
gressiva ed esclusiva affermazione del profitto. Anche il
mondo del sottoproletariato urbano si rivela, così, una realtà
in cui tutti sono pronti a barattare i propri scrupoli morali —
la questione è solo di prezzo o di convenienza — e dove è
considerata del tutto normale la violenza operata dal più
forte sul più debole, ma dove la sconfitta dei valori disinte-
ressati risulta tanto più amara quanto più l’implicita aspira-
zione ad essi si è ridotta all’inconsapevole ed istintiva richie-
sta di un po’ d’affetto e di solidarietà umana.
Figure simboliche di questa raccolta possono essere,
così, da una parte, Santina, la protagonista di Via Crucis,
con quel suo rassegnato scendere, gradino dopo gradino, ab-
bandono dopo abbandono, tutta la scala sociale, vittima per
la sua istintiva dedizione all’amore, di tutte le forme
dell’egoismo maschile; dall’altra il cane della novella L’u/ti-
ma giornata che, unico tra gli esseri viventi, sembra com-
prendere la solitudine e la drammatica ricerca di solidarietà
dell’uomo che, di lì a poco, giunto alla fine di quella inutile
e dolorosa ricerca, si ucciderà. Una raccolta, dunque, che
lungi dall’essere un semplice omaggio alla scuola naturalista,
costituisce uno dei più inquietanti atti d’accusa che uno scrit-
tore borghese potesse consegnare in quegli anni — e da
quell’ottica di classe — alla società dominante.
* * *
26
teresse storico-materialistico per la ricostruzione dei processi
economici sottesi al recente passato risorgimentale e quello,
non meno critico e scientifico, per il gioco ambiguo e segreto
di motivazioni che è alla base della psicologia umana.
Va sottolineato con forza che il verismo verghiano,
espressione coerente di un approccio materialista e positivista
fondato sulla piena fiducia nella oggettiva conoscibilità del
reale, è inscindibile dal progetto di comprensione e rappre-
sentazione delle fasi salienti del processo storico risorgimen-
tale, così come va ribadito che gran parte dell’effetto critico,
unanimamente riconosciuto a testi come Mastro-don Gesual-
do, deriva dalla capacità di ricostruire, di quel divenire stori-
co, al di là dell’interpretazione ottimistica della mitologia ri-
sorgimentale, i processi materiali ed economici che ne aveva-
no condizionato lo sviluppo e prefigurato gli esiti.
Parte della produzione verista di Verga può essere letta,
così, come una autocritica — necessaria alla luce della nuova
consapevolezza maturata dallo scrittore — della propria gio-
vanile interpretazione del processo risorgimentale volta a co-
gliere prima che a denunciare quei limiti e quelle strumenta-
lizzazioni che l’entusiasmo e la passione civile gli avevano
impedito di avvertire e che costituivano i fattori a cui anda-
vano imputate le ragioni oggettive del fallimento del modello
risorgimentale di sviluppo.
Quella verifica non risparmierà nessun mito, nè le guer-
re di Indipendenza (una tematica affrontata in Camerati,
Carne venduta e ripresa, più tardi, in... e chi vive si dà pace
della raccolta Vagabondaggio), nè la spedizione dei Mille
(penso soprattutto alle ombre che la novella Libertà getta
sulla campagna garibaldina con quel suo alludere alla conni-
venza venutasi a creare tra gli interessi feudali e la pur neces-
saria difesa dell’ordine eseguita dalle truppe di Bixio).
Descritti attraverso il punto di vista di quelle classi po-
polari che, del Risorgimento avevano subito il peso senza po-
terne condividere gli ideali, nè tanto meno i vantaggi mate-
27
riali, questi avvenimenti storici rivelano tutta la loro carica
di ambiguità dovuta alla sostanziale incapacità di realizzare
insieme agli obiettivi nazionali un’autentica giustizia sociale.
Ma è soprattutto nella ricerca e nella rappresentazione
delle responsabilità delle classi dominanti che Verga raggiun-
ge una lucidità critica che non ha paragone in quegli anni.
Non c’è dubbio che essa è resa possibile dalla coscienza di
appartenere a quei ceti borghesi sempre più penalizzati dalle
scelte della vita politica italiana e dalla volontà di cogliere,
già nel processo risorgimentale, le premesse di quello scacco.
La disorganicità rispetto al gruppo dominante si rivela, così,
una specola privilegiata per osservare e individuare i mecca-
nismi oggettivi di un processo che, al Sud, si era limitato a
sostituire alla vecchia nobiltà terriera un ceto di estrazione
borghese, senza però intaccare le strutture del potere feudale.
Dal Reverendo a La Roba, da Mastro-don Gesualdo al
dramma e poi al romanzo Da/ tuo al mio, si può dire che
Verga intenda tracciare il quadro del fallimento della rivolu-
zione borghese meridionale. Queste opere ruotano tutte, in-
fatti, attorno al tema dell’ascesa di una nuova classe domi-
nante; un’ascesa — si è detto specialmente negli anni post-
resistenziali — di cui Verga intendeva esaltare i caratteri ec-
cezionali. In realtà quella dedizione assoluta alla causa
dell’accumulazione che contraddistingue personaggi come
Mazzarò, Mastro-don Gesualdo o Rametta è tutt’altro che
progressiva secondo Verga; essa non fa che portare alle sue
estreme e disumane conseguenze la vecchia logica, di caratte-
re feudale, propria al sistema economico della grande pro-
prietà nobiliare.
È la scaltrita conoscenza, per averli sperimentati sulla
propria pelle, dei suoi brutali meccanismi di sfruttamento
che permette a questi uomini ambiziosi di individuare i punti
deboli del sistema, non per rovesciarne la struttura
economico-sociale, ma per utilizzarne, anzi, i principi con
28
maggiore coerenza e, soprattutto, con più spietata determi-
nazione.
Non stupisce, allora, che essi dividano questa scalata al
potere con gli esponenti più scaltri della vecchia aristocrazia
terriera perchè ciò che contraddistingue la nuova classe do-
minante è la capacità di sfruttare con intelligenza, tenacia e
totale mancanza di scrupoli le possibilità vecchie e nuove di
arricchimento che la rendita parassitaria del latifondo ga-
rantisce.
Il bilancio risorgimentale non potrebbe essere più corro-
sivo; traditi risultano, nel gioco sordido di alleanze tra pa-
droni di ieri e di oggi, gli obiettivi stessi del moto unitario se
anche l’asta delle terre comunali, fallito lo scopo antifeudale
che essa avrebbe potuto avere, come dimostra il bellissimo
capitolo del Mastro, finisce col favorire da una parte il con-
solidamento delle vecchie oligarchie nobiliari, dall’altra, la
nascita di nuovi, ma non per questo meno iniqui, imperi eco-
nomici borghesi.
Certo noi oggi sappiamo che fu anche grazie a questa
concentrazione del profitto terriero nelle mani di pochi capi-
talisti che fu possibile, dato il grave ritardo del paese, attua-
re l’accumulazione necessaria allo sviluppo industriale, ma
conosciamo anche gli altissimi costi pagati dal Mezzogiorno
per quello sviluppo distorto. Verga, rappresentando il cini-
smo di un sistema economico in cui a decidere prezzi ed an-
nata e, di conseguenza, a gestire vita o morte delle classi
subalterne, continuava ad essere l’arbitrio e la sete di guada-
gno di pochi proprietari terrieri, coglieva di quel processo di
trasformazione capitalistica sia i limiti che la brutalità costi-
tutiva.
È chiaro che questa dimensione di critica storico-
materialistica al processo risorgimentale non esaurisce la
complessità del Mastro-don Gesualdo, nè rende ragione di
quell’affascinante gioco tra punti di vista diversi che si espri-
me nella oscillazione tra la commossa adesione del narratore
29
alle motivazioni interiori del personaggio (quando esso attra-
verso l’uso dell’indiretto libero sposa completamente la pro-
spettiva di Gesualdo) e la volontà di smascherarne, invece, il
risvolto egoistico (ogni volta che il punto di vista di Gesual-
do viene sconfessato da quello del narratore a cui è riservata
infatti in questo romanzo — a differenza che nei Malavoglia —
una ben maggiore attendibilità).
* * *
30
pire, oggi, l'immaginazione dello studioso di Verga, l’incu-
pirsi del pessimismo verghiano e il progressivo spostamento
della sua ricerca su un piano che potremmo definire più esi-
stenziale che storico.
Se il tema della maschera, con la sua implicita denuncia
della impossibilità di separare autenticità e finzione è inscin-
dibile dalla problematica degli ambienti mondani, legato
com’è alla necessità di rappresentare la deformazione inevita-
bile che i sentimenti subiscono in rapporto ad un codice di
norme di comportamento che ne reprime la spontaneità e ne
depaupera l’intensità — un tema di cui Verga infatti saggia
tutte le variazioni nella raccolta / ricordi del capitano d’Arce,
e che intendeva porre al centro anche de La Duchessa di
Leyra!? —; è altrettanto vero, però, che il tema della scissio-
ne profonda tra ciò che si è e ciò che si crede o si vuol far
credere di essere, presente già in Mastro-don Gesualdo e in
alcune novelle della raccolta Vagabondaggio come Il maestro
dei ragazzi o Artisti da strapazzo, diventa, nell’ultima raccol-
ta verghiana Don Candeloro e C., uno degli strumenti essen-
ziali per indagare e rappresentare il gioco sottile ed ipocrita
con cui l’uomo si affanna a nascondere a se stesso prima che
agli altri le proprie segrete e squallide motivazioni egoistiche.
Non è un caso che la realtà si configuri sempre più in
questa raccolta come uno spettacolo (l’interesse per il teatro,
per le figure degli attori, per il gioco soprattutto di rimandi
tra realtà e finzione che il mondo del palcoscenico favoriva,
è, d’altronde, antichissimo in Verga) e che il teatro finisca
col divenire metafora stessa di una vita in cui l’uomo deve
recitare, fingere, anche nei momenti di maggiore intimità,
quei sentimenti che è, ormai, incapace di provare o che, se
31
ancora prova, non può che esprimere attraverso un inestrica-
bile nodo di egoismo e generosità, di altruismo e calcolo
utilitaristico.
A quest’ultima fase della produzione verghiana e al suo
scetticismo corrisponde una analoga modificazione della
struttura tecnico-formale della narrativa. L’indiretto libero
diventa, a partire da Mastro-don Gesualdo, lo strumento per
scandagliare le reazioni interiori del personaggio e per realiz-
zare una sorta di monologo indiretto in cui il narratore assu-
me completamente l’ottica interiore del personaggio. Ne na-
sce, in sostituzione di quella dialettica «straniante» tra il
punto di vista interessato ed egoistico della comune degli uo-
mini e quello disinteressato e autentico dei protagonisti, gra-
zie alla quale Verga era riuscito a rappresentare il doloroso
rovesciamento perpetrato dalla società contemporanea nei
confronti degli ideali risorgimentali, una sorta di relativismo
tra diversi punti di vista.
L’immagine che il personaggio delinea di sè viene con-
trapposta infatti, in una sorta di gioco corrosivo di negazioni
reciproche, per semplice, ma stridente accostamento, tanto a
quella che, di lui, si sono fatti gli altri personaggi, quanto a
quella, ancora diversa, che il lettore si è formato decodifi-
cando il senso delle sue azioni.
È grazie a questa duplice focalizzazione del personaggio
aggredito contemporaneamente da fuori e da dentro che Ver-
ga, senza rinunciare al metodo impersonale, può in novelle
come // maestro dei ragazzi svelare la profonda mistificazio-
ne contenuta nelle illusioni e denunciare contemporaneamen-
te, in novelle come Gli innamorati, la costitutiva doppiezza
dell’agire umano.
Verga è ormai arrivato al termine della sua parabola
umana, ideologica ed artistica e ha percorso, fino all’ultimo
gradino, il doloroso processo di distruzione delle proprie illu-
sioni risorgimentali. Certo è che di esse non si è salvato nul-
la.
32
A leggere infatti il bellissimo, ma agghiacciante, bozzet-
to scenico La caccia al lupo del 1902, si deve ammettere che
lo scetticismo verghiano non avrebbe potuto essere più cru-
do. L’uomo, infatti, — insegna questo testo tutto giocato
sull’ambiguità di alcune azioni che sono, nello stesso tempo,
gli atti preparatori di una vera e propria caccia al lupo e i
gesti simbolici di un’altra caccia, più vera e tragica, quella
all’amante della moglie — quando rivela la propria autentici-
tà scopre solo odio, cinismo e ferocia.
Eppure anche in questo scetticismo c’è una dose di di-
sperata amarezza che non può non turbare la coscienza —
oggi come ieri — di chi non ha cancellato il ricordo, almeno,
o l’aspirazione a valori umani profondi ed autentici.
33
apposti infabil. ta mina 071% di piaod cueresivo di me
paviproche, per eemmplice, toa alidere mo
quella che. di154, sì sono Furti stò altri
queità, «ncora diversa, che lè Iastore si é formale;
tanto iL senso delle sue ationi: a
È pasa & queso (duplice roca
agprocite contemporontsitente da foce è da dertira cha
Mu cgn.:2 ciosiaetare si matedo impertonale, ala poet
dine È rigiro dei roozzi svelare fh profonda mistificazio?i
ur dupirnuo refle i'insom è denvadare vintetporiteament
ey in'avci: come Gili danamrorati, \x pani asia Coppia
d Magra ten:
88
PARTE SECONDA
CAP. I
35
Eva soprattutto, fiutarono una delle proposte più originali di
romanzo «borghese».
Salvatore Farina recensendo, sulle pagine della «Rivista
minima», l’Eva verghiana vi premise queste significative pa-
role:
36
manzo da respingere ai margini della cultura alta — secondo
gli uni — da innalzare al rango di scrittura artistica — se-
condo gli altri. È alla luce di questa polemica sul romanzo
che l’Eva verghiana viene letta, lodata e in alcuni casi giudi-
cata un modello di rappresentazione realistica.
37
ra, come è stata, o come potrebbe essere senza rettorica e senza ipo-
crisia»; non è lieve elogio l’affermare ch’egli aveva diritto di scrivere
quelle parole?.
In Verga dunque critica e pubblico scoprivano in quegli
anni un Feuillet italiano e in Eva un modello di quel reali-
smo borghese che in Francia aveva già prodotto tanti succes-
si. A dar retta alle parole di Cameroni si trattò di un vero e
proprio caso letterario che procurò una fama non effimera al
suo autore:
La notabilità così difficile da raggiungere in un paese come il
nostro, che legge poco e si ricorda di pochissimo quando ha letto,
Verga seppe conquistarla alla baionetta, quasi collo stesso slancio
fortunato dello Stecchetti... Bastarono al Verga la Storia di una ca-
pinera ed Eva, cioè due racconti giovanili, per ottenere d’un tratto
quel grado di fama, che altri valenti romanzieri dovettero guada-
gnarsi faticosamente in un lungo periodo di tempo.
38
per rispondere alla generale aspettazione. Io venderei certamente il
vostro libro, dopo il successo dell’Eva, mi disse, ma la vostra repu-
tazione ci scapiterebbe, perchè amici e nemici vostri stanno aspet-
tandovi alla seconda prova con grande aspettativa... In parte... egli
ha ragione, ed io mi ero prefisso di non pubblicare questo che
quando avrei potuto farlo seguire immediatamente dalla pubblica-
zione dell’altro mio lavoro Aporeo... del quale posso dire franca-
mente che si parlerà molto e al quale affido tutto il mio avvenire5.
39
menti e Molineri6, Eros sembrò infatti una rappresentazione
troppo unilaterale della realtà succube, nel suo compiacimento
per il vizio e la corruzione, della peggiore scuola realistica fran-
cese, del Flaubert, cioè, del Feydeau e persino dello Zola.
L’ombra dello scandalo letterario suscitato da opere co-
me Madame Bovary e Therèse Raquin — esplicitamente
chiamate in causa da Molmenti — finisce col coinvolgere in
un rifiuto aprioristico anche l’Eros verghiano che, di quei
modelli, non aveva certo la carica dissacrante.
Per Cameroni invece l’analogia tra Eros e Monsieur de
Camors, così come i richiami alla scuola realistica francese,
sono tra i pregi maggiori del romanzo verghiano su cui espri-
me un giudizio entusiastico:
Eureka! Un racconto - la Capinera - lo tolse giovane affatto
all’oscurità, l'Eva e la Nedda confermarono le speranze ch’egli ave-
va destato al primo apparire; l’Eros lo colloca nelle prime file dei
romanzieri italiani... Eureka! Uno almeno fra i nostri novellieri l’ha
scoperta l’arma fatata contro l’apatia del pubblico. Lasciate che me
ne congratuli con lui, tanto più che incisa sull’impugnatura leggesi
Realismo.
Verga, precisa Cameroni, vi ha descritto l’uomo quale è
realmente. Non si è fatto intimidire «dal beghinismo del
pubblico e della stampa», ma «ha studiato l’esistenza moder-
na col bisturi del realista» e ha descritto «la realtà, tutta la
realtà, nient’altro che la realtà»”. La riuscita del romanzo, a
40
prescindere dalla spigliatezza narrativa, deriva proprio, se-
condo Cameroni, dalla fermezza con cui Verga ha osservato
la società contemporanea fotografandone implacabilmente
vizi e corruzione. Certo il romanzo in quanto specchio della
società contemporanea non rimanda in questo caso al lettore
un’immagine edificante di sè, ma forse lo aiuta a scoprire
sotto le brillanti apparenze del lusso e della felicità una real-
tà più amara e contradditoria.
La reazione più interessante è però un’altra ed è di
larvata delusione nei confronti di Eros accusato, in questo
caso, di essere troppo poco realista. È Treves, dalle pagine
de «L’illustrazione italiana», a farsene portavoce, chieden-
do una maggiore aderenza alla vita concreta della società ita-
liana:
L’Eva era un episodio d’amore; l’Eros è tutta una vita, anzi
parecchie vite. Si va dalla nascita alla morte e non si fa altro che far
all’amore. Voi mi dite ch’è realismo, a me pare il contrario chè que-
sta non è la vita. In quel breve racconto dell’Eva vedevi pure il con-
trasto tra la passione del cuore e la necessità della vita e una scena
ammirabile della fame dava risalto a tutto il quadro. Qui non v’è
contrasto: il campo è sempre occupato da amoreggiamenti facili e
difficili, sentimentali e sensuali, naturali e ricercati.
4l
bert: è della stessa grande famiglia di questi sciagurati che vivono al
mondo dimentichi dei doveri d’uomo e di cittadino, scioperati co-
smopoliti dell’epicureismo; apatici e svenevoli egoisti che vivono fra
le gonne mentre intorno a loro si combatte e si soffre e si muore
per le grandi cause dell’umanità... Perchè il Verga non ha posto nel
fondo del suo romanzo la vita reale di quelli che lavorano? Quali
possenti contrasti di tinte avrebbe potuto ritrarne!... Ci pare che
l’autore di Eros abbia fatto un po’ troppo il vuoto intorno ai suoi
personaggi, i quali tutti vivono e agiscono in un mondo che non è
questo nostro, che ha la vaporosità, l’inconsistenza e i barlumi del
sogno?.
42
suo lavoro, ha tolto ciò che v’era di più crudo, di più inverosimile,
ha aggiunto scene deliziose. Io non voglio tradire il mistero di que-
sta trasformazione: l’accenno perchè rivela la potenza dell’artista!°,
43
fese sostenendo che il suo intento era sempre stato quello di
essere vero, sia in Eva che in Eros, che in Tigre reale!?.
Chiariva così, implicitamente, che la dialettica tra mon-
do aristocratico — falso e corrotto — e mondo borghese —
sano e produttivo —, lungi dall’essere una concessione agli
idealisti scandalizzati, era la problematica centrale di una in-
terpretazione cosciente — da un punto di vista borghese —
della realtà contemporanea, e che lungo quella direzione do-
veva procedere la via italiana al realismo. Eppure lui stesso
l’avrebbe di lì a poco abbandonata.
A chiederci dunque chi fosse Verga e cosa rappresentas-
se a metà degli anni ’70 nel panorama culturale italiano dob-
biamo riconoscere che era uno tra gli scrittori di maggior
successo del momento. Innanzi tutto i suoi libri si leggevano:
non è un caso che i critici più diversi, pur esprimendo note-
voli riserve a volte nei confronti delle sue opere, gli ricono-
scessero un grande pregio: quello di farsi leggere con piacere
e diletto da tutti. Era un segno, d’altronde, della sua moder-
nità. Il romanzo borghese proprio perchè si rivolgeva ai non
addetti ai lavori doveva possedere uno stile scorrevole, ap-
passionato, sgrammaticato forse, ma vivace; e Verga lo ave-
va capito! Così come aveva capito fin d’allora che la soluzio-
ne al problema linguistico doveva essere la più aperta possi-
bile e utilizzare in modo spregiudicato tutti i livelli e i registri
linguistici disponibili, da quello arcaico a quello dialettale.
Qualunque fosse il suo segreto è certo che Verga affascinava,
incuriosiva, obbligava a leggere le proprie opere fino alla fi-
ne anche quando disgustava e indignava il lettore, come am-
mise qualche critico, e in ciò non si poteva non riconoscere
la mano dell’artista.
44
«Un libro, un romanzo che si lascia leggere senza sforzo
è un libro di rara eccellenza: e l’Eros ha questo pregio» ave-
va scritto Sacchetti, e Cameroni, a proposito di Tigre reale,
aveva così riassunto queste doti:
Avrà tutti i difetti enumerati con compiacenza dal «Fanfulla»,
da Filippi e da Bersezio il nuovo lavoro di Verga, ma nessuno potrà
negare al giovane novelliere siciliano che al pari dell’Eva e della Ca-
pinera, di Nedda e di Eros, la sua Tigre reale si legge con curiosità,
mentre quasi tutti i romanzi decantati dai barbassori della critica,
incensati sulle cattedre, nelle accademie, dagli uomini seri, ad onta
di tutte le loro perfezioni, altro non destano se non lo sbadiglio. De
Amicis e Dossi, M. Uda e Cletto Arrighi, Farina e Bersezio, Ghi-
slanzoni, Barrili e E. Castelnuovo, chi da un lato chi dall’altro, su-
perano di certo il Verga, ma tutti assieme egli li vince nel suscitare
vivissimo interesse per ogni suo scritto, non solo nella impercettibile
minoranza, avida di novità artistiche, bensì in un tal numero di let-
tori che or sono pochi anni era follia sperar.
45
Eppure Nedda aveva trovato consensi non effimeri.
Quella novella «un lavoro buttato giù alla meglio» — con-
fessa Verga — era piaciuto moltissimo a Torelli Viollier «il
più difficile ed apatico dei critici», anche se, scrivendogliene,
il critico aveva previsto che per le stesse ragioni per cui pia-
ceva a lui sarebbe risultata ostica alla gran massa dei
lettori!14. Torelli Viollier vi aveva colto con grande acume al-
cuni spunti per prospettare alla narrativa realista una solu-
zione «provinciale», una soluzione che permettendo di attin-
gere a tematiche sociali ben più concrete, avrebbe impresso
una svolta significativa allo sviluppo del realismo.
46
volo» scoppiato tra gli editori Treves, Brigola, Ghiron!6 per
disputarsene la proprietà, l’incredibile aumento di contratta-
zione commerciale che essa gli procurò, non dovettero la-
sciarlo indifferente, così come non dovettero lasciarlo impas-
sibile in quegli anni le critiche rivolte ad Eros.
>
E proprio a partire dal 1876 che Verga inizia infatti quel
processo di riflessione che lo porterà all’elaborazione di una
poetica nuova profondamente originale: il verismo.
47
modello italiano di realismo, fu la bellissima conferenza di
De Sanctis Zola e l’Assomoir del 1879 con il riconoscimento,
da un lato, del progresso artistico fatto segnare da quell’ope-
ra lungo la strada del realismo, dall’altro dell’insegnamento
morale deducibile proprio dalla cruda oggettività della rap-
presentazione zoliana.
Quando nel 1880 esce la raccolta Vita dei campi, se l’ar-
te verghiana è diversa, diverso è anche, dunque, il clima cul-
turale che ne sostiene le attese. La richiesta di un realismo
alla Feuillet risulta soppiantata dall’esigenza di una letteratu-
ra capace di individuare e rappresentare i nodi delle questio-
ni più vitali e urgenti della realtà post-unitaria, l’interesse per
gli ambienti aristocratici sostituito dalla curiosità «scientifi-
ca» per la realtà provinciale. Verga con i suoi studi o bozzet-
.ti dal vero sembrò realizzare con raro tempismo le nuove in-
dicazioni del dibattito letterario e la critica pressochè unani-
mamente ne decretò il successo.
Fra molto tempo che l’autore dell’Eva non mandava fuori un
suo nuovo volume. Qua e là, sui giornali, apparivano di tratto in
tratto nuovi bozzetti, nei quali si scorgeva l’unghia del leone; pure il
volume non lo si aveva. La Vita dei campi ora è luce e non è volu-
me; è ben di più: è un libro... La vita dei campi siciliani, che ii Ver-
ga ci ritrae, ha del crudo e del crudele. Pure si sente che si è alla
presenza della verità. Un artista coscienzioso come il Verga non può
inventare, non esagera; anche dalla sua frase misurata, dalla sua pa-
rola che scolpisce e che spesso ha valore di cifra, si comprende che
non si è davanti alla maniera, ma allo studio, al bozzetto dal vero
48
liana del Verga per esorcizzare qualunque apporto del natu-
ralismo, com’è il caso di Salvatore Farina, tutti i critici però
concordemente riconobbero l’eccezionalità dell’effetto reali-
stico delle novelle di Vita dei campi.
«Quelle novelle sono vive, i caratteri parlanti sì che al
lettore par di essere nato fra Monte Lauro e Mineo» scrisse
Filippi!*, ma l’elenco degli apprezzamenti potrebbe allungar-
si anche senza chiamare in causa l’alfiere del verismo, Ca-
puana, e la sua famosissima recensione.
Eppure basterà un passo ulteriore in quella direzione ar-
tistica già ampiamente sperimentata nelle novelle di Vita dei
campi e Verga, dopo la pubblicazione de / Malavoglia, do-
vrà ammettere con amarezza
I Malavoglia hanno fatto fiasco, fiasco pieno e completo.
Tranne Boito e Gualdo che me ne hanno detto bene, molti, Treves
il primo, me ne hanno detto male, e quelli che non me l’hanno det-
to mi evitano come se avessi commesso una cattiva azione. Dei gior-
nali all’infuori del So/e, della Gazzetta d’Italia della domenica, della
Rivista Europea o letteraria che sia e della Gazzetta di Parma, nes-
suno ne ha parlato, anche i meglio disposti verso di me, e ciò vuol
dire chiaro che non vogliono spiattellarmi il de profundis!?.
49
pubblico abituato a «manicaretti» ben più facilmente digeri-
bili ma, cosciente di aver creato quel «romanzo moderno» a
cui la cultura italiana aspirava da anni, contava almeno su
un successo artistico. Il 19 luglio 1880 scrivendo a Treves
aveva espresso la speranza che il pubblico capisse ed apprez-
zasse «l’intendimento d’un tentativo veramente letterario»
quale voleva essere quello del nuovo romanzo.
Quello che mi dite delle novelle m’incoraggia e mi fa lieto pel
romanzo nel quale ho cercato di estrinsecare quel concetto che l’arte
per essere efficace vuol essere sincera, e che tutta la questione e
l’importanza del realismo sta in ciò che più si riesce a rendere im-
mediata l’impressione artistica, meglio questa sarà oggettiva, quindi
vera o reale come volete, ma bella sempre. Ci riuscirò nei Ma/avo-
glia? L’ho tentato e certo non mi sono preoccupato del giudizio del
pubblico quando scrivevo; ma a lavoro finito ci penso e mi conforta
‘il vedere che sono riuscito nella prova agl’occhi di un lettore che ha
il gusto fine come l’avete voi... Io non so quel che dirà il pubblico,
spero però che ci vedrà l’intendimento d’un tentativo veramente
letterario29.
20 Lettera a Treves datata Milano, 19 luglio 1880 raccolta ora nel vo-
lume G. Verga, Lettere sparse, cit., pp. 93-94.
50
coerenza e consapevolezza il progetto di un’arte oggettiva e
impersonale, aveva compiuto un’operazione d’avanguardia,
che avrebbe spiazzato gran parte dei propri precedenti com-
pagni di strada. L’atteggiamento ad esempio di Filippi, criti-
co de «La Perseveranza», che Verga stigmatizza nella famo-
sa lettera al Capuana, è significativo di un imbarazzo che va
di pari passo all’incapacità di giudicare.
Filippi che mi aveva parlato con interesse dei Malavoglia appe-
na usciti, mi domandava quel che dovesse pensare e dirne lui. Natu-
ralmente risposi di pensare colla sua testa, e sì che n’ha una grossa
sulle spalle. Ma egli mi chiese se tu ne avresti scritto e quando, ag-
giungendo che per il momento gli mancava lo spazio nella «Perseve-
ranza». Ciò un mese fa. Naturalmente aspetta che per combinazio-
ne vi incontriate nelle idee.
Sl
porto allo sviluppo del romanzo realista; si trattava, come
puntualizzò Verga a Cameroni, ringraziandolo per la recen-
sione favorevole dei Malavoglia, di persone «intelligenti che
piglia (vano) l’arte sul serio, e non come una lettura fatta
per passatempo»?! e che erano in grado quindi di cogliere il
vero obiettivo del progetto verghiano: fare del romanzo la
forma artistica dell’epoca moderna e renderla capace di ga-
reggiare da un lato per serietà e profondità di analisi con le
discipline guida del pensiero contemporaneo (scienza e socio-
logia), dall’altro di rivaleggiare per immediatezza e verità
con la vita. Questi critici furono Capuana, Cameroni e Tor-
raca.
DE
Analizzando le ragioni e gli strumenti che avevano por-
tato Verga a realizzare quel prestigioso risultato, Capuana,
pur riconoscendo l’importanza della scelta della tematica po-
polare siciliana ai fini della resa veristica, sottolinea però che
il vero segreto di quel traguardo artistico va attribuito alla
«forma», all’invenzione, in particolare, di quel canone
dell’impersonalità grazie al quale Verga era riuscito a tradur-
re in termini di costruzione e organizzazione del romanzo,
l’aspirazione di tutta l’arte moderna: ricostruire, con la mag-
giore oggettività possibile, il processo stesso della vita.
«Il positivismo, il naturalismo — scrive Capuana, a con-
clusione del suo lucidissimo saggio sui caratteri del romanzo
moderno — esercitano una vera e radicale influenza nel ro-
manzo contemporaneo ma soltanto nella forma... tale in-
fluenza si risolve nella perfetta impersonalità di quest’opera
d’arte» ?2.
Il rapporto con il positivismo e la sua concezione del
mondo viene così affermato senza ambiguità, anche se libe-
rato da una adesione puramente — e grettamente — conte-
nutistica alle sue tematiche. La risposta di Verga all’articolo
di Capuana colse, significativamente, la centralità e l’impor-
tanza di questa operazione critica:
È un vero studio delle condizioni e delle ragioni intime del ro-
manzo che io devo essere più che fiero di averti dato occasione di
scrivere. Non ho mai visto così nettamente posata dallo stesso
Zola?3 e così felicemente risoluta la questione del naturalismo o rea-
lismo che si voglia, ma che tu nettamente definisci il portato dello
studio scientifico, positivo nella forma del romanzo, la perfetta im-
personalità dell’opera d’arte?*.
53
Il problema dell’impersonalità era d’altronde per Verga
e Capuana il problema artistico per eccellenza sin dagli anni
delle appassionate discussioni al Biffi. Non vi era critico
perciò più preparato a capire quell’operazione formale in
tutti i suoi risvolti, a valutarne gli effetti, ad illustrarne i
meccanismi.
E, difatti, Capuana capì e sostenne che la superiorità ar-
tistica del Verga — anche rispetto a Zola — andava cercata
nella coerenza con cui egli era riuscito a cancellare ogni rife-
rimento estraneo al mondo rappresentato, grazie ad un’ope-
razione di riduzione di tutti i parametri interpretativi — pen-
siero, sentimenti, lingua — a quelli, elementari, del mondo
popolare.
Già a proposito dei personaggi di Vita dei campi Capua-
na aveva scritto:
L’artista gli ha presi nella loro piena concretezza, nella loro
più minuta determinatezza, facendosi piccino con loro, sentendo e
pensando a modo loro, usando il loro linguaggio semplice, schietto
e nello stesso tempo immaginoso ed efficace, fondendo apposta per
essi, con felice arditezza, il bronzo della lingua letteraria entro la
forma sempre fresca del loro dialetto, affrontando bravamente an-
che un imbroglio di sintassi, se questa riusciva a dare una più since-
ra espressione ai loro concetti, o all’intonazione della scena, o al co-
lorito del paesaggio.
54
Il riconoscimento dell’originalità e validità di questa
operazione formale, soluzione linguistica compresa, non po-
teva essere più esplicito. Esso scaturiva, d’altronde, da una
precisa consapevolezza critica: Verga aveva potuto realizzare
la tanto sospirata oggettività e impersonalità perchè aveva
filtrato tutto il racconto, non solo la parte spettante ai perso-
naggi, ma anche quella riservata al narratore, attraverso
un’ottica interna al mondo rappresentato, a partire dalla lin-
gua stessa.
Ne era derivata, spontaneamente, per il lettore borghese
privato di tutti i codici di riferimento a lui familiari, un’illu-
sione realistica mai raggiunta prima:
Non intendiamo più nulla dei nostri sentimenti, delle nostre
idee; ci sentiamo sopraffatti dai sentimenti rudimentali, dalla mora-
le non meno primitiva di quella gente che guarda e giudica ogni co-
sa dal suo piccolo e interessato punto di vista?5.
Cameroni e il naturalismo
55
umana, dell’aspirazione al benessere. Eppure, chiarisce Ca-
meroni con grande perspicacia critica, se il progetto è analo-
go, profondamente diverso è, invece, nel sociologo e nel ro-
manziere l’atteggiamento e l’ottica con cui guardare alla real-
tà, da lontano e dall’alto per il sociologo, da vicino e dal di
dentro per il romanziere.
Vista dall’alto la lotta della vita appare al sociologo, in una
sintesi luminosa, giacchè i meravigliosi progressi dell’umanità non
gli lasciano intravvedere i deboli che restano per via, i fiacchi che si
lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, i vinti che levano
le braccia disperati e piegano il capo sotto il piede brutale dei so-
pravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi di arrivare e che
saranno sorpassati. domani.
Vista nella sua particolarità la struggle of life appare, al roman-
ziere, non meno gloriosa nei risultati complessivi, ma col turbine
angoscioso delle irrequietudini e delle avidità, dell’egoismo sfrontato
od ipocrita e delle passioni, in apparenza grandi ed in realtà me-
schine.
Il legislatore ed il sociologo hanno il diritto a giudicare le indi-
vidualità che si gettano nella mischia ed il modo in cui lottano.
L’artista che non si accorge, o che non vuol accorgersi della tempe-
sta, per temperamento o per proposito deliberato, come il Farina ed
altri, manca alla verità, per quanto ne dica il signor Torelli-Viollier.
L’artista sperimentale deve far di tutto per istudiare senza passione
questa lotta e rendere la scena nettamente,coi colori adatti, tale da
dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe
dovuto essere??.
56
di Vita dei campi Cameroni, che pure aveva polemizzato con
l’invito verghiano alla rassegnazione ricavabile dalla novella
Fantasticheria — «con essa - scriveva - frutto unicamente di
secolare oppressione, non si procede di un passo» — aveva
ammesso che «nonostante il Verga non si prefiggesse affatto
uno scopo sociale in favore del quinto stato», «dalla deso-
lante fisiologia della vita siciliana nei campi ed alla
marina»? sgorgava lo stesso insegnamento del Proximus
tuus del D’Orsi??,
Si può dire dunque che Cameroni avesse già, in gran
parte, intuito le straordinarie possibilità che la neutralità
ideologica offriva alla rappresentazione del reale; eppure an-
che il suo giudizio non è privo di riserve. Nei confronti della
scelta linguistica innanzi tutto rispetto alla quale non sa tace-
re il proprio disappunto 3°, ma anche della mancanza di de-
scrizioni, di profili, del predominio del dialogo, di tutte quel-
le soluzioni formali, cioè, che rendevano così diverso il veri-
smo verghiano dai modelli francesi:!.
Quelle scelte erano, però, per Verga, irrinunciabili. Que-
gli artifici, precisava Verga rispondendo a Cameroni, gli
sembravano, infatti, gli strumenti più adatti a realizzare gli
obiettivi del realismo.
Io mi sono messo in pieno e fin da principio in mezzo ai miei
personaggi, e ci ho condotto il lettore come ei li avesse tutti cono-
sciuti diggià, e già vissuto con loro e in quell’ambiente sempre. Par-
mi questo il modo migliore per darci completa l’illusione della real-
DU
tà; ecco perchè ho evitato studiatamente quella specie di profilo che
tu mi suggerivi per i personaggi principali. Certamente non mi dissi-
mulavo che una certa confusione non dovesse farsi nella mente del
lettore alle prime pagine; però, man mano che i miei attori si fosse-
ro affermati colle loro azioni, essi avrebbero acquistato maggior ri-
lievo, si sarebbero fatti conoscere più intimamente e senza artificio,
come persone vive, il libro tutto ci avrebbe guadagnato coll’impron-
ta di cosa avvenuta. Ecco la mia ambizione e il peccato che mi rim-
proveri. D’esserci riuscito non mi lusingo, ma lasciami pensare an-
cora che il concetto è perfettamente coerente ai nostri criteri artistici
e non mi dire che sono più realista del re?2.
Torraca
58
essi soltanto — azioni, dialoghi, commenti dei personaggi —
scaturiscano tutte le possibili considerazioni, si tratti di inse-
gnamenti sociali o di messaggi morali.
Torraca cioè, come Capuana, capisce la rivoluzionaria
importanza dell’operazione formale tentata da Verga e fon-
data sull’assoluto predominio della rappresentazione sulla
narrazione, sul totale annullamento di ogni interferenza da
parte dell’autore e sul conseguente ricorso a codici espressi-
vi — mentali, culturali e linguistici — capaci di offrire del
mondo rappresentato un’immagine in presa diretta. È questa
infatti che garantisce al romanzo — più dei contenuti — la
sua funzione di documento, di studio sociale.
Ma Torraca è anche il primo a leggere il romanzo alla
luce delle problematiche politiche del tempo. È il primo, ad
esempio, ad avvicinare i Ma/avoglia all’Inchiesta sullo stato
della Sicilia di Franchetti e Sonnino e a vedere nel romanzo
una delle tante forme di quell’indagine socio-politica che do-
veva contribuire a far conoscere meglio la complessa realtà
del paese34.
«Una lunga secolare tradizione ha avvezzato quella po-
polazione superstiziosa, credenzona, timorosa più del diavolo
che del santo, fidente più nel santo che in Dio, alla servilità,
all’ipocrisia, alla paura, alla diffidenza, eppure — in essa —
non mancano i bravi istinti e gli impulsi lodevoli» commenta
Torraca precisando che quella è la situazione in cui versa
gran parte del popolo siciliano, ma non solo quello. Tanto
più urgente risultava perciò per la classe dirigente modificare
quella situazione e trasformare con l’educazione e l’esempio
quei «bruti» in cittadini coscienti chè, in caso contrario, essi
sarebbero caduti facilmente in balia dei corruttori e dei loro
soprusi. Questo è, secondo Torraca, anche l’amaro insegna-
D9
mento del sociologo Verga, come risulta dalla seguente lettu-
ra del testo.
Già don Silvestro, il segretario, Don Scipione l’avvocato - cioè
la corruzione vera mascherata dall’istruzione e dalle belle maniere...
li dominano.
Materia grezza ed inerte, sono per ciò stesso facilmente mallea-
bili...
Più la loro esistenza è stata meccanica, e più sentiranno l’at-
trattiva del nuovo e dell’ignoto: meno hanno goduto, e più ardente-
mente si abbandoneranno allo svago, ai piaceri, all’ozio, agli stravi-
Zina
Il quadro è triste, ma vero; vero non pel solo paesello di
Trezza, ma per tanta parte delle province italiane...
Le eccezioni non mancano - (si tratta della famiglia Malavoglia)
- ma è come fossero lì per rendere più lugubre l’impressione di ciò
che è generale, o più comune. E sono eccezioni passeggere... perchè
l’azione dell’ambiente guasta, a più o meno lungo andare, intacca
i pochi ancora sani: se non li perverte addirittura, li turba, li fa
soffrire.
60
e problematiche del romanzo a quel clima di analisi disincan-
tata della realtà, e di conseguente e severo impegno riformi-
sta, che connotava i programmi politici e culturali di gruppi
consistenti, anche se non omogenei, di borghesia terriera e
produttiva.
61
Rassegna settimanale», sta la fonte più pura e più alta sia
delle curiosità, sia delle emozioni che può provare un lettore.
Come rendere ci si chiedeva ancora — una volta ridotta la
narrazione a rappresentazione — l’analisi psicologica, lo stu-
dio delle fasi d’un affetto, d’una passione, specialmente nel
caso di affetti e passioni raffinate e complicate?
È un problema con cui anche Verga continuerà a fare i
conti, ogni volta che si riaccosterà a tematiche borghesi e in-
tenderà rappresentare tortuose casistiche psicologiche. È ciò
che accadrà con // marito di Elena dove la necessità di ap-
profondire l’analisi psicologica dei protagonisti riaccredita le
funzioni del narratore tradizionale e impone al romanzo una
ambiguità strutturale che, mentre scontentava profondamen-
te l’autore, faceva sperare ad altri che Verga avesse rinuncia-
to alla pretesa, ritenuta assurda, di un romanzo totalmente
impersonale.
Le Novelle rusticane pubblicate alla fine del 1882, ma
datate 1883, toglieranno ogni dubbio sulle intenzioni verghia-
ne e sulla centralità, in esse, del problema dell’oggettività e si
imporranno all’attenzione della critica come l’espressione più
matura del verismo italiano.
«Verga — scrive Capuana — vi ha spinto il processo ar-
tistico dell’impersonalità fino all’estremo limite possibile» 37.
L’effetto realistico è in questo caso perfetto, constata Came-
roni: dove Zola infatti «non sa dimenticare completamente
se stesso», Verga «scompare del tutto e quasi si inviscera
nell’ambiente e nelle figure dei suoi racconti». L’incredulità
36. «Un romanzo non è un dramma; ciò che nel dramma è forza sia
soltanto intraveduto o indovinato, nel romanzo vuol essere analizzato e rap-
presentato: lì è la poesia e l’arte nel suo significato meno incompiuto e me-
no volgare». Si tratta della recensione a / Malavoglia comparsa su «La Ras-
segna settimanale» il 7 agosto 1881 e attribuita erroneamente come si è det-
to a Torraca (vedi nota 33).
37. L’articolo del 1883 fu compreso più tardi sotto il titolo di Trucioli
in Luigi Capuana, Per l’arte, Catania, 1885, pp. 171 e sgg., e ora si può
leggere anche in Luigi Capuana, Verga e D'Annunzio, cit., p. 89 e Sgg.
62
di fronte all’effetto ottenuto garantisce della sua forza d’ur-
to: «Come diavolo fa lui, uno dei galantuomini, uno dei
cappelli a trasformarsi completamente, anzi ad identificarsi
(in tutto e per tutto) nella più umile minutaglia della
Sicilia» 38.
Le Novelle rusticane con la loro amara filosofia mate-
rialistica e la disincantata interpretazione di alcuni miti risor-
gimentali incidono nel vivo dell’ideologia della società libera-
le unitaria scuotendo convinzioni radicate e corrodendo trop-
po facili ottimismi. L’indignata reazione alla pubblicazione
di Pane nero da parte di Ruggero Bonghi — esponente di
prestigio della borghesia liberale moderata post-
risorgimentale — ne è un sintomo significativo. Bonghi si
scaglia contro l’interpretazione materialistica della novella,
denunciando il rapporto deterministico istituito da Verga tra
degradazione economica e degradazione morale. Per lui la
condotta di Lucia e il suo traviamento non hanno alcuna
giustificazione sociale; rimangono fatti eccezionali, «acciden-
ti individuali», privi dunque di qualunque valore esemplare
sul piano dei comportamenti sociali 3.
Piaccia o meno appare sempre più evidente che il pro-
getto verghiano di un romanzo oggettivo e impersonale è in-
separabile dalla lucida e spassionata attenzione rivolta alla
realtà sociale e ai suoi problemi più scottanti: questione me-
ridionale e questione sociale. Se Torraca era stato il primo a
parlare di studio sociale a proposito dei Malavoglia, dopo le
Rusticane è difficile negare che al centro della problematica
verghiana vi sia proprio la drammatica questione sociale.
Le linee di fondo della prima interpretazione critica del
verismo verghiano risultano a questo punto già tracciate, le-
63
gate come sono alla funzione d’avanguardia da esso esercita-
ta nella cultura del tempo e alle reazioni ad essa.
Nel 1885 quella funzione d’avanguardia risulta già in
parte esaurita.
64
novelle ci offrono questo risibile spettacolo: il dialogo è raccontato,
il racconto invece è parlato 4°.
65
campi dell’attività umana, arte compresa. Esso presupponeva
l’esistenza e lo sviluppo di una moderna borghesia produtti-
va, conscia del proprio ruolo direttivo, animata da un impe-
gno severo e responsabile nei confronti della società e capace
di egemonizzare la cultura post-risorgimentale e di aggregare
i suoi intellettuali. Quella borghesia — a cui il verismo fu
potenzialmente organico — che in Europa aveva sostenuto e
accompagnato la trasformazione strutturale capitalistica fu
in realtà in Italia una fascia sociale fragilissima che, anzichè
crescere e rafforzarsi, finì di fatto subalterna da un lato alle
vecchie oligarchie finanziarie, dall’altro all'emergere delle
nuove forze produttive legate allo sviluppo industriale favori-
to dalle scelte protezionistiche. Il verismo e il favore di cui
godette in alcuni ambienti della cultura italiana subì una sor-
te analoga schiacciato dal proliferare delle reazioni alla pro-
gressiva democratizzazione della cultura: classicismo, mistici-
smo, estetismo si contesero le spoglie del suo successo divi-
dendo tra di loro i favori del pubblico più colto e della criti-
ca militante. Verga dunque non poteva più costituire, nel
1890, un’attrazione in fatto di novità letteraria, nè il suo ro-
manzo poteva porsi come modello dello sviluppo narrativo
italiano, dominato ormai da scrittori come Fogazzaro e
D’Annunzio. Eppure — e per ragioni complementari a que-
ste — quel romanzo ebbe maggior fortuna del primo, trovò
un suo pubblico di ammiratori e di critici e raggiunse ben
presto l’ambito traguardo della seconda edizione.
Lo smorzarsi di quella tensione innovativa che aveva so-
stenuto l’elaborazione della poetica verista e vivacizzato le
reazioni della critica contemporanea, favorì una valutazione
del romanzo meno legata a preconcetti di scuola ed un ap-
prezzamento più sereno dei suoi meriti artistici.
Il riconoscimento del valore artistico di Verga avvenne
però a costo di notevoli incomprensioni nei confronti delle
sue scelte stilistiche. A leggere oggi alcune recensioni
dell’epoca ciò risulta particolarmente evidente.
66
Eugenio Checchi, ad esempio, potè considerare Mastro-
don Gesualdo una delle più mature e riuscite realizzazioni ar-
tistiche della letteratura contemporanea proprio in quanto lo
giudicò un romanzo profondamente unitario, saldamente or-
ganizzato intorno alla figura del protagonista. Non è un caso
che ritenesse «la soverchia abbondanza di figure secondarie
l’unico grave difetto del romanzo e ultima concessione alle
esigenze d’una scuola da cui Verga accenna realmente a stac-
carsi»4. È evidente cioè che Checchi vede in Mastro-don
Gesualdo un superamento del romanzo come tranche de vie
a tutto vantaggio dell’acquisizione di una struttura narrativa
più tradizionale. Accantonate dunque le diatribe di scuola e
reso «neutro» il metodo, è possibile anche sottolinearne i
meriti, scusarne certi ardimenti di forma come «la condensa-
zione dei personaggi, l’abuso soverchio degli scorci nel profi-
lo dei caratteri, il sottinteso continuo nella narrazione dei
fatti» specialmente quando concorrono a delineare una gran-
de figura come quella di Mastro-don Gesualdo.
Così, ancora, Guido Mazzoni potè, da un lato, accettare
il verismo verghiano, lodarne l’impersonalità, dall’altro, im-
putare a Verga di non aver voluto rappresentare le motiva-
zioni interiori delle azioni dei propri personaggi sostenendo
che dove «con una rara concessione lo aveva invece fatto pa-
lesando l’animo di Isabella, aveva scritto pagine di stupenda
efficacia» 43. Basterebbero però le puntualizzazioni verghiane
a sottolineare tutta la profonda incomprensione per le ragio-
ni autentiche della sua arte! Quell’ostinazione era infatti
tutt'altro che un preconcetto chè uno dei cardini dell’opera-
zione formale verghiana consisteva proprio nel cancellare to-
talmente la presenza o «l’intervento del macchinista», come
67
Verga si sentì in dovere di precisare allo stesso Mazzoni riba-
dendo di essere sempre più convinto che «l’interesse, la com-
mozione erano possibili senza bisogno di scoprire il movente
interiore (delle azioni dei personaggi) purchè la (loro) mani-
festazione esterna fosse così evidente e necessaria da far ve-
dere vivi e reali i personaggi come li incontriamo nella vita».
Aggiungeva, quasi scuotendosi di dosso una lode molto sco-
moda, che riteneva un vero peccato d’accidia l’aver palesato
a quel modo l’animo di Isabella dato che «uomini e cose de-
vono parlare da sè e rendere completamente il senso intimo
della poesia che è in loro»4*.
Pochi capirono, d’altronde, in un clima già così indiffe-
rente alle ragioni più autentiche di quelle scelte artistiche, il
vero messaggio del Mastro: tra gli altri Cameroni, Barbiera,
De Roberto. Valgano per tutte alcune acute considerazioni di
Barbiera sulla visione del mondo deducibile dal Mastro, che
ribadivano il profondo legame tra il verismo verghiano ed il
positivismo.
Una filosofia positiva, non ottimista - scrive Barbiera - accom-
pagna segreta gli avvenimenti che si sviluppano con naturalezza
fredda e spietata come le spire d’un serpente
e ancora
Quale smentita da questo profondo Mastro-don Gesualdo a
coloro che veggono nel borghese l’uomo soddisfatto e felice...145.
Capaci di intendere il dissacrante materialismo verghia-
no erano ormai un numero ristretto di amici e sodali, ultime
voci di una fase critica che di quei coraggiosi esperimenti
aveva colto tutto il valore critico!
* > *
68
l’operazione formale realizzata da Verga diventa sempre più
evidente, si delineano, negli anni a cavallo del secolo, tra il
1896 e il 1907, due modi diversi, ma complementari, di af-
frontare e definire in sede critica il problema verghiano. Alla
base di essi vi è innanzi tutto la coscienza del tramonto defi-
nitivo di un’epoca: quella del positivismo, e la convinzione
di appartenere ad una fase storica e culturale profondamente
diversa, pur nella molteplicità e contradditorietà dei suoi
aspetti.
Si deve a Croce la prima, famosissima, periodizzazione
della cultura post-unitaria e la sua divisione in fasi distinte e
antitetiche di cui l’età del verismo costituisce un momento
ben individuabile e circoscrivibile (1865/70 - 1885/90), ma
definitivamente concluso intorno al 189055.
Particolarmente significativo mi sembra il fatto che
mentre gli esponenti dei movimenti d’avanguardia, gli intel-
lettuali facenti capo alle riviste fiorentine, e gli scrittori uffi-
ciali ignorano sostanzialmente Verga, ad esso dedichino par-
ticolare attenzione i fautori di una politica culturale ancorata
a modelli e ipotesi letterarie di stampo ottocentesco. L’inte-
resse per Verga è vivo, ad esempio, in quegli anni, in chi si
interroga sul futuro della narrativa italiana in un momento
in cui anche la formula psicologica alla Bourget, dopo quella
naturalista, risulta profondamente in crisi e in cui, da più
parti, si definisce in crisi il romanzo stesso.
Da qui la necessità di rilegittimare la funzione della nar-
rativa, di difenderne quella supremazia conquistata di fatto,
di tentare una storia ed una classificazione del romanzo in
grado, da un lato, di saggiarne la vitalità, dall’altro di indi-
care agli autori nuove strade per uscire dalla crisi. Bastereb-
be scorrere i titoli della bibliografia verghiana relativa a que-
69
sto periodo per valutare l’attualità del problema: G. Villa - //
romanzo naturalista e le nuove tendenze letterarie, 1896; G.
Bustico - Il romanzo italiano nel XIX° secolo, 1897; F.
Squillace, Le tendenze presenti della letteratura italiana,
1899; V. Morello, // romanzo italiano, 1900; A. Albertazzi,
Il romanzo, 190347.
È con quest'ottica e queste finalità che i critici in que-
stione valutano le opere verghiane, il loro ruolo nella storia
del genere, il loro rapporto con il naturalismo. Il giudizio è,
nella maggior parte dei casi, positivo. Da questa prospettiva
è possibile infatti ammettere la grandezza di Verga «il più se-
vero, il più rigido, il più forte fra quanti italiani abbiano pie-
gato la mente al romanzo naturalista», sostenere l’efficacia
dell’impersonalità ai fini della rappresentazione realistica, ri-
conoscere il valore morale e sociale del ciclo dei Vinti, sotto-
lineare, addirittura, la fecondità del rapporto tra Verga e il
naturalismo francese, ma, nello stesso tempo, sentirsene lon-
tani, superiori, in grado di far tesoro dei suoi pregi evitando-
ne, però, i difetti.
70
complessiva della cultura post-unitaria volto a sottolineare
l’esemplarità della figura di Carducci — della sua moralità
come dei suoi ideali umani e civili — e a contrapporre ad es-
sa, polemicamente, da un lato gli eccessi del materialismo
positivistico, dall’altro la crescente insincerità di quell’«indu-
stria del vuoto» rappresentata dai vari misticismi ed estetismi
alla moda.
Il saggio su Verga ne è un campione significativo per il
duplice risultato che ottiene: consacrare la grandezza artistica
e morale di Verga allentando, contemporaneamente, tutti
quei sottili e determinanti legami che l’opera verghiana in-
trattiene con il verismo e, a monte di esso, con la filosofia
positivistica e materialistica che ne è alla base.
Coerentemente ai principi delineati nell’Estetica del 1902
e alla definizione dell’arte come intuizione lirica, Croce si
preoccupa di riportare la genesi dell’arte verghiana nell’am-
bito esclusivo delle motivazioni interiori, rifiutando di consi-
derare come determinanti ai fini della valutazione estetica sia
la visione del mondo elaborata dall’autore, sia la poetica
messa a punto per esprimerla.
Per quanto riguarda, ad esempio, i romanzi giovanili,
Croce nega che l’influenza della narrativa francese del tempo
possa aver condizionato le scelte verghiane: «Certo — scrive
— il Verga aveva letto molti romanzi, specialmente francesi
e del periodo del secondo Dumas e dei Feuillet e di altrettali;
ma — conclude — la spinta a comporre i suoi gli viene
dall’intimo». Quei romanzi, secondoil critico, sono, infatti,
la semplice e diretta trasfigurazione di quel fantastico e arti-
ficioso mondo di immagini «che riempiva la mente di Gio-
vanni Verga nel primo periodo della sua vita».
Liquidare l’apporto del verismo è ben più difficile e, di-
fatti, Croce non ne contesta nè l’esistenza nè l’importanza.
Croce riconosce anzi che il verismo come «moto storico, di
storia dell’immaginazione correlativo allo svolgimento delle
scienze naturali, psicologiche e sociologiche» ha giocato un
vi:
ruolo chiave nell’evoluzione dell’arte verghiana, nella sua
maturazione. Esso funzionò infatti da «spinta liberatrice» fa-
cendo riaffiorare nell’animo di Verga «le impressioni e i ri-
cordi vivaci, diretti, immediati del suo paesello natale, della
sua fanciullezza e adolescenza».
Se, da un lato dunque, questa interpretazione sembra
ammettere l’importanza, per l’arte verghiana, del verismo, è
vero però che esso, ridotto al rango di strumento di libera-
zione di un patrimonio personale di immagini intuitive gia-
centi nello scrigno della memoria e preesistenti dunque a
qualunque elaborazione concettuale, perde tutti i suoi carat-
teri specifici. La stessa ricostruzione del mondo popolare si-
ciliano, attribuita unicamente all'emergere — sotto la crosta
formata dalle consuetudini artificiali del mondo cittadino —
di immagini ed impressioni immediate legate ai ricordi infan-
tili, smarrisce quegli attributi scientifici che Verga aveva vo-
luto conferirle.
Croce può così porre sullo stesso piano il bozzetto Ned-
da e il ciclo dei Vinti realizzazioni, tutte, di quelle tragiche
storie che «si disegnavano in folla nell’animo del Verga e a
cui l’esempio del verismo non fece che togliere i ceppi e
mandare all’aperto». La scelta di far risalire la nuova fase
dell’arte verghiana a Nedda rientra, d’altronde, perfettamen-
te, nel progetto di dequalificare il valore intellettuale
dell’adesione verghiana al verismo, particolarmente evidente
nei confronti del testo più compromettente, e proprio sul
piano ideologico, del verismo verghiano: la prefazione ai
Malavoglia.
«Ma invano — commenta Croce a proposito della pre-
fazione — egli si sforza di dar valore di astratta teoria a ciò
ch’è temperamento di artista che raccoglie e risente i dolori
umani. Il Verga, per sua fortuna, non ha avuto mai pro-
grammi da attuare, idee da dimostrare o inculcare, e neppure
idee rivestite d’immagini; ma pure e semplici immagini».
Il romanzo stesso risulta così, nell’interpretazione cro-
2
ciana, privato di quell’amaro insegnamento che Verga aveva
voluto affidargli. Per Croce il vero nodo del dramma non
sta infatti nella tragedia innescata dalla feroce legge della so-
praffazione sociale, ma nell’elegia dei valori della famiglia
Malavoglia, nella «ingenua virtù di quei popolani e nella fi-
nezza di certi loro dolori, del tutto sentimentali come quelli
che nascono dalla poesia della casa e della famiglia».
Addomesticata così la filosofia materialista del Verga e
riportato il pessimismo verghiano entro i limiti accettabili di
una serena malinconia, l’opera dello scrittore siciliano, isola-
ta dal proprio ambiente culturale e privata dei propri stru-
menti critici, può brillare di luce propria e costituire un
esempio ammirabile — tranne alcune riserve a proposito del-
la «forma quasi drammatica che produce un senso di
sforzo», della «preoccupazione troppo spinta alla impersona-
lità», della «scorrettezza della lingua» — di arte pura e spon-
tanea.
Il saggio crociano non ebbe immediata risonanza nella
critica verghiana eppure in esso sono già presenti alcuni giu-
dizi che caratterizzeranno tutta la critica idealistica su Verga,
non ultima la scelta di privilegiare nello sviluppo dell’arte
verghiana una linea che da Nedda arriva fino ai Malavoglia
o tutt’al più fino alle Rusticane, con l’esclusione sia di
Mastro-don Gesualdo, giudicato inferiore rispetto ai Ma/a-
voglia specialmente per unità di impressione, sia di tutta la
produzione ad esso successiva.
73
minare, per contrasto, la faziosità di un’operazione critica
quale quella crociana tutta volta a liricizzare, snaturandola
profondamente, l’opera verghiana.
È Muret, ad esempio, nel suo Littérature italienne d’au-
jourd’ hui del 1906, a sottolineare, riprendendo un’opinione
allora diffusa tra i critici francesi, l’analogia esistente tra
l’arte di Verga e quella di Maupassant, specialmente per ciò
che riguarda i meccanismi di messa in scena e ad ipotizzare
una loro derivazione comune da Flaubert piuttosto che da
Zola. Egli è tra i pochi, inoltre, a capire, in quegli anni, qua-
le paziente lavoro di ricostruzione storico-scientifica compor-
tasse l’aspirazione all’impersonalità:
Egli sposa i loro pregiudizi, divide i loro rancori e le loro su-
perstizioni. Verga vede, pensa e scrive dal punto di vista siciliano.
La sua aspirazione è quella di comporre delle opere in cui niente
tradisca la presenza del letterato che osserva il popolo dal di fuori,
ma in cui ogni parola porti l’impronta nazionale, in cui trovino
espressione i soli pensieri di cui siano capaci contadini ignoranti,
grazie ai quali questi romanzi e queste novelle dovrebbero produrre,
secondo le sue parole, l’illusione di un’opera venuta al mondo spon-
taneamente. In questo progetto Verga adopera tutti i generi di pro-
cedimenti ingegnosi. Egli ha collezionato con la pazienza del folklo-
rista professionale i proverbi, le credenze, le allocuzioni proprie ai
siciliani 49.
74
CAP. II
19
tantesimo compleanno? — segnano l’inizio di una vera e
propria riscoperta delle opere verghiane.
La crisi economica, sociale e morale seguita al primo,
drammatico conflitto mondiale, travolgendo nel crollo di tut-
te le certezze l’intero sistema di valori della cultura primo-
novecentesca, aveva contribuito a rivelarne tutta la vacuità.
Non stupisce che in questa atmosfera di profondo disorienta-
mento proprio Verga, pur così lontano e diverso dalla men-
talità e dall’esperienza delle nuove generazioni, potesse appa-
rire ai giovani scrittori un punto di riferimento essenziale
nella ricerca dei modi più autentici per esprimere la propria
lacerata sensibilità di uomini prima che di letterati. Il richia-
mo a Verga acquistò così per i giovani intellettuali un signifi-
cato polemico e totalizzante — di alternativa radicale alla
cultura del proprio pur recente passato — di cui la contrap-
posizione simbolica tra Verga e D’Annunzio fu una delle
espressioni più trasparenti. Non è un caso che questa opposi-
zione sia alla base dei più significativi interventi del tempo su
Verga; la si trova nel saggio di Papini del 1° febbraio 1919*,
che giudica Verga «molto superiore al miglior D’ Annunzio»;
implicita, ma sottilmente operante, nel saggio di Tozzi Gio-
vanni Verga e noi del 19185, dove il sorgere dell’astro ver-
ghiano presuppone ed implica il tramonto di quello dannun-
ziano («ora che molti otri si vuotano e s’afflosciano — vi si
legge — senza nè meno strizzarli, comprendiamo la sua du-
rezza eterna» e scorgiamo «la sua arte e la sua anima sempre
più degne delle nostre più aspre esperienze morali e ideali»);
sviluppata infine con grande sensibilità nel magistrale discor-
so di Pirandello, dove diventa simbolo di un’opposizione an-
cor più generale tra due modi di concepire la letteratura e la
sua funzione:
76
Là uno stile di parole, qua uno stile di cose. Lì abbiamo fin
dagli inizi della nostra letteratura questi due stili opposti: Dante e
Petrarca, e possiamo seguirli a mano a mano fino a noi, Machiavel-
li e Guicciardini, l’Ariosto e il Tasso, il Manzoni e il Monti, il Ver-
ga e il D'Annunzio. Negli uni la parola che pone la cosa e per paro-
la non vuol valere se non in quanto esprime la cosa, per modo che
tra la cosa e il lettore che deve vederla, essa, come parola, sparisca,
e stia lì, non parola, ma la cosa stessa. Negli altri, la cosa che non
tanto vale per sè quanto per come è detta, e appare sempre il lette-
rato che vi vuol far vedere com’è bravo a dirvela, anche quando
non si scopra. E lì, dunque, una costruzione da dentro, le cose che
nascono e vi si pongono innanzi sì che voi ci camminate in mezzo,
vi respirate, le toccate: terra, pietre, carne, quegli occhi, quelle fo-
glie, quell’acqua; e qua una costruzione da fuori, le parole dei re-
pertori linguistici e le frasi che vi sanno dir queste cose, e che alla
fine, poichè ci sentite la bravura, vi saziano e vi stancano...
E il ritorno al Verga, inevitabile, è infatti ora dei giovani sazii e
stanchi di quella troppa letteratura. E ne godo io - radicalmente di-
verso - che mi trovai solo in mezzo a quell’avventura a rider degli
avanzi sfortunati di ciò che a volte parve l’impazzimento di uno
sconcio carnevale; io freddo, sordo e duro, non fatto per star nelle
grazie nè di me stesso, nè di nessuno. Doveva avvenire. Perchè la
vita o si vive o si scrive. Dove non c’è la cosa, ma le parole che la
dicono; dove vogliamo essere noi per come le diciamo, c’è non la
creazione, ma la letteratura, e anche letterariamente non l’arte, ma
l'avventura, una bella avventura che si vuol vivere scrivendola o che
si vive per scriverla.‘
0]
l’azienda intellettuale della nazione. Noi abbiamo avuto biso-
gno dell’uno e dell’altro...»7. La coscienza che quella risco-
perta era inseparabile dalla cultura e dalla sensibilità moder-
ne è, d’altronde, al centro dell’appello dei giovani rondisti a
Verga:
Vogliamo anzi essere audaci e dirvi che bisognava che sorgesse
in Italia una gioventù rapace, colta, addestrata a tutti i segreti
dell’arte, come a tutte le ricerche e astruserie, perchè si creasse,
all’infuori di ogni pregiudizio di scuola, una mentalità, un gusto ca-
paci di comprendere ed apprezzare le bellezze indimenticabili che
voi avete profuso nella vostra opera.*
78
della prima stagione) — scriverà Pancrazi nel 1934? — sem-
brarono nulli o addirittura irrisori; e si parlò di un Verga
ignoto tutto da scoprire».
Considerato il simbolo del poeta «costruttore» per eccel-
lenza, Verga divenne per gli «edificatori della nuova giornata
letteraria d’Italia» (per usare una fortunata espressione di
Borgese!°) una sorta di padre spirituale; la sua opera appar-
ve agli intellettuali impegnati in tale ricostruzione la più vali-
da testimonianza della possibilità stessa di rifondare una
struttura narrativa architettonicamente solida con la quale
esprimere l’autenticità di un riconquistato rapporto concreto
— anche se sofferto — con la realtà. Non è difficile capire
che questa chiave di lettura non poteva non comportare però
una mistificazione dei connotati oggettivi dell’arte verghiana.
L’opera dello scrittore siciliano assume, infatti, nell’interpre-
tazione di Borgese e, come vedremo, di Russo — ma indenni
da questo pericolo non sono neppure i saggi di Tozzi o di Pi-
randello — una fisionomia classica, i cui tratti inoltre sono
quelli generici e dunque ineffabili dell’arte riuscita di tutti i
tempi. Isolato dal suo contesto, Verga può così essere acco-
stato a Manzoni e a Leopardi, mentre le tanto esaltate doti
di schiettezza, naturalità ed essenzialità attribuite alla sua ar-
te finiscono con il sembrare frutto spontaneo di un atteggia-
mento etico, anzichè della difficile e faticosa conquista di un
particolare metodo artistico: quello verista.
La preoccupazione di assolvere l’opera verghiana da
ogni accusa di complicità con il positivismo o di connivenza
con il naturalismo, è, d’altronde, l’elemento di fondo di tutti
16)
gli interventi di quegli anni, direttamente proporzionale al
rafforzarsi degli spiriti antipositivistici nella cultura italiana
del periodo e al progressivo instaurarsi di quella che si può
definire una vera e propria dittatura del neoidealismo, se le
stesse battaglie per il rinnovamento culturale si svolsero tut-
te, tra le due guerre, al suo interno, schierando tutt’al più
gentiliani contro crociani. Nel dichiarare Verga non verista
si trovano tutti, comunque, d’accordo. Borgese che dichia-
ra: «Verista il Verga non è, piuttosto scolaro di Leopardi e
di Manzoni»!!; Pirandello che insiste sulla assoluta sponta-
neità dell’arte verghiana fedele unicamente alla propria leg-
ge vitale:
Dov’erano estrinseche necessità naturali dell’opera stessa, leggi
vitali, imprescindibili correlazioni organiche, la critica non seppe ve-
dere che le norme esteriori di quella scuola, i modi d’una tecnica
appresa, e s’appassionò a discuterli, traendo anche il Verga dal suo
austero silenzio a parlar di metodi e di distinzioni teoriche tra essi, e
a difendere quella verista come se l’opera della sua maturità fosse
quella che era perchè egli aveva seguito quel metodo e non perchè
essa in sè e per sè stessa così si fosse voluta senz’altro fine che di se-
guire la propria legge vitale!2;
80
gia, di una armonia serena che concorrono a costituire gli effetti più
elementari. Anche senza frammentaria psicologia tormentata d’ana-
lisi questo mondo ha la sua religiosità e il suo mistero nella sua ras-
segnazione e nella sua serietà e si ribella così allo schematico scienti-
fico dei suoi tempi e alle formulette dell’arte veristica.3
81
ma ordinatrice in grado di strutturare, secondo la prospettiva
ideologica dell’autore, il mondo da rappresentare. Quel mon-
do — suggerisce Pirandello — lungi dall’esser dominato e
organizzato da Verga, a lui autonomamente si impone attra-
verso ciò che di esso vedono e sentono i personaggi stessi. Il
richiamo ai Sei personaggi in cerca d’autore risulta, in que-
sto caso, particolarmente stimolante e apre alla ricerca lette-
raria campi ancora da verificare concernenti tutti i possibili
modi — tutt’altro che diretti — con cui gli scrittori del No-
vecento assorbirono e rielaborarono l’insegnamento deduci-
bile dalle opere di Verga.
82
scrivere un libro sul Verga: e in pochi mesi, quasi senza prender re-
spiro, con lena, scrissi quel saggio illudendomi che nelle pieghe di
una pagina di critica, di una discussione di estetica, di un commen-
to, di un’analisi io potessi far confluire e ordinare i vari interessi e
dubbi e gioie mentali, che all’uscire da un lungo periodo di forzato
ozio intellettuale come da una malattia, mi urgevano come bramosi
della salute, di una crisi, di una prova, sia pure provvisoria. Così
l’amore di quell’arte mi temprava nella ripresa della lotta; e scriveva
come sotto l’impulso di un sentimento di gratitudine.!6
83
la caratterizzazione del realismo verghiano di cui sarà utile
ricostruire i termini fondamentali. È chiaro che esso non po-
trà avere nulla di comune con l’asettico materialismo scienti-
fico a cui si ispira invece il naturalismo francese; esso è, in-
fatti, tutt'uno — secondo Russo — con l’interesse umano
per la vita, con il rispetto etico per tutti i suoi aspetti, anche
quelli generalmente condannati dall’ipocrisia sociale. È una
concezione del realismo che richiama da vicino quella de-
sanctisiana; lo scopo di esso, d’altronde, pare a Russo pro-
prio quello indicato da De Sanctis: porre un freno alla dege-
nerazione dell’ideale, calando quest’ultimo nella realtà.
Riaffondare le radici nella vita, nelle sue miserie, nella sua pro-
sa, nei suoi dissonanti pettegolezzi - afferma con convinzione Russo
- era la sola salute dell’ideale... Era l’ideale non sovrapposto
dall’immaginazione di un poeta sulla vita reale, ma quello stesso che
balzava dalle cose, che parlava nelle cose, con lampi e guizzi di sen-
timenti umani, che commoveva con le lacrime delle cose...?°
84
positivistica tipica di tutta la cultura di quegli anni. La stessa
filosofia verghiana — una concezione materialistica, laica,
deterministica della realtà — viene riportata da Russo entro i
termini tutti istintivi di un atteggiamento connaturato al «si-
ciliano triste, appassionato, austero che nella realtà vede il
mondo quale esso è, e si spiega che non può essere diverso
da quello che è»?3. Ma non è l’unica grave incomprensione
nei confronti della lucida coscienza critica di Verga; altret-
tanta insensibilità Russo dimostra per la strutturazione
tecnico-formale delle opere verghiane. La stessa impersonali-
tà viene giudicata un fatto schiettamente spirituale e identifi-
cata con «l’impassibilità... del contadino siciliano colpito
dalla sciagura e alla sciagura già assuefatto...»?4.
Sono le due facce, d’altronde, di un medesimo approc-
cio critico che se, da un lato, conferisce piena dignità estetica
all’antiletterarietà, alla socialità e alla moralità delle opere
verghiane, dall’altro, nella misura in cui ne attribuisce il me-
rito esclusivamente a disposizioni naturali, sconfessa, di esse,
proprio i risvolti più critici e innovativi: sul piano ideologico
il materialismo, su quello formale l’impersonalità.
85
con cui Verga guarda al mondo degli umili. «Avvocato dei
contadini, difensore dei diseredati, tribuno dei pezzenti» lo
definisce Scalia?” — e Tonelli precisa che non si tratta «della
simpatia propria dell’artista per la sua creatura, qualunque
essa sia; sì bene la simpatia dell’uomo verso l’umanità soffe-
rente» — anche se, a scanso di equivoci, aggiunge che l’uma-
nitarismo verghiano, lungi dal presentare punti di contatto
con la rivoluzione francese e con gli atteggiamenti del natu-
ralismo, può considerarsi fratello dell’ingenuo umanitarismo
degli scrittori russi o ancor di più figlio del cristianesimo di
Alessandro Manzoni. Proprio a Manzoni, d’altronde, Tonelli
si riferiva sostenendo la continuità dei Ma/avoglia con la glo-
riosa tradizione del romanzo italiano fatta di «ironia, pietà,
realismo e idealismo bellamente contemperati, profonda e
vasta serenità»?5.
Ma se questo è il profilo di Verga che quella fase storica
ci ha tramandato, non dobbiamo dimenticare che per il
gruppo della «Ronda»: Bacchelli, Baldini, Cardarelli, Cec-
chi, egli fu, invece, innanzi tutto, un impegnato sperimenta-
tore teso a raggiungere, attraverso il gioco sottile dello stile,
una icasticità e una classicità che Bacchelli amò definire gre-
ca e della grecità migliore??. In Verga essi credettero di rico-
noscere uno di quegli esempi in cui la vita si era fatta stile,
in cui il carattere, la moralità stessa dell’uomo si erano tra-
dotte completamente, fuse, in fatto di lingua e di strutture
narrative. Di qui un’attenzione specifica ai fenomeni tecnico-
stilistici che fornisce una lettura originale e, a volte, contro-
corrente dei testi verghiani. Colpisce, ad esempio, l’acutezza
con cui Antonio Baldini, in un articolo del 19203°, parlava
27e4Ivi, pi 204,
28 L. Tonelli, A/la ricerca della personalità, citato, p. 159.
29. Cfr. R. Bacchelli, Per la morte di Giovanni Verga (1922) ora in
L’ammirabile Verga in Saggi critici, Milano, Mondadori, 1962, p. 169.
30 A. Baldini, Un richiamo a Flaubert in «L’illustrazione italiana», n.
speciale del 29 agosto 1920.
86
del periodo verghiano, prefigurando, quasi, una interpreta-
zione tutta moderna del discorso narrativo dei Ma/avoglia;
un discorso — come hanno sottolineato alcuni critici
contemporanei?! — «che non si struttura in ragione del ri-
specchiamento di legami tra i fatti, ma per rimandi tutti in-
terni al discorso stesso»:
Andate a vedere quel che può succedere in un periodo di Ver-
ga. Un periodo che s’allarga da un punto all’orizzonte solo per me-
glio sottolineare un episodio, un periodo che si popola all’improvvi-
so di spettatori e scappa in tutte le case solo per meglio farci inten-
dere quello che avviene nell’animo di un individuo e nell’interno
della sua casa, un periodo che raccoglie una infinita disparità di
sentimenti e di pareri per dare l’agio all’autore di non entrare in
merito e lasciare che il fatto si svolga per conto suo...
87
tra la sperimentazione formale del romanziere ottocentesco e
quella dei giovani scrittori impegnati nella ricerca di nuove
strade narrative; indicazione destinata più tardi a fruttificare
nelle opere del realismo liricizzante degli anni Trenta.
88
In realtà dietro di esso è possibile individuare operante il
disorientamento di un lettore contemporaneo nei confronti
della mitizzazione dell’opera di Verga (non a caso il saggio si
intitola Giovanni Verga narratore, consensi e dissensi e si
apre con una dichiarazione significativa: «io vi trovo insieme
qualcosa di grande e di limitato, di stentato e di potente, che
mi fa ondeggiare tra l'ammirazione e la fatica»)?5.
Sotto accusa è in particolare la struttura compositiva, di
cui si denuncia «lo stento della costruzione e del filo narrati-
vo», ma, più in generale, tutti gli aspetti dell’arte verghiana
attribuibili all’influenza della poetica verista, che Momiglia-
no riconosce ma di cui sottolinea tutti i limiti.
Solo sfrondate da tutti gli elementi mimetico-realistici (le
«prosastiche scene affollate, i quadretti caratteristici, i dialo-
ghi minuti, il tributo al dialetto»), le opere verghiane avreb-
bero potuto, secondo Momigliano, raggiungere risultati este-
tici realmente validi, soddisfacendo, inoltre, il gusto e le atte-
se del lettore contemporaneo.
Effetto di questo diverso approccio critico e delle riserve
che si cominciarono a muovere ai giudizi entusiastici del do-
po guerra è anche la preferenza di Momigliano per il
Mastro-Don Gesualdo, romanzo giudicato più complesso e
moderno.
Furono gli scrittori comunque — e proprio coloro che in
misura maggiore di altri guardavano a quell’esempio, come
Michele Saponaro — a constatare per primi l’impossibilità di
dedurre da Verga una lezione concreta.
Da trent'anni lo avevamo dimenticato. Negli ultimi tempi la
critica, specialmente per opera dei più giovani, aveva ripreso ad oc-
cuparsi di lui. C’era molto amore in queste monografie, ma i risul-
tati nella diffusione di un’arte che non trova vie d’accesso nel gran
pubblico erano stati minimi - scrive nel 1923 Michele Saponaro ten-
89
tando di analizzare le ragioni di quel distacco da Verga sentito come
irreparabile -. Troppo lontani ci sentiamo da chi ha scritto la trage-
dia plebea dei Ma/avoglia... La nostra convinzione, innanzi ai Mala-
voglia, a Mastro-don Gesualdo, a Jeli il pastore, di trovarci alla
presenza terribile di opere già consacrate alla storia, ci ha sconsiglia-
to di seguirne, anche se ne avessimo avuto bastanti il fiato e le gi-
nocchia, le orme incancellabili... Io non credo al ritorno di Giovan-
ni Verga. O per esser più chiari, io credo che nessuno di noi vorrà 0
saprà tornare al Verga. Dico di più: io non credo che un ritorno al
Verga, così com’è inteso da chi identifica i fini dell’arte col metodo,
sia oggi possibile, nè utile. Quando si è cominciato a consigliare:
tornate al Verga, studiate il Verga! - qualcuno che allora per la pri-
ma volta ne ha aperto i libri, con anima d’accolito, istantaneamente
ne ha assorbito certi atteggiamenti stilistici, e ha creduto in buona
fede di seguire la scuola del Maestro ripetendone motivi, modi, nes-
si. Ma Verga si può amarlo e seguirlo diversamente: anzi non si può
amarlo e seguirlo, oggi, se non rifuggendone dall’imitazione5*.
È : fecpe s
M. Saponaro, Dopo un anno, in «Siciliana» Anno I, fascicolo I,
Catania, Gennaio 1923. Si tratta di un fascicolo speciale dedicato tutto a
Giovanni Verga.
90
classicamente costruito come lo definì Montale” — è vero
però che la scontrosa arte narrativa di Verga non poteva non
risultare inadeguata ad esprimere la tormentata interiorità
degli scrittori novecenteschi, così come da quel «mondo
chiuso», costretto entro i confini angusti della provincia sici-
liana, era difficilmente pensabile di poter ricavare stimoli e
strumenti per affrontare le complesse problematiche della
realtà contemporanea.
Come scrisse Vittorini nel 1929, da Verga, di cui pure
quella generazione si era nutrita, non era ormai più possibile
ricavare un insegnamento, un indirizzo per lo sviluppo della
narrativa italiana:
Oggi un poco guardiamo a Verga. Ma è certo che Verga abbia
potuto influire, con la sua riservata arte narrativa, sulla formazione
del nostro temperamento? Meglio i verghiani considerassero la di-
stanza incalcolabile a cui è rimasto il grande siciliano... e a cui lo
teniamo, malgrado ogni cura, ogni amoroso trasporto, fatalmente
noi stessi con la certezza di essere diversi da lui. Di D’Annunzio
non possiamo non sentirci migliori;... ma da Verga lontani, diversi;
e se per noi fosse stato davvero un maestro, quanti rimorsi di scola-
ri traviati ci peserebbero oggi sulla coscienza. Nemmeno da Verga,
dunque, un insegnamento, un indirizzo.
91
* * *
Dino Garrone
92
ga, a cui dedica un’appassionata monografia, uno dei più al-
ti esempi di quell’ideale concezione etica e antiretorica
dell’arte capace, con il suo impegno realistico, di opporsi ad
ogni forma — vecchia o nuova — di estetismo o meglio di
«indifferentismo morale».
Dell’arte verghiana Garrone non apprezza però soltanto
la serietà umana e morale; lo affascina soprattutto quella
magica — ma tutt’altro che spontanea — riduzione, attuata
da Verga, «della propria prosa al centro vivo del pensiero»,
quell’essenzialità che egli capisce inscindibile dalla sofferta
rinuncia a dare voce alle proprie passioni e grazie alla quale
quelle passioni «come brace che non dà più fiamma» si sono
fuse e fissate nella materia della rappresentazione stessa.
All’opera di Verga, ai Malavoglia soprattutto, definito uno
dei capolavori della letteratura mondiale, egli chiede infatti
di svelare il segreto di quella inimitabile concisione ed econo-
mia con cui lo scrittore, riducendo «la sintassi a formule de-
terminate, prese dal linguaggio popolare... trattenendo dal
calepino non più che un migliaio di vocaboli, facendosi spen-
ditore occhiutissimo di aggettivi e parole, da sfiorare talora
la maniera e l’avarizia», raggiunge quel meraviglioso effetto
di «canto senza vere parole, anzi al di là delle parole».4!
La polemica con Momigliano che aveva definito stentato
lo stile verghiano è evidente così com’è esplicito, direi, il ca-
rattere tutto novecentesco e sostanzialmente antiletterario di
questo culto della essenzialità, della parola scabra e dura,
della costruzione ellittica e piena di rinunce.
L’aspirazione ad una classicità sobria ed asciutta in gra-
do di riaccreditare i valori della nostra migliore tradizione
realistica informa infatti tutto il saggio critico in questione,
ibridamente fusa e intrecciata però — a riprova della stretta
93
appartenenza del saggio agli anni cruciali dell’egemonia fa-
scista — con i temi della razza e della religiosità. Garrone è
il primo a collegare, con insistenza, la problematica verghia-
na alla religiosità propria alla natura e alla razza del popolo
italiano: «una religiosità che ha, nella famiglia intesa come
unità religiosa; vincolo indistruttibile di sangue, ceppo e ca-
sa», il proprio motivo ideale.
«Il Dio di Verga — scrive Garrone — è il Dio del rosa-
rio che rinsalda alla sera il cerchio della stessa casa». Eppure
nonostante l’accentuazione — nella definizione dell’arte ver-
ghiana — dei suoi caratteri di classicità, solidità, religiosità,
il richiamo ad essa non comporta affatto l’assunzione di una
prospettiva pedagogica. Garrone sa, infatti, che da Verga
non è possibile ricavare un insegnamento positivo di vita,
che per ritrovare la verità artistica e umana di cui è ricca la
sua opera bisogna percorrerne in silenzio tutto l’itinerario ar-
tistico per scoprire poi che «con la sua concezione tragica,
senza un punto di vista superiore, conciliativo» Verga «non
persuade che alla inesorabile e necessaria tristezza del
vivere».45
94
blemi e che contribuiscono tutti, in qualche misura, a deli-
neare un’interpretazione borghese-moderata dell’arte verghia-
na.
La necessità di ridimensionare i rapporti di Verga con il
naturalismo francese porta, ad esempio, a sostenere la conti-
nuità di ispirazione tra produzione giovanile e romanzi veri-
sti da cui l’interesse per i romanzi fiorentini.44
Il desiderio di allargare e promuovere la conoscenza di
Verga in più larghi settori di pubblico spinge, in altri casi, ‘ad
interrogarsi sulle ragioni della sua scarsa popolarità. La vo-
lontà di indicare nell’opera verghiana precise rispondenze
con la morale borghese porta infine a privilegiare, in essa, i
temi della casa e della famiglia.4° Meno concordia esiste in-
vece sul piano della definizione dello stile verghiano dove è
possibile individuare una vera e propria disputa tra chi ritie-
ne Verga un poeta primitivo ‘, chi invece un poeta classico,
chi infine addirittura un esteta. 4
95
parte nuovo. Il fatto è che profondamente nuovo è l’atteg-
giamento stesso con cui il critico si riaccosta all’opera di
Verga. Il problema ora non è più di additare e proporre alla
riflessione di intellettuali e scrittori la carica antiretorica e
antiletteraria di testi come Vita dei campi o I Malavoglia. In
causa ora c’è il rapporto con il fascismo e la posta in gioco è
la difesa, di fronte all’attacco della dittatura, della propria
libertà intellettuale. A questo pericolo Russo, come tutti gli
intellettuali neoidealisti gravitanti nell’area dell’antifascismo
liberale, rispose, da un lato, accentuando la difesa dell’auto-
nomia della cultura da ogni complicità con il potere, a costo
di approfondirne l’isolamento e la separatezza, dall’altro, in-
sistendo sulla necessità di guardare indietro, nel passato, per
recuperare — attraverso una trama di rapporti tutta da evi-
denziare — quella continuità culturale che sola poteva garan-
tire — in quegli anni bui — la sopravvivenza del patrimonio
di valori insito nella grande tradizione letteraria italiana, da
quella classica a quella umanistica, a quella romantico-
realistica.
La nuova edizione della monografia su Verga riflette
questo mutamento di obiettivi critici sia nei modi di approc-
cio al testo (il saggio intende proporsi, infatti, da un lato,
come una lettura «disinteressata» di poesia, dall’altro, come
una ricostruzione unitaria del mondo poetico verghiano) sia
nei suoi risultati, dove modifica, innanzi tutto, il giudizio
complessivo sull’opera. Quel giudizio, appassionatamente
positivo nel testo del 19, presenta ora molte riserve. Del tut-
to anacronistico rispetto alle esigenze ed al gusto sempre più
classicheggiante della cultura di opposizione al regime, risul-
ta, infatti, l'entusiasmo, presente nella versione del 19, per la
«classicità dialettale» dell’arte verghiana. Ora che i termini
ideali di riferimento culturale sono Shakespeare, Tolstoji e
Manzoni, quegli elementi provinciali e dialettali non possono
che essere visti e considerati come limiti. Non è un caso che
il capitolo dedicato a La fama del Verga, che della vecchia
96
stesura conserva, oltre al titolo, solo alcune parti, si conclu-
da con l’ammissione che la scarsa popolarità del Verga va
imputata anche all’angustia della sua ispirazione provinciale
dialettale.
C’è indubbiamente qualche cosa di chiuso e di refrattario in
essa stessa, che non gli dà diritto di nazionalità, se non in parte mo-
desta, nel coro della grande Weltliteratur. Tirare fuori Shakespeare,
Manzoni, Tolstoji a proposito di Verga, non è solo retorica a vuo-
to, ma segno di grande disorientamento mentale. Il Verga è indub-
biamente un artista grande, un poeta di un mondo di passioni ele-
mentari, poeta del «piccolo mondo antico» della provincia... Orbe-
ne il Verga così fermamente conchiuso ed espressivo nell’opera sua,
non varcò certi limiti di un mondo dialettale d’affetti e di ispirazio-
ni, e la sua formazione giovanile, e gli sforzi dell’artista maturo, e
l’inaridimento precoce della sua pur robusta vecchiaia, stanno ad in-
dicare quella che fu la sua virtù, la sua grandezza e insieme la sua
angustia e il suo limite. E però, il carattere idiotistico, la classicità
dialettale della sua arte (e la formula è solo apparentemente con-
tradditoria) costituisce la ragione più intrinseca della sua limitata
popolarità. 43
97
classico, al tempo stesso, diede per ciò assai più ampia misura del
suo genio di creatore.“?
È dunque in base a questo diverso modello estetico idea-
le che Russo attua un vero e proprio spostamento di interes-
se da alcuni temi dell’opera verghiana ad altri. Fortemente
ridimensionati risultano così gli aspetti sociali di essa, com-
pletamente negata la loro carica eversiva.
Specchio del dramma di tutta una generazione (quella
europea dell’Ottocento divisa tra romanticismo e realismo)
Verga appare ora a Russo l’ultimo anello della rivoluzione
romantica iniziata da Manzoni, di quella corrente realistica
cioè della nostra letteratura che pose al centro della propria
ispirazione poetica i più sacri valori della vita terrena: la ca-
sa, gli affetti familiari, la virtù, il dovere, il lavoro, l’onore.
Verga finisce così per diventare il poeta ufficiale della morale
borghese, il sacerdote laico della religione della casa, il difen-
sore della continuità; e non è chi non veda come, in questa
difesa dei valori tradizionali attribuita a Verga, Russo additi
una scelta etica da condividere nelle sue linee di fondo, e da
opporre a tutti i disvalori dell’epoca contemporanea.
La grandezza di Verga risulta così inscindibile dalla ca-
pacità dello scrittore di fondere intuizione lirica e sentimento
morale della vita. Da qui la ribadita preferenza del critico
per / Malavoglia. La validità estetica del romanzo, la sua su-
periorità rispetto alle Novelle o al Mastro-don Gesualdo, so-
no infatti, per Russo, il frutto sia di una maggiore coerenza
e unità lirica (egli definì / Malavoglia «circulata melodia di
liriche») sia della presenza, in esso, di una fede morale: «la
religione del focolare domestico», che ne attenua il pessimi-
smo e fa del romanzo una proposizione ancora positiva di
valori. Per Russo la sostituzione, infatti, a partire dalle Ru-
sticane, della religione della casa con il mito della roba —
un’effimera divinità materiale — è già il segno di un progres-
98
sivo sgretolarsi del mondo ideale verghiano che, nella misura
in cui perderà progressivamente tutte le illusioni, finirà
coll’inaridire ogni fonte di ispirazione poetica. Non è un ca-
so che proprio nelle Rusticane Verga mortifichi, secondo
Russo, il proprio lirismo con il ricorso alla parodia, un ricor-
so di cui il critico non può che mettere in luce il lato negati-
VO:
SW IVIT pa 210)
51 Ivi, p. 199.
99
tà artistica. Ma Russo, pur articolando il suo giudizio e defi-
nendo la figura del protagonista «il personaggio più com-
plesso e più ricco di poesia che il Verga abbia creato», riba-
disce la propria preferenza per / Malavoglia riaffermando,
così, implicitamente, l’esemplarità che il romanzo di Aci-
Trezza rivestiva non solo all’interno del saggio verghiano,
ma nella sua stessa concezione dell’arte. Coerentemente ciò
che non piace al Russo del secondo grande romanzo verghia-
no, è proprio «la pittura del mondo della provincia», il ten-
tativo cioè — da parte di Verga — di inserire la vicenda di
Mastro-don Gesualdo sullo sfondo degli avvenimenti storici;
lo disturba la tessitura cronologica che divide l’esposizione
degli avvenimenti della vita del protagonista in quattro parti
corrispondenti ai periodi cruciali della storia sociale della Si-
cilia, ma, più in generale, proprio «la maniera più spiegata-
mente narrativa del romanzo», che «mentre dà maggior re-
spiro al racconto, finisce, qua e là, col dissipare la concen-
trazione lirica».5?
SSMLVI;TpP.9304%
100
nella posizione di Luigi Russo e che sviluppa gli spunti de-
sanctisiani presenti nel saggio del 1933, dall’altro alcune voci
critiche interessate, prevalentemente, a strappare allo stile
verghiano il segreto di quella «classicità omerica», di
quell’essenzialità che di esso costituiva l’aspetto più moderno
ed attuale.
Alla prima appartiene, ad esempio, il saggio di Gaetano
Trombatore: Mastro-don Gesualdo apparso in «Ateneo Ve-
neto» nel 1935. È indubbio che l’ideale di un realismo idea-
lizzato guidi in Trombatore tutta l’analisi del Mastro-don
Gesualdo e condizioni i suoi giudizi; il romanzo gli appare
infatti dominato dal conflitto tra il motivo economico della
roba e quello dei nobili ideali, conflitto che Verga — a suo
parere — avrebbe dovuto risolvere in uno di questi modi: «O
far trionfare il motivo della roba, o quello dei nobili ideali e
riuscire a una rappresentazione del mondo governata da una
norma provvidenziale o almeno da una legge morale, o la
sintesi tra i due motivi». È chiaro che le preferenze di Trom-
batore sono per la soluzione pedagogica, ma la colpa più
grave del Verga non è quella di aver scelto una soluzione di-
versa, ma proprio di non aver scelto tra esse. Il Verga, scrive
infatti, ha preferito «non concludere riuscendo solo all’esa-
sperazione dei due motivi in conflitto».
Ciò che Trombatore non può assolutamente condividere
è proprio la visione materialistica della vita che il romanzo
verghiano riflette attraverso l’importanza assegnata al moti-
vo della roba, che, lungi dall’essere la tesi o l’antitesi di un
progetto educativo, è, e vuol essere, l’amara rappresentazio-
ne della legge che domina i rapporti tra gli uomini.
La preclusione estetica nei confronti del tema della roba
giudicato incapace, di per sè, di generare poesia «non essen-
do un motivo etico», presuppone dunque una preclusione
più profonda nei confronti del messaggio critico del testo,
come testimonia anche la significativa conclusione del sag-
gio: «L’atteggiamento dello scrittore genera ira, rivolta, po-
101
lemica, ma una polemica disorientata, senza un avversario
da colpire, senza una fede da far trionfare».5*
A questa linea critica è possibile attribuire anche il sag-
gio di Aldo Vallone su // romanzo italiano dalla Scapigliatu-
ra alla Ronda del 1941 e proprio per la convinzione con cui
vi si sostiene che «fra romanticismo e verismo», come tra i
suoi più alti esponenti: Manzoni e Verga, «c’è un rapporto
di continuità o meglio di rinvigorimento». «Il Manzoni —
scrive Vallone — ci diede il realismo nel mondo ideale, il
Verga ci diede il realismo quale è nella sua realtà (a bene in-
tenderla): sono cambiati i modi, è vero, ma la sostanza è la
stessa e non cambia ed è eterna, perchè ha un solo nome: ar-
te».it
Della seconda corrente critica può essere un campione
significativo il saggio di Massimo Bontempelli.55
Il discorso di Bontempelli, pronunciato il 15 febbraio
1940 nella Reale Accademia d’Italia, sviluppa la sua tesi a
partire dalla polemica, iniziale, definizione di un Verga
«gran novatore e distruttore di consuetudini letterarie» 59. La
contrapposizione alla linea critica che aveva fatto di Verga il
continuatore di Manzoni è esplicita.
A soli 40 anni di differenza da Manzoni, Verga ha contrappo-
sto alla Provvidenza manzoniana una Fatalità sorda, che abita mol-
to lontana dall’uomo e là ferma sta e nessuno sa dove, e di là colpi-
sce e nessuno sa quando o perchè. Forse è cattiva, forse è solamente
ignara: stretta parente allora, della indifferente Natura di
Leopardi.57
102
Bontempelli giunge fino a sostenere anzi che Verga,
com’è agli antipodi di Gabriele D’Annunzio, così è pure
all’opposto di Manzoni. Manzoni è, in questo caso, la posta
in gioco di uno scontro ideologico tra due fronti culturali e
politici antitetici. Se per spiegare la continuità Manzoni-
Verga è necessario chiamare in causa lo storicismo umanisti-
co e il suo rapporto con l’antifascismo liberale, a capire i
giudizi di Bontempelli è utile forse ricordare che egli fu un
aperto fiancheggiatore del fascismo, membro dell’ Accademia
d’Italia, sostenitore della politica culturale del regime, anche
se delle sue tendenze moderniste ed europeizzanti.
Niente di più lontano dunque, per Bontempelli, dagli
umili manzoniani, che i personaggi popolari di Verga. Ad es-
si si addice la definizione di «elementari» — precisa Bontem-
pelli — dopo aver chiarito che il termine elementare, che non
coincide con primitivo, ma piuttosto con primordiale, è sino-
nimo di innocenza, di libertà, di fondamentale estraneità alla
storia. Anche lo stile verghiano è, a parere dello scrittore, in-
scindibile da quella realtà primordiale; ecco perchè «il piglio,
il modo della rappresentazione, è un modo tra eschileo (La
lupa) e omerico (I Malavoglia)». Non serve, secondo Bon-
tempelli, cercare modelli contemporanei per Verga; l’unico
accostamento che regge «è appunto quando dici Omero (e vi
puoi aggiungere Leopardi che anche lui è un omerico)». La
polemica contro la riduzione di Verga ad una dimensione di
realismo ottocentesco colpisce anche l’etichetta, attribuitagli,
di poeta dialettale.
«In Verga non c’è niente di dialettale» - afferma lo scrittore -
anzi è possibile ormai sostenere «senza che sembri paradossale» che
l’arte di Verga è ermetica al massimo grado se ermetica significa che
essa «immerge in una atmosfera da mistero le note della vita che
siamo soliti accettare come le più chiare ed usate.5*
103
esistenziale della realtà ed ha assunto il potere di attingere,
oltre la superficie delle consuetudini quotidiane della vita,
l’essenza universale dell’umanità primordiale. È chiaro che
questa interpretazione snatura profondamente l’autentico
progetto verghiano; in essa non rimane la più piccola traccia
nè dell’atteggiamento razionale e scientifico dello scrittore si-
ciliano, nè della sua intenzione di descrivere la realtà del
mondo popolare oggettivamente, se pur — come scrisse Pi-
randello — dal «di dentro», ma — proprio per questo —
prendendo a prestito i costrutti, i modi di dire, le strutture
mentali dei suoi abitanti.
Eppure proprio questa lettura forzante dei testi verghia-
ni permette a Bontempelli di capire e descrivere alcuni mec-
canismi dello stile verghiano che nulla hanno a che fare, ef-
fettivamente, con un banale mimetismo realistico. Bontem-
pelli parla infatti di un processo di «scarnificazione supre-
ma» del racconto, di un «procedere per balzi impreparati che
ti danno l’illusione la parola sia abolita», di un racconto in
cui «non esistono più le zone di passaggio», sì che il narrare
«si trasforma in un prodigioso giocare col tempo». «La sicu-
rezza con la quale (i collegamenti) sono stati recisi — com-
menta con ammirazione Bontempelli — è spaventosa, sono
tagli improvvisi e netti che riempiono di coltellate tutta la
narrazione)».
Bontempelli è infatti uno dei pochi a capire e sottolinea-
re in quegli anni l’originalità e l’attualità dell’operazione for-
male realizzata da Verga.
«L’unica cosa — scriverà infatti ripubblicando il discor-
so nel 1942 — di cui credo i critici non si siano accorti è co-
me egli aprisse in pieno le porte del Novecento, vent’anni
prima che D’Annunzio finisse di chiudere quelle dell’Otto-
cento».5?
Una considerazione, a questo punto, si impone sulla sin-
golarità della fortuna critica del Verga, la cui personalità ar-
59 Ivi, p. 151.
104
tistica subì tutti gli effetti negativi della propria sistematica
scissione: da una parte l’uomo, il moralista impegnato, il di-
fensore dei valori familiari, dall’altra l’artista creatore di for-
me «classicamente» essenziali. Particolarmente significativo
mi sembra il fatto che chi apprezzava l’uno dei due Verga,
era incapace di capire le ragioni dell’altro, quasi che i due
aspetti fossero, di per sè, per ragioni oggettive, inconciliabili.
Nella valutazione dei critici potevano prevalere ora l’uno
ora l’altro degli aspetti dell’arte verghiana e per ragioni, co-
me abbiamo visto, di carattere essenzialmente ideologico, ma
si trattava sempre, anche nei casi migliori, di interpretazioni
unilaterali incapaci di avviare una effettiva comprensione
dell’opera di Verga. Solo uscendo da quelle schematizzazioni
sarebbe stato infatti possibile ricomporre la necessaria unità
tra visione del mondo e soluzioni formali chè la loro inconci-
liabilità era il frutto, oltre che della loro scissione, della pro-
fonda mistificazione che ciascuno dei due termini aveva
subìto singolarmente. Il moralista appassionato impegnato
nella difesa sentimentale dei valori della tradizione nazionale
presenta infatti pochissimi punti di contatto con l’intellettua-
le laico e materialista che fu Verga, mentre non c’è nulla di
più lontano dalla lucida coscienza di sperimentatore formale
propria del Verga reale, dell'immagine del poeta omeride
estraneo al corso della storia.
Uno sguardo alla situazione della critica francese, dove
nel 1937 fu pubblicato un ricchissimo e documentatissimo
saggio sul verismo di Paul Arrighi*°, può dare, d’altronde,
la misura di quanto i nostri critici, maggiormente preoccupa-
ti di rendere funzionale il modello verghiano alla propria
concezione della letteratura — e non importa se classica o
realistica, populista o ermetica —, prigionieri di una prospet-
tiva metodologica, che non poteva che trasformare l’esercizio
105
critico in una sterile ricerca valutativa dei momenti di poesia
— e anche qui non importa se identificata con i frammenti
lirici o con i grandi temi ideali — avessero sistematicamente
eluso lo studio di quei problemi critici come l’indagine sulle
origini, lo sviluppo e i caratteri del verismo italiano, che
avrebbero potuto aiutare a capire meglio Verga e le sue scelte.
106
CAP. III
107
insegnava a guardare la realtà italiana... Il Verga mi situava a un
tratto di fronte a un’Italia reale mal conosciuta, e tanto meno capi-
ta, me ne squadernava davanti agli occhi la miseria e la sofferenza,
me le poneva, implicitamente, come problema. Per la prima volta,
nella mia esperienza di lettore, soffrivo direttamente, da un’opera in
lingua italiana, l’urto delle cose che mi vivevano intorno, il bruciore
della nostra realtà quotidiana... Posso anzi affermare senza timore
di sbagliarmi, che io scopersi per la prima volta la questione meri-
dionale proprio attraverso le pagine di Verga. E un tale fatto, appa-
rentemente strano anch’esso, lo si potrà invece intendere facilmente
solo che per un attimo si ricorra con la mente agli anni dei quali
parliamo, quando una coltre ovattata di grandi parole sembrava
aver ricoperto il vero volto della società.!
108
Verità e poesia. Verga e il cinema italiano?: questo il ti-
tolo significativo di unò dei primi manifesti del neorealismo,
in cui è evidente che l’esemplarità del realismo verghiano
(anche se si tratta di un realismo identificato ancora preva-
lentemente con i suoi atteggiamenti lirici) nasce, in quegli an-
ni, soprattutto dalla convinzione che esso esprima «le uniche
esigenze storicamente valide: quelle di un’arte rivoluzionaria
ispirata ad una umanità che soffre e spera».
L’associazione tra capacità di rappresentazione realisti-
ca, impegno e funzione sociale dell’arte vi risulta già delinea-
ta nelle sue linee di fondo, anche se a sostenere quella pro-
posta di ritorno al realismo sta una concezione tutta umani-
stica dell’uomo e della realtà che rende generici e contraddi-
tori i suoi caratteri costitutivi. A quest’ultima vanno infatti
riportate sia le vaghe affermazioni programmatiche di quel
manifesto («Fiducia nella verità e nella poesia della verità, fi-
ducia nell’uomo e nella poesia dell’uomo, è dunque ciò che
chiediamo al cinema italiano»); sia le riserve antinaturalisti-
che nei confronti di «un passivo ossequio ad una statica veri-
tà obiettiva»; sia la preferenza per il racconto — concepito
come libera ricreazione nella fantasia di una storia esemplare
di eventi e di persone — a tutto scapito del documentario. È
una interpretazione del realismo questa che trova puntuale
riscontro nella valutazione critica dei romanzi verghiani di
cui, non a caso, vengono privilegiati gli aspetti lirico-
simbolici, rispetto a quelli storico-documentari. La Sicilia dei
Malavoglia è infatti definita «omerica e leggendaria», l’am-
biente «miracolosamente vergine e vero», il linguaggio «es-
senziale e violento», i personaggi «le creature più primitive e
più vere».
Ma l’incidenza della lezione verghiana, il suo valore sim-
bolico agli occhi di chi auspicava e si batteva per una riquali-
109
ficazione in senso democratico dei caratteri e della funzione
dell’arte, era destinata a crescere nell'immediato dopoguerra,
favorita da una sorta di richiamo ideale alle esperienze delle
battaglie democratico-borghesi dell’età risorgimentale.
L’irripetibile esperienza storica della Resistenza al nazi-
fascismo con la sua rivoluzionaria capacità di aggregazione
offrì o sembrò offrire per la prima volta dopo il periodo del-
le lotte unitarie (grazie all’esperienza della guerra civile pri-
ma, della conduzione politica dei governi provvisori poi, del-
la militanza — più o meno diretta — nei grandi partiti di
massa infine) un ruolo «organico» all’intellettuale, la possi-
bilità cioè di ristabilire quel rapporto di profonda risponden-
za tra lavoro intellettuale e esigenze popolari che proprio la
crisi di fine secolo seguita alle profonde trasformazioni strut-
turali del paese aveva intaccato alla radice.
L’intellettuale si sentiva infatti nuovamente investito di
un mandato sociale. Si trattava di dar voce ed espressione ai
bisogni di un paese che usciva dalle vicende della guerra pro-
fondamente trasformato con un volto in gran parte scono-
sciuto e dunque tutto da scoprire. Da qui il richiamo ideale
alle esperienze del periodo post-unitario: la rinnovata attuali-
tà — in particolare — di figure come Francesco De Sanctis e
Verga e il rilancio di tematiche care alla cultura del secondo
Ottocento quali l’attenzione privilegiata per le realtà regiona-
li e le situazioni di emarginazione e sottosviluppo; il deside-
rio di analizzare con impegno e obiettività vecchie e nuove
contraddizioni; la volontà di riaffrontare gli annosi problemi
dello sviluppo storico e sociale italiano come la questione so-
ciale e quella del Mezzogiorno.
Da qui però anche il velleitario protagonismo degli intel-
lettuali che, legittimati da un generico mandato interclassista
di carattere culturale, pensarono di poter assumere in prima
persona i compiti e gli obiettivi della trasformazione sociale e
del rinnovamento politico. Da qui ancora la centralità che il
problema del realismo finì coll’assumere nel dibattito cultu-
110
rale del secondo dopoguerra e la sua utopistica promozione,
da strumento di conoscenza e rappresentazione della realtà, a
mezzo per incidere direttamente in essa e trasformarla.
È chiaro che con una simile ipotesi non tutti gli aspetti
del verismo risultassero ben accetti; a venir rifiutati, in parti-
colare, furono, come vedremo, quelli maggiormente compro-
messi con il punto di vista conservatore dello scrittore, con
la mancanza cioè di quel prospettivismo critico che solo sem-
brava garantire agli intellettuali marxisti la comprensione
della reale dialettica sociale.
111
Verga e gli scrittori del neorealismo
112
ne in Sicilia, Paesi tuoi, da cui partire ognuno sulla base del proprio
lessico locale e del proprio paesaggio.“
113
con Verga si fondava essenzialmente sul riconoscimento della
«tipicità» del realismo verghiano, della sua capacità cioè di
rappresentare la dinamica oggettiva dei fatti sociali e la logi-
ca dei rapporti di classe. Da Verga cioè questi scrittori desu-
mevano, da un lato, l’invito ad analizzare e denunciare con
fermezza ed obiettività la situazione di sottosviluppo ed
emarginazione della realtà meridionale, dall’altro, l’esempio
di un racconto oggettivo in cui quella situazione era calata in
vicende e personaggi concreti e socialmente rappresentativi.
Proprio questa, d’altronde, era la lezione che sembrava
aver fatta propria Jovine ne Le terre del Sacramento dove
l’analogia con la rappresentazione verghiana del mondo po-
polare siciliano si fondava, oltre che sull’assunzione di un
modello narrativo ottocentesco di cui Mastro-don Gesualdo
costituiva l’esempio più felice, sulla centralità che nelle ope-
re di entrambi rivestiva la questione meridionale come sco-
perta delle contraddizioni del sistema sociale italiano di ieri
come di oggi.
Una lezione a cui dunque era possibile rimanere fedeli
solo superando i limiti dell’impostazione ideologica verghia-
na, dando vita cioè ad una rappresentazione delle contraddi-
zioni sociali capace di esprimere sia il mutamento oggettivo
intervenuto nella realtà dei rapporti di produzione, sia la più
avvertita consapevolezza ideologica del problema meridionale
maturata nelle coscienze dei suoi soggetti storici.
Era un’operazione di aggiornamento della problematica
verghiana già tentata dagli sceneggiatori (Alicata e De Santis)
de La terra trema (il film di Visconti liberamente tratto dai
114
Malavoglia) con l’attualizzazione, soprattutto, della figura di
’Ntoni, promosso, nel film, a simbolo della maturità politica
raggiunta dalla nuova generazione e insieme ad emblema del-
la speranza in una ormai possibile trasformazione dei rap-
porti sociali. Non stupisce allora che le differenze, concorde-
mente ammesse e sottolineate dalla critica, tra l’atteggiamen-
to conservatore di Verga e l’impegno antifascista di Jovine,
tra il destino di atavica rassegnazione dei vinti verghiani e la
sconfitta dei contadini molisani riscattata dal presagio di una
vittoria non lontana, non mettessero in discussione l’ideale
filiazione dell’esperienza neorealista da quella verista, garan-
tita in questo caso proprio dalla sostanziale fedeltà di Jovine
all’esemplarità sociale di opere come le Rusticane e Mastro-
don Gesualdo.
115
futuro. Era un modo intelligente per cogliere uno dei più evi-
denti punti di frattura tra il vecchio e il nuovo approccio alla
letteratura: quello volto, essenzialmente, ad isolare l’opera
dal suo contesto storico e sociale, questo teso, invece, a rico-
struire tutta la complessa e sfuggente trama di rapporti che
collegano l’espressione artistica individuale ai fenomeni gene-
rali di carattere culturale e sociale.
Applicato a Verga questo metodo permise alla critica di
quegli anni sia di dimostrare i legami esistenti tra l’opera
verghiana e il verismo, sia di fornire un’immagine storica-
mente determinata del verismo stesso. Per la prima volta in-
fatti, dopo la liquidazione crociana, vennero ricostruiti alcu-
ni atteggiamenti di fondo del verismo: lo spirito di analisi
proprio dell’indagine scientifica, che spinge intellettuali e
scrittori ad investigare tutti gli aspetti e i problemi della so-
cietà italiana post-risorgimentale; l’utilizzazione, nello studio
dei rapporti economico-sociali della società borghese ottocen-
tesca, di una chiave di lettura materialistica che intacca gran
parte delle illusioni risorgimentali in uno sviluppo progressi-
vo e armonioso; la crescente indignazione polemica provoca-
ta dalla delusione storica per la mancata realizzazione delle
aspirazioni al progresso e alla giustizia sociale; l’amaro ma
stimolante pessimismo che, a mano a mano, di fronte alle
persistenti contraddizioni della società, sferza le residue spe-
ranze di trasformazione sociale.
Il verismo veniva così ancorato, da un lato, agli ideali
progressisti del positivismo europeo, dall’altro, alla disillu-
sione generata dalla particolare situazione di arretratezza
economico-sociale dell’Italia post-unitaria. Si deve a Sape-
gno, in particolare, la definizione del verismo come un feno-
meno dimidiato, limitato cioè nella sua portata critica da
una carenza di «organicità al milieu italiano», «donde quel
che il verismo italiano ha in meno rispetto ai suoi mo-
delli francesi ed europei, in fatto di slancio, di vitalità imme-
diata, di forza espansiva, e che dipende insomma da un di-
116
verso grado di evoluzione sociale, dal persistere in Italia, e
specialmente nel Sud, di una frattura più grave e profonda
tra.l’intelligenza dei pochi e la cieca e muta desolazione dei
più», a cui corrisponde l’immagine del verista come
117
L’arte verghiana, a conferma di quanto fosse difficile li-
berarsi da certi pregiudizi idealistici, appariva infatti nel sag-
gio di Sapegno una felice quanto inimitabile sintesi di verità
documentaria e «trasognata epopea» («ogni vicenda, anche
minima, della esistenza di tutti i giorni — vi si legge — attin-
ge al valore di un simbolo, si innesta in una trama di leggen-
da») in cui era difficile dire se per il critico contava di più il
«valore di documento insostituibile per la storia di un popo-
lo» posseduto dall’opera verghiana o «la grandezza e la mae-
stà ieratica che avvolge personaggi e ambienti in un’atmosfe-
ra di stilizzata liturgia e che è il segno della loro qualità poe-
tica».
Che il rapporto con il verismo fosse la chiave per capire
e giudicare l’arte del Verga, che il problema cioè fosse quello
di spiegare le scelte verghiane in base ai caratteri del verismo
e non prescindendo, più o meno volutamente, da essi, è fuor
di dubbio e basterebbe a confermarlo una lucida frase di
Giuseppe Petronio nel saggio dedicato a Mastro-don Gesual-
do:
Il Verga grande comincia quand’egli illuminato dalla lettura di
un giornale di bordo o dalle teorie dello Zola che il suo Capuana
diffondeva in Italia o da un qualsiasi fatto esteriore, scopre il ro-
manzo verista impersonale, obiettivo, in cui lo scrittore cela gelosa-
mente sè stesso.?
118
L’ipoteca crociana così evidente ancora in questi saggi
— che, peraltro, risalgono ai primissimi anni del dopoguer-
ra, quando non agli stessi anni del conflitto — risulta co-
munque sempre meno avvertibile nella critica post-
resistenziale dedicata a Verga. Già le parti più originali di
questi interventi?, così come più tardi i saggi di Trombatore,
Seroni e Salinari, tendono infatti ad accentuare l’importanza
degli aspetti di documentazione e di denuncia sociale presenti
nell’opera verghiana e a scorgere in essi un alto potenziale
realistico.
Era stato uno storico, Salvatore Francesco Romano, già
nel 1946, ad affermare che la narrativa di Giovanni Verga
conteneva «la più alta e virile concezione della lotta sociale
che ci sia dato di incontrare nella nostra letteratura» e a sug-
gerire che proprio l’assenza di «ogni indugio sentimentalisti-
co» o preoccupazione pedagogica aveva portato lo scrittore
alla rivoluzionaria «intuizione del mondo umano come mon-
do di bisogni economici».!°
L’anno dopo Trombatore confermava quel giudizio at-
tribuendo al verismo verghiano la prestigiosa qualifica di
«arte sociale», dopo aver precisato che con quel termine egli
non intendeva nè l’arte «che rappresenta i problemi propri di
un unico e determinato tipo di società come il romanzo bor-
ghese di costumi, nè quella che fa polemica sociale, ma
«quella che assume a sua materia gli attriti, i conflitti, gli ur-
ti, le instabili composizioni, la difficile convivenza delle clas-
si sociali tra loro».!!
119
Si può dire, d’altronde, che tutta la critica verghiana
fosse impegnata in quegli anni a dimostrare la «qualità reali-
stica» dei testi veristi, a scoprirne e indicarne le tracce a par-
tire da Nedda!?, a testimoniarne la capacità critica.
Questa linea interpretativa fondata su un nesso inestrica-
bile tra valore sociale, capacità demistificatoria dell’arte ver-
ghiana, e assunzione, da parte dello scrittore, di una prospet-
tiva critica di carattere progressivo, non poteva, però, non
trovare un ostacolo di fondo nel pessimismo verghiano, in
quella perplessità morale che impedisce al Verga di condivi-
dere le speranze o le illusioni borghesi nel progresso.
E difatti il fatalismo e la rassegnazione verghiane, la sua
visione immobilistica della realtà vennero sentiti e giudicati
come veri e propri impedimenti alla piena realizzazione del
realismo !3. È significativo, ad esempio, che Trombatore sen-
tisse come una contraddizione il mancato approfondimento
«della pietà per gli umili e gli oppressi», «del rancore per i
prepotenti», «del disprezzo per il mondo fittizio degli uomini
e delle donne di lusso» in «una sia pur rudimentale ideologia
sociale». Su tutta l’opera di Verga si rifletteva così, secondo
il critico, «quella luce equivoca che emana dalla perplessità e
dal disorientamento dello scrittore».!*
Se i critici marxisti reagirono a questa scomoda contrad-
© dizione elaborando quella che verrà poi intelligentemente de-
120
finita la «teorica del limite»!5, altri tentarono, invece, di
comporre questa antinomia sostenendo l’efficacia del reali-
smo verghiano «nonostante» l’evidente conservatorismo del-
lo scrittore. Si può dire infatti che tra il 1950 e il 1954 è pa-
lese in alcuni settori della critica la preoccupazione di neutra-
lizzare l’incidenza del pessimismo verghiano, giudicandolo
tutt’al più un limite storico che, di per sè, però, non intacca
l’effetto realistico delle opere. Non è un caso che si assista, a
volte, ad una vera e propria gara nel quantificare la com-
mossa partecipazione di Verga alle sofferenze degli umili e
nel contrapporla all’esplicita ideologia conservatrice dell’au-
tore.
Dobbiamo credere alla fede privata dello scrittore o alla con-
dolenza universale nei confronti dei poveri per le loro privazioni e
alla satira inclemente di tutti i rappresentanti della vecchia società
feudale?
si chiede Luigi Russo in un saggio dal titolo emblemati-
co Verga il poeta della povera gente.*°.
Si tratta comunque di un atteggiamento largamente dif-
fuso, se lo troviamo ribadito in un ambito non strettamente
riservato agli addetti ai lavori. In seguito alla pubblicazione,
sul settimanale della C.G.I.L. «Lavoro», della novella La /i-
bertà di Verga, si aprì sulle pagine del giornale una interes-
sante discussione sul significato ideologico della novella. Ad
essa partecipò anche lo storico Romano denunciando le de-
formazioni e le falsificazioni perpetrate da Verga «per un
più o meno consapevole istinto di classe» nei confronti della
versione storica dei fatti di Bronte.
121
La risposta del direttore Gianni Toti è particolarmente
significativa e vale la pena citarla. Siamo, d’altronde, sulla
soglia della crisi dell’età del neorealismo ed essa può servire
perciò a sintetizzare, più di altre e più note testimonianze, il
giudizio complessivo formulato su Verga nel periodo post-
resistenziale:
Due cose soltanto ci sembra doveroso ribadire, perchè risultino
chiare le intenzioni del nostro corsivo. Primo che Verga scrittore
non ha alcun rapporto con Verga «uomo di classe» conservatore e
reazionario. Mai forse come nella Libertà egli fu scrittore profonda-
mente rivoluzionario: per l’impetuosa sommarietà della sua rappre-
sentazione, che pur prescindendo dai dati esatti della vicenda di
Bronte, ne coglie e ne isola /’aspetto essenziale. Chiunque legga la
novella sente quanto totale sia la partecipazione dello scrittore ai
fatti narrati e come egli sia, come nei Malavoglia, come in quasi
tutti i suoi scritti, schierato nettamente dalla parte di chi soffre,
pronto a intenderne e esprimerne il muto dolore.!7
122
all’etnologia quello di Alberto Mario Cirese (7! mondo po-
polare nei Malavoglia, 1955). È indubbio che essi contri-
buirono ad avviare la contestazione di alcune formule usu-
rate e a mettere in crisi soprattutto l’indiscusso predominio
delle letture tese ad identificare il valore dell’arte verghiana
con i suoi contenuti popolari. Si tratta per lo più di spunti
che attendono, in alcuni casi, ancor oggi, di venir ripresi e
discussi, come quelli suggeriti da Debenedetti a proposito
dell’omologia tra i complessi del giovane intellettuale di
provincia Pietro Brusio (il protagonista del romanzo giova-
nile Una Peccatrice), «il suo smanioso bisogno di compen-
sazione» soprattutto, e la mancanza di identità sociale del
«piccolo ceto medio siciliano... tra la fine del Regno bor-
bonico e l’inizio del Regno d’Italia... un gruppo sociale
contrassegnato da molti e caratteristici connotati positivi,
dei quali ha coscienza: e che viceversa non riesce ancora a
comporre in una precisa, valida, univoca fisionomia, della
quale peraltro sa di aver diritto»!8; una omologia che sti-
molava a riportare dunque psicologia e visione del mondo
verghiane nell’ambito delle aspirazioni all’unificazione ita-
liana espresse dai ceti medi e a spiegare limiti e contraddi-
zioni di quelle con la fragilità economica, sociale, e dun-
que ideologica, di quei gruppi stessi.
Furono però i saggi di Devoto e Spitzer a denunciare in
particolare le carenze di un’interpretazione esclusivamente
contenùtistica. Per la prima volta infatti, grazie ad un’analisi
della struttura narrativa dei Ma/avoglia, si evidenziava tutta
la complessità formale dell’operazione verghiana e si indivi-
duavano gli strumenti tecnici del suo particolare realismo.
Devoto soprattutto sostenendo che la materia narrativa
del romanzo si presentava articolata in una serie di piani, af-
123
fidati ciascuno alla responsabilità di un personaggio — e per-
sonaggio veniva considerata, da questo punto di vista, la
stessa collettività di Aci-Trezza — dimostrava che il realismo
verghiano si realizzava mediante la scomparsa di ogni distan-
za tra narratore e vicenda narrata, logica conseguenza
dell’attribuzione della narrazione ad una serie di punti di vi-
sta diversi, ma tutti interni e contemporanei alla vicenda!?.
Era una ipotesi di lettura dei Ma/avoglia che non solo sotto-
lineava l’incommensurabile distanza del romanzo verghiano
da quello manzoniano, ma richiamava l’attenzione sulla dif-
ferenza esistente tra un realismo a parte subiecti, quello di
Zola per intenderci, ed un realismo realizzato, come quello
di Flaubert e di Verga, mediante il ricorso al punto di vista
degli oggetti rappresentati. Anche Spitzer, pur in polemica
col Devoto, alla cui interpretazione opponeva quella di una
filtrazione sistematica di tutto il romanzo «attraverso un co-
ro di parlanti popolari semi-reale (in cui il parlato potrebbe
essere realtà oggettiva — ma non si sa davvero se lo è)»29,
insisteva sulla qualità «impressionistica» della rappresenta-
zione, una rappresentazione cioè che si limitava a riportare
solo ciò che poteva udire il narratore — quello cioè che en-
trava nel raggio delle possibilità concrete del suo punto di
osservazione — e i cui sparsi frammenti il lettore poteva
riordinare dunque solo a posteriori, cucendo insieme, come
precisava Devoto, il piano dei personaggi con quello del nar-
ratore e degli oggetti.
Questi saggi, a cui va aggiunto l’articolo di Ivo Franges,
Su un aspetto dello stile di Giovanni Verga, scritto nel 1953
ma pubblicato nel 1956, ebbero poi il merito di capire ed il-
124
lustrare la funzione particolare che l’indiretto libero ha nello
stile verghiano, dove esso produce proprio quella particolare
forma di narrazione fondata sul «dialogo raccontato o dialo-
go raccontante»?!, grazie al quale Verga riesce ad evitare
qualunque commento esplicito, realizzando quella totale spa-
rizione dell’autore che costituiva il perno centrale del suo
progetto sperimentale. Il problema dell’impersonalità e di
tutte le sue conseguenze tecniche tornava così prepotente-
mente alla ribalta e d’ora in poi sarebbe stato impossibile,
per la critica, non fare i conti con esso.
Si deve comunque al saggio di Cirese la prima esplicita
contestazione dell’interpretazione populista dell’opera di Ver-
ga. Affrontando il problema del realismo verghiano sullo
stesso terreno della critica post-resistenziale, quello dei conte-
nuti popolari, Cirese riuscì a dimostrare infatti che la qualità
realistica della ricostruzione del mondo popolare siciliano
non dipendeva nè dalla preventiva e programmatica assun-
zione di un punto di vista ideologico progressivo capace di
sottolineare la positività dei valori insiti in quel mondo, nè
da un mero proposito bozzettistico e folkloristico.
Essa era infatti il risultato «di un serio accostamento
conoscitivo al mondo popolare» ottenuto attraverso «la
via della ricostruzione ab intus che poggia, come deve, sul
documento, ma esercita su di esso la penetrazione
dell’intelletto»??, di cui la più evidente testimonianza era il
particolare e originale uso dei proverbi. Attraverso i proverbi
Verga era riuscito ad esprimere infatti — secondo Cirese —
uno dei caratteri tipici della dimensione popolare siciliana:
125
quella fissità ideologica dovuta all’assenza di dialettica che si
traduce in una sorta di «cristallizzazione atemporale delle
esperienze». 25
Il mondo popolare dei Ma/avoglia appariva per la prima
volta una realtà ricostruita in tutte le sue specifiche determi-
nazioni etnologiche e sociali, dietro la quale era possibile
scorgere e documentare un paziente e scrupoloso lavoro di
ricerca di fonti, documenti e testimonianze.
La critica stilistica
La crisi dello storicismo di sinistra sempre più evidente
dopo il 1956, da un lato, e la grande varietà di stimoli cultu-
rali suscitati dall’impatto con alcune discipline guida della
cultura europea, e soprattutto dal confronto con nuove me-
todologie critiche, dall’altro, sono i termini, volutamente ge-
nerici, di riferimento entro cui è possibile situare il quadro
della critica verghiana tra il 1956 e il 1968 circa. È possibile
comunque individuare in essa la presenza di alcuni filoni cri-
tici originali: quello stilistico innanzi tutto a cui possiamo
ascrivere i saggi di Emerico Giachery?4, di Wido Hempel?5,
di Giovanni Cecchetti?5, di Fredi Chiappelli?7, di Hans
Sérensen?*, fino ai volumi di Cecchetti, // Verga maggiore?
e di Ettore Caccia Tecniche e valori dal Manzoni al Verga?°.
Se un merito non sottovalutabile hanno questi studi è
quello di aver contribuito ad illuminare sempre meglio e con
una strumentazione critica sempre più raffinata la ricchezza
2 Ivi Spazi.
24 La roba e l’arte del Verga, Roma, Quaderni di Mursia, 1959 ora in
Verga e D’Annunzio, Milano, Silva, 1968.
25 Giovanni Vergas Roman «I Malavoglia» und die Wiederholung als
erzihlerische kunstmittel, Kòln-Graz, Béhlau Verlag, 1959.
26 Il testo di «Vita dei Campi» e le correzioni verghiane in
«Belfagor», 6, 1957 e La «Nedda» del Verga in «Belfagor» 3, 1960.
27. Una lettura verghiana in «Lettere italiane», 1, 1960.
28 Le problème du narrateur dans I Malavoglia de Verga in «Langua-
ge and Society», Det, Berlingko Bogtykkeri 1961.
2° Il Verga maggiore, Firenze, La Nuova Italia, 1968.
30 Tecniche e valori dal Manzoni al Verga, Firenze, Olschki, 1969.
126
e la complessità dell’operazione formale implicata dal veri-
smo verghiano: da Cecchetti che aprì un vero e proprio «spi-
raglio sull’officina» dello scrittore documentando, attraverso
la scoperta di redazioni diverse del medesimo testo e lo stu-
dio delle varianti presenti in esse, il continuo lavoro di corre-
zione e progressivo adattamento ad un progetto di scrittura
realistica e impersonale a cui Verga sottoponeva le proprie
novelle; allo Hempel il cui lavoro — purtroppo mai tradotto
— coglieva con grande acutezza l’importanza quantitativa e
qualitativa, per la tecnica narrativa di Verga, del fenomeno
della ripetizione (rispondenza fra principio e fine di un capi-
tolo, tra fine di un capitolo e inizio del successivo, ricorso
insistito a formule fisse, reiterata ripresa di alcuni temi cen-
trali come la partenza o il ritorno); a Giachery che individua-
va nel periodo breve («conciso, secco, brachilogico») e in
quello /ungo («largo, abbandonato, disteso») le due figure
stilistiche alternando le quali Verga ottiene, da un lato,
l’aderenza al parlato, dall’altro, quello «sfumato narrativo»
grazie al quale si snoda soprattutto il discorso rivissuto; a
Giachery ancora che, in un’analisi della novella La Roba, di-
mostrava come l’oggettivismo verghiano fosse costruito su
una continua e complessa variazione dei punti di vista; a Sé-
rensen che, segnalando l’importanza, nei Malavoglia, della
dialettica autore-narratore e degli effetti di pseudo-
oggettività che essa produceva, indicava alla critica italiana
uno strumento essenziale per individuare l’ideologia celata
tra le pieghe del testo.
Eppure questo fondamentale processo di conoscenza dei
procedimenti formali dell’arte verghiana avviato a cavallo
degli anni Sessanta doveva rimanere in gran parte privo di
concrete conseguenze sul piano del giudizio complessivo da
ricavare da quelle premesse di carattere tecnico-stilistico.
L’individuazione, infatti, dell’originalità delle tecniche
di rappresentazione utilizzate da Verga per riprodurre la real-
tà del mondo popolare siciliano non spinse ad approfondire
127
le implicazioni conoscitive degli strumenti veristici. I risultati
di quelle analisi furono utilizzati, anzi, nella maggior parte
dei casi, sulla base di alcune indicazioni spitzeriane, come
conferma di una sostanziale romanticità dell’arte verghiana.
L’interesse per le strutture narrative del verismo verghia-
no era destinato, comunque, ad aumentare sostenuto dalla
scoperta dell’importanza che la riflessione tecnico-formale
aveva avuto per Verga stesso. Risalgono infatti a quegli stes-
si anni tutta una serie di iniziative critiche ed editoriali che
ebbero il merito di tratteggiare un’immagine molto più con-
creta e storicamente determinata del nostro autore: dalla
pubblicazione degli epistolari verghiani (è del 1954 la pubbli-
cazione a cura di Chiappelli dell’epistolario con -Edoardo
Rod3!, del ’62 quella delle lettere alla contessa Dina di
Sordevolo 32, ma innumerevoli sono le segnalazioni di lettere
inviate da Verga a intellettuali, giornalisti e scrittori dell’epo-
ca); alla ricostruzione della vita dello scrittore (risale al 1963
l’ottima biografia di Giulio Cattaneo); dallo studio dei
rapporti tra Verga e l’ambiente catanese34 alla ricostruzione
dei legami tra lo scrittore e la cultura del tempo.
128
La distruzione di un modello:
Verga e gli scrittori degli anni Sessanta
Alla crisi del neorealismo, dei suoi modelli come del suo
progetto culturale, all’anacronismo ormai evidente, in una si-
tuazione economica caratterizzata dalla sempre più efficiente
riorganizzazione del capitale, di nozioni quali quelle di impe-
gno e di cultura nazional-popolare, gli scrittori reagirono ri-
lanciando uno sperimentalismo europeizzante e neoavanguar-
distico; cercheremmo invano perciò la testimonianza di un
rapporto positivo tra Verga e gli scrittori italiani degli anni
Sessanta. Da Vittorini, che non esitò a definirlo «il più schi-
foso e reazionario dei nostri scrittori»36, ad Arbasino pronto
a scorgere nella «incredibile serie di catastrofi» dei Ma/avo-
glia «il segno di un’efferatezza sadica» e nell’eroica rassegna-
zione di Padron ’Ntoni «uno dei più grandi monumenti in-
nalzati alla stupidità umana»7, il giudizio su Verga esprime
129
comunque, sia nei toni irosi della polemica vittoriniana che
in quelli sarcastico-mondani di Arbasino, l’insofferenza per
le tematiche popolari care al realismo nazional-popolare de-
gli anni Cinquanta e rivela un gusto e un’ipotesi di letteratu-
ra educati sui grandi modelli del decadentismo europeo. Ver-
ga finisce così per essere coinvolto nel rifiuto dei valori-
chiave della cultura e della letteratura dell’età del neoreali-
smo e col pagare, dunque, lo scotto per la qualifica di padre
del realismo italiano attribuitagli nel periodo post-
resistenzial e.
130
promuovere od ostacolare quel processo di presa di coscienza
politico-ideologica attraverso cui matura l’adesione rivoluzio-
naria alla causa del proletariato.
Risalgono infatti agli anni Sessanta i primi tentativi di
attribuire il potenziale critico dell’arte verghiana a quel fata-
lismo o pessimismo che fino allora si era cercato, così spes-
so, di esorcizzare. Mi riferisco soprattutto a Letteratura e ca-
pitalismo in Italia dal 700 ad oggi di Gian Franco Vené*8 e
al notissimo Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa.3?
Possiamo dire che Vené fu il primo ad attribuire al pes-
simismo verghiano il significato di una lucida presa di co-
scienza dell’inevitabile e drammatico processo di alienazione
che lo sviluppo borghese comporta. Quella consapevolezza,
favorita dall’emarginazione a cui erano stati confinati dalla
direzione politica ed economica della nazione larghi strati
della media e piccola borghesia4°, aveva permesso infatti a
Verga — secondo Vené — di denunciare «attraverso la fata-
lità che incombe sui vinti e frustra ogni loro tentativo di ri-
surrezione» la tragica contraddizione implicita nello sviluppo
post-unitario, uno sviluppo che, mentre spronava l’individuo
a «raggiungere la piena espressione della propria individuali-
tà», era poi incapace di offrirgli la benchè minima «protezio-
ne» nei confronti del suo spietato antagonismo concorrenzia-
16,41
In Asor Rosa l’esaltazione del valore rivoluzionario del
pessimismo verghiano è più netta e dissacrante, ma meno
storicizzata, con il rischio, perciò, che a quell’atteggiamento
critico venga attribuito un valore più esistenziale che storico.
La rottura e il rovesciamento polemico con l’impostazio-
ne neorealistica vi risulta comunque evidentissima, tutta gio-
t31
cata, da una parte, sulla generale accusa di «populismo» («la
convinzione cioè che il popolo contenga in sè valori positivi
da contrapporre, di volta in volta, alla corruttela della socie-
tà, alle ingiustizie del destino e degli uomini, alla violenza
bruta della disuguaglianza») rivolta alla cultura italiana da
Gioberti a Gramsci, dall’altra, sulla dimostrazione che Ver-
ga, invece, non avendo alcuna ideologia progressiva da di-
fendere, ma solo una legge generale da dimostrare, sfugge a
quest’ottica mistificatoria.
Il paradosso solo apparente, a guardar bene, dell’arte verghia-
na sta in questo: che proprio il rifiuto della speranza populista e
delle suggestioni socialiste porta lo scrittore siciliano alla rappresen-
tazione più convincente che del mondo popolare sia stata data in
Italia durante tutto l’Ottocento... Il rifiuto di un’ideologia progres-
sista costituisce la fonte, non il limite dell’arte verghiana.
* * *
AZIIVI SPO
132
sione garibaldina (la fucilazione, in particolare, tra gli altri
insorti, del pazzo del villaggio trasformata, nella versione ar-
tistica, in quella del nano), occultò coscientemente quei par-
ticolari della rivolta che avrebbero potuto gettare discredito
sul comportamento della borghesia liberale (in particolare la
partecipazione ad essa dell’avvocato Lombardo, uno dei capi
del partito liberale). L’inevitabile rielaborazione dei dati del
reale che ogni trasfigurazione estetica comporta finisce così,
significativamente, per coincidere — secondo Sciascia —
«con le ragioni di una mistificazione risorgimentale cui il
Verga monarchico e crispino si sentiva tenuto».4*
Non diverso è l’atteggiamento con cui Masiello, in un
lucido saggio dal titolo Giovanni Verga e la crisi della società
italiana, affronta, nel 1964, l’analisi della produzione ver-
ghiana; anche per il giovane critico marxista il problema era,
infatti, quello di valutare le distorsioni prodotte, sul piano
della rappresentazione del reale, dall’emergenza, più o meno
evidente, di un interessato punto di vista di classe.
Una volta affermata l’appartenenza dello scrittore alla
classe dirigente siciliana
una classe - per di più - costituita dalla vecchia aristocrazia e
da una borghesia agraria economicamente e politicamente sviluppa-
tasi dopo il ’12 a spese della prima e con la usurpazione dei beni de-
maniali a danno dei contadini, ma ora a quella del tutto assimilata
per caratteri ed interessi fondamentali e indissolubilmente alleata in
una oltranzistica solidarietà di classe a difesa del comune privilegio
133
La riduzione del mordente realistico del verismo ver-
ghiano si incentrava infatti su una lettura dei Ma/avoglia che
si proponeva di dimostrare il carattere mitico, socialmente
anacronistico di quel mondo arcaico-rurale; un immobile si-
stema di vita patriarcale, contrapposto, non a caso, da Verga
— secondo Masiello — alle trasformazioni sociali in atto
nell’isola a partire dal 1848, e idoleggiato alla luce sia della
nostalgia interessata per quei valori destinati a scomparire,
sia della commozione, anch’essa in gran parte «ideologica»,
per quella condizione umana sentita priva di riscatto. Certo è
che questa interpretazione del romanzo negava ogni spessore
materialistico alla rappresentazione del mondo popolare e ri-
portava l’atteggiamento dello scrittore a quel livello filantro-
pico e paternalistico*4* a cui proprio Venè e Asor Rosa ave-
vano avuto il merito di sottrarlo.
Solo con Mastro-don Gesualdo Verga doveva approda-
re, d’altro canto, — secondo Masiello — al realismo, brucia-
ta ogni speranza di arginare la progressiva disumanizzazione
imposta ai rapporti umani dalla trasformazione capitalistica
della società. Sostituita la simpatia e la nostalgia ormai im-
possibili per il mondo arcaico e i suoi valori con un umori-
smo acre e un pessimismo privo di sbocchi, Verga poteva in-
fatti rappresentare senza deformazioni tutta «l’integrale tra-
gicità di quel sistema di vita».
134
Caratterizzato, da un lato, dalle profonde riserve nei
confronti della produzione verista fino ai Malavoglia, ridotta
ai suoi aspetti lirico-idilliaci; dall’altro, dal pieno riconosci-
mento del valore realistico del Mastro-don Gesualdo legato
alla scoperta del ruolo determinante giocato dal pessimismo
verghiano nell’acquisizione di un’amara consapevolezza criti-
ca, il saggio di Masiello rivela l’appartenenza ad una fase
della critica marxista su Verga divisa tra il desiderio di sma-
scherare, nei testi, gli effetti della mancata assunzione di
un’alternativa ideologica e la volontà di attribuire al rifiuto
di ogni ideologia progressiva e al nichilismo che ne deriva un
valore critico-conoscitivo superiore anche all’adozione di un
punto di vista proletario.
Pessimismo verghiano
e realismo negativo
La tesi del valore critico del pessimismo verghiano carat-
terizza infatti — singolarmente intrecciata com’è all’atteggia-
mento antiriformista e radicale della nuova sinistra — tutta
l’area della critica marxista verghiana degli anni Sessanta, da
Asor Rosa, a Masiello, a Luperini soprattutto, autore, nel
1968, di una fortunata monografia su Verga dal titolo em-
blematico Pessimismo e verismo in Giovanni Verga. Frutto
di quel clima pressessantottesco, del rifiuto, in particolare, di
ogni compromissione col sistema, questo libro totus politicus
(così lo definì felicemente Carlo Alberto Madrignani“*) deve
a quell’atteggiamento contestativo la promozione del pessi-
mismo verghiano a strumento privilegiato di denuncia e ne-
gazione del capitalismo. Una delle tesi centrali del saggio era
infatti la dimostrazione della profonda capacità demistifica-
toria insita in quel pessimismo grazie al quale — e in assenza
di ogni speranza progressista — Verga era riuscito a cogliere
135
e rappresentare il meccanismo stesso dell’alienazione instau-
rata dal modo di produzione capitalistico e dunque a sma-
scherare i caratteri sopraffatori della sua come della nostra
epoca.
Proprio l’assenza in lui di toni populistici - si legge nella pagi-
na conclusiva del volume - o di speranze progressiste, proprio il suo
essere legato completamente alla società che aveva davanti agli oc-
chi, rendono più assoluta la disperazione e più drastica la negazio-
ne. Ovunque si volgesse, a contadini o a borghesi, egli non vedeva
che questa realtà in cui viveva e nella cui atmosfera tutti siamo av-
volti: quella dell’interesse, dell’egoismo, dell’alienazione. Quelli era-
no e sono i caratteri peculiari della sua e della nostra epoca: questi
ha inteso fino in fondo rappresentare e alla fine implicitamente con-
dannare attraverso la sua cattiveria rappresentativa, attraverso lo
scatto di una disperazione che in tanto è più tragica e completa pro-
prio in quanto altro mondo da questo rovesciato e alienato egli non
poteva e non sapeva immaginare.46
136
nelle ultime raccolte di novelle — dal rischio peraltro sempre
latente «di un agnosticismo scettico e passivo».
Se queste sono le tesi maggiormente compromesse con
quel clima politico e culturale, pregio e limite, dunque, con-
temporaneamente, di quell’appassionata monografia, è vero
però che esse si sono rivelate ben presto, e allo stesso
Luperini*8, le parti più caduche del saggio, messe in crisi
dallo stesso definitivo tramonto delle illusioni politico-
rivoluzionarie di quello storico decennio.
Profondamente nuova e destinata, infatti, a costituire
uno dei motivi centrali che la critica verghiana degli anni
Settanta avrebbe ripreso e sviluppato era, invece, la dimo-
strazione di quanto il verismo risultasse inscindibile dalla
progressiva adesione del Verga ad una complessiva «conce-
zione della vita di impostazione positivistica».4?
Verismo e pessimismo risultavano così gli aspetti com-
plementari di «un positivismo sfrondato da ogni aspetto con-
solatorio ed ottimistico»; i supporti di una visione del mon-
do antispiritualistica che permette al Verga di acquistare pie-
na consapevolezza «delle ferree leggi economiche e di san-
gue... che prostrano l’uomo alla rassegnazione rendendone
necessariamente e... giustamente inutile l’eroica ribellione
tendente a sovvertire l’ordine sociale» 5°. Ricostruire la filo-
sofia verghiana, riconoscerne lo spessore intellettuale e dimo-
strarne i legami col positivismo era un modo, inoltre, per su-
perare quella troppo schematica contrapposizione tra ideolo-
gia e scrittura che aveva costituito uno dei maggiori ostacoli
ad una corretta valutazione del verismo e per capire, dun-
que, donde Verga avesse ricavato la capacità — altrimenti
inspiegabile — di cogliere e denunciare i meccanismi spietati
della lotta di classe.
48. Cfr. l’autocritica premessa alla 3° edizione del volume, Padova, Li-
viana, 1982.
PIVI pigl4.
50 Ivi, p. 15.
137
Nel libro di Luperini si sottolinea, per la prima volta, in
tutta la sua importanza, l’attenzione, tutt’altro che superfi-
ciale, dedicata da Verga, sin dalle novelle di Vita dei campi,
ai fattori economici, nel tentativo di valutarne gli effetti
sull’uomo ed i suoi rapporti; grazie ad essa Verga matura,
infatti, la rivoluzionaria e determinante scoperta della centra-
lità, per le azioni umane, del movente economico. Anche /
Malavoglia appaiono così a Luperini — ed è un fatto inedito
per la critica verghiana — condizionati da una problematica
economica che influisce sul meccanismo stesso del racconto
(si pensi — come suggerisce acutamente l’analisi del critico
— al problema della leva e dei danni che essa porta all’eco-
nomia meridionale o al problema della decadenza dei pesca-
tori siciliani piccoli proprietari o, ancora, alla questione delle
tasse e ai loro effetti sui rapporti interni al mondo di Aci-
Trezza) e senza la quale — metteva già in guardia allora il
Luperini — non è possibile capire neppure il significato con-
creto dell’amaro destino della famiglia Malavoglia.5!
AI 1968 — anno fatidico, dunque, anche per la critica
verghiana — risale pure l’affascinante intervento di Asor Ro-
sa sulle novelle di Jeli e di Rosso: // primo e l’ultimo uomo
del mondo. In esso il critico portava alle sue estreme conse-
guenze il tentativo — già implicito nella contrapposizione
suggerita in Scrittori e popolo tra populismo e pessimismo —
di sottrarre il verismo verghiano alle espressioni narrative di
quel filone di realismo provinciale e bozzettistico inscindibile
dall’atteggiamento paternalistico di chi guarda alla realtà po-
polare con distaccato interesse. Compromesse con quel filone
sarebbero solo — secondo Asor Rosa — alcune novelle come
La lupa, L’Amante di Gramigna, Pentolaccia, troppo legate
ancora all’atteggiamento pseudoscientifico dello studioso di
folklore. A partire da Jeli il pastore e Rosso Malpelo, frutto
138
di una singolarissima corrispondenza tra il pessimismo psico-
logico del borghese scettico e la disperazione storica oggetti-
va di quei personaggi emarginati, la rappresentazione di quei
drammi umani assurge invece a metafora di una condizione
umana che invita ad una meditazione esistenziale intorno al
«contrasto di fondo» esistente «tra l’uomo isolato e la realtà
in cui vive».
Lo slittamento del verismo verghiano dal piano di un
realismo storico-documentario a quello di una rappresenta-
zione simbolica dotata di significazione universale è, dunque,
alla base del saggio e sostanzia l’entusiastico giudizio critico
formulato sulle due novelle. Ne deriva, da un lato, la felice
attribuzione di una dimensione europea all’arte verghiana —
non è azzardato infatti sostenere che Verga vi appare come
un grande scrittore decadente, il primo ad avere scoperto
«che all’infelicità dell’individuo il consorzio degli esseri uma-
ni riserba sempre e soltanto il rifiuto più assoluto»5? — e,
dunque una più libera disposizione ad affrontare la proble-
matica verghiana al di là di schemi rivelatisi riduttivi, ineffi-
caci, in particolare, a spiegare la complessità e la profondità
del messaggio ideologico ricavabile da quell’operazione arti-
stica; dall’altro, però, il rischio — evidente nelle conclusioni
del saggio — di sottrarre definitivamente Verga e il verismo
alla propria dimensione storica con la conseguenza, inoltre,
di cercare la scintilla che innesca una diversa osservazione e
valutazione della realtà sociale unicamente sul piano di rea-
zioni psicologiche od emotive. Totalmente liquidata risulta-
va, così, la dimensione intellettuale di quella disposizione cri-
tica; Asor Rosa — coerentemente con la sua idiosincrasia per
il positivismo e il naturalismo — si adoperava infatti a dimo-
strare l’estraneità di quell’atteggiamento ad ogni riflessione
139
di carattere scientifico 53. Paradossalmente a garantire la di-
mensione critica del realismo verghiano erano, ancora una
volta, proprio le componenti soggettive, lirico-emotive; della
personalità dello scrittore, anche se proprio esse generavano,
in questo caso, quel pessimismo di ascendenza leopardiana
capace di conferire valore simbolico-esistenziale alle vicende
eccezionali di Jeli e di Rosso.
Il «caso Verga»
Che questi saggi, più o meno coscientemente, coinvol-
gessero nei presupposti di metodo e nei risultati critici pro-
blemi di prospettiva politica generale e implicassero, tutti, —
pur nella diversità delle soluzioni proposte — un nuovo mo-
do di concepire il rapporto tra arte e ideologia, divenne
esplicito grazie al dibattito apertosi sulle pagine della rivista
«Problemi» per merito di un polemico intervento di Giusep-
pe Petronio. Ne nacque un vero e proprio «caso» critico, no-
to ancor oggi come // caso Verga, che poneva sul tappeto al-
cuni problemi di fondo per la critica marxista: «come acco-
starsi — precisò Petronio — alla ideologia di uno scrittore;
quali rapporti intercorrono, in uno scrittore, tra la sua ideo-
logia e la sua opera; quali relazioni vi sono, in un critico, tra
il suo giudicare da storico e il suo leggere da uomo impegna-
LOD
Verga, ancora una volta, funzionò da catalizzatore ri-
spetto al problema chiave della metodologia marxista; quello
della sua fondazione materialistica. Fu Asor Rosa a precisare
con grande rigore che «Verga costituiva un campo di speri-
53. Ivi, p. 14. «Il verismo verghiano non ha - come è stato detto più
volte - un reale fondamento scientifico. La ricerca di verità, il «realismo»,
non è per il Verga niente di più della «schietta ed evidente manifestazione
dell’osservazione coscienziosa»; è lo studio sincero e spassionato dei senti-
menti e dei fatti umani».
54 G. Petronio, Intervento su «Problemi» n. 17-18, settembre-
dicembre 1969, ora in A. Asor Rosa, // caso Verga, citato, p. 186.
140
mentazione esemplare - una specie di «prova del nove» per
una critica che si voglia d’impianto marxista e materialista»
dato che nelle sue opere si sommavano tutte «le aporie che
un fatto estetico possa mettere in atto: la sproporzione o ad-
dirittura l’incongruenza fra il pensiero e la parola, la limita-
tezza dell’uomo e la grandezza dell’artista, l’umanità del nar-
ratore e il codismo reazionario del politico»55. In una parola
Verga era uno di quegli scrittori in cui il sistema di idee
dell’autore non corrispondeva all’opera, contraddizione di
fronte alla quale la critica aveva reagito ricorrendo, fino al-
lora, a due scappatoie antitetiche, ma, secondo Asor Rosa,
altrettanto riduttive: o assimilare «l’opera all’ideologia svalu-
tando dunque la prima sulla base della seconda» — ed era
ciò che riproponeva, in fondo, lo stesso Masiello — o soste-
nere la grandezza dell’opera «nonostante» la prima puntan-
do sul potere demistificante implicito nella drammaticità del-
la realtà stessa, una volta assunta, con atteggiamento obietti-
vo, a materia di rappresentazione artistica. Asor Rosa, de-
nunciando il rischio idealistico implicito nella teoria lukàcsia-
na del rispecchiamento, individuava, indubbiamente, uno dei
punti deboli della teoria del realismo. In alternativa ad essa
il critico rivendicava la necessità di ricostruire tutte le com-
plesse mediazioni attraverso cui lo scrittore interpreta e ri-
flette la realtà, una volta evitata la schematica identificazione
dell’ideologia con le convinzioni private e quotidiane dell’au-
tore. In particolare, nel caso di Verga — secondo Asor Rosa
— era necessario delineare «uno strato ideologico intermedio
fra le sue opinioni politiche e sociali e il risultato propria-
mente estetico» 55; uno strato che egli fa coincidere con la
«poetica» intendendo, con questo termine, quel «discorso sul
destino dell’uomo e sul mondo» che infonde forma e signifi-
cato alla verghiana rappresentazione del reale.
141
Era un’ipotesi indubbiamente stimolante; meno valido
— e proprio rispetto allo sbandierato proposito di «avere un
quadro del Verga più rispondente a verità» — era invece, co-
me abbiamo visto ne // primo e l’ultimo uomo del mondo, il
risultato di quell’ipotesi, se quell’ideologia intermedia finiva
poi col coincidere con una disposizione essenzialmente senti-
mentale.
Parte integrante di questo dibattito, di cui Verga e il
problema dell’ideologia sono le poste in gioco, si può consi-
derare anche il lucidissimo intervento teorico La nuova criti-
ca marxista e il «caso Verga» premesso da Masiello alla ri-
pubblicazione — nel 1970 — del suo saggio su Verga. Il pro-
blema della critica marxista rimane, per Masiello, quello di
«identificare la base materiale (non soggettiva e personale
ma oggettiva e storica), il complesso «strutturale» da cui essa
sorge e rispetto al quale essa si instaura come specifica e so-
ciologicamente connotata forma di coscienza».57
Non serve salvare dalle distorsioni ideologiche il conte-
nuto di conoscenza oggettiva del reale che ogni opera in
quanto riflesso della società ingloba — come egli obietta a
Luperini — perchè il problema è quello di ricostruire il nesso
che l’opera in quanto forma di coscienza, falsa o critica che
sia, instaura con la sua base materiale. Masiello ribadiva così
perentoriamente che l’ideologia verghiana
si qualifica come la reazione di un intellettuale di origine agra-
ria, organico a un blocco agrario-conservatore egemone in area me-
ridionale, dinnanzi al prevalere economico e politico del Nord indu-
striale.58
142
lettica di personaggi e situazioni, dal montaggio e dalla regia
che presiede al racconto»5?. Ma, nei fatti, troppe mediazioni
indispensabili a capire i caratteri e l’articolazione di quella
forma di coscienza nei suoi rapporti con la realtà oggettiva
dei processi socio-economici venivano sacrificati; una, in
particolare, e fondamentale: il verismo, se con esso intendia-
mo non tanto o non solo un metodo di scrittura o una poeti-
ca, quanto una complessiva e disincantata concezione del
mondo cresciuta sulla base di una cosciente e progressiva
adesione alla cultura positivistica europea. Il caso Verga,
dunque, aveva contribuito a fare chiarezza sugli obiettivi; re-
stava, però, da affrontare il problema della ricostruzione del-
le concrete determinazioni storiche di quei livelli ideologici.
59 Ivi, p. 23.
143
di
145
quello della linea romantico-realistica di cui Verga, fino agli
anni Sessanta, era sembrato il continuatore diretto.?
146
sciente protagonista del dibattito intorno alla funzione e agli
strumenti delle nuove forme letterarie.
Possiamo dire, dunque, che l’ultima fase della storia
della critica verghiana si sviluppa proprio a partire sia da un
diverso atteggiamento nei confronti del positivismo, sia da
una più puntuale conoscenza della situazione culturale del se-
condo Ottocento.
La critica marxista nei primi anni Settanta — da Spinaz-
zola a Luperini — è tutta protesa a ricostruire la dialettica,
tutt’altro che lineare, ma comunque determinante, che si isti-
tuisce tra il positivismo e il verismo, a dimostrare come alla
base tanto dell’atteggiamento conoscitivo, quanto degli stru-
menti dell’arte verista — e verghiana in particolare — vi sia-
no «i procedimenti che l’età della ragione e della scienza»
hanno elaborato5, come, anzi, «filosofia materialistica e pro-
gramma veristico» siano tutt'uno”, una volta però spogliati
dell’ottimismo riformistico a cui risultano subalterni nelle lo-
ro utilizzazioni borghesi. Si delinea così, finalmente, un’in-
terpretazione di Verga concretamente rapportata ai parametri
culturali del proprio tempo, la cui originalità e grandezza
non stanno tanto in una supposta estraneità al clima «positi-
vo» della cultura post-unitaria, quanto nella fermezza e coe-
renza con cui lo scrittore seppe usare, anche contro le ten-
denze allora dominanti, nell’analisi dei meccanismi che rego-
lano l’organizzazione della società a tutti i suoi livelli, come
nella elaborazione della sua poetica, gli strumenti offerti dal
positivismo e dal darwinismo.
La conoscenza dell’opera verghiana, la capacità cioè di
cogliere, rilevare e spiegare la complessità dei suoi significati,
non avrebbe però compiuto un vero salto di qualità se l’ana-
lisi della produzione dello scrittore fosse rimasta confinata
147
esclusivamente nell’ambito di problematiche contenutistiche
o, tutt'al più, socio-ideologiche, se l’indagine critica non fos-
se riuscita cioè ad aggredire lo spessore formale dell’opera-
zione letteraria, come dimostrano brillantemente i saggi in
questione.
A questo proposito va riconosciuto l’apporto che
all’evoluzione degli studi verghiani offrirono alcuni contribu-
ti di matrice strutturalistica o semiotica, come si direbbe 0g-
gi; e, più in generale, metodi e tesi che quel dibattito ebbe il
merito di proporre all’attenzione della critica contempora-
nea. Da questo punto di vista, anzi, seguire nascita, percorsi
e utilizzazioni critiche di alcune tesi sulle strutture narrative
verghiane significa constatare che essi riflettono con incredi-
bile puntualità una fase tipica del dibattito critico contempo-
raneo: il successo che lo strutturalismo incontrò dapprima —
anche in Italia — sfruttando, in parte, la battuta d’arresto
della cultura marxista, in parte, la sua oggettiva necessità di
affinare i propri strumenti; la progressiva perdita di credibili-
tà di un approccio rivelatosi ben presto unilaterale; l’assimi-
lazione, infine, di alcune di quelle ipotesi nell’ambito di una
ricerca marxista tesa ad individuare nella specificità dei livelli
formali la sede sia dei processi conoscitivi sia di quelli ideo-
logici dell’arte.
Nel caso specifico di Verga infatti le categorie dell’ana-
lyse du récit ma, soprattutto, le precisazioni di alcuni semio-
logi sulla necessaria distinzione tra i concetti di autore e nar-
ratore, voce narrante e punto di vista si rivelarono partico-
larmente utili per mettere a fuoco la complicata e non sem-
pre evidente dialettica che si istituisce, nei testi verghiani, tra
punti di vista antitetici, diverse interpretazioni della realtà.
Penso soprattutto all’articolo di Guido Guglielmi* che chiarì
148
come l’oggettivazione verghiana, in questo paragonabile a
quella flaubertiana’, lungi dal presupporre «un’immersione
mistica nella realtà» implicasse «tecniche di distanziazione e
di allontanamento da sè dell’oggetto» che producevano (nel
gioco che si viene a creare tra punti di vista interni all’ogget-
to rappresentato e punto di vista inespresso — ma non per
questo inattivo — dell’autore) effetti di duplicazione della
realtà — non importa qui se ironici o tragici — capaci di ri-
velarne in controluce la relatività e la contradditorietà.
Penso ancora alla stimolante analisi dei Malavoglia fatta
da Antonio Lanci!° che, sottolineando la sostanziale ambi-
guità del discorso indiretto libero (l’impossibilità di distin-
guervi le eventuali interferenze del narratore), notava come
esso fosse lo strumento più adatto per occultare e nello stes-
so tempo esaltare quella latente tensione tra differenti valuta-
zioni dei fatti che è alla base della costruzione stessa del ro-
manzo. Peccato però che il critico vedesse nell’ambiguità del
discorso verghiano la spia di una impossibilità — troppo mo-
derna per essere attribuibile a Verga — a stabilire un’univoca
versione dei fatti.!!
Questa capacità di aggredire e smontare il congegno nar-
rativo si dimostrò ben presto, comunque, l’arma vincente per
149
un approccio diverso ai problemi posti dall’opera verghiana.
Quei suggerimenti metodologici (dall’attenzione al rapporto
autore-narratore, all’indicazione del sottile e complesso gioco
di prospettive che l’eclissi dell’autore necessariamente induce,
alla scoperta della ambiguità legata all’oggettività verista) ri-
presi e finalizzati alla comprensione di un progetto formale
riconosciuto inseparabile, nella sua globalità, dalla ferma,
anche se amara, fiducia nella conoscibilità del reale, sono al-
la base, infatti, di alcuni tra i più nuovi ed interessanti saggi
verghiani dell’ultimo decennio: da Guido Baldi a Romano
Luperini, da Roberto Bigazzi!? a Giovanni Pirodda!*, da
Giancarlo Mazzacurati!* a Sergio Campailla!'.
Il grande interesse per i procedimenti formali spinse so-
prattutto gli studiosi verghiani a concentrare la propria at-
tenzione critica sulle prime opere veriste, per ricostruire le
tappe e i modi di quel processo di sperimentazione artistica
con cui Verga saggiava le soluzioni narrative più adatte a
realizzare concretamente la parola d’ordine della sua nuova
poetica: il principio cioè dell’impersonalità.
Fu Guido Baldi a dimostrare, ad esempio, come, in
Rosso Malpelo, una delle prime, più coerenti e più alte
espressioni dell’arte verista di Verga, il racconto oggettivo
dei fatti risultasse fondamentalmente inattendibile, filtrato
com’è da un narratore il cui metro di giudizio, totalmente
subalterno alla logica dello sfruttamento e della sopraffazio-
ne tipica di una società fortemente antagonistica, risulta in-
12. Su Verga novelliere, Pisa, Nistri-Lischi, 1975; uno studio tutto cen-
trato sul problema, in Verga, della voce narrante e sull’analisi dell’evoluzio-
ne che questa figura subisce da Nedda a Don Candeloro e C.
13 L’eclissi dell’autore. Tecnica ed esperimenti verghiani, Cagliari,
Editrice democratica sarda, 1976. Pirodda chiarì molto bene come in Verga
«l’eclissi dell’autore» non significhi affatto «rinunciare ad un significato
della narrazione che trascenda la consapevolezza dei personaggi e dell’am-
biente rappresentato»; questo significato esiste, ma è affidato ad un mon-
taggio sapiente e raffinato.
14 Il testimone scisso: radiografia di una novella verghiana in
«Sigma», Numero speciale intitolato Verga inedito, n. 1/2, 1977.
15 Anatomie verghiane, Bologna, Pàtron, 1978.
150
capace di valutare e comprendere fatti e motivazioni umane
(affetti, sentimenti disinteressati, valori etici) che non rientra-
no in quello spietato sistema di vita. 16
Nello stesso periodo anche Luperini in un saggio dedica-
to a Vita dei campi e ai Malavoglia!” (che aveva il dichiara-
to proposito — in parte anche autocritico — di sottrarre
quelle opere alla sommaria condanna riservata loro negli an-
ni del marxismo critico) aveva notato, sviluppando una os-
servazione di Spinazzola sulla struttura antifrastica del rac-
conto in Rosso Malpelo'*, la singolarità e la funzionalità del
procedimento di straniamento usato con estrema sistematici-
tà da Verga in quella fase. Più che una tecnica per sottrarre
la rappresentazione all’automatismo della percezione norma-
le (rendere strano ciò che per il sistema di riferimenti etici e
gnoseologici del lettore è normale), lo straniamento verghia-
no è un modo, infatti, per rappresentare come normale ciò
che dovrebbe ripugnare alla coscienza morale del lettore.
Ma, a differenza di Baldi, Luperini sostenne (e il succes-
so oggi incontrastato di questa tesi è la miglior prova della
sua novità e validità) che proprio quella tecnica fondava le
potenzialità critiche di quei testi. La regressione nell’ottica
cinica del narratore popolare è ciò che permette a Verga, da
un lato, di conferire allo sfruttamento su cui si basano quelle
organizzazioni sociali un carattere di necessità scientifica,
dall’altro però (attraverso lo scarto con il punto di vista
«normale») di «illuminare tutto il racconto di una luce obli-
151
qua, distorta, che però coglie oggettivamente uno stravolgi-
mento profondo, reale, insito nei rapporti umani in quanto
sottoposto alla alienazione della legge dell’utile e della vio-
lenza». !°
Cominciava ad apparire chiaro che la rinuncia al ruolo
tradizionale del narratore come mediatore di ideologia, con il
conseguente rifiuto di un punto di vista critico-prospettico da
cui giudicare la realtà, più che un limite dell’arte verghiana
costituiva la sua specificità: il modo cioè per cogliere e rile-
vare le contraddizioni oggettive del moderno assetto sociale.
L’artificio dello straniamento connaturato alla scelta di un
narratore popolare confinato in un’ottica riduttiva risultava
essere — come precisò sempre Luperini in uno dei suoi saggi
di maggior impegno — la maniera geniale «per cogliere l’es-
senza stessa della realtà, la sua oggettiva assurdità ed invivi-
bilità ed insieme la sua implacabile ed. ineluttabile
necessità». 29
I saggi di Luperini costituiscono dunque un momento di
svolta per la critica verghiana legato tanto alla dimostrazione
della dimensione materialistica insita nella rappresentazione
del mondo popolare siciliano (che lungi dall’essere un mondo
mitico 0 mitizzato è una società ricostruita puntualmente in
tutte le sue determinazioni organicamente economiche) quan-
to alla convinzione che il realismo verghiano consista essen-
zialmente in un problema di strutture narrative.2!
Una volta di più l’interna contradditorietà dell’opera di
Verga, la sua inafferrabilità ideologica hanno costretto ad
affrontare problemi di metodo, a rivedere categorie esegeti-
19 Ivi, p. 48.
20 R. Luperini, Verga e le strutture narrative del realismo. Saggio su
Rosso Malpelo, Padova, Liviana, 1976, p. 70.
21 «Il realismo di quelle opere - scrive Luperini - non sta tanto (o sol-
tanto) nel valore documentario di una condizione sociale di sfruttamento
(dove esclusivamente per molto tempo si è andati a cercarlo), quanto piutto-
sto nella capacità del Verga di cogliere (cioè di conoscere e rappresentare
con originali soluzioni espressive) la struttura stessa, conflittuale ed antago-
nistica dell’assetto sociale vigente...» (op. cit., p. 72).
152
che rivelatesi inefficaci a penetrare la reale dialettica dei si-
gnificati del verismo verghiano, a indagare più che i contenu-
ti manifesti, i significati che essi assumono dialettizzati dalla
complessa articolazione dei livelli formali.
La dimostrazione dello stretto ed imprescindibile rap-
porto che si istituisce nell’arte verghiana tra procedimenti
narrativi e effetti conoscitivi stimola a riaffrontare alcuni no-
di irrisolti: quello, soprattutto, del punto di vista da cui Ver-
ga, pur se indirettamente, osserva la realtà sociale ed econo-
mica contemporanea e da cui, in particolare, giudica il pro-
gresso.
È Baldi a riprendere specificatamente il tema dell’ideolo-
gia verghiana e, modificando le sue stesse posizioni del 73, a
darne un’interpretazione tra le più meritevoli oggi di atten-
zione critica per l’equilibrio delle tesi e la chiarezza delle
argomentazioni??2. Non è più possibile sostenere, secondo
Baldi, che l’estraneità di Verga allo sviluppo borghese-
capitalistico del paese, dovuta, per di più, ad una somma di
fattori diversi («estraneità della media proprietà agricola del-
la provincia meridionale alla nuova mentalità dirigente del
nascente capitalismo e alla febbre speculativa e affaristica
che caratterizza la borghesia della metropoli»; delusione le-
gata alla caduta degli ideali risorgimentali; crisi del ruolo)
porti lo scrittore a deformare in maniera interessata e reazio-
naria (privilegiando cioè, nella rappresentazione della realtà
siciliana post-unitaria, gli aspetti più tradizionali e conserva-
tori di essa) la dinamica oggettiva del progresso. «Fortemen-
te intrecciato ad un atteggiamento intellettuale di matrice na-
turalistica e materialistica» il rifiuto dell’assetto produttivo
borghese si arresta, infatti, in Verga «alla contemplazione lu-
1:53
cida e rassegnata di ciò che è dato» e tramuta la nostalgia
del passato in un pessimismo disincantato di cui proprio «la
radicalità mantiene aperta la possibilità di un distacco cono-
scitivo». 23
Nasce, d’altronde, da qui, dal rifiuto cioè di ogni ipotesi
riformista, quella particolare forma di impersonalità grazie a
cui si instaura quella pseudooggettività che, a sua volta, ge-
nerando un forte attrito con la visione «giusta» delle cose,
produce un amaro effetto critico.
L’anticapitalismo verghiano — paradossalmente — anzi-
chè dar luogo al vagheggiamento di una situazione precapita-
listica, si rivela così il punto di vista più favorevole per la co-
noscenza critica e la negazione demistificante della realtà.
Eppure qualche dubbio ancora da sciogliere rimane. La
difesa di un livello autentico di vita da contrapporre utopisti-
camente ai guasti del progresso — anche se svuotata di qua-
lunque fiducia nella possibilità di un concreto risarcimento di
quei danni — rimanda ad un sistema di valori la cui natura e
matrice di classe non possono non avere — per il critico
marxista che ancora ci creda?4 — un’importanza determi-
nante nella definizione dell’ideologia, del modo cioè con cui
uno scrittore conosce e giudica la realtà.
Ora nessuno — neppure Baldi — sembra dubitare che
l'opposizione allo sviluppo borghese nasca da un atteggia-
mento e da una mentalità da rentier (una classe sociale che
deriva dalla rendita parassitaria il proprio tenore di vita e il
proprio prestigio sociale) o che la «prospettiva delle idee e
154
dei sentimenti» di cui parla Verga in Fantasticheria, contrap-
ponendola a quella convulsa della società urbana, chiami in
causa sistema di vita e scala di valori della società arcaico-
rurale.
In realtà la posizione di Verga, sia dal punto di vista so-
ciologico che da quello ideologico, è più complessa; l’atteg-
giamento nei confronti del progresso non è riportabile, infat-
ti, a questa schematica antitesi tra meriti del passato e colpe
del presente.
La reazione dello scrittore siciliano nei confronti del
problema fondamentale implicato dallo sviluppo di quegli
anni (il passaggio cioè dal regime feudale a quello borghese)
non si limita all’amara registrazione dei guasti che esso indu-
ce. La resistenza ai modi con cui quella trasformazione avve-
niva rivela invece la presenza — sogno o utopia qui poco im-
porta — di un’alternativa borghese da contrapporre al mo-
dello di sviluppo del blocco dominante.
In questa direzione (l’approfondimento cioè del livello
socio-ideologico della ricerca verghiana) si è mosso soprattut-
to Vittorio Spinazzola. Egli è riuscito a dimostrare infatti
una congruenza tra «il pessimismo metastorico in cui il nar-
ratore man mano si rinserra» e «la sfiducia nella capacità del
ceto dirigente a promuovere uno sviluppo produttivo diverso
da quello imprenditoriale urbano, che stava dando così catti-
va prova nel Sud» e a dimostrare che essa è il frutto di una
reazione piccolo-borghese alle scelte élitarie dei gruppi domi-
nanti:
Si affaccia qui il sogno o la velleità comune a tanta parte dei
nostri gruppi intellettuali fra Otto e Novecento, in opposizione al
regime dominante: indicare alla giovane generazione una via di fu-
turo che, per essere autenticamente borghese, facesse anzitutto pro-
prie le esigenze dell’Italia contadina, favorendo un processo di am-
modernamento strutturale attraverso cui si costituisse una vasta ca-
tegoria di piccoli proprietari terrieri. Questo progetto esprimeva lo
scontento di strati di piccola borghesia che dopo aver partecipato
attivamente al processo risorgimentale, si sentivano mal rappresen-
155
tati dal blocco di forze che aveva assunto la gestione dello Stato
unitario. D'altronde un’alleanza con le classi subalterne in vista
d’una trasformazione rivoluzionaria era considerata a priori impen-
sabile.25
156
Va detto però che l’analisi dei rapporti tra ideologia e
strutture formali o l’analisi del livello socio-ideologico
dell’arte di Verga non esaurisce affatto il panorama della cri-
tica verghiana dell’ultimo decennio. La sua caratteristica for-
se più appariscente è quella di aver aperto molteplici direzio-
ni di ricerca riscoprendo, da un lato, zone poco note della
produzione verghiana, tentando, dall’altro, nuovi approcci
metodologici.
Accanto alla lettura psicanalitica?” o a quella
antropologico-culturale?8 dei maggiori testi verghiani, letture
che aprono interessanti possibilità di confronto con le ipotesi
elaborate da altre prospettive critiche, costituiscono momenti
qualificanti dell’ultima critica verghiana sia gli studi dedicati
al teatro??, sia l’interesse, in gran parte inedito, dimostrato
157
per la produzione mondano-borghese (l’altro Verga come è
stato definito)?°, sia la riscoperta critica di alcune raccolte di
novelle considerate fino ad ora minori.3!
Grazie al fuoco incrociato di ottiche d’interesse così di-
verse, ma soprattutto, grazie ad una più puntuale conoscen-
za, anche filologica32, dei testi, la parabola letteraria dello
scrittore ci sta oggi dinnanzi agli occhi in tutta la sua singo-
lare e affascinante evoluzione ideologica e formale. Spetta
dunque agli studiosi di domani ripercorrerla criticamente per
carpirle quei segreti che ancora occulta e per dirimere dubbi,
interrogativi, ambiguità interpretative che dopo cent’anni so-
no ancora lontane dall’essere definitivamente pacificate.
Questo, d’altronde, è uno dei segni della grandezza ver-
ghiana; cent’anni di interpretazioni critiche con la loro alter-
nanza di silenzi, incomprensioni, entusiasmi e riscoperte pe-
riodiche ne sono, forse, la migliore testimonianza.
158
NOTE BIOGRAFICHE
159
la prima volta a Firenze dove, in pochi mesi, compone la commedia
(inedita fino al 1980) / nuovi tartufi. Nel 1866 pubblica presso l’edi-
tore Negro di Torino (cedendogliene la proprietà senza alcun com-
penso) Una peccatrice, romanzo composto a Catania nel 1865.
Il 26 aprile 1869 lascia Catania per stabilirsi a Firenze. Qui,
presentato da Francesco Dall’Ongaro a cui lo aveva raccomandato il
Rapisardi, frequenta i salotti intellettuali delle signore Swanzberg e
di Ludmilla Assing. Conosce Prati, Aleardi, Imbriani. Inizia il pro-
ficuo e determinante rapporto di collaborazione, oltre che di pro-
fonda amicizia, con Luigi Capuana allora critico teatrale de «La
Nazione». Lavora ad Eva, al dramma Rose caduche (che verrà pub-
blicato postumo nel 1928), a Storia di una capinera, il romanzo epi-
stolare che, grazie all’interessamento di Dall’Ongaro che ne scrive la
prefazione, viene pubblicato dall’editore Lampugnani di Milano nel
1871. In casa Dall’Ongaro conosce Giselda Fojanesi e ne frequenta
la famiglia (la Fojanesi sposa però nel 1872 Mario Rapisardi).
Nel 1872 Verga lascia Firenze per Milano dove si stabilirà (a
parte i frequenti ritorni in Sicilia) per quasi vent’anni. Introdotto da
Salvatore Farina e Tullo Massarani entra in rapporto con gli am-
bienti culturali e mondani più noti della città. Vicino ai circoli degli
Scapigliati (è amico di Boito, Praga, Gualdo) familiarizza soprattut-
to con scrittori e critici come Rovetta, Giacosa, Sacchetti, Camero-
ni, Torelli-Viollier, Emilio Treves, con cui intavola appassionate di-
scussioni al Cova e, più tardi, al Biffi. Legge la letteratura francese
(in particolare Flaubert e Zola), e discute le loro teorie letterarie.
Nel 1873 pubblica Eva (Treves). Grazie allo scandalo provocato dal
romanzo, all’interesse suscitato da Nedda (bozzetto siciliano com-
parso sulla «Rivista di scienze, lettere ed arti» di Ghiron nel 1874)
e, più tardi, al successo di Eros e Tigre reale (pubblicati entrambi
con data 1875 dall’editore Brigola), Verga si afferma come uno de-
gli scrittori più promettenti della nuova stagione letteraria.
Il periodo 1875-1878 è scandito da alcune tappe importanti per
la maturazione artistica dello scittore e l’elaborazione della poetica
verista. 1875: Verga inizia la revisione del bozzetto marinaresco Pa-
dron ’Ntoni (prima traccia dei Ma/avoglia) che gli appare, come
scrive a Treves, «dilavato». 1877: pubblica Primavera e altri raccon-
ti (Brigola); 1878: annuncia all’amico Salvatore Paola Verdura il
progetto di un intero ciclo di romanzi La Marea che avrebbe dovuto
comprendere Padron ’Ntoni, Mastro-don Gesualdo, La Duchessa
delle Gargantes, L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso.
Nel 1877 muore Rosa, la sorella prediletta, il 5 dicembre 1878 la
madre a lui carissima.
160
Nel 1880 riincontra a Firenze Giselda Fojanesi Rapisardi con
cui inizia una relazione che durerà almeno fino al 1883 (e che sco-
perta dal Rapisardi porterà alla rottura del matrimonio della donna)
anno in cui è testimoniata la ripresa dei rapporti con la contessa
Paolina Greppi (la dama di Fantasticheria).
Con il 1880 comincia un decennio particolarmente felice per la
sua attività letteraria; sono gli anni, infatti, dei capolavori. Nel 1880
pubblica, con grande successo, la prima raccolta di carattere verista:
Vita dei campi. Nel 1881 escono presso Treves / Malavoglia, accolti
però freddamente dalla critica e dal grosso pubblico; ad un anno di
distanza // Marito di Elena (Treves 1882) e Pane nero (Catania,
Giannotta). La fama di Verga è ormai consolidata. Nel maggio 1882
si reca a Parigi dove si incontra personalmente con Zola e con
Edoardo Rod, giovane scrittore svizzero che si è offerto di tradurre
I Malavoglia. Alla fine dell’anno escono le Novelle rusticane (Tori-
no, Casanova 1883) e nell’estate del 1883 Treves pubblica la raccol-
ta Per le vie. Il 14 gennaio va in scena al Teatro Carignano di Tori-
no con Eleonora Duse il dramma Cavalleria rusticana e, nonostan-
te i timori condivisi dagli amici (solo Giacosa crede in quel corag-
gioso tentativo e lo incoraggia), è un grande successo. Nel 1884
escono presso Sommaruga, lo spregiudicato editore romano, i
Drammi intimi.
Una seconda riduzione teatrale In portineria rappresentata a
Milano il 16 maggio 1885 cade però nell’indifferenza generale. Co-
mincia per Verga un periodo di grave sconforto; assillato da conti-
nue preoccupazioni finanziarie, in arretrato con il secondo romanzo
del ciclo a cui lavora dal 1882 senza trovare le condizioni necessarie
per portarlo a termine, deluso dall’insuccesso dei Ma/avoglia (1’ope-
ra tradotta nel 1887 non incontra neppure in Francia il favore del
pubblico) lo scrittore appare profondamente sfiduciato.
A parte alcune brevi puntate a Roma, trascorre lunghi periodi
a Catania confortato dalla sincera e profonda amicizia di Federico
De Roberto. Nell’«esilio» siciliano Verga prepara un volume di no-
velle che Barbèra pubblica a Firenze nel 1887 con il titolo di Vaga-
bondaggio. Porta a termine Mastro-don Gesualdo che esce, a pun-
tate, sulla «Nuova Antologia» tra luglio e dicembre del 1888, ma,
non contento, lo rielabora profondamente per l’edizione in volume
(Treves 1889). In uno dei suoi soggiorni romani incontra Dina Ca-
stellazzi, sposata al conte di Sordevolo di cui rimarrà vedova nel
1893, con la quale stringe una relazione destinata a durare (nono-
stante la lontananza e i pervicaci dinieghi al matrimonio o a qualun-
que forma di convivenza ufficiale) fino alla morte.
161
Il 17 maggio 1889 a Roma si rappresenta la prima del melo-
dramma Cavalleria rusticana musicata da Pietro Mascagni ed è un
trionfo. Verga chiede la percentuale sui diritti d’autore che gli viene
rifiutata. Inizia così una causa con Mascagni e Sonzongo che durerà
fino al 1893 quando grazie ad una transazione tra le parti riceverà
la somma di 143.000 lire con cui, pagati gran parte dei debiti, tente-
rà di iniziare, tra l’altro, una attività di agricoltore. Nel 1891 escono
I ricordi del capitano d’Arce. Nel 1893 si stabilisce definitivamente
a Catania. L’anno dopo pubblica la raccolta Don Candeloro e C.
Riscrive per il teatro La /upa e prende contatti con Puccini che ma-
nifesta l’intenzione (poi fallita) di musicarla. Riincontra a Roma,
grazie ad una iniziativa di Capuana, Zola. Nel 1896 va in scena a
Torino La lupa. Di fronte alle manifestazioni popolari anticrispine
esprime tutta la propria indignazione. (Nel 1898 avrà parole di elo-
gio, d’altronde, per la stessa repressione di Bava Beccaris). Riprende
a lavorare alla Duchessa di Leyra che, nonostante gli sforzi e il tem-
po dedicatile (documentati da numerose affermazioni che danno per
imminente la pubblicazione del romanzo) non porterà mai a
termine.
In quegli anni lavora ai bozzetti teatrali La caccia al lupo e La
caccia alla volpe (Treves 1902; La caccia al lupo era già apparsa sul-
la rivista «Le Grazie» di Catania nel 1897) e al dramma Da! tuo al
mio che va in scena a Milano nel 1903 (il romanzo omonimo esce
nel 1905 prima a puntate sulla «Nuova Antologia», poi in volume
da Treves). Nel 1903 muore il fratello Pietro lasciando orfani 3 figli
(Giovannino, Caterina, Marco) che vengono affidati alla tutela dello
scrittore. Comincia un periodo di gravi preoccupazioni per l’avveni-
re e la salute dei nipoti (Marco e Caterina muoiono giovanissimi:
l’uno nel 1905 l’altra nel 1919).
La I° guerra mondiale lo trova favorevole all’intervento anche
se trepidante per la sorte del nipote Giovannino, l’unico che gli ri-
marrà vicino fino alla morte. Nel 1919 scrive la sua ultima novella
Una capanna e il tuo cuore. Le celebrazioni per il suo ottantesimo
compleanno sono un riconoscimento tardivo che Verga mostra di
non gradire. Non presenzia alle manifestazioni catanesi e accetta
con ritrosia anche la nomina a senatore del regno. La sera del
24 gennaio 1922 appena ritiratosi nella sua stanza da letto Verga è
colpito da trombosi cerebrale; non riprende più conoscenza e muore
il 27 gennaio 1922.
162
BIBLIOGRAFIA
163
Laterza, 1941 III? ed.; e a Verga, De Roberto, Capuana, Catalogo
della mostra della Biblioteca universitaria di Catania (1755-1955) a
cura di A. Ciaravella, Catania, Giannotta, 1955. Per quanto concer-
ne le vicende editoriali delle singole novelle consigliamo la consulta-
zione della rigorosa Nota ai Testi in Le Novelle, a cura di Gino Tel-
lini, Roma, Salerno editrice, 1980. Ricordiamo che una buona scelta
di opere verghiane rimane ancora quella curata da Luigi Russo, G.
Verga, Opere, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955.
a) ROMANZI
Amore e patria, inedito. Composto, come si legge in calce al mano-
scritto (tre quaderni di scuola), tra il 23 dicembre e il 26 agosto
1857. Brani del romanzo trascritti da Federico De Roberto so-
no stati pubblicati in Casa Verga e altri saggi verghiani a cura
di C. Musumarra, Firenze, Le Monnier, 1964. Altri si possono
leggere nell’articolo di Lina Perroni, Ricordi di D'Artagnan in
Studi verghiani II-III, Palermo, Edizioni del Sud, 1929.
I carbonari della montagna (4 voll.), Catania, Galatola, 1861-1862;
ora ripubblicato insieme a Sulle lagune, a cura e con introdu-
zione (I/ giovane Verga) di Carlo Annoni, Milano, Vita e pen-
siero, 1975.
Sulle lagune, pubblicato in appendice alla «Nuova Europa» di Fi-
renze dal 13 gennaio al 1° marzo 1863; per la prima volta in
volume, a cura e con introduzione di G. Niccolai, Modena,
Stem, 1973.
Una peccatrice, Torino, Negro, 1866; Catania, Giannotta, 1893; in-
sieme ad altri romanzi giovanili con il titolo Una Peccatrice —
Storia di una capinera — Eva — Tigre reale, a cura di Lina e
Vito Perroni, Milano, Mondadori, 1943.
Storia di una capinera, uscito a puntate nel 1870 sulla rivista mila-
nese «La ricamatrice» e pubblicato in volume l’anno dopo, Mi-
lano, Lampugnani, 1871; ripubblicato dai fratelli Treves, Mila-
no, 1873; dal 1943 nell’edizione curata dai fratelli Perroni (vedi
sopra).
Eva, Milano, Treves, 1873; ora nell’edizione mondadoriana (vedi
sopra).
Tigre reale, Milano, Brigola, 1875; Milano, Treves, 1909; Milano,
Mondadori, 1943.
Eros, Milano, Brigola, 1875; Milano, Treves, 1909; insieme a // ma-
rito di Elena, con il titolo Eros — Il marito di Elena, nell’edi-
zione Mondadori, 1946 (nell’edizione B.M.M. del 1956 Eros è
stato pubblicato solo).
I Malavoglia, Milano, Treves 1881; a cura di Lina e Vito Perroni,
Milano, Mondadori, 1939; insieme con Mastro-don Gesualdo
ne / grandi romanzi con prefazione di R. Bacchelli, a cura di
F. Cecco e C. Riccardi, Milano, Mondadori, 1972.
164
Il marito di Elena, Milano, Treves, 1882; insieme a Eros, Milano,
Mondadori, 1946 (da solo, con introduzione di Maurizio Vitta,
nella collezione degli Oscar, Milano, Mondadori, 1980).
Mastro-don Gesualdo; uscito a puntate sulla «Nuova Antologia» tra
luglio e dicembre del 1888; in volume, ampiamente rimaneggiato,
l’anno dopo, Milano, Treves, 1889; a cura di Lina e Vito Perroni,
Milano, Mondadori, 1940; edizione critica a cura di C. Riccardi,
Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1979.
Dal tuo al mio, pubblicato a puntate sulla «Nuova Antologia» a
cominciare dal gennaio 1905; poi in volume, Milano, Treves,
1906; il romanzo fu annesso al II° volume delle Novelle
nell’edizione a cura di Lina e Vito Perroni, Milano, Mondado-
ri, 1942; oggi Milano, Serra e Riva Editori, 1982.
La Duchessa di Leyra, incompiuto. Di esso possediamo il I° capito-
lo, un frammento del secondo, due abbozzi generali ed un elen-
co dei personaggi; il tutto pubblicato da F. De Roberto in «La
lettura», 1° giugno 1922 ora in F. De Roberto, Casa Verga e
altri saggi verghiani a cura di C. Musumarra, Firenze, Le Mon-
nier, 1964.
b) NOVELLE
Delle novelle complete (compresi i racconti e frammenti sparsi) esi-
stono oggi, oltre all’edizione a cura di Lina e Vito Perroni, Tutte le
novelle, Milano, Mondadori, 1940 (I° vol.), 1942 (II° vol.), due edi-
zioni critiche: Tutte le novelle a cura (con introduzione e note) di
Carla Riccardi, Milano, Mondadori, 1979, collana I Meridiani e Le
novelle (2 voll.) a cura di Gino Tellini, Roma, Salerno editrice,
1980.
Nedda, Milano, Brigola, 1874; insieme a Primavera, La coda del
diavolo, Le storie del castello di Trezza con il titolo di Prima-
vera, Milano, Brigola, 1877; con il titolo Novelle. In una nuova
edizione riveduta dall’autore, Milano, Treves, 1880.
Vita dei campi, Milano, Treves, 1880. (Comprende Cavalleria rusti-
cana, La lupa, Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso Malpelo,
L’amante di Gramigna, Guerra di santi, Pentolaccia); la secon-
da edizione, Milano, Treves, 1881, include anche la novella //
come, il quando, il perchè; una edizione profondamente corret-
ta e riveduta dall’autore uscì in edizione di lusso, con illustra-
zioni di A. Ferraguti, Milano, Treves, 1897. Si tratta del testo a
cui si richiama presumibilmente l’edizione mondadoriana cura-
ta con buona probabilità sulle bozze preparatorie a questa edi-
zione. Mentre l’edizione critica curata dalla Riccardi ripristina
il testo del 1880, la scelta di Gino Tellini è stata quella di ripro-
durre la raccolta secondo la stampa del 1897.
Pane nero, Catania, Giannotta, 1882, inserita, l’anno dopo, nelle
Novelle rusticane.
165
Novelle rusticane, Torino, Casanova, 1883 (comprende // Reveren-
do, Cos’è il re, Don Licciu Papa, Il Mistero, Malaria, Gli orfa-
ni, La roba, Storia dell’asino di San Giuseppe, Pane nero, I ga-
lantuomini, Libertà, Di là dal mare); Novelle rusticane. Edizio-
ne definitiva riveduta e corretta dall’autore, Roma, La Voce,
1920. Anche per questa raccolta mentre la Riccardi riporta il
testo del 1883, Tellini ha scelto, con una decisione vivacemente
contestata, di riprodurre prioritariamente la stampa del 1920.
Per le vie, Milano, Treves, 1883 (comprende // bastione di Monfor-
te, In piazza della Scala, Al veglione, il canarino del numero
15, Amore senza benda, Semplice storia, L’osteria dei Buoni
Amici, Gelosia, Camerati, Via Crucis, Conforti, L’ultima gior-
nata); un’edizione recente riunisce Per le vie, Primavera e X
sotto il titolo di Racconti milanesi, presentazione di E. Sangui-
neti (con il titolo O come? O come?), Bologna, Cappelli, 1979.
Drammi intimi, Roma, Sommaruga, 1884 (comprende / drammi
ignoti, La Barberina di Marcantonio, Tentazione, La chiave
d’oro, L’ultima visita, Bollettino sanitario. Tre novelle, rima-
neggiate, furono incorporate più tardi nella raccolta / ricordi
del capitano d’Arce): recentemente la raccolta è stata ripubbli-
cata con introduzione di C.A. Madrignani (dal titolo L'altro
Verga), Palermo, Sellerio, 1979.
Vagabondaggio, Firenze, Barbèra, 1887 (comprende Vagabondag-
gio, Il maestro dei ragazzi, Un processo, La festa dei morti,
Artisti da strapazzo, Il segno d’amore, L’agonia di un villag-
gio, ... e chi vive si dà pace, Il bell’Armando, Nanni Volpe,
Quelli del colèra, Lacrymae rerum); Milano, Treves, 1920.
I ricordi del capitano d’Arce, Milano, Treves, 1891 (comprende I ri-
cordi del capitano d’Arce, Giuramenti di marinaio, Commedia
da salotto, Nè mai, nè sempre, Carmen, Prima e poi, Ciò ch'è
in fondo al bicchiere, Dramma intimo, Ultima visita, Bollettino
sanitario).
Don Candeloro e C., Milano, Treves, 1894 (comprende Don Cande-
loro e C., Le marionette parlanti, Paggio Fernando, La serata
della diva, Il tramonto di Venere, Papa Sisto, Epopea spicciola,
L’opera del Divino Amore, Il peccato di Donna Santa, La voca-
zione di Suor Agnese, Gli amanti, Fra le scene della vita).
c) TEATRO
I nuovi tartufi, commedia in 4 atti composta a Firenze nel 1865 e
inviata, anonima, al concorso bandito dalla «Società di inco-
raggiamento all’arte teatrale». Mai rappresentata e rimasta ine-
dita tra le carte verghiane è stata recentemente pubblicata a cu-
ra di Carmelo Musumarra con prefazione di Giovanni Spadoli-
ni nei Quaderni della «Nuova Antologia», Firenze, Le Mon-
nier, 1980.
166
Rose caduche, commedia in 3 atti composta nel 1869. Apparve, po-
ri sulla rivista catanese «Le Maschere», Catania, giugno
d) EPISTOLARI
Utile strumento per la conoscenza dell’epistolario verghiano (la cui
situazione non è meno precaria di quella dei testi) è oggi il Regesto
delle lettere a stampa di Giovanni Verga a cura di G. Finocchiaro
Chimirri, Catania, Società di Storia Patria per la Sicilia Orientale,
1977, distribuito da Le Monnier, Firenze. Questi sino ad ora i più
importanti nuclei organici di lettere verghiane pubblicati:
Lettere al suo traduttore (Edoardo Rod) a cura di F. Chiappelli, Fi-
renze, Le Monnier, 1954.
Lettere a Dina (a Dina Castellazzi di Sordevolo) a cura di G. Raya,
Roma, Ciranna, 1962 (edizione accresciuta Lettere d’amore,
1971).
Cinque lettere di Verga a F. Torraca pubblicate da E. e A. Croce in
«Il mondo», 10 marzo 1964.
Lettere a Luigi Capuana a cura di G. Raya, Firenze, Le Monnier,
1975.
167
Lettere sparse a cura di Giovanna Finocchiaro Chimirri, Roma,
Bulzoni, 1979 (raccoglie quasi tutte le lettere fino ad ora edite e
non raccolte precedentemente in volume).
Lettere a Paolina (a Paolina Greppi Lester) a cura di G. Raya, Ro-
ma, Fermenti, 1980.
168
xista è necessario ricorrere a: G. Petronio, Interventi in A. Asor
Rosa (a cura di) // caso Verga, Palermo, Palumbo, 1972; A. Seroni,
Il caso Verga in «Rinascita», 21, 1969; V. Masiello e A. Seroni, //
posto di Verga in «Rinascita», 26, 1969; C.A. Madrignani, La nuo-
va critica marxista su Verga (1970) in Ideologia e narrativa dopo
l’Unificazione, Roma, Savelli, 1974; G.C. Ferretti, Verga e «altri
casi»: studi marxisti sull’Otto-Novecento in «Problemi», 1974, 31;
D. Margarito, Verga nella critica marxista. Dal «caso» al metodo
critico-negativo in AA.VV. Verga. L’ideologia, le strutture narrati-
ve, il «caso» critico a cura di R. Luperini, Lecce, Milella, 1982.
Per lo studio della biografia vedi in particolare:
N. Cappellani, Vita di Giovanni Verga, Firenze, Le Monnier, 1940;
C. Musumarra, Vigilia della narrativa verghiana (1958) ora Catania,
Giannotta, 1971; G. Cattaneo, Giovanni Verga, Torino, Utet, 1963;
F. De Roberto, Casa Verga e altri saggi verghiani, Firenze, Le Mon-
nier, 1964; cfr. anche G. Garra Agosta, La biblioteca di Giovanni
Verga, Catania, Greco, 1977; G. Raya, Eros verghiano, Roma, Fer-
menti, 1981.
Per ricostruire le linee generali del giudizio critico espresso dai
contemporanei su Verga sono indispensabili le pagine di:
L. Capuana, Verga e D’Annunzio a cura di M. Pomilio, Bologna,
Cappelli, 1972.
F. Cameroni, Interventi critici sulla letteratura italiana, a cura di
G. Viazzi, Napoli, Guida, 1974 (comprende gli articoli scritti
da Cameroni tra il 1875 e il 1883).
F. Torraca, Saggi e rassegne, Livorno, Vigo, 1885 poi in Scritti cri-
tici, Napoli, Perrella, 1907.
B. Croce, Giovanni Verga in «La critica», 14, 20 luglio 1903 poi
in La letteratura della nuova Italia, III, Bari, Laterza, 1915 (ul-
tima edizione 1973).
Per un quadro più ampio del rapporto tra Verga e la cultura
del tempo, in assenza di una bibliografia esaustiva e affidabile sugli
interventi critici del periodo, rimandiamo sia alle note del presente
volume, sia alla III" Appendice del volume A. Navarria, Lettura di
poesia nell’opera di Giovanni Verga, Messina-Firenze, D’Anna,
1962, in cui vi è un elenco delle prime recensioni alle opere di Ver-
ga, sia ancora alle indicazioni fornite dallo stesso Verga nelle lettere
a Capuana pubblicate in G. Verga, Lettere a Luigi Capuana, citato.
Per delineare la storia della fortuna verghiana dalla I° alla II*
guerra mondiale vedi in particolare:
R. Serra, Le lettere (1914)in Scritti letterari, morali e politici a cura
di M. Isnenghi, Torino, Einaudi, 1974.
F. Tozzi, Giovanni Verga e noi in «Il messaggero della domenica»
17 novembre 1918 poi in Realtà di ieri e di oggi, Milano,
Alpes, 1928.
169
«L’illustrazione italiana», fascicolo speciale del 29 agosto 1920, in-
teramente dedicato a Verga (comprende articoli di F. De Ro-
berto, E. Janni, A.S. Novaro, N. Martoglio, G. Deabate, L.
Russo).
L. Russo, Giovanni Verga, Napoli, Ricciardi, 1920 (una edizione
profondamente riveduta esce nel 1934, successivamente ristam-
pata, con l’aggiunta di un nuovo capitolo La lingua del Verga,
nel 1941).
L. Pirandello, Discorso su Verga pronunciato a Catania, settembre
1920, ora in Saggi, poesie e scritti vari a cura di M. Lo Vecchio
Musti, Milano, Mondadori, 1960.
N. Scalia, Giovanni Verga, Ferrara, Taddei, 1922.
G.A. Borgese, Tempo di edificare, Milano, Treves, 1923.
A. Momigliano, Giovanni Verga narratore; consensi e dissensi, Pa-
lermo, Priulla, 1923 ora in Dante, Manzoni, Verga, Firenze-
Messina, D’anna, 1944; dello stesso autore Impressioni di un
lettore contemporaneo, Milano, Mondadori, 1928.
«Siciliana» gennaio 1923, I° numero della rivista a cura di N. Scalia
interamente dedicato a Verga (con scritti di F. De Roberto, M.
Saponaro, G.A. Borgese, A. Momigliano, E. Del Cerro, A. Di
Giovanni, E. Cecchi, L. Tonelli, L. Gillet).
«Lunario siciliano» aprile 1923, fascicolo dedicato tutto a Verga
con scritti di A. Soffici, E. Cecchi, A. Navarria, S. D'Amico,
R. De Mattei, L. Perroni, V. Brancati.
L. Tonelli, A/la ricerca della personalità, Milano, Modernissima,
1923 (contiene il saggio / Malavoglia di Giovanni Verga appar-
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Studi verghiani a cura di L. Perroni, Palermo, Edizioni del Sud, I e
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no in «Cinema» VI, 10 ottobre 1941 ora anche in M. Alicata,
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1960. Vedi anche gli altri articoli del volume e dello stesso autore
Preludio e fine del realismo in Italia, Napoli, Morano, 1967.
L. Spitzer, L’originalità della narrazione nei «Malavoglia» in «Bel-
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1949 e il 1953).
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G. Cecchetti, Leopardi e Verga, Firenze, La Nuova Italia, 1962.
(Raccoglie il saggio La «Nedda» del Verga apparso su «Belfagor»
il 31 luglio 1960, Aspetti della prosa di «Vita dei campi» apparso
in «Italica», 1 marzo 1957, Il testo di «Vita dei campi» già pubbli-
cato in «Belfagor» 30 novembre 1957 e Le traduzioni verghiane di
D.H. Lawrence pubblicato in inglese nel 1957). Dello stesso auto-
re vedi anche // Verga maggiore. Firenze, La Nuova Italia, 1968
(contiene i saggi compresi in Leopardi e Verga e inoltre «Pane ne-
ro» di Giovanni Verga pubblicato su «Belfagor» 31 Marzo 1962,
L'elaborazione della fine del «Mastro-don Gesualdo» apparso su
«Belfagor» 31 maggio 1963 e il saggio inedito // «carro» e il «ma-
re amaro». Una lettura dei «Malavoglia»).
A. Navarria, Lettura di poesia nell’opera di Giovanni Verga, Mes-
sina-Firenze, D’Anna, 1962.
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V. Masiello, Giovanni Verga e la crisi della società italiana in Anna-
li della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Bari, Vol.
IX, Cressati, 1964, ripubblicato in Verga tra ideologia e realtà,
Bari, De Donato, 1970 preceduto da un saggio inedito La nuo-
va critica marxista e il «caso Verga».
A. Asor Rosa, Scrittori e popolo, Roma, Samonà e Savelli, 1965.
«Galleria» n. 1-2, gennaio-aprile 1965, fascicolo speciale dedicato a
Verga. Contiene saggi di M. Petrucciani, G.A. Peritore, A. Bo-
celli, G. Musa, P. de Meijer, S. Guarnieri, R. Luperini, G.
Mazzaglia, V. Frosini, I. Cremaschi, G. Bonaviri, G. Giudice.
C. Musumarra, Verga minore, Pisa, Nistri-Lischi, 1965.
G. Ragonese, Interpretazioni del Verga, Palermo, Manfredi, 1965.
Contiene alcuni saggi scritti a partire dal 1938 e uno studio ine-
dito La lingua del Verga e le correzioni di «Vita dei campi».
R. Scrivano, // Verga fra Scapigliatura e verismo in «Belfagor», 30
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nia, Giannotta, 1966.
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Questo infine il quadro complessivo degli studi verghiani degli
ultimi anni.
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1971.
«Le ragioni critiche» 6, 1972. Fascicolo monografico dedicato com-
pletamente a Verga. Contiene saggi di E. Scuderi, V. Perroni, G.
Finocchiaro Chimirri, F. Nicolosi, A. Uccello, S. Zappulla Mu-
scarà, V. Di Maria, A. Joachim, M. Zorig, M. Vannini De Geru-
lawicz, G.A. Brunelli, S. Lo Nigro. G. Centorsi, G. Longo, P.M.
Sipala, F. Bruno, R. Malfitano Verdirame, D. De Angeli.
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Raccoglie il saggio di Asor Rosa // primo e l’ultimo uomo del
mondo apparso su «Problemi» n. 7, genn-febb 1968 e n. 8,
marzo-aprile 1968, il saggio inedito di V. Masiello, La lingua
del Verga fra mimesi dialettale e realismo critico e gli interventi
di A. Asor Rosa, B. Biral, R. Luperini, V. Masiello e G. Pe-
tronio apparsi su «Problemi» nei nn. 14, 15-16 e 17-18, 1969.
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3128:
mr
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sualdo e L’obiettivazione del Verga già apparso in «Rendicon-
ti» 30 novembre 1970).
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letteratura italiana», 1974, 474.
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tà, maschera e realtà nell’ultimo Verga, Roma, Savelli, 1974.
G.C. Mazzacurati, Forma e ideologia, Napoli, Liguori, 1974. Il volu-
me contiene due saggi verghiani e precisamente Scrittura e ideolo-
gia in Verga ovvero la metamorfosi della Lupa (1973) e La Bilan-
cia di Libertà ovvero della rotazione imperfetta (1973-1974).
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vero»: sperimentaliimo e verismo in Storia d’Italia IV,
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filo che consigliamo come punto di partenza per un primo ap-
proccio ai testi verghiani).
175
Studi verghiani, Palermo, Mazzone, 1976. Atti del Convegno di
studi verghiani tenutosi a Palermo nel 1973. Comprende saggi
di G. Santangelo, G. Ragonese, C. Colicchi, G.C. Mazzacurati,
E. Bonora, C. Spalanca, P. Scrima, F. Branciforti, N. Tede-
sco, R. Ambrosini, G.B. Bronzini, S. Correnti, L. Sciascia, G.
Petrocchi. :
G. Barberi Squarotti, Poesia e ideologia borghese, Napoli, Liguori,
1976.
G. Debenedetti, Verga e il naturalismo, Milano, Garzanti, 1976
(raccoglie i corsi universitari del periodo 1951-1953).
M. Guglielminetti, Fra epica e commedia: il dramma sociale (Verga,
Bracco, Oriani) in «Sigma» IX, 1976, 2.
R. Luperini, Verga e le strutture narrative del realismo. Saggio su
«Rosso Malpelo», Padova, Liviana, 1976.
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P.M. Sipala, Scienza e storia nella letteratura verista, Pàtron, Bolo-
gna, 1976.
F. Portinari, Le vampire del Maestro in Le parabole del reale, Tori-
no, Einaudi, 1976.
Verga inedito, «Sigma» 1977, 1-2. Contiene saggi di L. Sciascia,
C. Riccardi, G.C. Mazzacurati, G. Tellini, G. Zaccaria, M.
Dillon Wanke, N. Merola, V. Moretti, A. Andreoli, M. Bosel-
li, G. Baldi, F. Spera, G. Barberi Squarotti.
R. Morabito, Antiromanzi dell’Ottocento. Foscolo, Sterne, Tomma-
seo, Verga, Oriani, D°’Annunzio, Roma, Bulzoni, 1977.
C. Riccardi, // problema filologico di «Vita dei campi» in «Studi di
filologia italiana», XXXV, 1977.
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presenza della Sicilia nella cultura degli ultimi cento anni, Pa-
lermo, Palumbo, 1977.
V. Spinazzola, Verismo e positivismo, Milano, Garzanti, 1977. Con-
tiene i seguénti saggi: Verismo e positivismo artistico già pub-
blicato in «Belfagor» 31 gennaio 1970; La verità dell’essere.
Tre novelle verghiane pubblicato su «Belfagor» 31 gennaio
1972; Legge del lavoro nei Malavoglia già in Saggi in onore di
Trombatore, Milano, La Goliardica, 1973; // significato della
passione. La lupa, Jeli il pastore, Pane nero; Il ruolo dei sessi
nel Marito di Elena; I silenzi di Mastro-don Gesualdo oltre ad
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G. Baldi, L’artificio della regressione. Tecnica narrativa e ideologia
nel Verga verista, Napoli, Liguori, 1980. Contiene due saggi già
editi e precisamente Ideologia .e- tecnica--narratipa..in, «Rossa,
Malpelo» apparso in «Lettere italiane», XXV, 1973, n. 4 e /
punti di vista narrativi nei «Malavoglia» pubblicato su
Neg X, 1977, 1/2 e due saggi inediti composti tra il 1977 e
il 1978.
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Firenze, Le Monnier, 1980 (si tratta di un lavoro inedito com-
posto nel 1947).
N. Tedesco, // cielo di carta. Teatro siciliano da Verga a Joppolo,
Napoli, Guida, 1980.
Verga e il verismo. Sperimentalismo «formale» e critica del progres-
so a cura di Guido Baldi, Torino, Paravia, 1980.
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Fondazione Verga, Catania, 1981. Contiene saggi di P.M. Sipa-
la, P. Mazzamuto, N. Mineo, G. Petronio, C. Colicchi, C.
Musumarra, G. Ragonese.
AA.VV. I romanzi fiorentini di Giovanni Verga, Biblioteca della
Fondazione Verga, Catania, 1981. Contiene saggi di R. Scriva-
no, F. Nicolosi, P. Giannantonio, M.L. Patruno, C. Riccardi,
S. Campailla, S. Rossi, D. Consoli, N. Borsellino, G.P. Mar-
chi, R. Verdirame, S. Riolo, G. Petronio.
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dazione Verga, Catania, 1981.
C. Musumarra, Verga e la sua eredità novecentesca, Brescia, La
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L. Fava Guzzetta, La mano invisibile. Costruzione nel racconto del
Verga «minore», Saveria Mannelli, Rubbettino, 1981.
M. Forti, Idea del romanzo italiano fra Ottocento e Novecento, Mi-
lano, Garzanti, 1981.
N. Borsellino, Storia di Verga, Bari, Laterza, 1982.
E. Ghidetti, L'ipotesi del realisimo (Capuana, Verga, Valera e altri)
Padova, Liviana, 1982.
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R. Luperini, Lecce, Milella, 1982. È composto dai seguenti sag-
gi: C.A. Augieri, La struttura della parentela come codice nar-
rativo in «Vita dei campi», R. Luperini, Sulla costruzione dei
«Malavoglia». Nuove ipotesi di lavoro, M. Strazzeri, L’anima e
la roba, R. Luperini, / «Malavoglia» nella cultura letteraria e
nella produzione narrativa del Novecento, D. Margarito, Verga
nella critica marxista. Dal «caso» al metodo critico-negativo.
177
AA.VV. I Malavoglia, Atti del Congresso Internazionale di Studi
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1981, Biblioteca della Fondazione Verga, Catania, 1982. Il volu-
me comprende saggi di G. Petrocchi, G. Barberi Squarotti, S.
Campailla, C. Cucinotta, A. Di Benedetto, M. Dillon Wanke, G.
Finocchiaro Chimirri, E. Giachery, G.P. Marchi, G.C. Mazzacu-
rati, P. Mazzamuto, R. Melis, V. Paladino, M.L. Patruno, G.
Ragonese, P.M. Sipala, T. Wlassics, G. Petronio, P. Giannanto-
nio, L. Martinelli, M. Paladini Musitelli, F. Nicolosi, M. Sacco
Messineo, G. Nencioni, F. Branciforti, G. Alfieri, R. Ambrosini,
G.B. Bronzini, R. Morabito, C. Riccardi, R. Scrivano, P. Spez-
zani, R. Luperini, M. Guglielminetti, G. Padovani, R. Verdira-
me, G. Cecchetti, C.G. De Michelis, L. Fava Guzzetta e A. Sem-
poux, M. Marianelli, M. de las Nieves Mufiiz Mufiz.
Cavalli Pasini, La scienza del romanzo. Romanzo e cultura
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Paladino, Verga: itinerario a «I Malavoglia», Messina, Edas,
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P.M. Sipala, // romanzo di ’Ntoni Malavoglia e altri saggi sulla nar-
rativa da Verga a G. Bonaviri, Bologna, Patron, 1983.
G. Verga, Prove d’autore, a cura di L. Jacomuzzi e N. Leotta,
Lecce, Milella, 1983.
178
EINDECE
PARTE PRIMA
PROFILO . pag.
PARTE SECONDA
STORIA DELLA CRITICA
Cap. I » 33
Cap. II » 15
Cap. III » 107
Cap. IV » 145
Bibliografia . » 163
Finito di stampare
dalla Riva spa - Trieste
Trieste 1984
PREZZO L. 10.000
{IVA inclusa)
Edizioni Milella
«Ritratti di autori italiani moderni e contemporanei nella
storia della critica» diretta da Romano Luperini.
La collana è stata ideata secondo una formula originale: ogni
volume conterrà, nella prima parte, un profilo critico dell’autore,
cui seguirà, nella seconda, la storia della critica in cui la tesi
inizialmente sostenuta sarà messa a confronto con le principali
interpretazioni dell’opera dello scrittore in esame. Una terza
sezione di ogni volume è dedicata a una dettagliata bibliografia
delle opere e della critica e a notizie biografiche. Ogni volume
intende unire rigore d’analisi e agilità espositiva, in modo da
poter essere utilizzato anche in sede didattica per l’insegnamento
della letteratura italiana moderna e contemporanea.
ISBN 88-7048-072-0
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