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Pietro Secchia Scritti

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Indice:

Introduzione a Pietro Secchia


di Salvatore Vicario, redazione Senza Tregua

Una vita per la lotta: cenni biografici su Pietro Secchia


di Andrea Merialdo, redazione Senza Tregua

Una nuova generazione comunista, dalla FGCI alla ‘svolta’


di Paolo Spena , segreteria nazionale FGC

La lotta armata e l’organizzazione della Resistenza


di Franco Porcù, redazione Senza Tregua

L’inizio del dissenso sulla linea strategica del PCI


di Alessandro Mustillo, segretario nazionale FGC

La lezione di Secchia: l’arte dell’organizzazione.


di Lorenzo Lang, segreteria nazionale – resp org FGC

Il caso Seniga e l’estromissione dal vertice del partito.


di Andrea Merialdo, redazione Senza Tregua

La lotta contro il tradimento della Resistenza


di Enrico Guerrieri, segreteria nazionale FGC

Per l’unità del movimento comunista e la lotta antimperialista


di Raffaele Timperi, segreteria nazionale – resp. esteri FGC

Un ponte tra il PCI e la contestazione giovanile


di Alessandro Mustillo, segretario nazionale FGC

1
Non si può venire a dire a me ad esempio che non
sono fedele al partito se dissento dalla concezione della
via italiana al socialismo. Quando diventai comunista il
partito si proponeva la lotta armata e la conquista del
potere per la via indicata dall’ottobre. Un partito certo
può mantenere lo stesso nome e cambiare
fondamentalmente, non solo la politica, ma la sua
stratega e alcuni dei suoi principi fondamentali. Ma
non si può pretendere che chi è diventato comunista
perché il partito aveva quegli altri principi segua e
accetti tutta la nuova impostazione. Perché molti di noi
non saremmo forse stati comunisti se il partito avesse
avuto la politica fondamentale di oggi.

2
Introduzione a Pietro Secchia

La costruzione teorica e ideologica del movimento comunista in Italia


su una base marxista-leninista, richiede di proseguire nell’approfondimento
dello studio della nostra storia. Con Gramsci, a cui abbiamo dedicato e
continueremo a dedicare ampio spazio, un’altra figura importante della storia
del movimento operaio e comunista italiano e internazionale è Pietro Secchia a
cui in occasione del 110° anniversario della sua nascita (19 Dicembre 1903)
dedichiamo questo lavoro collettivo sulla sua straordinaria vita e militanza
comunista. Studiare Pietro Secchia, nome di battaglia Botte, vuol dire prima di
tutto studiare un uomo d’azione, che ha costruito il Partito giorno per giorno in
condizioni terribili e ha combattuto per il proletariato per oltre cinquant’anni.
Soffermarsi sul patrimonio storico e teorico lasciatoci da Secchia vuol dire
riflettere criticamente sulla storia del Partito Comunista Italiano e su importanti
passaggi cruciali nella storia del movimento operaio italiano ed internazionale
del ‘900. Negli ultimi anni della sua militante vita, egli concepì un’opera di
raccolta di documenti e articoli dal titolo “La resistenza accusa, 1945-1973”,
che pensò principalmente per i giovani, a cui volle fornire un quadro entro il
quale fossero aiutati chiaramente ad orientare la loro crescita politica, lasciando
a tutti noi uno straordinario patrimonio il cui apprendimento è decisivo per
rafforzare la lotta di classe e popolare di oggi e nel futuro, in particolare in una
fase di ricostruzione. E’ con questo spirito e intento che abbiamo concepito e
sviluppato questo lavoro, consapevoli che tanto altro approfondimento e studio
richiede l’opera di Secchia e la storia del PCI.
Con Pietro Secchia, si percorre una sorta di “filo rosso” a partire dalla
fase immediatamente successiva alla nascita del Partito Comunista d’Italia, nel
contesto dell’affermazione del fascismo, alla Resistenza ed alla Liberazione,
dalle contromisure da adottare, all’atteggiamento da tenere nelle diverse fasi,
alle diverse modalità di lotta, a partire dalla resistenza armata fino alla sua
morte nel ’73, a causa dell’avvelenamento subito nel suo viaggio in Cile per
mano della CIA.

3
Già all’età di 16 anni, Secchia, costituisce il primo circolo socialista del
proprio paese, Occhietto, nel biellese, sotto l’influenza dell’Ordine Nuovo e
dell’esempio della grande Rivoluzione d’Ottobre, che nel corso della sua vita
comunista mai lo abbandoneranno. Fin dai primi anni della loro fondazione,
Secchia fu uno dei principali animatori, organizzatori e dirigenti della FGCI e
del PCI, tra i più attivi quando nel 1931 venne arrestato dai fascisti e
imprigionato per 12 anni. Concepì la sua vita come instancabile militante,
dirigente, organizzatore, interprete coerente e creativo dell’insegnamento di
Lenin e fedele ai principi della III Internazionale, lottando contro le deviazioni
di “destra” e di “sinistra” e dando un contributo fondamentale nella concezione
del Partito e della lotta in clandestinità contro il regime fascista e per la
costruzione ovunque dell’organizzazione di Partito.
Fu sempre presente in lui la capacità straordinaria di condurre una
analisi concreta sulla situazione concreta, sulla base dei principi del marxismo-
leninismo, studiando le contraddizioni, i rapporti di forza, l’individuazione del
nemico e del modo migliore per combatterlo unendo le masse popolari intorno
alla classe operaia. Così concepì la lotta al fascismo come parte integrante della
lotta di classe, da condurre attraverso il “Fronte Popolare”, senza perdere
l’autonomia e prospettiva rivoluzionaria propria dell’avanguardia della classe
operaia, in cui la strategia insurrezionale era volta anche allargamento dello
stato d’agitazione per la rivoluzione contro il potere borghese e il capitalismo.
Non sottomise quindi gli interessi del proletariato a quelli della nazione, ma al
contrario concepiva che gli interessi del proletariato erano quelli della nazione,
lottando incessantemente contro l’attendismo e per l’organizzazione della
Resistenza in ogni fabbrica, in modo che gli operai fossero poderosa parte attiva
nella lotta e la fabbrica “il fulcro della lotta contro i tedeschi e i fascisti, le
agitazioni degli operai appoggiarono le azioni partigiane e queste a loro volta
contribuirono a rendere più facile il successo delle rivendicazioni dei
lavoratori”. Secchia, diede un grande contributo all’organizzazione della
Resistenza, che fu un processo tutt’altro che spontaneo che egli stesso ricorda
così: “Se nei grandi scioperi del marzo 1943 e nei movimenti popolari del 25
luglio e dell'8 settembre 1943, il Partito comunista italiano si trovò ad essere
alla testa delle masse in lotta, ad essere alla testa del movimento partigiano e
4
della guerra di liberazione nazionale, questo lo si deve all'azione da esso svolta
durante tutto il ventennio fascista. Preoccupazione costante del partito in quegli
anni «neri» non fu, solo quella di rafforzare la sua organizzazione clandestina,
ma un grande sforzo venne compiuto per organizzare, sia pure in forme
elementari, le masse dei lavoratori, per sviluppare un'attività sindacale, per
rimanere a contatto con le masse degli operai delle città e con i lavoratori delle
campagne e soprattutto per riuscire a promuovere e a dirigere le agitazioni, gli
scioperi, i movimenti di malcontento, le azioni di lotta contro il fascismo”.
Difenderà sempre questo carattere della Resistenza, che non fu un
percorso unitario e che vide enormi contraddizioni tra le forze politiche di classe
che sostennero e si impegnarono nella lotta armata per convinzione, e i partiti
borghesi che agirono per convenienza, spesso con l’obiettivo di minare fin da
subito la profonda portata progressista e innovatrice nella Resistenza. Nel
maggio del ’45 Secchia afferma che: ”Il rinnovamento che noi chiediamo non
deve limitarsi ad un semplice ed ordinario rimaneggiamento ministeriale, al
cambio di qualche persona, ma deve essere una vera e propria svolta nella vita
politica italiana, deve significare la eliminazione radicale delle cricche
reazionarie dalla direzione del paese, deve voler dire governo del popolo,
governo delle forze che sono state l’anima e la forza della nostra insurrezione
nazionale”, ribadendo a gran voce la necessità dell’epurazione degli “agenti
dello straniero” dalle officine, dagli uffici, dall’amministrazione pubblica,
dall’esercito, dalla polizia, dalle scuole, individuandoli non solo in quelli che
portavano il “distintivo fascista” ma identificandoli nei nemici dei lavoratori,
nei reazionari di tutte le risme che si sforzano di coalizzarsi. Parole che già
annunciano il pericolo di ciò che divenne realtà nel ’47, col tradimento dell’
“unità nazionale” da parte della Democrazia Cristiana con l’estromissione dal
governo dei comunisti, con l’inizio di un periodo di forte repressione anti-
operaia, in cui l’Italia con De Gasperi diventa il nemico numero uno dell’Est e
del Socialismo, alle volontà degli USA. Pietro Secchia, in questo contesto si
recò in URSS per un incontro segreto con Stalin, Zdanov e altri dirigenti del
PCUS, nel quale si evidenziano tutti i punti critici della politica togliattiana dell’
“unità nazionale”, tanto che dopo gli attentati a Togliatti nel 1950, Stalin
propose di “spostare” Togliatti dal ruolo di Segretario del PCI destinandolo al
5
pur importante ruolo di direzione del Cominform, cosa che avrebbe condotto
alla nomina di Secchia a Segretario del PCI. Proposta approvata dalla Direzione
del PCI, ma rifiutata da Togliatti.
Pietro Secchia è la chiave per comprendere la Resistenza e gli elementi
che portarono passo dopo passo alla mutazione genetica del PCI, che assunse il
carattere riformista in particolare a seguito della morte di Stalin, periodo in cui
nel PCI avvenne l’annientamento politico di Secchia, tramite l’orchestrato “caso
Seniga”, con la rimozione dalle cariche di vicesegretario generale e di
responsabile dell’Organizzazione. Il dissenso di Secchia fu sempre interno al
Partito, anche quando fu emarginato, rivolgendo la propria critica al ruolo che il
PCI non esercitava, alla mancanza della dovuta azione in difesa delle conquiste
della Resistenza, all’emarginazione dei quadri provenienti dall’esperienza della
lotta armata, la mancanza della prospettiva della presa del potere nelle nuove
generazioni, fattori di cui intravede e intuisce per primo l’enorme portata nel
Partito.
La sua critica venne spesso strumentalizzata con l’intento di denigrare
la sua figura e le posizioni espresse, rinchiudendola in categorie quali
“estremismo” e “avventurismo”, quando in realtà la sua fondata e profonda
accusa era rivolta contro una linea politica appiattita sulla ricerca della visibilità
istituzionale che avrebbe portato a “una situazione sempre più difficile, una
situazione di cedimento e di ritirata tale che ci porterebbe via via a perdere
tutto e ad aver perso tutto, a trovarci in un regime diverso, di tipo reazionario,
senza neppure avere dato battaglia”.
In questo solco si fondava la critica al “Partito Nuovo” di Togliatti,
difendendo sempre l’impostazione leninista del Partito di quadri, pur in una
nuova collocazione di massa, parte della classe operaia, di cui è avanguardia in
un legame di lotta con tutte le masse popolari. Avendo sempre chiara la lotta di
classe, non confuse mai questi ruoli e soprattutto identificò sempre la
Democrazia Cristiana, prima come forza moderata e frenante all’interno dello
schieramento antifascista e poi come forza reazionaria e antipopolare
apertamente a servizio dei monopoli, degli agrari e dell’imperialismo USA, non
riconoscendo in essa nessuna “anima popolare” che altri dirigenti del PCI

6
invece confondevano col consenso che la DC estorceva ad alcuni settori
popolari giustificandone quindi le alleanze.
Per Secchia invece, la questione delle alleanze si pone a partire dagli
interessi di classe e dunque il movimento operaio concepisce le alleanze come
unità delle masse popolari contro il nemico di classe, non come unità con esso e
le forze politiche che ne rappresentano gli interessi. Rimanendo sempre
coerente agli insegnamenti del marxismo-leninismo aveva ben presente la
necessità del rapporto tra Partito di classe e masse popolari, sostenendo con
decisione la necessità di difendere le posizioni conquistate, senza accettare in
modo arrendevole ogni passo indietro imposto dalle forze reazionarie,
mantenendo una mobilitazione politica permanente delle masse, per avanzare
nelle conquiste della Resistenza.
Per questo sosteneva la necessità che la battaglia “dovesse essere
combattuta soprattutto fuori dal Parlamento”. In questa necessità e allo stesso
tempo preoccupazione, Secchia intendeva anche l’opportunità che il Partito
fosse preparato con tutti i mezzi alla lotta (cosa diversa dall’essere fautore della
lotta armata come hanno cercato di dipingerlo nella strumentalizzazione della
sua figura), prefigurando le trame occulte degli ambienti reazionari di cui è
testimonianza la struttura paramilitare di Gladio che si andavano ad intrecciare
con la situazione internazionale, la rinnovata offensiva dell’imperialismo degli
Stati Uniti e della NATO, di cui nel suo viaggio in Cile mise in guardia i
comunisti e il governo Allende, e la nascita dei movimenti anti-imperialisti in
Algeria, Cuba, Vietnam ecc… la cui lotta era considerata da Secchia come
essenziale e da legare alla lotta per il socialismo, rimproverando al Partito e alle
organizzazioni di massa una scarsa sensibilità verso la lotta per l’indipendenza
dei popoli e contro l’aggressione imperialista, intuendo la necessità sul piano
internazionale di promuovere azioni unitarie e comuni, e l’effettiva e attiva
solidarietà del movimento comunista e operaio internazionale.
Nell’accusa di Secchia, sono presenti i fattori soggettivi della sconfitta
storica, come la rinuncia alla prospettiva strategica della presa del potere, la
chiusura di fronte all’emergere della lotta delle nuove generazioni. Nonostante
fosse messo all’angolo nel PCI, continuò il suo lavoro rivolgendosi in
particolare alle generazioni future, ai giovani, osservando quei movimenti che si
7
andavano formando all’infuori del Partito impegnato nel contesto nazionale
nell’accordo PCI-DC, mentre Secchia individuava nella loro spinta e nel loro
entusiasmo la linfa per avanzare verso il Socialismo con la guida del Partito (da
cui mai si staccò e mai nessuno riuscì a staccarlo), nella prosecuzione
dell’esperienza antifascista e resistenziale.
Il titolo che egli scelse per la sua ultima opera prima della morte, “La
Resistenza accusa” è rivolto a chi è rimasto fermo, osservando a trent’anni di
distanza che le masse popolari erano ancora vittime degli stessi oppressori e che
le lotte operaie, contadine e studentesche subivano gli stessi crimini da un
apparato dello Stato sempre al servizio del capitale e dei monopoli. Ma allo
stesso tempo è un appello che Secchia rivolge alla gioventù affinché si
impadronisca degli insegnamenti della Resistenza e delle successive lotte per
farne arma nella difficile lotta per il socialismo: “Quando avviene di essere
battuti, noi comunisti non abbiamo altro da fare che riprendere la lotta per
andare avanti”. In queste parole pronunciate nel 1950 al Congresso della FGCI
di Bologna, si evince l’uomo d’azione che si rivolge ancora ai giovani, perché
siano il motore di lotte e organizzatori della rivoluzione, ridando vigore e
riappropriandosi della Resistenza, parole che risuonano con forza ancora oggi
nel dovere di ogni giovane comunista di ripartire nel contrattacco, nella
comprensione degli avvenimenti che hanno portato alla sconfitta, in cui la
lezione e la critica di Pietro Secchia sono strumenti imprescindibili.

di Salvatore Vicario (redazione “Senza Tregua”)

8
Vorrei che una sola cosa si tenesse presente e
sulla quale non vi fossero dubbi di sorta: il mio
incondizionato attaccamento e la mia fedeltà al
partito

9
Una vita per la lotta: cenni biografici su Pietro Secchia

A 110 anni dalla sua nascita, ci domandiamo ancora chi veramente sia
stato Pietro Secchia. Emarginato all’interno del Partito Comunista, dalla
seconda metà degli anni '50 in poi, gli è stato progressivamente disconosciuto il
ruolo di “rivoluzionario di professione” ed è stato poi ricordato, seppur
genericamente, come figura di primo piano nella Resistenza.
Secchia nacque a Occhieppo Superiore da una famiglia proletaria; a soli 17 anni
si avvicinò alla politica su posizioni interventiste, stimolato dal padre che partì
volontario nella Prima Guerra Mondiale. Le future scelte politiche di Secchia
furono influenzate dalla spedizione di D'Annunzio a Fiume. In particolare, lo
affascinarono alcuni elementi socialisti, contradditori con l'orientamento
politico di D'Annunzio, come il reciproco riconoscimento diplomatico con la
Russia Sovietica e l'approvazione della “Carta del Carnaro”, una costituzione
che riconosceva il lavoro come valore fondante dello Stato.
Piertro Secchia commentò quest’ impresa nel suo libro “Le armi del fascismo”,
definendola un'occasione persa dai socialisti italiani per creare un focolaio
rivoluzionario, approfittando delle contraddizioni sociali e politiche interne al
movimento e dell'indebolimento delle istituzioni. E’ opportuno ricordare che tra
i volontari fiumani vi furono alcuni esponenti, tra cui Beer Umbero, che anni
dopo furono tra i fondatori degli “Arditi del Popolo”
In questo periodo Secchia si avvicinò definitivamente al comunismo,
sostenendo che solo un'azione rivoluzionaria come quella russa del 1917
avrebbe portato il proletariato al potere. L'adesione al Psi fu conseguente,
nell'ottobre 1919 prese la tessera e fu tra i fondatori del circolo della federazione
giovanile socialista di Occhieppo Superiore.
La sua formazione marxista-leninista proseguì con la lettura dell' ”Ordine
Nuovo”, rivista comunista diretta da Antonio Gramsci. Secchia rivendicò più
volte che la sua adesione al Psi, così come quella di altri giovani, avvenne solo
per sostenere le posizioni “sovietiste” che stavano prendendo forza in

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particolare nel Nord Italia, pur senza essersi precedentemente interessati a quel
partito “vecchio” schiacciato tra il riformismo turatiano e il massimalismo
parolaio. Nel 1921 Secchia si schierò senza esitazioni per la Frazione
Comunista, nata dalla scissione livornese dal Psi per costituire il Partito
Comunista d'Italia ed entrò nella segreteria della federazione giovanile
comunista di Biella. Le sue principali attività furono legate alla difesa dei
lavoratori dal fascismo e allo sviluppo della stampa locale di partito.
E’ del 1923 il primo dissenso tra Secchia e la dirigenza bordighiana del
Pcd'I. L’occasione arrivò il 7 agosto, quando uscì una circolare che vietava ai
militanti comunisti di aderire all'organizzazione “Arditi del Popolo” in quanto
giudicata non marxisticamente ortodossa. La sua posizione fu in linea con
quella di Antonio Gramsci, che riteneva si dovesse proseguire con
quell'esperienza di difesa dal fascismo, in quanto fattore di unità della
avanguardie dei lavoratori. Ciò evidenzia come la priorità di Secchia fosse di
contrastare in senso veramente classista il fascismo. La situazione giudiziaria di
Secchia si aggravò dopo la presa di potere di Mussolini: fu costretto a lasciare
Biella e a trasferirsi a Milano, dove ricoprì il ruolo di segretario provinciale
della federazione giovanile comunista e lavorò per l'apparato del suo comitato
centrale diventando, di fatto, un “rivoluzionario di professione”.
Nell'ottobre 1926, dopo il fallito attentato a Mussolini e l'approvazione
delle “leggi fascistissime”, Secchia rimproverò al Partito di non aver avuto la
preparazione necessaria per il passaggio a un lavoro di tipo clandestino. In
quell'anno fu nominato nel centro interno della federazione giovanile, la
struttura dirigente che seguì il lavoro politico clandestino in Italia. L'attività di
Secchia in questo ruolo fu sopratutto quella di tenere il collegamento con tutte
le organizzazioni locali del Partito, discutendo di linea politica con i dirigenti
locali e fornendo indicazioni utili al lavoro clandestino, come la fabbricazione
di documenti falsi e la stampa di giornali clandestini.
Anni dopo, Luigi Longo su “l'Unità” scrisse: «in quel difficilissimo
periodo dell'attività illegale del partito, Secchia fu l'anima della Resistenza
dell'organizzazione antifascista in Italia. Lavorava per l'organizzazione
giovanile e per quella del partito, era dirigente e ispettore, giornalista e
tipografo, esempio miserabile di fede, di coraggio e di capacità costruttiva. E'
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merito in gran parte suo se negli anni 1927-28, mentre tutti gli altri partiti
antifascisti piegano sotto la reazione, il partito comunista italiano restò sulla
breccia, a bandiere spiegate, bello di ardire e di eroismo. »
Proprio alla stampa clandestina Secchia riconobbe un ruolo molto
importante, era l'elemento principale che poteva tenere i collegamenti con i
proletari durante la messa al bando del Partito. I giornali, prevalentemente a
carattere locale come “Gioventù rossa” di Novara, erano per lo più stampati in
tipografie clandestine organizzate dal Partito e venivano distribuiti dai militanti
nei luoghi di lavoro o nelle osterie, dove i giovani lavoratori trascorrevano il
tempo libero; ma anche numerose edicole si prestarono alla vendita clandestina
questi giornali.
«Dopo appena un mese dalle leggi eccezionali cominciò il pullulare,
nelle officine e nei quartieri popolari, di questi fogli. Nell'attività tecnica della
stampa, i giovani ebbero senza dubbio, ed hanno tutt'ora, la parte
preponderante. E' pesante per un operaio di una certa età, capo di famiglia,
arrivare a casa alla sera stanco dopo 10 ore di lavoro e prendere la penna, per
tracciare con mano pesante dei caratteri che possono poi essere moltiplicati e
leggibili in migliaia di esemplari. Questo é il compito riservato in modo
particolare ai giovani, ed i giovani accattano con entusiasmo questo compito. Il
giovane diventa un “dilettante” del lavoro tecnico cospirativo. Organizzare la
spedizione dei pacchi e delle cassette truccate, disegnare le vignette di
Mussolini e del Papa, imparare ad adoperare una nuova macchina, tutte cose
che il giovane fa con passione senza preoccupazione e nello stesso tempo con
coscienza ed entusiasmo» (Secchia)
Un’idea innovativa, considerato il rigore della dirigenza comunista di
quegli anni, fu la pubblicazione - su iniziativa di Secchia e Rigamonti - del
giornale satirico “Il galletto rosso”, che utilizzò un linguaggio molto volgare
nello sbeffeggiare Mussolini e i suoi gerarchi. L'iniziativa, decisa all'oscuro
dalla dirigenza del Partito, procurò numerose critiche a Secchia, in particolare
per il linguaggio utilizzato. Camilla Ravera si dichiarò addirittura scandalizzata.
Peraltro, il giornale incontrò un discreto successo a Roma, dove la polizia mise
in atto centinaia di perquisizioni per trovare gli autori.

12
Queste esperienza legate all'attività dei giovani comunisti sono descritte
in “La lotta della gioventù proletaria contro il fascismo”, pubblicato a Berlino
nel 1930 a cura dell'Internazionale giovanile comunista.
Tra il 1927 ed il 1928 Secchia consolidò le proprie posizioni ed espresse le
prime critiche alla dirigenza di Togliatti che, a suo avviso, aveva messo in
secondo piano ogni ipotesi insurrezionale concentrando l’attenzione sulle
rivendicazioni intermedie o sulle azioni di protesta. Ribadì che solo la
rivoluzione era in grado di abbattere una dittatura reazionaria, mentre Togliatti e
la sua dirigenza erano sostenitori di un’ ipotesi intermedia di “Assemblea
Costituente”.
Durante la conferenza di Basilea del 1927 fu eletto segretario nazionale
della Fgci e, in tale veste, confermò le sua opposizione dalla linea intrapresa dal
segretario Togliatti.
Il comitato centrale del settembre 1929 fu significativo per il Partito. Vi erano
state numerose critiche dell'Internazionale alle posizioni “morbide” di Togliatti
e per questo fu costretto ad una autocritica e a un ribaltamento delle posizioni su
quelle sostenute fino a quel momento da Secchia e Longo. Questa svolta si
concretizzò nella riorganizzazione dell'attività insurrezionale, attraverso
l'organizzazione di numerosi scioperi e agitazioni di lavoratori, con parole
d'ordine rivoluzionarie e non solo difensive.
Alcune di queste agitazioni però non ebbero l'esisto sperato e Secchia fu
costretto all’autocritica nella pagine di “La nostra lotta”.
Nonostante ciò, fu incaricato di organizzare il IV congresso del Partito.
Durante una riunione con alcuni compagni a Torino fu arrestato e condannato
dal Tribunale speciale a 17 anni e 9 mesi di reclusione.Durante la detenzione si
concentrò in particolare sullo studio del marxismo e della storia italiana, dai
quali scaturì la prima stesura di “Capitalismo e classe operaia nel centro laniero
d'Italia", dove descrisse lo sviluppo dell'industria laniera del biellese, che portò
ad un forte sviluppo della classe operaia già dalla prima metà dell'800. I
lavoratori si organizzarono, da subito, in società operaie di mutuo soccorso e
parteciparono attivamente ai moti risorgimentali e alla Comune di Parigi.
Successivamente, in quella zona furono eletti i primi deputati socialisti.

13
Partì da quei fatti una riflessione di Secchia sul Risorgimento, da lui
giudicato un movimento in cui la borghesia - che voleva abbattere le barriere
legate al vecchio sistema feudale - ricoprì un ruolo rivoluzionario mentre la
classe lavoratrice ebbe un ruolo dirigente minore - ma partecipò militarmente in
maniera determinante - e le figure di Mazzini e Garibaldi coinvolsero i
lavoratori in questo processo.
Nel 1959 pubblicò questa analisi in “Resistenza e Risorgimento”, che
scaturì dal suo intervento durante un convegno organizzato dall'ANPI di Biella.
Descrisse la Resistenza come una prosecuzione del Risorgimento, con la
differenza che le masse lavoratrici diressero questo movimento per la conquista
delle vere libertá, non solo quelle borghesi. Riconobbe anche un ruolo
importante ai contadini, che durante il Risorgimento furono relegati ai margini,
divisi tra sostenitori del Vaticano e del Regno Borbonico.
Durante la sua detenzione, ufficialmente per motivi di sicurezza,
Secchia ebbe contatti assai sporadici con la direzione del Partito tanto, che più
volte, fu colto dalla sensazione di essere isolato. In occasione dell’appello ai
fratelli in camicia nera, scritto da Togliatti, Secchia si scontrò con il segretario,
sostenendo che tale documento non fosse formulato correttamente e contenesse
molte contraddizioni. Il senso era di attaccare la politica reazionaria e
imperialista del fascismo durante l'apice del suo consenso, facendo leva sulle
contraddizioni che aveva nella sua base sociale. Secchia sosteneva che i
gerarchi del regime non fossero stati attaccati direttamente e che ci fu
un’eccessiva demarcazione tra il fascismo "diciannovista" e quello successivo,
quasi a negare il fatto che avesse già all'epoca una matrice anti operaia.
Nel 1943, dopo la caduta di Mussolini Secchia fu liberato e divenne
commissario politico delle Brigate Garibaldi. Il suo primo impegno fu quello di
riprendere i contatti tra tutte le organizzazioni locali, persi durante la
clandestinità. E' da sottolineare il fatto che molte strutture locali del Partito
erano rimaste senza contatti con la direzione, prendendo in molti casi iniziative
politiche diverse da zona a zona.
Secchia riconobbe una grande importanza agli scioperi operai del 1943-1944,
che diedero un’impronta di classe alla lotta di Liberazione, anche grazie al ruolo
delle cellule di fabbrica, essenziali per mantenere la matrice operaia, nonché il
14
collegamento tra il Partito e i lavoratori. Ma Secchia si impegnó anche a
coinvolgere i contadini, ai quali la base guardava con diffidenza.
Con la svolta di Salerno si aprí un forte dibattito all'interno del Partito,
sull’improvvisa apertura di Togliatti alla monarchia e alla partecipazione ai
governi di Badoglio. Secchia l’accettó parzialmente perchè riteneva che le forze
di sinistra (Pci, Psi e Pdaz) non avessero la forza necessaria per prendere il
potere. Tuttavia non apprezzó le modalitá e la moderazione con cui Togliatti si
relazionó con la monarchia, principale complice della presa del potere del
fascismo.
La moderazione di Togliatti si evidenziò nel dicembre del 1944, quando
cadde il primo Governo Bonomi, a seguito dell'uscita di socialisti e azionisti
intenzionati a mettere all'ordine del giorno l'epurazione immediata di tutti i
funzionari collusi con il regime fascista. Il Pci non uscì da questo esecutivo e
rimase anche nel successivo governo Bonomi. Scelta che non convinse la
maggior parte del gruppo dirigente impegnato nella Resistenza, fra cui Secchia.
Dopo la Liberazione di tutto il Nord Italia, Secchia dalle pagine di
“l'Unità” propose una serie di punti al Governo, primi fra tutti l'epurazione di
tutti gli ex fascisti dai ranghi politici ed economici, il riconoscimento del ruolo
dei CLN e il sostegno alla ricostruzione, da far pesare sopratutto a chi si era
arricchito durante il fascismo.
Nel giugno 1945 Secchia fu nominato responsabile nazionale
dell'organizzazione del Pci, segno di riconoscimento per il duro lavoro politico-
organizzativo svolto durante la clandestinità. In questa veste si trasferì a Roma
dove scrisse nelle sue memorie, e provò un certo disagio a vedere un partito più
impegnato nel lavoro parlamentare che in quello di massa. Sui Governi di unità
antifascista, Secchia vide una certa debolezza politica del Partito, che non si
impose in maniera netta per ottenere misure più radicali. A suo avviso si
sarebbe dovuto forzare maggiormente nel terreno di massa, tramite le proprie
organizzazioni sociali. Criticò anche il fatto che non furono convocate
immediatamente le elezioni nazionali, lasciando il ruolo legislativo
all'Assemblea Nazionale, di cui era stato nominato membro, un organo non
elettivo in cui vi era uguale rappresentanza tra componenti industriali e
componenti operaie.
15
Con il V congresso nazionale del Partito, rilanciò la sua modalità
organizzativa di “un partito di massa e di quadri”, in cui le nuove leve dovevano
essere formate e messe nella condizione di diventare quadri. A seguito delle
elezioni del giugno 1946, Secchia proseguì le critiche al metodo con cui il
Partito partecipò a governi unitari, in particolare le critiche furono rivolte
all'”Amnistia Togliatti”, visti gli effetti che provocò questo provvedimento. Su
quest'ultima espresse pubblicamente le critiche a Togliatti, durante la
conferenza di organizzazione della federazione di Grosseto.
Un ulteriore contrasto con Togliatti risale al 1947, a seguito della
cacciata delle sinistre dal Governo. Secchia avrebbe giudicato più utile
organizzare, prima che l'estromissione avvenisse, forme di resistenza legali,
come uno sciopero generale, al fine di bloccare questo processo. Nel gennaio
1948, durante il VI congresso del Partito, venne approvata la linea unitaria del
Fronte democratico popolare. In questa sede Secchia pose la questione delle
forze armate, ribadendo che andava svolto un lavoro alla loro base per impedire
che venissero egemonizzate dalla destra. Ciò si legava ovviamente alla
possibilità che il Fronte popolare vincesse le imminenti elezioni, che lo videro
candidato al Senato.
Il suo giudizio sulla netta sconfitta elettorale fu durissimo: attribuì la
colpa alla linea politica e non a quella organizzativa. A suo avviso il Partito,
incoraggiato dagli esiti positivi delle elezioni amministrative, si era comportato
come se la vittoria fosse scontata. Inoltre non si era lavorato affinché la forma
del Fronte portasse il voto di chi, pur non essendo comunista o socialista,
condivideva il programma di cambiamento sociale (ad esempio parte dei
lavoratori cattolici). L'unica scelta possibile, quindi, era proseguire il lavoro con
i movimenti di massa, in particolare quelli contro la nascente guerra fredda
come il “Movimento partigiani della pace”.
Sulla questione insurrezionale, Secchia fu tendenzialmente considerato
il principale sostenitore di tentativi rivoluzionari. In realtà questo giudizio è
semplicistico, in quanto giudicò sempre impossibile questa ipotesi viste le
condizioni geopolitiche dell’Italia. Non escludeva, tuttavia, che occorresse
mantenere un’ organizzazione capillare del Partito e delle sue organizzazioni,
per reagire ad eventuali svolte autoritarie.
16
Per capire il pensiero politico di Secchia, è significativo il suo intervento al
Senato “La resistenza accusa”, in cui attaccò duramente il ministro dell'Interno
Scelba per l'epurazione e le persecuzione di partigiani, che in alcuni casi
avevano assunto ruoli in PS. Citò in particolare le persecuzioni giudiziarie di
Modena, dove 3.500 partigiani furono fermati o interrogati. Praticamente
un'accusa diretta di fascismo al nuovo “Regime democristiano”.
Lo scontro con Togliatti si aggravò a ridosso delle elezioni del 1953,
quando il Parlamento approvò la “legge truffa”in maniera incostituzionale,
convocando il Senato durante una festività e approfittando dell’assenza
dell'opposizione. Secchia propose un ostruzionismo continuo nelle Camere e la
convocazione immediata di uno sciopero generale. Si trovò, però, di fronte alla
resistenza del segretario e di Di Vittorio, timorosi che tali azioni portassero ad
un livello di scontro troppo elevato.
Ma l’acceleratore dell'emarginazione di Secchia fu il “caso Seniga”. Il
suo principale collaboratore e amico Giulio Seniga sottrasse, si dice, 50.000
dollari dai depositi segreti del Partito. Da quel momento Secchia fu destinato ad
incarichi minori, prima come segretario regionale lombardo poi come
responsabile delle attività editoriali del Partito.Sulla sua emarginazioni vi sono
diverse interpretazioni: fu una scelta studiata da Togliatti e da altri dirigenti per
evitare che Secchia potesse assumere maggiore importanza; oppure, come
sostiene da Miriam Mafai, dalla “destalinizzazione” iniziata già prima del XX
congresso del Pcus.
Negli anni dell'emarginazione Secchia si dedicò prevalentemente
all'attività editoriale, pubblicando numerosi scritti sulla Resistenza e sul
movimento operaio, cercando di rimarcare nel migliore dei modi il suo
pensiero. Nel 1962 fu eletto vice presidente del Senato, ruolo che esercitò senza
trascrivere sue opinioni o testimonianze.
Dal 1967 ci fu una ripresa del ruolo politico di Secchia, in particolare
nella commissione internazionale del Partito; in quel periodo viaggiò in Medio
Oriente e in Africa, incontrando numerosi esponenti di movimenti di liberazione
nazionale. La situazione era proficua per una svolta rivoluzionaria, in cui i
movimenti del terzo mondo ed il movimento studentesco erano i protagonisti.
Paragonò questa situazione a quella del dopoguerra, ribadendo che anche in
17
quella situazione i giovani stavano aspirando ad una presa del potere violenta:
«Nel 1920 una parte della gioventù andò a destra con il fascismo in Italia,
Germania, ecc. C'era qualcosa di comune: che tanto noi quanto i fascisti
vedevamo la conquista del potere con la violenza. C'era il mito unificatore della
violenza. Ogni generazione ha i suoi miti e i suoi ideali. Questi ultimi devono
essere uomini vivi. L'eroe di oggi per i giovani non è Lenin e neppure Garibaldi
(il Garibaldi del 1943), ma è Che Guevara, Ho Chi Min» .
Nel frattempo Secchia ripropose al Partito il tema dell'uscita dalla
NATO e del rischio di svolte autoritarie. In quegli anni proseguì il lavoro
editoriale con la pubblicazione di “Le armi del Fascismo”, volume indirizzato
alle giovani generazioni, in cui spiega cosa era e cos'è stato il fascismo dalle
origini, tracciando le similitudini con i gruppi neo-fascisti di quegli anni.
Nel gennaio 1973 Secchia partì per il suo ultimo viaggio politico in
Cile, dove incontrò Salvador Allende ed altri esponenti della sinistra cilena,
poco prima che avvenisse il golpe. Al suo rientro fu colpito da un malore molto
sospetto, ufficialmente si parlò di intossicazione ma il suo medico, dottor
Biocca, e altri compagni ipotizzarono invece un avvelenamento da parte della
Cia.
Morì il 7 luglio 1943. Pajetta recitò l’orazione ufficiale in piazza della
Consolazione, ricordando Pietro Secchia come una figura molto attiva nella
Resistenza, senza tuttavia mettere in risalto il suo contributo politico. Al
contrario, una parte della sinistra extra parlamentare - come il movimento
studentesco di Capanna e Lotta Continua – lo definirono un rivoluzionario ed
esaltarono il suo ruolo nella lotta contro il fascismo per il socialismo.

di Andrea Merialdo (redazione Senza Tregua)

18
Il grande valore della «svolta» non consistette
soltanto nel fatto che il P.C.I. e la Federazione
giovanile riuscirono a essere fisicamente presenti
con molti militanti e quadri dirigenti attivi in Italia,
ma anche nell'aver fatto conquistare a tutto il partito
e alla gioventù comunista alcune posizioni
ideologiche e politiche che non si sarebbero più
perdute: in primo luogo, la persuasione che le
situazioni non si creano spontaneamente, da sole,
che il fascismo non sarebbe caduto come cade una
mela matura, che non sarebbe stato sufficiente
attendere. Anche allora, come durante la Guerra di
liberazione e dopo, fummo decisamente contrari a
ogni forma di «attesismo». Non si attende l'ora X, la
si prepara. Le situazioni si preparano e si mutano
soltanto con la lotta. In secondo luogo, ci
convincemmo che il Partito deve essere sempre alla
testa delle masse, all'avanguardia e non al seguito
delle masse. Certo, non ci si deve mai staccare dal
grosso dell'esercito, perché un'avanguardia isolata
non è più un'avanguardia.

19
Una nuova generazione comunista, dalla FGCI alla ‘svolta’

Quando si parla di Pietro Secchia si è soliti ricordare i grandi meriti che


ebbe come organizzatore della Resistenza, il suo ruolo all’organizzazione del
PCI nel primo dopoguerra, le sue critiche alla linea del partito. Ma spesso si
dimentica che l’attività politica di Secchia iniziò ben prima e che anche nei
primi anni, quelli che precedono gli anni della lotta armata e dell’insurrezione,
Pietro Secchia fu un dirigente di primo piano della Federazione Giovanile
Comunista Italiana e del Partito Comunista poi.
Come gran parte della sua generazione entrò nella Federazione
Giovanile Socialista (FGS). La prima tessera al Partito Socialista la fece a poco
più di sedici anni e da subito si attivò per la creazione di circoli socialisti.
«M’ero messo in testa di volere costruire un circolo giovanile socialista
ovunque c’era una parrocchia. Volevamo strappare i giovani al prete, dare un
apporto di nuove forze sane, attive, alle sezioni del partito socialista. E ci
riuscivamo.» Il giudizio che Secchia diede anni dopo sui giovani socialisti è
molto interessante, e riscontrabile nelle successive scelte storiche che
caratterizzeranno i giovani della FGS.
«Caratteristica di questo movimento giovanile socialista è che esso non
è un piccolo partito di giovani, una scimmiottatura di quello adulto. Non ha
nulla a che vedere neppure con i movimenti goliardici della gioventù borghese
[…] Si trattava di una nuova generazione che entrava nella lotta con lo sviluppo
industriale dell’Italia, con l’entrata dei minorenni nelle fabbriche, con un
orientamento di classe che cercava la sua giustizia, i suoi diritti contro lo
sfruttamento padronale, la sua libertà contro l’oppressione.» Altro merito che
Secchia tributa alla giovanile socialista è legato con una visione
internazionalista e contraria alla guerra, sia nel 1911 con l’intervento in Libia,
sia con la grande guerra. «I giovani socialisti italiani furono tra i pochi in
Europa che non dettero neppure una minoranza favorevole alla guerra
cosiddetta “fascinatrice”».

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Secchia diventa in poco tempo uno dei giovani dirigenti della FGS del
Biellese, vicino geograficamente e politicamente al gruppo torinese dell’Ordine
Nuovo di Gramsci, con cui condivide parte dell’esperienza politica del periodo
dei consigli di fabbrica e del biennio rosso. La Rivoluzione d’Ottobre è l’evento
che cambia la percezione politica di un’intera generazione di militanti socialisti.
Anni dopo paragonerà l’impatto che Lenin e la Rivoluzione d’Ottobre ebbero
sulle nuove generazioni di inizio secolo, con quello che la rivoluzione cubana,
l’esperienza vietnamita e cinese stavano avendo con le generazioni della
contestazione giovanile degli anni ’70. Cambia i giovani socialisti anche nella
percezione del tipo di lavoro da compiere « E’ in questo periodo – scrive
Secchia – che anche in Italia, i giovani socialisti intensificano la loro
propaganda e i loro dirigenti sono processati dai tribunali, perquisiti nei loro
domicili, arrestati nelle fabbriche e nei loro convegni.»
Lui stesso sarà licenziato in quegli anni in diverse fabbriche, trovandosi
ad essere l’unico impiegato a scioperare solidarizzando con gli operai. Su quei
giorni scriverà «Attendevo la rivoluzione come si attende una persona che deve
arrivare da un giorno all’altro.» La sconfitta del biennio rosso e della
rivoluzione in Europa, l’esempio della vittoria in Unione Sovietica spinge
Secchia alla maturazione politica della necessità di costruire un’organizzazione
rivoluzionaria, che sia in grado di divenire il soggetto rivoluzionario in Italia. La
lotta politica interna al PSI si intensifica e «nelle lotte tra le varie correnti e
frazioni che, in quegli anni, di fanno aspre all’interno del Partito socialista, i
giovani parteggiano sempre per quelle di sinistra, contro il riformismo e
l’opportunismo.» È il 1921 e con una scissione dal PSI nasce il Partito
Comunista d’Italia.
Spesso si tende a non ricordare l’importanza che nella scissione e nella
costituzione del Partito Comunista ebbero i giovani della FGS, che passarono in
massa al nuovo partito. Fu la prima delle svolte “generazionali” a cui assistette e
partecipò Secchia ed ebbe un peso rilevante, se non a livello di direzione
politica allora chiaramente in mano al gruppo napoletano di Bordiga e al gruppo
torinese dell’Ordine Nuovo; la vecchia FGS costituì un collante territoriale
fondamentale. Secchia si occupò dell’organizzazione della nuova FGCI in
Piemonte. La generazione dei giovani di allora conta insieme a Secchia nomi
21
del calibro di Longo, Negarville, Li Causi, D’Onofrio. Nomi che costituiranno
la spina organizzativa del PCd’I durante gli anni del fascismo, e che
determineranno con una forte pressione generazionale una vera e propria svolta
politica nella linea del PCd’I. La ragione di questo passaggio in massa dalla
FGS al Partito Comunista, con la conseguente costituzione della FGCI è
spiegata da Secchia con quella caratteristica del movimento giovanile in Italia
«che si è sempre caratterizzato per la sua combattività e per il suo orientamento
a sinistra, prendendo sempre posizione per le tesi più intransigenti.»
Negli stessi anni inizia ad emergere il fenomeno del fascismo. Il
reflusso del movimento di lotta che aveva caratterizzato gli anni precedenti, la
sfiducia per la sconfitta subita e per gli errori del Partito socialista, porteranno
molti giovani ad avvicinarsi al fascismo. «I giovani, soprattutto gli studenti
chiamati all’azione dal fascismo, erano attratti da quel movimento; mossi da
motivi “patriottici”, da interessi di classe, e anche per amore della violenza,
molti diventeranno le avanguardie dello squadrismo.» Proprio per l’incapacità
dei comunisti di reagire a questa condizione si porranno i primi elementi di
dissenso con il gruppo dirigente del partito comunista, e sul ruolo degli “Arditi
del Popolo”. «La chiusura del Partito Comunista a quell’esperienza fu un grave
errore della dirigenza politica del partito, errore contro cui Gramsci scrisse a
lungo. Secchia, che non mitizzò mai l’esperienza degli Arditi e non rinunciò a
metterne in luce anche aspetti contraddittori, tuttavia condannò decisamente
quella chiusura. Con l'adesione agli Arditi del Popolo vi sarebbe stata la
possibilità di realizzare un largo schieramento unitario con altre forze decise a
lottare, ma la direttiva fu che i comunisti dovessero combattere con le proprie
squadre armate. Tuttavia il richiamo quasi costante che in seguito, nei
documenti del P.C.I. e dell'Internazionale comunista, si fece a quel grave errore,
ha sempre avuto un valore più che altro educativo, formativo; non ha mai voluto
significare che il movimento degli Arditi del Popolo avrebbe potuto
capovolgere la situazione allora in atto. Questa fantasiosa illusione, frutto di
fertile immaginazione, contraddice tutta l'analisi della situazione del 1921-22»
Cero scrive Secchia: «se ad ogni colpo fascista si fosse risposto con le
stesse armi, con forza e con audacia i fascisti si sarebbero rotti i denti o
comunque avrebbero trovato molti ostacoli sulla strada della loro teatrale, ma
22
pur tragica per il Paese, marcia di Roma.» e ancora in relazione alla linea del
partito sugli Arditi: « Il settarismo della direzione del partito arrivava a voler
mantenere in vita delle sparute squadre armate di comunisti piuttosto che
aderire ad un’iniziativa che non richiamandosi al alcun partito era suscettibile di
creare un forte movimento unitario di combattenti per la libertà.»
Sarà forse questo uno dei primi dissidi con la dirigenza bordighiana, che
contribuirà ad un progressivo allontanamento dei giovani dal gruppo di Bordiga.
Ma più di tutti è un fatto che accadde nel 1924 e a ricordarlo è lo stesso Secchia,
in quegli anni chiamato nel gruppo centrale della FGCI. «il distacco di Bordiga,
oltre che dall’opera paziente di Gramsci e Togliatti, fu favorito dall’errore
commesso dalla sinistra bordighiana nel 1924, con la costruzione del “Comitato
d’Intesa”, cioè una frazione all’interno del partito. Ma non si poteva, non si
poteva ritornare ai metodi di lavoro che avevano reso impotente il partito
socialista! Fu quello il fattore che accelerò il rapido passaggio dell’intera
Federazione Giovanile Comunista alle giuste posizioni del partito e
dell’internazionale comunista.»
Secchia ricorda i limiti della FGCI e gli errori commessi in quel
periodo. «La Federazione giovanile comunista era un piccolo partito comunista,
era il partito comunista dei giovani. I compiti che noi ci ponevamo erano gli
stessi di quelli del partito, la disciplina era la ferrea disciplina del partito . si
esigevano dai giovani gli stessi doveri,la stessa coscienza dei compagni iscritti
al partito. […] Noi non tenevamo conto che la Federazione giovanile avrebbe
dovuto essere soprattutto un movimento educativo, il movimento dei giovani
che non erano ancora comunisti, ma che si orientavano verso il comunismo.
Non tenevamo conto di soddisfare le naturali esigenze dei giovani, che sono
anche esigenze di divertimento, di sport, di cultura generale, oltre che di lotta
politica. Il carattere ristretto, settario, chiuso della Federazione giovanile
comunista impedì che essa potesse diventare una larga organizzazione giovanile
di massa, ed il numero dei suoi iscritti fu sempre di molto inferiore a quello del
partito.»
Gli anni immediatamente successivi furono quelli del Partito Comunista
ridotto all’attività illegale sotto il fascismo, ai problemi politici ed organizzativi
che si svilupparono in quel momento, che videro il gruppo dei giovani, Longo e
23
Secchia in testa, esercitare un ruolo che sarà di vitale importanza per il partito.
Innanzitutto nell’organizzazione della FGCI Secchia parla delle frenetica e
difficile attività, tra arresti continui, alcuni dei quali anche nei suoi confronti, e
la necessità di diffondere il materiale di propaganda del partito. « Negli anni
1927-28 eravamo talmente occupati a stampare e a diffondere volantini e
giornaletti che trascurammo lo studio e l’impiego di altri mezzi di lotta, quasi
che la stampa potesse servire a tutto [...] Il fascismo voleva impedirci di parlare
e noi intendevamo affermare il diritto di pensare, di parlare e di scrivere;
intendevamo anche dimostrare che il fascismo non aveva la forza per impedirci
l’esercizio di quei diritti.» Ma a mano a mano che la situazione peggiora inizia
a cambiare anche la consapevolezza delle modalità della lotta politica che il
partito deve condurre. Proprio quegli anni vennero definiti “terribili” a causa dei
numerosi arresti e della sostanziale impossibilità di condurre la lotta politica. Il
dissidio emerse sulla differente percezione che si aveva della situazione italiana
tra centro interno ed estero del partito.
«Noi in Italia avevamo l’impressione (almeno io e altri) che il Centro
estero studiasse, discutesse, scrivesse tante belle cose, ma non stesse
sufficientemente dietro alla situazione italiana, alle nostre difficoltà, alla gravità
dei colpi che il partito subiva […] Le risposte specie quelle della Silvia (Camilla
Ravera ndr) avevano un carattere burocratico, sapevano di un tran tran mentre
in Italia la situazione scottava perché gli arresti si susseguivano ogni giorno con
tutte le conseguenze per l’organizzazione.» E’ in questo contesto che maturano
le critiche di Longo e Secchia, anche se il secondo afferma che le sue erano più
che altro organizzative, mentre quelle di Longo erano sostanzialmente politiche.
Le prime osservazioni avvengono alla II conferenza a Basilea, ma i risultati
sono nulli. «Mancò un’elaborazione che portasse a modificare radicalmente
l’impostazione del lavoro e della lotta in Italia. L’errore fu quello di cercare la
soluzione con degli accorgimenti e dei mutamenti organizzativi mentre
avremmo dovuto partire dalla politica.»
«Abbiamo l’impressione che il Partito da un lato sopravvaluti le
possibilità di sviluppo delle azioni legali, le possibilità di organizzare degli
scioperi come se vivessimo in piena legalità, dall’altro che sottovaluti la
situazione di malcontento presente nel paese che per esplodere avrebbe però
24
bisogno di qualche atto clamoroso che sia la spinta. Dalla scintilla scaturirà la
fiamma. Ci sembra che il nostro lavoro quotidiano di redazione e diffusione di
stampa clandestina per invitare genericamente a lottare contro il fascismo non
serva a molto e costi troppo caro. Per essere condannati a vent’anni per aver
stampato un manifesto non è meglio esserlo per aver portato in piazza a
manifestare e agire dei gruppi decisi? Certo è difficile portare subito le masse,
ma l’esempio potrebbe essere decisivo.»
Dopo la conferenza di Basilea nei successivi comitati centrali emerge
tutto il dissenso. La critica sostanziale è la seguente: il Partito comunista
continua a lavorare con metodi tradizionalmente legali, anche se nello specifico
tutta la sua attività è illegale. Al fascismo che lo ha messo fuori legge il partito
risponde con metodi di lotta tradizionale. Il problema verteva sulla differenza
tra il terrorismo e la lotta armata. I compagni più anziani del PCI, fedeli alla
lezione leninista non volevano saperne di azioni di lotta armata, mentre i
giovani guardano al contesto ne parlavano apertamente. Non si trattava tanto di
lotta insurrezionale, quanto un utilizzo a scopo difensivo dell’azione politica,
per iniziare a costruire un avanzamento reale.
Nel 1927 scrive Secchia «nel Partito comunista pesavano le tradizioni
“pacifiche” del movimento operaio italiano, la mancanza di esperienza di lotta
armata, serie azioni insurrezionali non c’erano mai state […] Molte
organizzazioni di base chiedevano insistentemente di fare ricorso anche ad
azioni di lotta armata e per contro il partito respingeva immediatamente ed
energicamente tali propositi. Li respingeva e condannava come deviazioni
terroristiche.» Longo e Secchia si fanno capofila di questa tendenza, che vede i
giovani ma anche le parti più avanzate del partito concordi. Togliatti agì in
questo caso da mediatore nel partito tra Grieco da una parte e Longo e Secchia
dall’altra, ma la svolta definitiva arrivò con la decisione dell’Internazionale, su
pressione di Stalin. La decisione dell’Internazionale nel 1929 definiva in Italia
la lotta armata come «sola soluzione possibile». La ‘svolta’ come comunemente
è nominata fu come si è visto tutt’altro che applicazione acritica di un diktat
sovietico: intervenne a gamba tesa in un dibattito interno già profondamente
incardinato. In ogni caso la nuova linea del partito consentì di preparare le

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premesse politiche ed organizzative per svolgere la funzione che avrebbe
pienamente avuto negli anni seguenti.
«Il grande valore della ‘svolta’ non consistette soltanto nel fatto che il
PCI riuscì ad essere fisicamente presente con molti dei suoi militanti e dei suoi
quadri dirigenti attivi in quegli anni in Italia , ma nell’aver fatto acquisire a tutto
il partito alcune posizioni ideologiche e politiche che non saranno più perdute:
1) la persuasione che le situazioni non si creano spontaneamente; 2) la
coscienza che il partito non può essere presente politicamente se non lo è anche
organizzativamente.» Continua Secchia: « In terzo luogo, capimmo che per
assolvere alla loro funzione, il Partito e con esso la F.G.C.I. non potevano
limitarsi a condurre la lotta dall'estero, ma dovevano essere attivamente presenti
in Italia, nelle officine, nei campi, nei cantieri, perché era in Italia che gli operai,
i tecnici, i contadini, gli studenti lavoravano e vivevano sotto il tallone di ferro
del fascismo. Fummo persuasi che un partito rivoluzionario non può essere
politicamente presente in una situazione se non lo è anche fisicamente, se non
opera laddove ci sono le masse. Il Partito non può essere presente soltanto con
l'idea, ma deve esserlo con l'azione e per guidare l'azione delle masse.» Fu
questo passaggio politico che si concretizzo nel 1929 a consentire al Partito
comunista di mantenere una presenza politica organizzata, spesso frammentaria
e discontinua, per colpa dell’azione costante della polizia fascista, ma essenziale
per quella continuità politica ed organizzativa che mancò agli altri partiti.
In questa svolta Secchia ebbe un ruolo di primo piano, che coincise con
uno dei momenti politici più importanti della storia dei comunisti in Italia. «Qui
ancora una volta si rivelarono il temperamento combattivo della gioventù e la
sua tendenza a voler assolvere una funzione di avanguardia.»

di Paolo Spena (segreteria nazionale FGC)

26
Per mettere in piedi la Resistenza dopo il
settembre 1943 checché ne dicano i poeti, i retori, i
visionari della “spontaneità” ci vollero dei mesi, ci
volle soprattutto il ritorno dalle carceri, dalle isole di
confino e dall’emigrazione dei garibaldini di Spagna,
dei gappisti, e dei partigiani che avevano già fatto la
loro esperienza nei FTP in Francia, il ritorno di
uomini che negli anni delle carceri e del confino
avevano sempre penato alla lotta armata ed avevano
posto nel programma delle università carcerarie,
insieme alle altre materie di studio, quell’arte militare
e dell’insurrezione. Ci volle altresì la partecipazione
dalla resistenza della gioventù che oltre allo slancio
generoso e all’ardimento, che la caratterizzava,
portava pure un’esperienza pratica, quella che si era
fatta negli anni in cui nolente o volente aveva
partecipato alle imprese belliche del
fascismo…Comunque la resistenza armata non sorse
spontaneamente, né per incanto.

27
La lotta armata e l’organizzazione della Resistenza

Il lavoro di Pietro Secchia nella Resistenza italiana, si dimostra sin da


subito imprescindibile. Dopo un lungo periodo di prigionia ed esilio, viene
scarcerato, lui come molti altri compagni, nell'agosto del 1943, nonostante il
malcelato dissenso del nuovo primo ministro Badoglio. In seguito alle tragiche
giornate dell' 8 e del 9 settembre, in cui si videro patrioti italiani cadere sotto i
colpi delle truppe nazi-fasciste, il PCI decise di indire una riunione di
emergenza. Questa si svolse il 10 settembre, da qui vennero dettate le linee
guida da seguire. Secchia (Commissario Politico), Longo (responsabile militare)
e Roasio (ispettore generale) costituirono la prima struttura organizzativa
unificata, a Milano, il comando generale delle Brigate Garibaldi.
L'operato del dirigente comunista ad inscriversi in uno scenario
estremamente difficile. La popolazione italiana, aspramente colpita da vent'anni
di dittatura, si trovava in una fase di difficile interpretazione. Gli stessi
comunisti erano, nonostante i netti miglioramenti dovuti ad anni di faticosa lotta
e propaganda, numericamente provati; basti pensare che appena nel 1926 le
forze dell'allora Pcd'I erano state criticamente ridotte a meno di un terzo degli
effettivi a causa degli omicidi e degli arresti da parte dei fascisti. Le
scarcerazioni e, come detto, la propaganda clandestina, definita da Alfonso
Leonetti, “coscienza delle masse della propria esistenza”, permisero al PCI di
assurgere al ruolo di guida della Resistenza, potendo contare su un maggiore
numero di uomini e sull'indiscussa superiorità, politica e organizzativa, dei
quadri, rispetto alle altre forze antifasciste.
Secchia ebbe un ruolo primario nell’organizzazione della Resistenza,
fenomeno che troppo spesso è stato ridotto a fenomeno spontaneo, istintivo
della popolazione italiana. Di certo la Resistenza godette dell’appoggio esplicito
della maggioranza della popolazione, ma dovette essere organizzata. E Secchia
ebbe un ruolo che non ha eguali in questo processo. Parlando dell’azione svolta
dal Partito Comunista nella lotta armata Secchia ricorda che: « la resistenza
armata non sorse spontaneamente né per incanto, e possiamo anche aggiungere
che in Italia sorse in ritardo: in certe zone della stessa Italia occupata non fu un

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fenomeno di massa, e ciò per la debolezza dei partiti antifascisti e dello stesso
nostro partito.» Colpisce sempre l’enorme capacità autocritica di Secchia anche
in riferimento a fatti che per noi hanno assunto una sfera quasi mitologica.
Secchia ricorda come fin dal 1942 mentre da Radio Mosca Togliatti lanciava
appelli alla ribellione al popolo italiano «nessuno seguì quegli appelli perché lo
stesso partito comunista era debole e per anni e anni era mancata una
preparazione ideologica e pratica alla lotta armata. […] Si deve tuttavia dire che
malgrado errori e ritardi, il PCI si trovò ad essere tra i partiti ed i movimenti
antifascisti, il più preparato come orientamento ideologico, come quadri, come
predisposizione teorica e pratica alla lotta armata. Nessun altro lo era, neppure
lontanamente in tale misura, e questo è uno dei motivi se non il principale per
cui la resistenza armata in Italia è stata organizzata e condotta soprattutto dal
partito comunista.»
Si può comprendere allora per quale motivo l’esaltazione della presunta
spontaneità della Resistenza, tipica degli anni successivi alla guerra, avesse un
fine politico essenziale: ridurre il peso avuto dai comunisti nella lotta per la
Liberazione. Secchia lo dice chiaramente: «la storia della Resistenza viene
falsificata in primo luogo con la tesi secondo cui essa fu un movimento
“spontaneo” al quale parteciparono indistintamente tutte le classi sociali, tutto il
popolo.»
Secchia, si dovette scontrare in modo aspro con quello che era il
pensiero dominante delle forze “reazionarie”, che temevano una possibile lotta
armata condotta dal Partito Comunista. Queste erano più inclini ad adottare una
linea, caldeggiata dal governo americano nonché da ambienti vicini al Vaticano,
di “attesismo”. In pratica, i partiti in questione, propendevano per rimanere in
attesa dell' “esercito liberatore”, visti i successi che stava ottenendo nell'Italia
meridionale, mantenendo una politica di “resistenza passiva” all'invasore
tedesco. Differentemente da quanto si possa pensare, questa “dottrina”, ebbe un
certo seguito anche in ambienti dell'antifascismo “di sinistra”. In molti casi,
infatti, la partecipazione alla Resistenza si limitava soprattutto ad “opere di
bene”, come le definirà il generale Cadorna, piuttosto che al combattimento. Il
fenomeno dell' “attesismo” si rivelò, quindi, un ostacolo particolarmente ostico.
Questa linea di pensiero non fu però circoscritta al solo ambiente politico, molte
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imprese,infatti, forti della scusante “attesista”, continuavano a mantenere saldi i
contatti con le forze dell'Asse e nel contempo contrattare con in partigiani. La
crisi di questo fenomeno venne riportata in un articolo anonimo de “L'Unità”
del 31 ottobre 1943 in cui, in particolare, si fa menzione alle forze interne al
CLN che temevano fortemente una qualsiasi operazione armata da parte delle
masse. Proprio dalle colonne della stampa clandestina, Secchia, eviscerò e
confutò, le fragili tesi “attesiste”. Il tutto avvenne nell'articolo edito presso “La
Nostra Lotta” del novembre 1943, dal titolo “Perché agire subito” (noto anche
come “Agire subito” edito anche da “L'Unità” il 26 ottobre 1943 in maniera
incompleta).
Le principali opposizioni alla lotta armata si limitavano
fondamentalmente alla paura di eventuali ritorsioni naziste, alla presunta
incapacità di incidere nel conflitto e alla debolezza del CLN, incapace di
contrastare una forza bellica come quella della Wermacht. Il dirigente
comunista si batte con tenacia contro questi preconcetti. Condanna la miopia di
questa interpretazione “reazionaria” facendo notare l'importanza della
partecipazione alla lotta di liberazione avrebbe potuto porre l'Italia in uno stato
di non totale sottomissione al “liberatore” anglo-americano a livello politico.
Sottolinea come sia vitale scacciare anche “se solo di un mese o pochi giorni” le
forze nazi-fasciste per evitare i continui saccheggi, che si stavano dimostrando
ben più temibili delle possibili ripercussioni.
L'importanza dell'articolo, tuttavia, non risiede nella sola confutazione
delle tesi attesiste. Vengono infatti espressi dodici punti, dodici domande,
dodici ordini, da parte di “Botte”, questo uno dei nomi di battaglia più
conosciuto del dirigente Biellese (la parte inizialmente non pubblicata
nell'articolo de “L'Unità”). Rappresentano una sorta di “manifesto” delle
organizzazioni partigiane. Vengono spiegate quali sono le azioni che i
comunisti devono assolutamente intraprendere nella difficoltà del periodo
storico che stanno affrontando. Sono indicazioni principalmente di livello
pratico, dal continuo richiamo all'impegno di ogni singolo militante, alla
fornitura di generi di conforto per i compagni sui monti. Il tutto ricordando
l'assoluta necessità di subordinare qualsiasi attività alla lotta partigiana e la

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necessità, imprescindibile, di compiere continui censimenti per poter misurare
la propria forza effettiva.
Si arriva ad affermare nell'articolo sopra citato: « Il censimento è la
cosa prima, la condizione base potere veramente effettuare la “mobilitazione
generale” di tutte le nostre forze per la guerra contro i tedeschi ed i fascisti.
Quanti artificieri abbiamo, quanti mitraglieri, quanti genieri, quanti operai
meccanici, quanti ferrovieri, quanti medici, chirurghi, studenti in medicina,
quanti infermieri, quanti ingegneri, ecc? Quanti sono e dove sono questi
compagni? Tutto questo ogni comitato federale deve sapere, perché ognuno di
questi compagni può essere una forza mobilitabile o per il fronte combattente o
per la sussistenza delle unità partigiane» . Nella pubblicazione “Il Monte Rosa è
sceso a Milano”, scritto a quattro mani con Cino Moscatelli, altra figura storica
della Resistenza italiana, Secchia ricorderà: « Ottobre, novembre, dicembre
furono soprattutto i mesi dell'organizzazione., dell'armamento e
dell'addestramento delle formazioni partigiane. È vero che queste si creavano
ogni giorno nella lotta, che non si poteva attendere di essere forti per cominciare
il combattimento, però un minimo di preparazione era necessario. La maggior
parte delle azioni effettuate nei primi tre-quattro mesi ebbe quasi
esclusivamente come obiettivo la conquista delle armi, delle munizioni e del
materiale necessario alla vita delle formazioni e del combattimento».
Tuttavia il problema organizzativo persisteva forte e incombente nelle
formazioni cittadini. Se infatti le truppe partigiane di montagna crescevano a
vista d'occhio, basti pensare all'incremento registrato in Liguria presso la
Brigata Cichero, comandata dal carismatico Aldo Gastaldi, nome di battaglia
“Bisagno”, altrettanto non si poteva dire per i GAP (Gruppi di Azione
Patriottica). Il PCI è l'unica forza antifascista capace di costituire gruppi saldi,
quantomeno in un primo momento. Secchia stesso nel volume : “Resistenza:
Spontaneità od organizzazione” fa notare come nelle principali città, Genova,
Milano, Torino, i gappisti “non superarono mai i 40-50”. Questo perché, mentre
molti erano i patrioti pronti a partire per la montagna a rischiare la vita, pochi
erano coloro disposti a diventare “terroristi” nelle proprie città. Ciononostante si
ripete ancora che la vera scuola di proselitismo “ viene fatta col sangue dei

31
combattenti” (Paolo Spriano “Storia del Partito Comunista italiano” vol. VII La
resistenza. Togliatti e il partito nuovo” p.212).
Il ruolo di Pietro Secchia resterà sempre quello di commissario politico,
ossia l'uomo che cura il morale dei combattenti, “che tiene l'ora politica ai
partigiani” (P. Spriano, “Storia del Partito Comunista Italiano), che li informa
sull'andamento della guerra, sugli avvenimenti più recenti, sulle decisioni del
CLN, che vigila sulla disciplina delle bande. In particolare il compito del
commissario politico è quello di intessere buoni rapporti con la popolazione,
mantenere e garantire quel tessuto di “resistenza passiva” , di aiuto pratico
indispensabile per la guerriglia. È il ruolo organizzativo principale, nello
svolgerlo Secchia fa più volte riferimento alle parole di Stalin: “Quando la
giusta linea politica è fissata, il lavoro d'organizzazione è ciò che decide di
tutto,compresa la sorte della linea politica stessa, della sua realizzazione o del
suo insuccesso” .
Nel 1943 viene pubblicato ne “La Nostra Lotta” un importante articolo
riguardo il ruolo del partito all'interno della lotta di Liberazione. Si invita a
diffidare dal re Vittorio Emanuele III e dal suo primo ministro Badoglio, rei,
come afferma il dirigente biellese, di non essere limpidamente schierati contro il
fascismo. Ribadisce come gli obiettivi principali che tutti i comunisti devono
perseguire siano quelli della liberazione dal dominio tedesco e della distruzione
del fascismo e come tutto debba essere subordinato ad esso : «deve perciò
essere subordinata ogni altra esigenza, alla realizzazione di tali obiettivi bisogna
far convergere le maggiori forze possibili». Sottolinea come il ruolo della classe
operaia sia quello di assurgere a guida del CLN, visto il maggiore apporto in
termini di uomini e risorse, pertanto senza bisogno di rifiutare l'apporto alla
lotta antifascista di quelle forze reazionarie, tra cui gli stessi monarchici. Il tutto
però senza “far tacere la voce del partito per parlare solo a nome del CLN”.
Già a partire dal 1944 il messaggio politico portato avanti dal PCI
venne ampiamente recepito. Uno dei fatti più eclatanti fu lo sciopero generale
del 1944. Come lo stesso “Botte” afferma, sempre nel libro “Il Monte Rosa è
sceso a Milano” , fu : «il più vasto movimento di massa che abbia avuto luogo
in Europa durante la guerra, nei territori occupati dai tedeschi».

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Le principali città industriali del nord Italia, quelle del triangolo
economico tanto per intenderci, vennero bloccate per giorni. Gli industriali si
mostrarono in generale solidali con le truppe occupanti. Salvo singoli casi, si
rifiutarono di trattare e ricevere delegazioni operaie, arrivarono al punto di
passare le liste degli operai scioperanti alle forze nazi-fasciste, completando il
tradimento celato dietro la maschera dell' “attesismo”, temuta da Secchia. Di
fatto lo sciopero generale segna una brusca battuta d'arresto per la macchina
bellica tedesca. La produzione delle armi si bloccò per una settimana.
Nonostante i tentativi di sminuire questa impresa da parte del Generale Cadorna
nella sua pubblicazione “Alla riscossa”, Secchia, definisce: «così come gli
scioperi del marzo '43 segnarono l'inizio del declino fascista così lo sciopero del
'44 segnò il primo passo verso l'insurrezione».
Rinfrancati dal successo politico e militare che le brigate partigiane
stavano riscuotendo in tutta l'Italia, venne, finalmente invocata l'insurrezione.
Questa si dimostrò fondamentale, perché, come già dimostrato nelle tesi
pubblicate da “La Nostra Lotta” appena nel novembre del 1943 (vedi sopra),
permisero all'Italia di sedersi in una condizione di maggiore forza al tavolo della
pace, seppure questa fu esigua, ma anche di ottenere delle posizioni politiche
che non permettessero la riproposizione dell'Italia prefascista ma che anzi
favorissero lo sviluppo della democrazia. Il movimento insurrezionale vide il
maggior coinvolgimento di classe mai visto prima in Italia. Fu come riconobbe
lo stesso Gaetano Salvemini: “il primo caso dal XIII secolo in cui le masse
contadine parteciparono ad un movimento insurrezionale”. E questo avvenne
anche e soprattutto grazie alla spinta incessante dei comunisti. Nei “Cahiers
d'histoire de la guerre” si afferma che : «I comunisti entrarono in blocco nella
Resistenza attiva. La loro azione si manifesterà in maniera forte specialmente
dal 1943 in poi. Ma sin dall'inizio essi furono temibili per l'occupante sia per la
loro esperienza della vita clandestina, sia per il loro coraggio che per la loro
abitudine a soffrire. Essi fanno entrare nell'organizzazione clandestina e della
Resistenza le masse operaie e urbane. All'azione individuale del sabotaggio, alla
raccolta delle informazioni, alle azioni dei gruppi patriottici e dei partigiani
aggiungono le armi degli scioperi, del sabotaggio della produzione, delle
manifestazioni di massa. Essi non esitano a versare il loro sangue. Forti di una
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esperienza acquisita nella guerra di Spagna, prendendo esempio dalle istruzioni
date da Stalin alle popolazioni dell'Unione Sovietica, organizzano delle
formazioni partigiane, ecc.».
La Resistenza italiana differisce, sempre secondo Secchia, dalle altre
lotte di Liberazione europee. In Italia si è vista una partecipazione massiccia
delle forze operaie (tra il 30 ed il 35%) coadiuvate dal proletariato agricolo
(oltre il 15%); Un paese in cui la lotta partigiana è andata, sempre, di pari passo
con la lotta degli operai e dei lavoratori delle grandi città industriali, senza
contare che molte delle dimostrazioni e delle lotte sindacali, oltre che scopo
agitatorio, ottennero un immediato beneficio a livello politico. Secchia si
dimostrò quindi lungimirante, più di altri, sulla questione dell'intervento.
La Storia ha dimostrato l'utilità dell'insurrezione e della lotta armata,
contraddicendo coloro che da subito schierati con la dottrina attesista, si
ricredettero a metà del '44. Quelle stesse forze reazionarie che cercarono
successivamente di sminuire il ruolo del PCI nella lotta partigiana, derubricando
il suo contributo da vitale, quale è effettivamente stato, a contenuto,
proporzionato a quello delle altre forze antifasciste, se non addirittura di
assurgere loro a reale guida della Guerra di Liberazione.
Anche sotto questo profilo il contributo di Secchia, che negli anni
successivi dedicherà larga parte della sua attività alla difesa della Resistenza e a
spiegare le ragioni di alcune scelte politiche, è essenziale. La questione
dell’insurrezione, su cui le forze più conservatrici all’interno dello stesso fronte
anti-fascista ponevano un freno aveva un valore politico essenziale, per
determinare una rottura tra il vecchio e il nuovo, impedire che con la liberazione
da parte degli alleati, le masse popolari italiane fossero relegate nuovamente a
ruolo di spettatori. Nel libro “Aldo dice 26 x1” (il messaggio in codice con cui
si dette l’ordine dell’insurrezione ndr) Secchia da alcune indicazioni precise sul
modo di concepire l’insurrezione e sul suo significato: «Essa si proponeva
innanzi tutto di cacciare i tedeschi, di liberare il paese prima dell’arrivo degli
anglo-americani. Con l’insurrezione i patrioti si proponevano di assicurare
all’Italia una condizione di forza al tavolo della pace e si preoccupavano di
conquistare posizioni politiche che impedissero il ritorno all’Italia prefascista, ai
compromessi ed alla corruzione dell’aula “sorda e grigia” e favorissero lo
34
sviluppo della democrazia.» L’insurrezione si configurava dunque come atto di
rottura, non di instaurazione del socialismo certamente, ma di netta cesura tra il
prima ed il dopo, nell’ottica della realizzazione di quella democrazia
progressiva, che per primo Eugenio Curiel aveva teorizzato e che il PCI aveva
assunto come linea strategica. Una democrazia nuova, in cui il peso politico
delle masse non si riducesse alle consultazioni elettorali, alla delega ai
meccanismi della democrazia borghese, ma richiedesse un nuovo modo di
partecipazione.
L’insurrezione fu l’evento storico attraverso il quale prima della
liberazione da parte degli alleati l’Italia del nord venne liberata dai partigiani,
con una lotta di massa. Materialmente questo comportava che al momento
dell’arrivo gli alleati trovassero già forme di autogoverno territoriale costituite e
stabili, saldamente sotto il controllo del CLN. Un passaggio politico non da
poco, nella visione dei comunisti allora un argine al pericolo del ritorno
indietro, della semplice restaurazione delle vecchie formule. Quanto poi negli
anni successivi queste posizioni conquistate siano state abbandonate e non
difese con la dovuta lotta è questione nota, e su cui Secchia non lesinò le sue
critiche, ma che esula in parte dalla trattazione diretta di questo aspetto storico.

di Franco Porcù,(redazione Senza Tregua)

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Ecco uno dei motivi del mio malcontento: è giusto
che non ci si pensi più? Che vi siano dei compagni
giovani che non ci pensano mai? Che neppure sul
terreno della propaganda e dell’educazione noi non
poniamo più il problema della conquista del potere da
parte dei lavoratori?

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L’inizio del dissenso sulla linea strategica del PCI.

Uno degli aspetti che rende la figura di Pietro Secchia più importante in
termini di attualità di analisi è certamente la sua critica alle posizioni del Partito
Comunista Italiano. Secchia comprese con larghissimo anticipo il processo di
trasformazione che stava avvenendo in seno al PCI, allora il più grande Partito
Comunista di tutto il mondo occidentale. Lo fece da una posizione di rilievo,
quella di membro della segreteria nazionale, come vicesegretario e responsabile
del settore dell’organizzazione. E lo fece anche in stretta relazione con il vertice
del movimento comunista internazionale.
Lo studio dei suoi scritti, ma anche degli appunti che ci ha lasciato nel
suo archivio è quindi opera di vitale importanza per analizzare quella fase
storica, per comprendere cosa è accaduto e in che modo progressivamente il
Partito Comunista ha abbandonato la sua funzione di partito rivoluzionario, per
accettare il terreno di scontro parlamentare come strada maestra della strategia
del partito. Come ogni processo questa evoluzione del PCI non si compie in un
giorno, non si realizza senza strappi, senza momenti che assumono una funzione
precisa nella storia, ma non si spiega solo con essi. Se è chiaro che il periodo
della segreteria Berlinguer, pur rappresentando l’ultimo momento del
mantenimento dell’idea del Partito Comunista, che sarà abbandonata dalla
successiva generazione di dirigenti, vede un PCI già pienamente corroso dalle
sue contraddizioni, il fenomeno del progressivo mutamento del PCI non arriva
dal nulla. Certo non mancarono strappi profondi, come il famoso discorso
dell’ombrello della Nato, la “fine della spinta propulsiva della Rivoluzione
d’Ottobre” , il compromesso storico. Ma se quei passaggi politici poterono
avvenire, creando sì uno strappo, ma uno strappo in un processo evolutivo
generale, è perché qualcosa già da prima aveva iniziato a mutare la linea
strategica del Partito Comunista ed in questo la sua natura.
Pietro Secchia è il dirigente comunista italiano di più alto livello che
coglie in tutta la sua importanza i primi germi di questo fenomeno. Un inizio
che avviene quando il PCI conta due milioni di iscritti. Un partito enorme, non

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solo per dimensioni, ma per seguito politico e culturale nella società italiana,
seguito ulteriormente amplificato dal ruolo delle associazioni di massa,
sindacato in testa. Un partito uscito vittorioso dalla Resistenza, radicato e
presente a livello di massa; un partito parte integrante di un movimento
comunista internazionale all’apice della sua forza. Eppure proprio in quel
momento avvengono dei passaggi cruciali destinati a mutare il corso della storia
degli anni successivi, che se da un lato vedrà il PCI acquisire sempre maggiore
consenso in termini elettorali, dall’altro porteranno ad un progressivo
snaturamento del fine ultimo del partito. Con questo processo il PCI potrà
diventare per usare la celebre e adatta espressione pasoliniana un paese dentro
un paese, moralmente, culturalmente diverso, ma al prezzo di snaturare
progressivamente la sua funzione, abbandonando ogni prospettiva
rivoluzionaria. Secchia vede questo processo, coglie l’importanza dei primi
elementi che durante la segreteria Togliatti gettano le basi per questa evoluzione
futura; con forza e convinzione diventa portatore di una critica interna a questa
deriva, al punto da essere allontanato dal gruppo dirigente e relegato in funzioni
di secondo piano.
L’analisi di questo processo parte dal primissimo dopoguerra, dal
cedimento di posizioni che il PCI non seppe difendere con adeguata forza,
accettando progressivamente il rientro nell’ambito di una forma di democrazia
parlamentare. Spesso si dice che tale processo fu imposto da Mosca, dalla
dirigenza staliniana del PCUS e che Togliatti non fu altro che un materiale
esecutore della volontà strategica sovietica. Qualcuno esalta questo aspetto, altri
mettono in luce come questo passaggio di direzione Stalin-Togliatti sia stato la
prova dell’accettazione passiva da parte della dirigenza sovietica del mondo
diviso in blocchi e dunque dell’impossibilità che l’Italia uscisse dal campo
occidentale. Entrambe le posizioni sono a loro modo errate perché storicamente
false, e la riprova è proprio quello che Pietro Secchia ci narra di quel periodo. È
rimasta celebre l’episodio di Stalin che avrebbe risposto a Secchia, che chiedeva
l’aiuto sovietico in caso di insurrezione rivoluzionaria in Italia, con un “Niet,
niet, niet”. Tuttavia non è altrettanto noto quanto la dirigenza sovietica non
apprezzasse il modo in cui il PCI stava ripiegando sul terreno della lotta
parlamentare come unico orizzonte di lotta. Se la dirigenza sovietica aveva
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proposto ed approvato svolte tattiche, concepite come momentanee e finalizzate
all’obiettivo specifico della liberazione nazionale, come nel caso della Svolta di
Salerno, era assolutamente chiaro che tale prospettiva non era accettata come
cambiamento strategico generale. Secchia è tra i protagonisti di questa dialettica
interna tra il PCI guidato da Togliatti e Il PCUS di Stalin.
In sostanza si poneva la questione nei termini magistralmente esposti
proprio da Secchia nel 1947 quando si discusse a Mosca della situazione
italiana: “tra il fare l’insurrezione ed il non fare niente ce ne passa”. Cosa era
accaduto? A Varsavia, qualche mese prima, nella riunione dedicata alla
situazione italiana il rapporto presentato da Andrej Zdanov aveva duramente
criticato la gestione operata dal Partito Comunista Italiano all’indomani della
liberazione. I sovietici criticavano l’abbandono delle posizioni di forza emerse
con la Resistenza e la passività con cui il PCI aveva accettato i fatti accaduti nel
biennio 1945-1947. Quando nel 1947 Secchia a Mosca ebbe colloqui con la
dirigenza sovietica la risposta di Secchia fu una completa ammissione delle
responsabilità del PCI, accettando la critica sovietica che poi sarà fatta propria
dal Partito, non senza qualche mal di pancia, nel VI congresso. Zdanov colpito
dalle parole di Secchia gli chiese di metterle per iscritto.
Scrive Secchia nella sua relazione: «Il rovesciamento del governo
presieduto da Ferruccio Parri segnò l’inizio della controffensiva da parte delle
forze conservatrici e reazionarie che si proponevano di impedire lo sviluppo di
un regime democratico, che avevano per obiettivo la restaurazione del regime
capitalista. Nella nostra azione di governo vi sono state senza dubbio debolezze
ed errori, determinate posizioni non sono state difese come avremmo dovuto,
altre abbiamo abbandonate senza impegnare troppo la necessaria lotta». Il
problema individuato da Secchia sempre nella relazione del 1947 è l’incapacità
di legare sufficientemente «l’azione sul piano parlamentare con l’azione
extraparlamentare delle grandi masse».
Secchia cita ai sovietici una relazione di Togliatti senza nominare il
relatore, ma assumendola come posizione del partito: «si afferma che
“l’elemento favorevole a noi è soprattutto il fatto che siamo usciti dal governo
senza dare la parola d’ordine dell’insurrezione, il che ha accresciuto il prestigio
del nostro partito in determinati strati sociali” (la posizione è un estratto del
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rapporto di Togliatti al CC del luglio 1947). Ma riteniamo non esatto questo
giudizio, perché non si trattava già di dare la parola d’ordine dell’insurrezione,
ma di organizzare una grande mobilitazione di popolo, prima ancora che
fossimo esclusi dal governo. Dal non fare nulla al fare l’insurrezione ci corre.
Ci siamo fatti mettere fuori dal governo senza una grande protesta di massa,
senza proclamare uno sciopero generale di ventiquattro o quarantotto ore.»
Secchia comprese anche la necessità strategica di quella battaglia non in
funzione dei rapporti presenti, ma in vista di uno svolgimento futuro: «con tutta
probabilità, anzi, sarebbe stata una battaglia persa, ma vi sono delle battaglie
che occorre combattere anche se si sa di perdere immediatamente. Esse servono
per il domani. In ogni caso ritengo che si perda di più ogni volta che si cedono
posizioni importanti senza dar battaglia.» Non è mistero che Secchia fece una
buona impressione sul gruppo dirigente sovietico, e su Stalin che con tutta
probabilità fece pressione perché al congresso divenisse vicesegretario,
circostanza recentemente confermata, e nota allo stesso Secchia che accenna nel
suo memoriale alla questione. La questione è stata di recente confermata in un
libro di Macaluso (che in genere è bene prendere con le dovute accortezze, ma
in questo caso sembra l’ultima ammissione necessaria) che ha parlato delle
pressioni sovietiche su Togliatti per l’ingresso di Secchia in segreteria.
Di certo dice Secchia «Da quella conversazione risultò evidente che io
avevo espresso delle opinioni che a chi ascoltava dovevano certo apparire un
po’ di suono diverso dalla campana di Togliatti. I sovietici non dovevano essere
molto soddisfatti della politica di Togliatti (pochi mesi prima alla riunione di
Varsavia avevano attaccato duramente il nostro partito). Zdanov a Mosca
parlando con me volle quasi giustificarsi di quell’attacco, dicendo che gli era
dispiaciuto doverlo fare, ma che era necessario lo facesse.»
Queste posizioni non erano posizioni solamente di Secchia ma di un
gruppo nutrito di dirigenti del PCI, la maggior parte dei quali usciti
dall’organizzazione della Resistenza, specie nel nord Italia. Lo stesso Longo
espresse posizioni di critica nelle riunioni dell’ ufficio politico del Cominform
sulla situazione italiana nello stesso periodo. E questo dettaglio non era sfuggito
ai sovietici, i quali avevano grande stima di Togliatti come dirigente
internazionale, ma non condividevano per usare l’espressione di Stalin
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“l’eccessiva fiducia del compagno Togliatti nei meccanismi della democrazia
parlamentare”. L’episodio più interessante a questo proposito fu il tentativo
chiarissimo dei sovietici di porre un cambio di direzione politica allontanando
Togliatti dall’Italia, al contempo valorizzandone la grande figura di dirigente
nazionale.
Ancora una volta Secchia è tra i protagonisti di questo avvenimento.
Quando Togliatti nel 1950 viene operato per un’emorragia cerebrale, su
insistenza di Stalin completa la sua convalescenza a Mosca. Qui Longo e
Secchia, recandosi a far visita a Togliatti vengono messi a conoscenza della
proposta sovietica di assegnare a Togliatti la direzione dell’Informbureau,
rilanciando l’idea di unificazione del movimento comunista internazionale,
dopo lo scioglimento della terza internazionale. La proposta fu formulata ai due
in un colloquio diretto con Stalin, Molotov e Malenkov. Le motivazioni ufficiali
erano due, ma secondo Secchia un’altra era non espressa. Si parlava di
valorizzare Togliatti, che come grande figura del movimento comunista
internazionale avrebbe dato lustro al Cominform, si manifestava la
preoccupazione che un così importante dirigente potesse cadere vittima di
attentati in occidente, e – secondo Secchia – in ultimo si voleva sbloccare la
situazione italiana. Secchia e Longo, dissero che una tale decisione doveva
riguardare la direzione del Partito, e che l’avrebbero posta al loro ritorno a
Roma. Stalin sostenne che in alcuni casi sono pochi uomini a dover prendere
scelte decisive ed insistette per una posizione di Longo e Secchia
immediatamente, che però preferirono consultare il Partito.
Quando a Roma riportarono la proposta, la Direzione del Partito a
larghissima maggioranza approvò la scelta, che a tutti parve un giusto
riconoscimento della statura di Togliatti e un riconoscimento anche al PCI.
Secchia e Longo si recarono nuovamente a Mosca dove trovarono Togliatti
infuriato per la decisione. Secchia racconta che il segretario del PCI volle i nomi
di tutti coloro che avevano votato a favore, e che lo rimproverò particolarmente.
Longo si era astenuto, ma spiega Secchia per una questione di opportunità,
ritenendo che evidentemente sarebbe stato lui a prendere il posto di Togliatti,
cosa che infatti i sovietici volevano con una gestione Longo-Secchia del Partito,
che fosse in qualche modo il ripristino delle esperienze di lotta diretta della
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guerra di Liberazione nel nord Italia. Non se ne fece nulla, Togliatti prese
tempo e volle tornare in Italia e i sovietici compresero chiaramente che con il
suo ritorno l’operazione sarebbe saltata, e che il prendere tempo era in realtà un
declinare l’invito. Nella riunione che tennero insieme a Mosca nel 1951 Stalin,
Zdanov e Molotov con Togliatti, Secchia e Longo prima di congedarsi e tornare
in Italia c’è il curioso episodio di Togliatti descritto in quei giorni con il terrore
che ci fossero incontri riservati di Secchia con i dirigenti sovietici, che per
volere di Stalin fece da traduttore direttamente nella riunione, evitando così che
un funzionario esterno si aggiungesse alla due delegazioni in quella riunione.
Longo e Secchia si accorsero ben presto che Togliatti non traduceva tutto quello
che Stalin diceva fino a quando anche Molotov, accortosi della cosa, protestò
vivamente con Togliatti chiedendo di tradurre tutto.
Ma era chiaro che la dirigenza sovietica aveva provato a fare la sua
parte, riconoscendo i meriti di Togliatti e i limiti che la sua fiducia nella via
parlamentare stava dimostrando in Italia. Cinque anni dopo Secchia, con il
pretesto della nota vicenda Seniga, fu estromesso dalla segreteria del partito.
Nello stesso momento il partito nuovo togliattiano sostituiva i vecchi quadri di
partito provenienti dall’esperienza della Resistenza con nuovi dirigenti. Si è
detto in seguito che la critica di Secchia sia stata legata a questo contesto
personale, della sua esclusione dal gruppo dirigente, ma si tratta di una
sottovalutazione di molti elementi. Secchia stesso nelle memorie che scrive
proprio riferendosi a quel periodo fa i conti con queste accuse.
Per capire Secchia bisogna considerare il suo essere profondamente
uomo di partito, leale al gruppo dirigente di cui faceva parte, fedele all’idea del
Partito Comunista, che nonostante le sue critiche e nonostante vicende personali
di vera e propria umiliazione che sarà costretto ad affrontare, non abbandonerà
mai, tentando sempre dall’interno di modificare con il dibattito e la discussione
la linea politica. Spesso la sua opposizione, per spirito e disciplina profonda di
partito, si manifesterà solo nelle sedi degli organismi dirigenti più ristretti,
evitando qualsiasi attività di possibile frazione interna alla base del partito.
Nel 1957 a quanti lo accusano di aver inventato questa sua
contrapposizione con Togliatti solo dopo la sua estromissione ricorda: « non c’è
nessuno che in buona fede possa affermare di non conoscere che cosa pensavo.
42
Nessuno tra i dirigenti del partito beninteso (chè molte discussioni si sono
limitate al chiuso dell’organismo dirigente), nessuno dei dirigenti del partito
può affermare in buona fede che non conosceva il mio orientamento.» Sono
assolutamente note le sue discussioni con Di Vittorio, ritenuto da Secchia un
freno costante all’azione politica, e con Amendola, che non a caso lo sostituirà
all’organizzazione, nell’ambito del cambio di dirigenti che avverrà nel PCI.
Secchia nel suo memoriale scrive di aver provato un primo disagio
quando all’indomani della Liberazione venne trasferito da Milano a Roma,
trovando quello che definisce un ambiente completamente diverso «i nostri,
inseriti già da tempo, quasi da un anno, nel lavoro parlamentare e ministeriale,
tutti volti ad altri problemi. Compresi allora che per la seconda volta eravamo
rimasti fregati.» Probabilmente Secchia esagera un po’ questo aspetto, nel senso
che non poteva non ritenere la partita ancora aperta, altrimenti si porrebbe una
insanabile contraddizione con tutto quello fatto da lui come dirigente negli anni
successivi. Tuttavia l’immagine della sensazione immediata, di un’impressione
generale resta in tutta la sua forza: la differenza tra Milano e Roma, tra nord e
sud Italia è l’emblema di quel rapporto di tensione tra strumenti politici della
democrazia nuova che i CLN potrebbero incarnare ed il ritorno alle forme della
democrazia parlamentare, che la dirigenza del PCI, in particolare la dirigenza
del centro-sud, che non ha conosciuto la Resistenza come lotta di popolo del
Nord Italia, ha ormai accettato. Quell’elemento di tensione tra il concetto di
democrazia progressiva così come elaborato da Curiel, come nuova forma di
partecipazione delle masse alla vita politica, estranea alla riduzione
parlamentare, e il ritorno ad un parlamentarismo di matrice borghese in cui i
partiti di massa fossero i nuovi attori principali, ma nell’ambito delle regole
generali del sistema parlamentare tradizionale.
«Cosa volevo ? Fare la rivoluzione? No, questa è la solita baggianata, la
solita stolta accusa mossa da chi ha interesse a falsare le posizioni
dell’avversario per poterla combattere e “liquidare”. Non penso affatto che nel
1945 si potesse fare la rivoluzione. Il nostro Paese era occupato dagli anglo-
americani, ecc. Condivido pienamente l’analisi fatta dal partito in quel periodo e
le conclusioni cui è giunto. Ma si trattava di difendere di più certe posizioni e di
fare qualcosa di serio e di positivo quando eravamo al governo.» Secchia
43
dunque non era l’uomo che sognava la lotta armata, per citare il celebre titolo
del libro biografico di Miriam Mafai, a lui dedicato.
In Secchia è costantemente presente quell’idea della difesa della
posizioni acquisite durante la Resistenza, che rappresentavano un rottura tra il
nuovo che si era prodotto ed il vecchio che si cercava di far tornare. Una
condizione essenziale, quella di preservare le proprie posizioni, che avrebbe
consentito un avanzamento lì dove la situazione fosse divenuta più favorevole.
Questo è il centro della critica alla linea politica del PCI in quegli anni. «oggi si
è ceduta una posizione, domani un’altra, dopodomani una terza e alla fine ci si
trova ad aver perso posizioni importanti, e non essere più in grado, anche se si
volesse di lottare con successo.»
E ancora «il pericolo sta nel fatto di non apprezzare appieno le posizioni
che si perdono, di ragionare a questo modo: non vale la pena di impegnare una
grande battaglia per una questione che non è fondamentale e che può
compromettere tutto, vedremo poi. E così, di posizione in posizione, che prese
ad una ad una sembrano di non grande importanza, si finisce poi per perdere,
se esaminate nel complesso, posizioni decisive.» La crescita del PCI non è
accompagnato da altrettanta consapevolezza politica, e strategia politica e il
rischio è che queste nuove forze non siano in grado di dare un contributo reale
di avanzamento. «Per contro – scrive Secchia – ho il timore che malgrado i
numeri di voti, di iscritti al partito, ai sindacati, le posizioni nei comuni, nelle
province, in parlamento, la larga influenza, se non ci impegniamo con
decisione, se il governo De Gasperi dovesse consolidarsi, si creerebbe per noi
una posizione sempre più difficile, una situazione di cedimenti e di ritirata tale
che ci porterebbe via via a perdere tutto e a trovarci in un regime diverso, di tipo
reazionario, senza neppure aver dato battaglia.»
Quanto la posizione di Secchia sia stata successivamente trasformata e
banalizzata lo si può cogliere nel suo giudizio sull’attentato a Togliatti e quello
che accadde nelle ore immediatamente successive. «così pure non è vero ciò che
alcuni credono e che altri lasciano credere e cioè che io al 14 luglio del 1948
fossi per l’insurrezione. Sarebbe stata una pazzia. Non esito ad affermare che io
anzi, in tale occasione, esercitai un’influenza decisiva perché si tenessero i nervi
a posto» Chiunque legga uno scritto di Pietro Secchia si renderà
44
immediatamente conto delle sue spiccate capacità organizzative, della sua
capacità di lettura immediata della situazione e dei rapporti di forza. I suoi
scritti sono pieni di dettagli che egli analizza, ponendoli a fondamento di ogni
scelta politica. Anche per l’attentato di Togliatti non è da meno, e trovo
importante citare alcune riflessioni per comprendere la situazione.
«Ogni ragazzo di scuola – scrive Secchia nel suo memoriale – sa che le
insurrezioni non si improvvisano, ma si preparano. Non sono tre colpi di
rivoltella e nemmeno la ferita mortale o no di Togliatti o di un altro dirigente
che può di colpo rendere matura la situazione per l’insurrezione vittoriosa. Tutti
sappiamo che per l’insurrezione sono necessarie alcune condizioni essenziali,
tra l’altro una larga influenza tra le forze armate, dei collegamenti saldi con una
parte almeno dei loro comandi. A prescindere da tante altre condizioni. Ciò che
mancava, le condizioni, che mancavano alle ore 10 non potevano essersi create
alle ore 12 soltanto perché Togliatti giaceva in un ospedale. Se mai, nel caso
una certa preparazione ci fosse stata e comunque ci fosse stata una situazione
nazionale ed internazionale che avesse consigliato di andare a fondo, avremmo
dovuto allora agire immediatamente sin dalle prime ore; dopo sarebbe stato
troppo tardi. Del tutto falso quindi che io pensassi possibile il 14 luglio andare
a fondo. No, non lo ritenevo possibile ed agii di conseguenza.»
Questo era dunque il giudizio politico di Secchia, che rimase fedele a
quell’idea di democrazia progressiva, di gioco aperto nell’ambito di quello che
il contesto nazionale ed internazionale consentiva; una strategia che per Secchia
doveva essere quella di mantenere le posizioni acquisite e conquistarne di
nuove, attendendo un mutamento dei rapporti di forza che avrebbe consentito al
PCI di avanzare ulteriormente. La rivoluzione, l’insurrezione, in Secchia non è
la proposta politica all’ordine del giorno, ma il fine necessario a cui un Partito
Comunista deve comunque guardare. Si coglie in lui l’enorme preoccupazione
per la mancanza di questa visione strategica generale, per il completo
abbandono di questa prospettiva su un piano non di ripiegamento momentaneo
dovuto alle condizioni, ma di accettazione di un diverso terreno di lotta,
destinato inevitabilmente ad essere progressivamente sconfitto. «Ecco uno dei
motivi del mio malcontento: è giusto che non ci si pensi più? Che vi siano dei
compagni giovani che non ci pensano mai? Che neppure sul terreno della
45
propaganda e dell’educazione noi non poniamo più il problema della conquista
del potere da parte dei lavoratori?»
Quanto suonano preveggenti queste parole a noi che abbiamo la
possibilità di guardare alla storia passata dall’alto della prospettiva degli
avvenimenti già accaduti. Quanto la sua critica alle nuove generazioni di
dirigenti comunisti sia calzante rispetto a quello che si produsse nel futuro
immediato. Questo è l’atto di accusa più forte ai limiti del partito nuovo
togliattiano, alla rimozione dei vecchi quadri dirigenti del partito e alla
sostituzione con nuovi giovani che “non ci pensano più”, neanche come
prospettiva. La storia successiva del PCI vede in questo momento iniziale
contraddittorio e pieno di esperienze gloriose, della forza di un partito di massa
enorme, l’inizio delle sue contraddizioni, che negli anni successivi proprio
quella generazione di dirigenti promossa da Togliatti andrà ad acuire sempre di
più.
Una delle più profonde lezioni che Secchia lascia è a mio parere quella
espressa proprio in un passaggio della sua relazione a Mosca, che credo ogni
comunista debba incorniciare. Quella tensione dialettica tra presente e futuro
per cui si può e si deve combattere alcune battaglie anche quando si ha la
consapevolezza che esse nell’immediato porteranno ad una sconfitta, sapendo
che la difesa di quelle posizioni, anche se prettamente strumentale è efficace ad
avanzare nel futuro. In questo senso una battaglia combattuta non è mai una
battaglia persa, perché sulla premessa di una posizione difesa, di una battaglia
combattuta con coerenza e convinzione è possibile costruire le premesse
necessarie per la vittoria nel futuro.

di Alessandro Mustillo (segretario nazionale FGC)

46
Saper scoprire le qualità che esistono in ogni
individuo, saper ben utilizzare queste qualità, studiare i
pregi e le insufficienze di ogni compagn, saper
collocare ognuno al posto che meglio risponde alle sue
attitudini, questo è uno dei compiti fondamentali
dell’organizzatore.

47
La lezione di Secchia: l’arte dell’organizzazione.

Dal V congresso del PCI (1946), Pietro Secchia diventa responsabile


nazionale dell'organizzazione, carica che mantiene fino alla IV conferenza
d'organizzazione del 1954 nella quale viene rimosso e sostituito da Giorgio
Amendola, a seguito delle note vicende del “caso Seniga”. Durante la sua
direzione del dipartimento d'organizzazione il PCI raggiunge i 2.300.000
iscritti, cifra che non verrà più avvicinata in seguito, né dal PCI né da nessun
altro partito. Ma il raggiungimento di una tale cifra di iscritti, che dalle miserie
attuali ci impressiona enormemente, non era certo privo di contraddizioni, così
come il meccanismo organizzativo del PCI non era privo di errori e storture. E
forse uno dei contributi più importanti di Secchia è proprio quello di individuare
questi errori e di fornire una visione chiara (e alternativa a quella di altri
dirigenti del PCI) del suo modo di intendere l'organizzazione, che poi è quello
correttamente e coerentemente leninista calato nella realtà italiana del suo
tempo.
Che cosa intende quindi Secchia per "organizzazione"? «Essa deve
essere lo strumento più efficace per la realizzazione della politica del Partito,per
la mobilitazione delle larghe masse popolari, per il raggiungimento degli
obiettivi che di volta in volta il partito si pone. L'organizzazione non può e non
deve essere dunque concepita come cosa a sé stante, ma come uno strumento
politico. Nulla si può realizzare, neppure la più semplice delle iniziative
politiche se non per mezzo dell'organizzazione.» E nell'essere lo strumento
attraverso il quale il Partito realizza la sua politica, non può essere diviso da
essa forzosamente, non può diventare elemento isolato.
Proprio sull'inscindibilità tra organizzazione e politica, che poi non è
altro che la concretizzazione sul piano dell'azione pratica del Partito di un nodo
teorico fondamentale del marxismo come l'inscindibilità tra teoria e prassi,
Secchia insisterà sempre molto: «Impossibile perciò fare una netta distinzione
tra politica e organizzazione. Non si può ad esempio ritenere che vi possa essere
una situazione od una località ove politicamente si va bene, se in quella località
o situazione le cose vanno male organizzativamente.»
48
A partire da questa considerazione fondamentale, si può capire come
Secchia, per tutta la sua vita di militante ma in maniera di sicuro più incisiva fin
quando ha fatto parte degli organismi dirigenti del PCI, abbia posto sul piano
organizzativo una serie di questioni che andavano di pari passo con quelle che
poneva sul piano politico. E si può capire anche come tutto quello che è
organizzazione incide anche su quello che è il livello politico del Partito, e la
grande lucidità con cui Secchia individua in alcune tendenze negative ed errori a
livello organizzativo dei semi di gramigna che si innesteranno nel PCI e sul
medio periodo contribuiranno a determinarne la degenerazione.
Quali devono essere le fondamenta del Partito? Cioè, su che base deve
essere organizzato? In maniera del resto concordo con quella che era la linea del
PCI già dal 1924, Secchia, fedele alla lezione gramsciana e del gruppo
dell’Orinde Nuovo, sosteneva l'organizzazione sulla base delle cellule di lavoro
nei luoghi di lavoro. «Il partito di massa dei lavoratori, il partito della classe
operaia, doveva trovare un sistema d'organizzazione capillare che gli
permettesse di toccare, collegare, unire ed attivizzare il numero più grande di
lavoratori, che desse la possibilità all'avanguardia della classe operaia di
assolvere alla sua funzione dirigente. Il sistema d'organizzazione sulla base
delle cellule di fabbrica aveva già al suo attivo una grande, positiva esperienza:
quella del partito bolscevico, la cui politica era stata coronata dal più grande
successo storico.» Ma ancora durante il periodo in cui Secchia è a capo
dell'organizzazione lo sviluppo di questo "sistema d'organizzazione" presenta
svariati problemi, dovuti sicuramente ai vent'anni in cui il Partito era stato
costretto alla clandestinità ma anche alle contraddizioni portate dal "partito
nuovo" togliattiano. Nelle sue relazioni sullo stato dell'organizzazione insiste
sempre sulla necessità di rafforzare le cellule di lavoro, in special modo nelle
fabbriche, e di come da questo passi il generale rafforzamento del Partito e della
sua capacità di porsi praticamente alla testa della lotta della classe operaia. E a
quelle federazioni che giustificavano le loro mancanze in questo senso con le
difficoltà che di volta in volta venivano poste dalle offensive degli industriali,
dalla divisione dei turni di lavoro, dalla separazione fisica dei settori di una
stessa fabbrica e così via, non esitava a rispondere «sono tutti questi problemi
che posso e devono essere risolti, se innanzi tutto si è convinti che l'azione per
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rafforzare l'unità della classe operaia dev'essere condotta, diretta e sviluppata
innanzi tutto là dove la classe operaia si trova.»
Secchia invita poi anche ad evitare una lettura eccessivamente
schematica e burocratica delle direttive che arrivano dal centro, e ne sostiene
una lettura sempre dialettica, che tenga conto del metodo di lavoro ma anche del
risultato da ottenere. Ma il problema che più lo preoccupa a livello di base è la
presenza nel partito di una grande massa di iscritti inattivi. Un numero troppo
consistente di cellule non si riuniva, molte altre si limitavano a riunioni di
carattere prettamente pratico, escludendo di fatto una massa enorme di iscritti
dalla discussione politica e dal contributo dell'elaborazione della linea. Il PCI si
ritrovava così ad essere (ed in seguito la situazione, venuto meno l'argine
costituito da Secchia, non fece altro che peggiorare sempre più velocemente)
una macchina pachidermica che però non riusciva a realizzare la sua linea
politica in maniera efficace a livello periferico, che non riusciva a tramutare le
direttive in lavoro quotidiano nei luoghi della produzione, nei luoghi del
conflitto di classe. Chiaramente su questo pesava anche i gravi errori politici
commessi dal PCI già nei primi anni del dopoguerra. E proprio
nell'arrendevolezza generalizzata che derivava da alcune posizioni decisamente
poco combattive espresse dal Partito, Secchia individua un problema anche
riguardo alle cellule di lavoro.
«Non sempre all'offensiva padronale contro i comunisti nelle fabbriche,
corrisponde una controffensiva ed una maggior cura per rafforzare la nostra
organizzazione e per migliorare l'attività dei nostri compagni nelle fabbriche.
Alle volte vengono alla luce tendenze a cedere terreno, a capitolare, a
concludere che il partito può funzionare meglio se organizzato fuori della
fabbrica sul luogo di abitazione.»
Partendo da questo e inserendolo nel quadro generale di "evoluzione"
del PCI, non stupisce di certo che durante il XIII congresso la formula
organizzativa delle cellule di lavoro venne abbandonata a favore
dell'organizzazione su base territoriale, un salto indietro di 50 anni le cui
conseguenze non vanno sottovalutate. Secchia, invece, individuava proprio nel
funzionamento corretto delle cellule uno degli elementi che doveva contribuire
ad abbattere l'inattività degli iscritti. «Una cellula di officina ed assolve al suo
50
compito [...] in quanto riesce ad attivizzare tutti i suoi iscritti, a orientarli bene, a
dirigerli nell'attività che essi devono ogni giorno svolgere all'interno della
fabbrica.»
Vista da Secchia anche in relazione al problema dell'inattività degli
iscritti, un'altra questione su cui sono estremamente significative le sue
riflessioni è quella del rapporto partito - organizzazioni di massa, e dei limiti
che aveva il PCI nel affrontarlo. Da una parte c'era sicuramente la mancanza di
lavoro quotidiano diffuso ed omogeneo nelle organizzazioni di massa, spesso,
anzi, questo lavoro veniva delegato in manera particolare ad un numero ristretto
di militanti. C'era una certa difficoltà a capire la differenza tra il lavoro del
partito e quello delle organizzazioni di massa (che non possono che essere
qualitativamente differente), e nel capire in maniera specifica l'importanza del
lavoro proiettato verso l'esterno . Si sottovalutava la funzione di cinghia di
trasmissione delle organizzazioni di massa, del ruolo di coinvolgimento nella
lotta economica e politica della classe operaia (compito specifico del sindacato),
del ruolo di rafforzamento e di ricomposizione dell'unità dei lavoratori, del loro
ruolo nell'allargamento dell'influenza del Partito nella società e della sua
capacità di mobilitazione. E si dava poco risalto al lavoro che invece veniva
fatto in questo senso, si tendeva a trattare il tutto come una questione interna.
Ma proprio nel delineare questi limiti, Secchia ci indica per contrasto il corretto
modello leninista di intendere il rapporto tra Partito e organizzazioni di massa.
«Il problema dell'unità della classe operaia e dell'allargamento delle
alleanze pone al Partito sul terreno organizzativo non solo la questione del
rafforzamento dell'attività dei comunisti nei sindacati e per i sindacati, ma del
rafforzamento dell'attività dei comunisti in seno a tutte le organizzazioni di
massa e verso i lavoratori senza partito e aderenti agli altri partiti. Questa
attività deve svolgersi apertamente, politicamente. Non deve essere un'attività
chiusa, ristretta, sviluppata solo da un numero limitato di compagni.»
Da un'altra parte però, questi limiti sono imputabili anche a ciò che
arrivava dal centro, e da una certa teoria del Partito. E' su questo campo che
probabilmente il "partito nuovo" togliattiano cozza di più con la concezione
leninista del Partito. Un partito di massa inteso non come un partito con un
saldo legame con le masse ed una forte capacità di dirigerle partendo dal ruolo
51
centrale della classe operaia e della sua avanguardia organizzata, ma inteso
come un immenso contenitore del "popolo italiano". Chiaramente un'idea di
partito simile non può che creare un'enorme confusione nei rapporti con le
organizzazioni di massa, abbandonando alcune delle caratteristiche
fondamentali del Partito leninista e abbracciando quelle proprie delle
organizzazioni di massa.
Secchia, pensando sì ad un partito di massa, ma basato saldamente sui
principi leninisti, analizzò con chiarezza il problema. «Noi abbiamo creato un
partito che è più largo delle organizzazioni di massa e che praticamente si
sostituisce ad esse. Con troppa faciloneria si dice che l'attivista deve essere
attivo nel partito, nel sindacato, dei partigiani della pace e così via. L'operaio
che lavora 8 ore al giorno in fabbrica alla sera è stanco e se va alla riunione del
partito non può andare a quella del sindacato. Occorre distribuire meglio le
nostre forze ed i nostri attivisti. Ogni organizzazione di massa deve avere il
proprio attivo. Il partito deve esercitare la funzione dirigente e non sostituirsi
alle organizzazioni di massa.» Ovviamente non possono mancare in una
trattazione seppure parziale dell'organizzazione secondo Secchia alcune
considerazioni su coloro che devono mettere in pratica per primi le direttive
organizzative, ma anche contribuire ad elaborarle: i quadri. I quadri sono tanto
le ossa quanto i muscoli del Partito, ne costituisco la struttura fondamentale che
ne permette l'esistenza, ma sono anche coloro che gli permettono di agire
concretamente ed in maniera dinamica nella realtà, nel porsi alla guida della
classe operaia e del blocco sociale che le si accoda.
Per prima cosa, quali devono essere le caratteristiche di un quadro?
«Così non può essere un buon organizzatore il semplice praticista, il tecnico, lo
specialista che non si interessa di politica. e che non unisce costantemente al
lavoro pratico, organizzativo, lo studio. La pratica costante giova molto, ed è
vero che l'uomo pratico acquista materialmente le cognizioni di un determinato
numero di soluzioni e sa trovare il rimedio a molti difetti ordinari di una
organizzazione. Però se quest'uomo non sa elevarsi sino a trovare il nesso, il
legame della politica con l'organizzazione, sino a comprendere quali sono le
esigenze di una determinata linea politica e gli obbiettivi che essa si propone,
egli saprà regolarsi in condizioni uguali a quelle di cui ha già esperienza, ma
52
non saprà regolarsi nei casi dissimili e cioè nelle infinite circostanze di
situazioni e di condizioni, nelle diverse fasi di sviluppo della vita di un partito.»
Un quadro non può essere un puro teorico tanto quanto non può
limitarsi solamente all'attività pratica. Da una parte deve formarsi nella lotta,
acquisendo esperienza e imparando dedizione, spirito di sacrificio e lealtà.
Dall'altre deve essere adeguatamente preparato dal punto di vista politico ed
ideologico. Sicuramente questa preparazione la deve raggiungere attraverso lo
studio, con il suo contributo personale e la sua forza di volontà, ma il ruolo
fondamentale di formazione politico-ideologica deve essere chiaramente svolto
dal Partito. Un quadro preparato sarà quindi in grado di svolgere uno dei suoi
compiti, cioè la capacità, data da esperienza e consapevolezza politica, di agire
in maniera sicura e tempestiva in qualsiasi situazione. Un Partito in grado di
formare il numero necessario di quadri avrà quindi una capacità di risposta
politica in tempi molto rapidi, ed anche una capacità di "ascoltare e capire" le
masse con un'immediatezza che può rendere di gran lunga più efficace la sua
lotta. E sarà anche in grado di rendersi impermeabile alla propaganda nemica,
che altrimenti può portare a veri e proprio disastri sul piano delle valutazioni
politiche ed ideologiche.
In questi passaggi Secchia riscontrava parecchi limiti nel PCI, anche in
quello appena uscito dalla Resistenza. Un'altra caratteristica di un quadro è
quella di non limitarsi al suo lavoro, ma di organizzare anche quello dei
militanti di cui è responsabile. E per farlo deve sviluppare anche una profonda
capacità di capire anche sul piano umano i compagni con cui lavora. «Un
organizzatore politico non dev'essere solo un uomo dotato di facoltà di
osservazione e di analisi, capace di scorgere, abbracciare e coordinare i dettagli,
deve non solo possedere energia, dinamicità, resistenza al lavoro, ma deve
possedere quella conoscenza, quella capacità di comprensione dell'elemento
umano del quale è composta un'organizzazione. L'organizzatore politico deve
possedere queste qualità in misura maggiore che non l'organizzatore industriale
il quale esercita la sua funzione solo in parte su cose vive. L'organizzatore
politico non esercita la sua volontà su delle macchine, su della materia inerte o
su degli uomini che assolvono ad una funzione meramente meccanica ed in

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certo senso passiva ma lavora invece con degli uomini che agiscono e
reagiscono in piena coscienza.»
Con giudizio politico e capacità di comprensione dell'elemento umano,
un buon quadro può far lavorare al meglio i militanti di cui è responsabile,
coniugando gli obiettivi del Partito con le inclinazioni personali dei singoli. Dei
buoni quadri che svolgono bene il loro lavoro e che siano ben amalgamati e
parti integranti di una discussione collettiva di livello sono elementi chiave per
la costruzione di un Partito vitale, capace di elaborare una linea politica corretta
e di realizzarla con efficacia. Conseguentemente, per Secchia, il Partito deve
produrne nel più alto numero possibile, cosa che gli permettere di estendere
sempre di più il suo radicamento. «Nel partito vi è lavoro per tutti e vi è
deficienza di quadri. Non dobbiamo quindi avere alcun timore ad imprimere
maggior slancio ad una politica di quadri che faciliti lo sviluppo e l'ascesa dei
giovani quadri a posti di maggiore responsabilità.»
In questo tornano a giocare un ruolo molto importante le cellule di
lavoro, che permettono l'avanzamento di quadri di estrazione operaia all'interno
del partito in numero assolutamente maggioritario, al contrario di quanto
avviene ed è storicamente avvenuto quando i partiti comunisti hanno scelto
l'organizzazione su base territoriale. Ed è questo un elemento organizzativo che
può incidere non poco anche sulla linea politica del Partito. Ma quali sono i
criteri secondo i quali un quadro deve essere scelto per avanzare nel Partito?
Prima di tutto deve essere stato capace di svolgere quello che è il compito che
forse distingue di più i quadri, cioè deve essere stato capace di formare uno o
più quadri pronti a prendere il suo posto. «Quando un compagno dirigente di
un'organizzazione dopo tre, quattro anni di lavoro non ha saputo formare, non
dico dieci, ma uno o due compagni in grado di sostituirlo nella direzione di
quell'organizzazione, significa che quel dirigente è mancato completamente in
uno dei suoi compiti principali, significa che quel compagno manca di una delle
qualità essenziali del dirigente: saper fare lavorare i compagni, educarli,
formarli, portarli avanti.»
Ci sono poi, secondo Secchia, altri due criteri fondamentali per la scelta
e l'avanzamento dei quadri: 1) la lotta, i quadri dirigenti non devono essere
scelti al di fuori di essa. «E' l'attività, è la lotta che porta avanti i migliori, che
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smaschera i chiacchieroni, gli inconcludenti, che rivela i militanti di valore, i
compagni che lavorano e sanno realizzare. E' l'attività, è la lotta che opera la
vera selezione dei militanti siano essi operai o intellettuali, che rivela le loro
qualità e i loro difetti» 2) il risultato del loro lavoro. «... dobbiamo tener conto
nel giudizio del quadro, innanzi tutto dei risultati del suo lavoro.»
Chi rispetta tutti i criteri deve essere chiaramente valorizzato, ma ciò
non significa che chi non li rispetta non debba esserlo altrettanto, sebbene in
maniera diversa. «Una politica di quadri non la si fa, là dove non c'è studio, non
c'è lavoro per utilizzare meglio i quadri, per spostare certi compagni da
un'attività all'altra, per migliorare la composizione di certi organismi dirigenti.»
Bisogna trovare ad ogni quadro il suo posto, quello in cui rende al meglio per il
Partito, cercando di utilizzare al meglio tutte le forze che si hanno a
disposizione ed evitando di perderne per strada. Si tratta di avere la pazienza di
studiare ogni quadro, di capirne le inclinazioni e non di provare ad assegnargli
responsabilità a caso. Certo non bisogna aver paura di cambiare, ma bisogna
anche evitare di cadere nell'eccesso opposto, e cioè stravolgere in continuazione
la struttura del partito. Anche là dove si riscontrano problemi, bisogna pensare a
come risolverli prima di cambiare.
«Non basta constatare che questo o quest'altro compagno ha dei difetti,
delle lacune per toglierlo da un determinato posto, occorre innanzi tutto aver
trovato chi farà meglio di lui al suo posto.» Per portare avanti una buona
politica di quadri è quindi necessario preoccuparsi di evitare tanto il "nuovismo"
a tutti i costi, perchè è inutile, ad anzi molto probabilmente dannoso, sostituire
anzi tempo un quadro che si fa carico delle sue responsabilità al meglio,
ottenendo risultati in maniera conforme agli obiettivi del Partito, quanto il
"conservatorismo" esasperato, che non lasci spazio alla formazione e
all'avanzamento dei migliori trai nuovi quadri. «Dobbiamo utilizzare tutte le
energie, avere la massima cura dei quadri che hanno dato tante prove di
attaccamento e di fedeltà al partito, non dobbiamo disperdere un capitale
prezioso, ma si tratta anche di far avanzare con maggior coraggio i giovani
quadri. I giovani assieme ai quadri più anziani che hanno maggiore esperienza,
devono partecipare più largamente non solo all'attività, ma alla direzione delle
organizzazioni di partito e dei lavoratori.»
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Con una giusta politica di quadri, una giusta concezione degli organismi
dirigenti di partito, visti come luoghi in cui si dirige a livello effettivo l'attività
del Partito e si elabora la linea al livello più alto, ed una giusta dialettica tra
questi organismi dirigenti, i quadri intermedi e la base, si costruiscono un
Partito ed un gruppo dirigente in grado di adempiere al loro massimo compito
storico.
Perché dedicare tutto questo spazio al contributo di Secchia come
organizzatore, quando larga parte della sua produzione più politica a pelle
suscita sicuramente molto più entusiasmo? Il valore degli studi, delle riflessioni
e delle idee di Secchia sull'arte dell'organizzazione è chiarissimo a quanti si
pongono sul terreno della ricostruzione pratica del Partito comunista in Italia
oggi.
«La formazione e lo sviluppo dei quadri è il compito fondamentale di
un'organizzazione, l'utilizzazione di tutte le forze di cui il partito dispone, saper
aumentare giorno per giorno queste forze ed il loro rendimento, riuscire ad
indurre ogni compagno a migliorarsi quotidianamente e ad impegnare tutta la
sua volontà tutte le sue energie fisiche ed intellettuali nell'interesse del partito,
nella realizzazione della linea politica del partito: in questo consiste
essenzialmente l'arte dell'organizzazione.»

Di Lorenzo Lang (segreteria nazionale FGC, resp org)

56
Sono consapevole della gravità dei miei errori
che denotano che ho lavorato con estrema leggerezza,
con bonomia, con mancanza di vigilanza […] Mi rendo
conto che questo non significa saper dirigere.

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Il caso Seniga e l’estromissione dal vertice del PCI.

"Il caso Seniga" fu la causa ufficiale dell'allontanamento di Secchia dai


vertici del Pci. Prima di analizzare politicamente questo fatto è interessante
ripercorrere brevemente la vita di Giulio Seniga. Giulio Seniga era membro del
Pci dal 1943, dopo l'8 settembre partecipò alla costituzione dei primi nuclei
partigiani delle zone di Como e di Milano.
Espatriato in Svizzera per fuggire all' arresto aderì, dopo un incontro
con Terracini e Ravera, al Partito. Rientrato in Italia nel 1944 entrò nelle
Brigate Garibaldi della Val Dossola dove conobbe Cino Moscatelli. Qui assunse
l'incarico di guidare il Partito all' interno delle brigate. Con la liberazione
proseguì la sua carriera politica assumendo l'incarico di responsabile
dell'organizzazione nella federazione di Novara e successivamente in quella di
Cremona.
Qui si dedicò con particolare dedizione al lavoro politico e maturò
numerose critiche al nuovo corso di Togliatti. Particolare fu la sua avversione
all'”Amnistia Togliatti” e all'apertura verso i ceti medi.Nel giugno del 1946
iniziò a frequentare le scuole di Partito a Roma, dove si accentuarono le sue
convinzioni riguardo la necessità di una linea rivoluzionaria per il Partito.
L'anno seguente fu chiamato a lavorare alla Commissione nazionale di
organizzazione guidata da Secchia, con il quale iniziò una stretta amicizia
dovuta anche ad una forte affinità politica, e anche al fatto che entrambi
avevano vissuto" il vento del nord".
Come Secchia, mostrò insofferenza verso l'ambiente romano del Partito
che, rispetto a quello del nord appena liberato, era molto più impegnato in una
politica istituzionale e graduale. Vista l'affinità politica, Secchia gli affidò
responsabilità sempre maggiori, fra cui quello di gestire con lui i depositi segreti
del Partito. Nel luglio 1948 fu poi nominato Vice Responsabile della
Commissione Nazionale di Vigilanza, incarico che gli permise di conoscere a
livello personale i principali esponenti comunisti, fra cui Togliatti.

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Dopo l'attentato a Togliatti e le conseguenti proteste vi furono i primi
dissidi con Secchia, accusato di aver spento, insieme a Luigi Longo, le proteste
impedendo che si potesse creare una situazione rivoluzionaria.
Il dissidio crebbe fino al 1954, quando Seniga decise di sottrarre da una
serie di depositi segreti del Partito somme di denaro (si ipotizzò che
corrispondessero a 50 000 dollari), libri contabili e documenti. Il gesto fu
rivendicato, tramite una lettera indirizzata a Secchia, come un gesto di protesta
contro un partito di opportunisti, responsabili di aver portato il proletariato ad
una politica fallimentare. La fuga, iniziata il 25 luglio fu scoperto dallo stesso
Secchia due giorni dopo, e con essa la mancanza dei documenti e del denaro.
In questa lettera Secchia fu accusato di essere un “finto sinistro” e di
aver illuso con le battaglie interne all'organizzazione. Successivamente al fatto
il percorso politico di Seniga fu molto oscillante. Immediatamente dopo il gesto,
creò insieme ad altri dissidenti interni ed esterni al Pci un gruppo chiamato
“Azione Comunista”. L'obiettivo di questa organizzazione era quella di creare
una “corrente” rivoluzionaria all'interno del Partito continuando a sostenere sul
piano internazionale l'Unione Sovietica.
Dagli anni '60, a seguito della sua espulsione dal gruppo da lui create,
iniziò un graduale avvicinamento al Psi di Nenni, sostenendo la necessità di un
rafforzamento di un Partito socialista autonomo dai comunisti. Negli stessi anni
pubblico diversi testi riguardo il Pci, lo stalinismo e Togliatti. Sul piano
internazionale nel 1967, a seguito della “Guerra dei sei giorni”, fu tra i
principali promotori de “Unione Democratica Amici d'Israele”, scelta che lo
caratterizzò particolarmente nell'ambito della sinistra. Dalla biografia si può
constatare che Seniga fu una persona molto controversa, il che rende difficile
comprendere se il suo gesto sia stato in malafede oppure con convinzione.
La Segreteria nazionale del Partito fu fredda riguardo lo specifico episodio. La
preoccupazione maggiore espressa dalla Segreteria fu mostrata verso parte della
documentazione. L'accusa fatta Secchia nelle segreterie e nelle riunioni
successive furono quella di essersi fidati fidato eccessivamente di Seniga, figura
verso cui alcuni compagni come d'Onofrio avevano espresso dubbi viste le
relazioni tenuta con gli alleati inglesi durante la guerra. Il 18 agosto 1954,
Secchia riuscì a entrare in contatto con Seniga. Durante il colloquio però non
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riuscì a convincerlo a restituire la somma e la risposta fu un invito, molto
generico, a passare dalla sua parte. Seniga non specificò mai quali fossero i
compagni dentro il Partito ad averlo sostenuto e con chi avrebbe costituito,
successivamente, il gruppo Azione comunista.
Il 15 ottobre 1954, durante una riunione di Direzione, il caso divenne più
politico fino ad essere accusato di aver espresso posizioni eterodosse rispetto al
Partito. La preoccupazione del gruppo dirigente fu concentrata principalmente
sui documenti piuttosto che al denaro.
Si accusò Secchia di avere messo a conoscenza di Seniga tutta una serie
di questioni riservate e di aver riposto eccessiva fiducia su di lui. Per analizzare
il caso fu costituita una commissione composta da Spano, Colombi e
Negarville. Questo triumvirato cercò di tenere un atteggiamento difensivo verso
Secchia e gli dette alcuni consigli per non cadere, durante la successiva sessione
della Direzione, nella provocazione di alcuni compagni a lui ostili. Questi
compagni furono D'Onofrio e Di Vittorio. Secchia si difese ribadendo che la
fiducia riposta su Seniga non fu mai contestata dagli altri massimi dirigenti.
Inoltre, iniziarono le accuse di aver lavorato in maniera antagonista verso la
politica della dirigenza del Partito. La “sentenza” fu che Secchia interrompesse
per qualche mese l'attività del Partito, lasciando le sue funzioni ad Amendola. In
quei mesi, di sospensione dall'attività politica, Secchia andò in Umbria, presso
una residenza del dott. Spallone, a trascorrere un periodo di risposo. In questo
periodo di villeggiatura, scrisse una lettera di autodifesa, in cui ribadì che tutto
il suo operato politico e organizzativo fu fatto al fine di applicare la linea del
Partito e non per creare una sua propria corrente personale. In quella sede
rassegnò le proprie dimissioni dalla Segreteria rimanendo solo nella Direzione.
A suo ruolo di Responsabile organizzazione subentrò Amendola.
Che il caso Seniga assunse sfumature prettamente politiche è possibile
coglierlo dalle lettere di autocritica che Secchia inviò alla segreteria nazionale
del PCI tra il 1954 ed il 1955. Le prime due lettere furono respinte dalla
segreteria e solo la terza accettata. Nelle lettere Secchia faceva una forte
autocritica sul suo operato: «Sono consapevole della gravità dei miei errori che
denotano che ho lavorato con estrema leggerezza, con bonomia, con mancanza
di vigilanza […] Mi rendo conto che questo non significa saper dirigere [...]
60
Ringrazio i compagni della Direzione del partito che, dimostrandomi la loro
fiducia, mi hanno aiutato a scorgere in modo completo e in tutta la loro gravità i
miei errori. Vorrei che una sola cosa si tenesse presente e sulla quale non vi
fossero dubbi di sorta: il mio incondizionato attaccamento e la mia fedeltà al
partito [...] I compagni della Direzione possono avere certezza del mio fermo
impegno a superare nel posto di lavoro che mi si vorrà affidare, con lo studio e
l'attività pratica […] quei difetti che hanno reso possibili i miei errori.»
Tuttavia dal confronto delle lettere si comprende chiaramente che ciò
che Togliatti ed il gruppo dirigente del PCI chiedeva non era l’ammissione delle
responsabilità organizzative e quindi politiche di Secchia per l’affare Seniga,
ma una vera e propria prova di fedeltà sulla linea politica. È lo stesso Secchia a
raccontarlo scrivendo nei suoi appunti alcune riflessioni sulla direzione del 7
gennaio. «Mi si chiede se sono d’accordo con la linea del partito. Credo che tale
domanda non abbia ragione di essere perché sono tra i compagni che negli
organismi dirigenti non hanno mai tralasciato occasione per precisare il loro
pensiero nelle forme e nei modi che sono oggi abituali […] Essere d’accordo
con la linea del partito non significa che in determinate occasioni, ognuno di noi
non abbia sostenuto un particolare punto di vista, messo l’accento su di un
aspetto piuttosto che su di un altro, accettando poi la conclusione comune,
perché è così: quando vi è unità politica ed ideologica, dopo aver detto quello
che si pensa su di una questione, si accetta la conclusione di tutti.» Nella stessa
direzione, Secchia fece la pubblica ammissione, che doveva per giunta risultare
assai nota alle orecchie del gruppo dirigente del partito, che nel 1947 ebbe dei
seri dubbi riguardo la politica del Partito: «Riconosco che nella seconda metà
del 1947 ho avuto seri dubbi non soltanto su talune questioni, ma sulla linea
politica nel suo complesso ed ebbi il timore che quelli (i sovietici, N.d.R.) non
conoscessero la reale situazione italiana. Esposi quei dubbi nella forma più
franca... Abbiamo iniziato allora a fare il salto e scelta l'altra linea. Non c'era e
non c'è che da continuare, seppure è evidente che non si può dimenticare, un
comunista anzi deve pensarci sempre, tanto più che è la situazione stessa che ci
fa pensare... E poi: è giusto che non ci si pensi più? Che vi siano dei compagni
giovani che non ci pensano mai? Che neppure sul terreno della propaganda e

61
dell'educazione noi non poniamo più il problema della conquista del potere da
parte dei lavoratori?»
Con questo cercò di dimostrare la correttezza con cui da sempre ha
espresso le sue critiche. Ormai comunque i principali esponenti, Togliatti e
Longo in primis, erano intenzionati ad isolarlo ed utilizzarono “il caso Seniga” a
quello scopo. Sul suo allontanamento esistono diverse interpretazioni: la prima
è che sia diventato “scomodo” per la sua popolarità, in particolare verso la base
partigiana e nel nord Italia e per le posizioni più dure espresse in tutte le sedi; la
seconda che nel 1954, con Stalin morto, fosse già iniziato un percorso tiepido di
“destalinizzazione” e che l'eliminare un dirigente come Secchia avrebbe
facilitato successivamente ad allontanare altri esponenti della base legati alla
figura di Stalin ed a un partito di classe. Quel che è certo è che a prescindere
dalla gravità del caso Seniga e del danno che la sua fuga apportò al Partito
Comunista, il caso fu ampiamente sfruttato come pretesto politico, per eliminare
una posizione che stava divenendo nel Partito sempre più scomoda. Tanto più
che Secchia godeva di un prestigio nella base del partito, specie nel nord Italia e
nel vecchio gruppo dirigente di estrazione partigiana, che era pari, se non in
alcuni casi maggiore di quello dello stesso Togliatti.
Secchia stesso sostiene che il cambio della segreteria era già stato
deciso, come la sostituzione all’organizzazione con Amendola. Fu lo stesso
Seniga a confidare a Secchia questo elemento alcuni mesi prima, dicendo che
Secchia e Colombi avrebbero lasciato la segreteria, che al suo posto sarebbe
andato Amendola e che Secchia sarebbe stato inviato a Milano. Secchia sostiene
nelle sue memorie di aver detto di non credere a queste dicerie da corridoio e di
non avergli prestato attenzione, ma è assai probabile che la decisione politica
era stata presa ed il caso Seniga fu solamente il fatto che materialmente consentì
la transizione con una posizione di oggettiva debolezza di Secchia.
Quando nel dicembre del 1956 Secchia è estromesso proprio con
Colombi dalla direzione del partito, racconta della contrarietà a questa decisione
di un nutrito gruppo composto da Alberganti, Bera, Brambilla, Sclavo, Parini,
Vergani, Bonazzi, Robotti e Montagnana. Amendola apostrofò i compagni che
avevano parlato in favore di Secchia come il “fronte del conservatorismo”
accusandoli di non aver manifestato al congresso le loro intenzioni e rivelandole
62
in Comitato Centrale. Il “fronte del conservatorismo” era composto da alcuni
dei più validi dirigenti comunisti che avevano combattuto in prima linea durante
la lotta partigiana. L’epurazione si Secchia coincide con la sostituzione in massa
dei quadri dirigenti territoriali del PCI provenienti dall’esperienza della lotta
partigiana, sostituiti con nuovi dirigenti che meglio incarnavano l’idea del
Partito nuovo togliattiano, dopo il cedimento totale al discorso delle vie
nazionali al socialismo, ormai privo di ogni freno.

di Andrea Merialdo (redazione Senza Tregua)

63
Il pericolo lo ripeto, non viene tanto dalle
molteplici organizzazioni paramilitari fasciste, le quali
beninteso vanno dissolte, colpite e stroncate, e che
facilmente se si volessero, potrebbero essere spazzate
via. Il pericolo maggiore non viene neppure dai
‘complotti’ del principe Borghese, che naturalmente
deve essere colpito per i deletti compiuti e per ciò che
stava organizzando, ma senza troppi stamburamenti
che perseguono lo scopo evidente di nascondere dove
sta il pericolo più grave e da quale questo pericolo
viene. Non dobbiamo prestarci a certe mistificazioni.
Dobbiamo rendere sempre più chiaro a tutti che il
pericolo più serio e che può diventare drammatico in
caso di conflitto internazionale è quello della piena e
riconfermata fedeltà dell’Italia alla NATO.

64
La lotta contro il tradimento della Resistenza

Pietro Secchia, come abbiamo visto, ha avuto un ruolo determinante


nella Resistenza e all’interno del Partito Comunista Italiano e delle sue
formazioni combattenti, assumendo la carica di Commissario generale delle
Brigate Garibaldi e dirigendo così, insieme a Longo, la lotta armata. Chi meglio
di lui poteva allora valutare l’esperienza vittoriosa della guerra patriottica contro
i tedeschi invasori e contro i loro alleati fascisti? Chi meglio di un grande
organizzatore e dirigente comunista che aveva conosciuto le carceri del regime
fascista per 12 anni 4 mesi e 10 giorni?
L’Italia del primo dopoguerra ribolle di tensioni sociali, istanze di
cambiamento radicale, vendette e odi che immancabilmente si presentano alla
fine di 20 di dittatura feroce che ha portato miseria e morte in tutto il Paese.
Studiando la Storia in modo didascalico e non tenendo conto dei processi reali
che la determinano, la lotta continua e ininterrotta delle classi sociali, può
sembrare che gli avvenimenti di questi anni seguano una linea temporale
immaginaria parlino di pacificazione nazionale e di graduale integrazione con
gli altri paesi europei, seguendo le linee guida imposte dagli USA e dal piano di
ricostruzione economica post bellico ( il cosiddetto “Piano Marshall”), senza
particolari sussulti.
Il 1945 la fine della guerra, il 2 giugno del 1946 il referendum
Costituzionale per la scelta tra monarchia e repubblica ed infine il 1948 con
l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana nata dall’esperienza della
lotta antifascista con il suo splendente contenuto in difesa delle libertà dei
cittadini, dell’importanza del lavoro e della rimozione degli ostacoli sociali
posti di fronte al popolo italiano,alla difesa della Pace e il ripudio della guerra
come “strumento delle controversie internazionali”. Un carattere fortemente
progressivo ottenuto grazie alla presenza del PCI all’interno dell’assemblea
costituente, i cui risultati tra luci e ombre, rappresentano ancora oggi un argine
alla reazione sempre più veemente del capitale e della grande borghesia.
Sappiamo però che ogni conquista sulla carta è un determinato risultato
dettato dai rapporti di forza che si vengono a creare nella società tra il
65
proletariato e il suo partito d’avanguardia e la borghesia, e che queste conquiste
possono essere mantenute soltanto se questi rapporti rimangono tali. Altrettanto
logico che un miglioramento ed un avanzamento di queste posizioni richiedano
che i rapporti di forza si modifichino ulteriormente in favore delle masse
popolari e della sua avanguardia organizzata. Questi rapporti vengono
naturalmente influenzati anche dalla politica internazionale e dagli attori più
potenti che vi prendono parte, e non è difatti una coincidenza che con la
scomparsa dell’URSS e del blocco socialista la reazione a livello mondiale
contro il Lavoro e i diritti dei lavoratori è stata violenta e ancora non si è
fermata.
Ma cosa succedeva davvero in quei primi anni post-liberazione nel
nostro Paese? Davvero la “Liberazione” aveva dato i suoi frutti? Davvero il
Partito Comunista Italiano, forte di più di un milione di tesserati e buona parte
di essi inquadrati militarmente, aveva ottenuto ciò che voleva? Secchia, in ogni
occasione che gli si presenta (che sia ad un comizio pubblico o l’aula del
Senato) difende a spada tratta l’esperienza della lotta partigiana e del ruolo
fondamentale dei comunisti al suo interno nonostante veda e dica esplicitamente
che la situazione non è migliorata, almeno non quanto il PCI si aspettasse. La
difende, ad ogni modo, dagli attacchi violenti che provengono non solo dai
reduci dell’esperienza della Repubblica Sociale Italiana (lo Stato fantoccio
creato da Mussolini, in realtà etero diretto dal III Reich per funzioni di
repressione antipartigiana, ndr) ma anche da quel “mondo cattolico” che seppur
in modo minoritario e non organizzato, prese parte alla guerra di Liberazione.
Ecco cosa diceva Secchia già nel 1947, in occasione del 25 di aprile,
rivolgendosi ai partigiani italiani:
«Due anni sono appena trascorsi dal 25 aprile 1945. Sembra ieri, le
nostre città liberate,il nemico in fuga e scacciato dal nostro suolo, il popolo,
tutto il popolo in festa. [..] Tu vivesti allora, amico partigiano, noi tutti
vivemmo i giorni più belli della nostra vita. Era la vittoria, era la fine delle
sofferenze, del martirio per il nostro paese. E quell’entusiasmo, quel delirio,
quegli evviva che uscivano da mille e mille bocche, quelle immense,
indimenticabili manifestazioni di riconoscenza, di affetto e di esaltazione ti
fecero veramente pensare che l’Italia non solo s’era desta, ma si era rinnovata.
66
Tutti i sacrifici, tutti i patimenti, tutto fu di colpo dimenticato! [..] Sono trascorsi
due anni da allora, ed a soli due anni di distanza è permesso a delle canaglie da
bassofondo, agli agenti dell’OVRA (l'ex polizia segreta del regime fascista,
ndr), ai ricattatori di professione, ai collaboratori del tedesco, alle loro prostitute
ad ai loro lacchè, è permesso ai traditori, ai profittatori, agli eroi della borsa nera
e del doppio gioco di calunniare, di ingannare e di sputare sul movimento
partigiano, sui suoi uomini migliori,sui vivi ed anche sui morti. Invece di
rendere omaggio agli eroi oscuri, agli umili, ai partigiani ignoti che si sono
battuti armi alla mano quando il nostro territorio era occupato, quando la lotta
per la libertà non la si conduceva tra le poltrone di Montecitorio, ma sui monti e
a prezzo della vita, oggi certa gente non ha altra preoccupazione che fare
l’apologia della viltà, del tradimento e del passato. [..]Oggi si è arrivati a negare
che ci sia stata la guerra partigiana di Liberazione, che vi sia stata insurrezione
nazionale. Non è solo la viltà che odia l’eroismo che lo vuol far dimenticare.
Non sono solo i pavidi, i vigliacchi, i collaborazionisti e i profittatori di tutte le
ore che vogliono fare dimenticare la loro viltà, i loro traffici, l’oro accumulato
sul sangue dei fratelli, il tradimento, si tratta di qualche cosa di più. Si tratta di
un piano politico.
Chi ieri ha collaborato col tedesco non disdegna oggi di collaborare con
gli anglo-americani. Gli affari sono affari. Il compito di questi collaborazionisti
di sempre, di questi agenti dello straniero è oggi quello di dimostrare che la
Liberazione non è stata opera degli Italiani ma è venuta dal di fuori. Questo
corrisponde d’altronde ai loro desideri, al desiderio di tutti coloro che avrebbero
voluto e vorrebbero in Italia un regime molto simile a quello fascista. Ecco
perché, amico partigiano, si conduce oggi una lotta contro di te a base di
diffamazione, di calunnie e di insulti. Il motivo di questa scandalosa campagna
non è di meschina rivalità di partito, di concorrenza elettorale (con la DC e le
forze filo-americane, ndr). Questa lotta mira più lontano. Vogliono strapparti
dalle mani, vogliono strappare dalle mani del popolo la bandiera della
Liberazione nazionale. [..] Così sarebbero create le premesse ideologiche per
poter tentare la rivincita, per poter instaurare ancora il regime della tirannide.»
Dopo aver svelato qual è il motivo politico per cui viene duramente
attaccata l’esperienza della lotta partigiana, Secchia ricorda che il compito del
67
PCI durante la guerra e anche in questo momento è quello di ricostruire il paese,
di liberarlo dal “marciume fascista, per liquidare i privilegi più iniqui del grande
capitale e della grande proprietà ” e per questo rimarca che il Partito, lo stesso
che ha conosciuto le galere fasciste, il confino, le torture, la clandestinità è
ancora a fianco dei combattenti. La linea però è quella della lotta democratica
all’interno dell’istituzione, linea mai condivisa da Secchia, ma alla quale si
attiene come deciso dal Partito:
«[..]devi continuare a lottare sul terreno democratico contro il grande
capitalismo, contro i grandi agrari, contro i monopolisti che continuano a tradire
oggi il paese come lo hanno tradito ieri. Devi continuare a lottare per il pane e la
libertà sino a realizzare quel mondo migliore che è nel cuore di tutti noi.»
Non per questo Secchia rinuncia a denunciare con forza le violenze e i
soprusi commessi dal nuovo governo “democratico” e dalle forze di polizia
(dalle quale vengono esclusi progressivamente tutti gli ex-combattenti che
hanno preso parte alla lotta armata) contro comunisti e partigiani. A questi fatti
inaccettabili si aggiunge inoltre la scarcerazione di numerosi criminali fascisti
che tornano così, senza impunità alcuna e tra le braccia tese e festanti dei
camerati, a rappresentare un pericolo per il popolo italiano e uno schiaffo e un
offesa incancellabile per tutti i martiri della lotta partigiana.
«Uno dei maggiori responsabili dei delitti fascisti, il “principe” dei
criminali di guerra, il capo di quella Xa Mas che ha al suo attivo ottocento
omicidi documentati, il saccheggio, la razzia e l'incendio di interi villaggi
italiani, centinaia di partigiani seviziati, torturati, vivisezionati, Junio Valerio
Borghese è stato posto in libertà. [..] In un regime in cui la classe dominante
tende a risolvere i problemi del lavoro col manganello e col mitra non stupisce
siano rimessi in circolazione i più odiosi criminali fascisti. L’assoluzione di
Borghese non è un episodio sporadico, non è un colpevole errore della
magistratura, ma qualcosa di assai più grave. Fa parte di un piano meditato e
preordinato di restaurazione del regime della tirannia. L’assoluzione di
Borghese non è solo un’offesa alla Resistenza, ma significa una grave minaccia
alla libertà del popolo italiano. [..] Sono ormai mesi che con i più luridi pretesti,
violando ogni legge civile e morale si arrestano in ogni regione d’Italia valorosi
partigiani colpevoli solo di aver combattuto contro l’invasore tedesco e i suoi
68
aiutanti: le spie, i boia, i traditori dell’Italia messisi al suo servizio. Si arrestano,
si maltrattano, spesso si torturano e si giudicano dei partigiani colpevoli solo di
avere condotto a termine pericolose azioni di guerra e dei aver obbedito agli
ordini dei loro comandanti.[..] Nessuno oggi indaga e ricerca per scoprire e
punire i colpevoli dei furti, dei saccheggi, delle razzie, dei più atroci delitti
consumati dai fascisti. Tutto quello che è stato compiuto dal fascismo è
considerato legale o è coperto da amnistia. Oggi si arrestano i partigiani, si vuol
fare il processo alla Resistenza. [..] I processi contro i patrioti e i partigiani
hanno solo uno scopo ben preciso: screditare questi eroici combattenti davanti
all’opinione pubblica, trasformarli in delinquenti comuni per poter riportare
sugli altari i traditori della patria, i Graziani, i Borghese, i Roatta, i Ricci, per
poter di nuovo aprire la strada al fascismo. Le carceri italiane sono oggi piene di
lavoratori, di ex partigiani, di operai, di contadini che hanno lottato, sciopera
toro per difendere il loro diritto alla vita. I traditori della patria sono invece
assolti e amnistiati. Il governo clericale ha richiamato in servizio i più sporchi
agenti dell’OVRA, utilizza in ogni settore dello Stato gli uomini del vecchio
regime. I grossi gerarchi hanno ripreso le loro funzioni, la loro attività politica e
affaristica. Sono rientrati in possesso delle loro fortune, e cioè del denaro rubato
al popolo italiano. Costoro certamente offrono maggiori garanzie che non i
partigiani di servire la causa della guerra, dell’America e del Vaticano.»
A questo punto le accuse e la condanna verso la Democrazia Cristiana
(e mai invece, è bene sottolinearlo, contro tutti i lavoratori di ispirazione
cattolica) sono nette e inequivocabili. E’ chiara la natura di classe della nuova
Repubblica italiana, è chiara la funzione che svolge la DC per la borghesia
nazionale e quella internazionale. Essa serve gli interessi dei grandi proprietari
terrieri, degli industriali e dei banchieri: i monopoli vengono difesi e tutelati, le
istanze di cambiamento e di giustizia sociale portate dalla Resistenza vengono
tradite ed anzi attaccate sempre più.
Ed ogni attacco alle forze reazionarie è anche una sferzata alla linea
politica scelta dalla maggioranza del Comitato Centrale del PCI e del segretario
Togliatti, con cui le visioni tattiche sono letteralmente divergenti. Oltre ad
essere stato un grandissimo organizzatore, anima instancabile nella guerra
patriottica mai piegato dalle galere fasciste, leader riconosciuto e rispettato da
69
tutte le formazioni combattenti,Pietro Secchia era anche un comunista che
conosceva perfettamente la funzione del Partito come avanguardia, la sua
dialettica interna e la necessità del centralismo democratico: per questo in tutti i
suoi interventi non troviamo mai una critica frontale alla linea decisa
democraticamente dal PCI e a cui giustamente il compagno Secchia si atteneva.
Ma ogni suo intervento di lucida critica, di denuncia dell’esistente, di
tradimento della Resistenza rappresentavano non solo l’anima più genuina e
rivoluzionaria del Partito Comunista ma anche una contrapposizione netta a
quella linea da lui così avversata e i cui frutti non tardarono purtroppo a farsi
vedere.

Di Enrico Guerrieri (segreteria nazionale FGC)

70
Un problema sul quale vi è senz’altro un certo
disaccordo è l’importanza che io do
all’internazionalismo proletario. Per me tutto ciò che
rafforza i legami internazionali tra i partiti comunisti è
positivo, altri invece sono piuttosto orientati ad attenuare
i legami internazionali. C’è chi mette forte l’accento
sulla parola: completa autonomia. Io invece intendo
l’autonomia dei partiti comunisti nel quadro di una unità
ideologica e politica del movimento comunista
internazionale. Sono stato perciò contrario alla formula
policentrismo: e ho sempre ritenuto insufficienti i
rapporti bilaterali.

71
Per l’unità del movimento comunista e la lotta antimperialista

Uno degli aspetti della straordinaria attualità della figura di Pietro


Secchia sono le sue riflessioni sulla questione dell’unità del movimento
comunista internazionale, del modo di concepire questa unità. Secchia vive in
prima persona la drammatica questione della rottura dei rapporti tra Unione
Sovietica e Repubblica Popolare Cinese, con lo scontro tra PCUS e PCC. In
quel momento Secchia è già tagliato fuori dal vertice del Partito Comunista, ma
riveste ancora quell’autorità morale interna al Partito, che gli consente di
prendere posizione, criticando anche l’operato del Partito Comunista Italiano, in
relazione agli avvenimenti internazionali.
Secchia sa di non avere ben chiaro il quadro completo della situazione.
In primo luogo perché non essendo più in segreteria nazionale è tagliato fuori
dal contatto diretto con gli eventi che accadono a livello internazionale. Non
sono più i tempi della partecipazione agli incontri e le notizie giungono in gran
parte filtrate dal gruppo dirigente nazionale. «Sono pienamente d’accordo con le
cose dette nel rapporto del compagno Pajetta – afferma Secchia nel suo
intervento al CC del luglio 1963 intervenendo in merito alla relazione
internazionale – l’insoddisfazione è piuttosto per quelle non dette o appena
sfiorate.»
Non è mistero che Secchia non abbia mai del tutto digerito la questione
del rapporto Krusciov , che ne sia stato colpito certamente, che inizialmente si
sia seriamente interrogato sulla questione delle responsabilità del gruppo
dirigente sovietico ed internazionale in quel periodo, nonostante abbia da subito
dubitato di alcune posizioni tenute nella relazione di Krusciov. Ma andando
avanti nel tempo Secchia comprese che le stesse modalità messe sotto accusa
riguardo a quello che veniva definitivo – e lui pone sempre tra virgolette -
come “stalinismo” erano in realtà riprese nelle modalità di agire del nuovo
gruppo dirigente sovietico. Fu colpito dalla liquidazione del vecchio gruppo
dirigente, dalle modalità di uccisione di Beria che sapeva essere vere, per
ammissione dei compagni italiani recatisi a Mosca, i quali avevano ritrattato
72
solo su esplicita volontà di Togliatti. Accusava Togliatti di un certo
opportunismo sulla questione, che rimaneva legato ad una cieca fedeltà
all’URSS senza considerazione politica, mentre non promuoveva nel partito un
serio dibattito sulle questioni internazionali, compresa la futura spaccatura tra
URSS e Cina.
Sull’Unione Sovietica, e sul modo di intendere la sua funzione Secchia
scrive nel suo memoriale: « Così pure sulla funzione dell’URSS vi è con
qualche compagno chiaro dissenso in proposito. Essi ritengono che l’URSS
debba essere al centro del movimento comunista, io ritengo che debba essere
alla testa, perché ci piaccia o no, per la funzione che obiettivamente assolve
l’Unione Sovietica è alla testa e all’avanguardia del mondo socialista.» Fatte
questa precisazione Secchia però afferma «Non è vero che io sia sempre
d’accordo con l’URSS. Ritengo anzi che in certi casi è necessario dire ancora
più chiaramente quello che pensiamo, sostenere più fermamente le nostre
opinioni e posizioni.»
Nel 1963 Secchia tenne un intervento in Comitato Centrale sulla
questione dei rapporti tra il PCUS e il PCC. Le sue riflessioni sulla questione
dell’unità del movimento comunista internazionale, sono ancora oggi di grande
rilievo. Stupisce l’equilibrio che Secchia mostrò in quella situazione, nonostante
la carenza di informazioni per potersi fare un giudizio politico pieno. Secchia
era peraltro stato pochi anni prima in Cina, nella delegazione ufficiale del PCI
proprio nel 1959, quando iniziavano ad emergere i primi forti dissapori tra
PCUS e PCC. Secchia parte da una considerazione che scrive come appunto nei
suoi quaderni: « l’eventuale rottura cino-sovietica sarebbe un avvenimento di
grande importanza e gravi conseguenza, la sua importanza e gravità non hanno
precedenti nel movimento comunista e operaio internazionale. Bisogna risalire
al crollo della seconda internazionale, ma le conseguenze odierne sarebbero più
gravi.» Si interroga Secchia in modo retorico se i 25 punti cinesi, la bomba
atomica possano avere lo stesso peso dei motivi della rottura della seconda
internazionale, ossia i crediti di guerra e la vittoria della Rivoluzione d’ottobre.
Quando nel luglio del 1963 fa il suo intervento in Comitato Centrale,
sulla relazione di Pajetta, all’epoca responsabile del dipartimento esteri,
descrive un clima surreale nel CC del PCI. Secchia avanza un intervento critico
73
sulla linea dettata da Pajetta e si prende il rimprovero di Togliatti, che interviene
direttamente per chiedere di respingere l’intervento di Secchia. «L’incazzatura
di Togliatti – scrive Secchia era determinata: proprio dal fatto che il mio
intervento era argomentato ed aveva suscitato una certa impressione […]; per il
suo contenuto evidentemente critico, per il fatto che i dirigenti del partito
comunista continuano ad approvare tutto ciò che viene da Mosca accettando
tutto in modo acritico (solo per salvare la faccia si fanno timidi rilievi e neppure
diretti). Critico per il fatto che il partito italiano non ha mosso un dito per
impedire che si arrivasse a questo punto, anzi non è escluso che abbiano sotto
certi aspetti spinto perché Krusciov non facesse concessioni.»
In realtà l’intervento di Secchia era tutt’altro che un intervento con
posizioni decise, ed evitava accuratamente – non avendone per giunta gli
strumenti necessari – di parteggiare dall’una o dall’altra parte, ma rimarcava
solamente l’idea che l’unità del movimento comunista fosse, specialmente in
quel frangente e in quella condizione, un valore essenziale, e che il PCI, avrebbe
dovuto fare di più per tentare di comporre la spaccatura, per riportarla ad un
livello di dialettica sui contenuti e sui principi, ma all’interno di una generale
unità del movimento comunista internazionale. Secchia parte da lontano
nell’intervento, descrivendo il quadro internazionale e le due battaglie
fondamentali in corso in quel momento a livello mondiale: la battaglia per la
pace, per la coesistenza pacifica, e quella per la liberazione dei popoli oppressi
dall’imperialismo. «I protagonisti delle grandi lotte nei diversi paesi hanno tutti
da perdere dalla rottura, dalla divisione del campo socialista, però un’unità
monolitica del movimento è sempre più difficile se non impossibile. Di qui,
come già è stato detto e scritto, la necessità di trovare nuove forme di unità e di
coordinamento […] Orbene, a me sembra, questa è l’impressione, che il
problema dell’unità del movimento comunista ed operaio internazionale non
venga oggi discusso e posto in primo piano con quella forza, con quel peso, con
quella decisione che esso richiede per l’importanza sua e per le conseguenze che
una spaccatura del mondo comunista potrebbe avere. Il problema dell’unità del
movimento comunista e operaio internazionale deve essere per ogni comunista,
per ogni partito comunista, un principio incrollabile. Non si può lottare con
successo per mantenere la pace, per la coesistenza pacifica e l’indipendenza dei
74
popoli, per avanzare sulla strada del socialismo se non si rimane fedeli al
principio basilare dell’unità e della solidarietà del movimento comunista e
operaio internazionale.»
La questione che spaventa Secchia, come paura di una rottura di portata
storica, è che la rottura sta per avvenire tra partiti che non solo si dichiarano
marxisti-leninisti «ma hanno dimostrato con i fatti, nel corso di quaranta e più
anni di lotta, di saperli applicare» e ancora «tanto gli uni quanto gli altri
avevano portato un contributo fondamentale al marxismo-leninismo» Per
Secchia «il dibattito in corso e sviluppatosi in questi anni è dunque un dibattito
non tra sostenitori ed avversari del comunismo, del marxismo, ma tra uomini e
partiti che reciprocamente si stimavano e riconoscevano come grandi teorici del
marxismo-leninismo, come combattenti rivoluzionari, come partiti che
“avevano saputo non soltanto sognare il socialismo, ma combattere e vincere
per realizzarlo”». Dunque una rottura interna al movimento comunista
internazionale, che dividerà partiti rivoluzionari, è quanto di peggio sia possibile
auspicare per il futuro. E qui la critica all’atteggiamento del PCI, che a dire di
Secchia si era dimostrato arrendevole, aveva rinunziato a qualsiasi forma di
opposizione ad una spaccatura che vedeva come irreversibile, e che oramai
aveva accettato.
Secchia parte dalla consapevolezza di avere una conoscenza parziale
degli eventuali sforzi tra sovietici e cinesi per ricomporre la spaccatura ed
evitare la rottura formale, ed eventualmente del ruolo degli altri partiti, tra cui il
PCI, per agevolare questi incontri, e questi tentativi di superamento della
situazione di stallo. «Ma specialmente in queste settimane questo sforzo non
appare, si parla e si scrive come se già fossimo rassegnati alla rottura. La si
accetta come una cosa di fronte alla quale noi non possiamo fare altro che
formulare degli auguri, degli auspici all’unità. Tale rottura non può essere così
facilmente accettata come fatale, inevitabile. Non si tratta di vedere chi ha con
sé la maggioranza della popolazione o la maggioranza dei partiti comunisti. Si
tratta di vedere a quali conseguenze porterebbe una divisione del movimento
comunista internazionale che dividesse i partiti comunisti europei da quelli di
altri continenti, che dividesse e mettesse gli uni contro gli altri degli stati e dei
paesi socialisti.»
75
Secchia registra amaramente l’epilogo della discussione al Comitato
Centrale «al solito però io sono rimasto solo, con la posizione più avanzata
(anche se nella sostanza era abbastanza prudente), il che indica che in questo
Comitato centrale non c’è più nulla da fare. È assolutamente conformista.
Alcuni approvano senz’altro le mie posizioni e me lo dicono, ma non hanno
voglia di impegnarsi o lo ritengono inutile. Hanno scelto la strada del tirare a
campare.»
La riflessione di Secchia si pone, come ho già detto in un momento
cruciale della storia del movimento comunista internazionale, che è stato
gravido di conseguenze negative nel futuro, e le cui ultime conseguenze
paghiamo ancora nella situazione attuale. Ma se può apparire un quadro con
alcune contraddizioni nelle riflessioni di Secchia al comitato centrale del luglio
1963, dovute alla mancanza di conoscenza di alcuni elementi, forse è opportuno
citare una affermazione che Secchia scrive nel suo memoriale, la cui attualità è
straordinaria. Scrive Secchia: «Un problema sul quale vi è senz’altro un certo
disaccordo è l’importanza che io do all’internazionalismo proletario. Per me
tutto ciò che rafforza i legami internazionali tra i partiti comunisti è positivo,
altri invece sono piuttosto orientati ad attenuare i legami internazionali. C’è chi
mette forte l’accento sulla parola: completa autonomia. Io invece intendo
l’autonomia dei partiti comunisti nel quadro di una unità ideologica e politica
del movimento comunista internazionale. Sono stato perciò contrario alla
formula policentrismo: e ho sempre ritenuto insufficienti i rapporti bilaterali.»
Questa affermazione chiarisce pienamente la posizione di Secchia sul legame
internazionale del movimento comunista, e si pone appunto in tutta la sua
attualità.
Se l’unità del movimento comunista, dopo la vittoria del socialismo in
altri paesi oltre l’URSS, non può più porsi con il ruolo di assoluta primazia del
PCUS rispetto ai restanti partiti, perché la vittoria in Cina, Corea, a cui
seguiranno Vietnam, Cuba, ma la stessa circostanza storica per cui dopo la
seconda guerra mondiale il socialismo è istaurato nell’est Europa in paesi come
la DDR, la Cecoslovacchia, la Romania ecc… tutto questo muta senza dubbio le
condizioni precedenti. Tuttavia Secchia è uno strenuo avversario dell’idea
dell’autonomia totale dei partiti, e dell’idea del policentrismo del movimento
76
comunista internazionale. Qui sta la grande attualità del pensiero di Secchia,
anche e a maggior ragione come elemento di analisi per noi che operiamo per
quella unità, dopo la caduta del socialismo nell’Europa dell’Est.
L’idea delle vie nazionali al socialismo, da maggiore capacità di
adattamento, valorizzazione delle specificità nazionali, culturali, ma che non
metteva in crisi il centro ideologico del marxismo-leninismo, degenera ben
presto nella totale autonomia, nella diversità e crea le premesse per quella
disomogeneità ideologica, politica del movimento comunista internazionale. Per
Secchia quest’idea rappresenta un passo indietro, e la possibilità che nel
movimento comunista esistano vari poli di riferimento legati all’uno o all’altro
stato è una evidente incongruenza. Quando Secchia dice di intendere
«l’autonomia dei partiti comunisti nel quadro di una unità ideologica e politica
del movimento comunista internazionale» rende palese la sua idea
internazionalista, intesa nella visione del coordinamento permanente ideologico
e politico del movimento comunista internazionale. Un coordinamento, che
dovrà esprimersi in forme nuove, ma dice Secchia non limitarsi all’insufficiente
formula degli incontri bilaterali, a cui dopo la dissoluzione del Cominform,
ultimo tentativo di riunire il movimento comunista internazionale, si assisterà
progressivamente, fatto salvo alcune conferenze dei partiti comunisti, che
tuttavia lungi dall’avere la natura di coordinamento stabile e permanente, si
risolveranno sempre di più in semplici incontri di scambio di esperienze, del
tutto privi di ricadute pratiche. Il passaggio della rottura del movimento
comunista internazionale, nello specifico della rottura tra URSS e Cina, darà
all’idea delle vie nazionali al socialismo intese come completa autonomia dei
partiti comunisti e delle loro elaborazioni, l’ultimo e necessario slancio. Non
potrebbe esistere l’eurocomunismo di PCI-PCF-PCE senza questo passaggio
storico, né le affermazioni del PCI berlingueriano sull’ombrello della Nato, fino
alla situazione attuale di arretratezza e divisione nel movimento comunista
internazionale. Secchia, non possiamo che riconoscerlo, aveva visto giusto e
con grande lungimiranza.
Secchia dimostrò una incredibile capacità di lettura del contesto
internazionale e fu tra i primi a comprendere il valore della lotta antimperialista,
come lotta essenziale del dopoguerra, da unire strettamente alla lotta per il
77
socialismo. Non stupisce allora l’attenzione per i grandi movimenti di
emancipazione delle masse oppresse dall’imperialismo, la strenua battaglia
portata in Italia, dalle iniziative di partito e di massa fino ai suoi discorsi nelle
aule parlamentari contro la NATO e contro la militarizzazione dell’Italia.
«Nel momento in cui i pericoli di guerra aumentano devono essere
accentuate la nostra azione e le nostre iniziative affinché il popolo italiano si
liberi dalle basi militari straniere, dal grave peso delle basi atomiche per il
pericolo che esse rappresentano, per le spese militari che comportano e per la
minaccia permanente alla nostra sovranità nazionale, alla libertà del popolo
italiano.»
Nel suo discorso a Trieste in occasione del 48° anniversario della
Rivoluzione d’ottobre Secchia precisa il modo d’intendere la relazione tra lotta
per la pace, per la coesistenza pacifica, e lotta contro l’imperialismo per la
costruzione del socialismo La coesistenza pacifica per Secchia non può essere
concepire «la coesistenza come status quo». Scrive Secchia «anche noi
naturalmente non concepiamo la coesistenza come status quo e riconosciamo
legittimo il diritto di ogni popolo a lottare per la sua indipendenza e a decidere
liberamente delle sue sorti […] Le due questioni vanno di pari passo poiché la
necessità di un maggiore impegno e di maggiori successi nella lotta per la pace
esige un rafforzamento dell’unità del movimento comunista e operaio
internazionale. Se questa unità di indebolisce i gruppi più aggressivi
dell’imperialismo ne approfittano e se ne avvantaggiano.»
«Queste due battaglie – scrive Secchia – si svolgono
contemporaneamente in un mondo pieno di contraddizioni (in un mondo dove la
lotta e la contraddizione principale è tra socialismo e imperialismo). Orbene
ambedue queste lotte, quella per la pace e quella per l’indipendenza dei popoli,
devono essere portate avanti con successo, possono sembrare in un certo senso
contraddittorie; nello stesso tempo sono pienamente solidali, devono essere
coordinate fra di loro […] Non sempre è facile e semplice coordinare le lotte per
la liberazione e l’indipendenza dei popoli con le lotte per la pace, le lotte dei
movimenti di liberazione con le lotte del movimento operaio occidentale e
quelle dei paesi socialisti, ma tuttavia questo è il compito nostro, è il compito
dei comunisti. Riuscire a opporre all’imperialismo una efficace e coordinata
78
strategia unitaria, questo è il contributo di effettiva e reale solidarietà che noi
possiamo dare al Vietnam e ai popoli che lottano per difendere la loro
indipendenza, la loro libertà.»
Pochi mesi prima di morire Secchia si reca in Cile, in visita ufficiale
con una delegazione del PCI, poco dopo la vittoria elettorale della coalizione
guidata da Salvador Allende. E’ ormai assodato che Secchia subirà un
avvelenamento, con tutta probabilità da parte della CIA, durante il suo
soggiorno, con la sua condizione di salute che si aggraverà progressivamente
fino alla morte. Secchia guarda positivamente all’esperienza cilena, all’apertura
di un nuovo fronte di lotta nel Sudamerica dominato dai golpe e dalle dittature
militari, ma ammonisce i compagni cileni di prestare attenzione, vede le
contraddizioni di quel processo ed i pericoli insiti, non tanto nella direzione
politica – la prospettiva di Allende va in una buona direzione – ma nei limiti
oggettivi di quel modello molto ancorato alla democrazia parlamentare. La
storia successiva è nota sia per il Cile sia per Secchia, che morirà pochi mesi
dopo a causa dell’avvelenamento.
Ma anche dal punto di vista della sua riflessione sulle questioni
internazionali, sull’unità del movimento comunista, sulla battaglia
antimperialista come parte integrante e necessaria della lotta dei comunisti
Secchia aveva visto lungo.

di Raffaele Timperi (responsabile esteri FGC)

79
Noi ci troviamo di fronte ad un movimento
largamente positivo, animato da un grande slancio di
lottare per il potere. Si tratta di dare a questo
movimento una coscienza, una unità sulla base della
nostra esperienza delle nostre lotte di ieri e di oggi. È
naturale che il partito si faccia avanti come partito
rivoluzionario, il solo che può soddisfare e risolvere i
problemi della vita italiana e del suo avvenire. Ma
senza la pretesa che il nostro partito così com’è possa
essere il loro partiti, il ‘partito nuovo’.

80
Un possibile ponte tra il PCI e la contestazione giovanile.

Quando nel luglio del 1973 Pietro Secchia morì, dopo la malattia
derivata da quello che sembra con tutta probabilità configurarsi come un
avvelenamento operato dai servizi segreti americani in Cile, a Roma si tenne la
cerimonia funebre di partito, sotto la piazza del Campidoglio. Miriam Mafai,
che ho già precedentemente criticato per aver contribuito in parte a distorcere e
tramandare quella visione di Secchia utile alla sua messa all’angolo interna al
PCI, ci racconta però un aneddoto prezioso, sul quale sono abbastanza portato a
credere. La cerimonia organizzata dal PCI viene descritta dalla Mafai come
«una celebrazione ed un funerale un po’ sotto tono, con paure, imbarazzo e
allusioni»; l’orazione funebre fu riservata a Giancarlo Pajetta, con cui
nonostante le reciproche differenze, spesso anche forti, Secchia aveva avuto un
sincero rapporto di stima.
Ma mentre a Roma la cerimonia del PCI era segnata da questo
imbarazzo, a Milano il movimento studentesco tributò a Secchia una enorme
riconoscimento. Scrive sempre la Mafai «Diversamente il vecchio
rivoluzionario venne celebrato a Milano. Migliaia e migliaia di giovani si
riunirono alla Statale, sventolando bandiere rosse e striscioni con scritto W
Secchia, W Stalin, W Beria [...] “Non sarai dimenticato” gridarono in coro
migliaia di voci di adolescenti. E sventolando le bandiere rosse cantarono
l’internazionale.»
Come mai questo epilogo così diverso? Come mai alla figura di
Secchia, dirigente del Partito Comunista Italiano, per lunghi anni carica
istituzionale di primo piano, come vicepresidente del Senato, è tributato un
omaggio così forte e sentito dal movimento studentesco? E come mai al
contrario il suo partito, il PCI, sente la figura di Secchia come un ingombro in
quel momento, tanto che la celebrazione “sotto tono” del suo funerale, altro non
è che l’epilogo di una lunga campagna di emarginazione di Secchia all’interno
dello stesso PCI? Non è qui il momento di riprendere le critiche centrali che
Secchia pone alla linea del Partito Comunista durante la segreteria Togliatti, sia
in relazione a questioni interne che internazionali, così come è nota la battaglia
81
di Secchia a difesa della memoria della Resistenza, difesa tutt’altro che formale,
che si intrecciava con lo studio, la denuncia dei settori della borghesia, gli
apparati che tramavano contro la democrazia ed il partito comunista. È noto
altrettanto il ruolo che Secchia ebbe durante la guerra di liberazione, come
organizzatore delle brigate partigiane comuniste.
Ma Pietro Secchia fu anche il dirigente che più di tutti comprese come
la spaccatura che andava delineandosi tra il PCI e le nuove generazioni, fosse
gravida di pericoli e conseguenze negative per la storia del nostro paese.
Secchia fu un ponte in cui le nuove generazioni vedevano un riferimento di
quello che il PCI era stato ed avrebbe potuto essere, e lui vedeva nelle nuove
generazioni quello slancio, quell’avanzare verso nuovi obiettivi, che non senza
grandi contraddizioni, il mancava invece al partito comunista. Secchia
rappresentava agli occhi delle nuove generazioni la storia migliore del PCI,
quella che aveva fatto la resistenza, che non si era arresa, che alla deriva sempre
più passiva del partito comunista, aveva opposto la sua critica.
Quando nel 1954 Luigi Longo fu eletto segretario del PCI Secchia
accolse con grande favore l’elezione di quello che era stato fin dagli anni della
FGCI, e poi durante la Resistenza, il compagno con cui aveva maggiormente
collaborato e condiviso le scelte politiche. Secchia sperava che la segreteria di
Longo aprisse quelle discussioni che con Togliatti erano mancate, che in
qualche modo tornasse indietro sulla prospettiva del partito. Nonostante alcune
timidissime aperture, Secchia fu presto costretto a ricredersi: non solo non si
tornava indietro, ma il partito non arrestava la sua progressiva evoluzione.
Basterà forse citare a questo proposito la discussione al congresso del 1965,
quando le tesi del PCI apportano alcune modifiche “terminologiche” che a
Secchia non passarono inosservate. In quell’occasione Secchia scrive a Longo,
per fargli presente alcune impressioni.
«Oggi il distacco tra il gruppo dirigente e la base del partito è molto
grande […] a formare gli stati d’animo contribuisce l’impressione diffusa che
oggi si può dire tutto ciò che si vuole, ma avviene come in Parlamento, i
discorsi non servono, tanto chi dirige fa ciò che vuole. Per cui discutere serve
soltanto come sfogatoio.» Nell’intento che Secchia descrive come “buona
intenzione di dare garanzie, assicurazioni, di non spaventare, far vedere che
82
siamo buona gente” afferma «di anno in anno andiamo mutando ed addolcendo
la nostra terminologia»
Secchia polemizzerà con le tesi del PCI sia durante le commissioni ed i
lavori congressuali, sia in forma privata con Longo, e con Arturo Colombi, che
era relatore della commissione congressuale. «Appena ho preso in mano il
progetto delle tesi – scrive Secchia a Longo – alla prima riga ognuno si è subito
scontrato con un pugno nell’occhio: “il PCI si batte per la instaurazione di una
democrazia socialista in Italia” Se ci rifletti in sé l’affermazione non ha nulla di
sbagliato, però anche il modo come si formulano i concetti ha il suo valore e
significato […] Ancora nelle tesi del X congresso si parlava di lotta per il
socialismo, di lotta per realizzare una nuova società; la società socialista in
Italia. Non andava bene quella formula? » Secchia ricorda anche come fino al
1956 di affermasse chiaramente che la compiuta trasformazione della società
poteva avvenire solo mediante la presa del potere da parte della classe operaia.
«Sul progressivo mutamento non di formule transitorie, ma anche di quelle
fondamentali, dal 1956 in poi si potrebbero fare numerose citazioni. È vero, in
ogni congresso i documenti devono dire qualcosa di nuovo, ma il mutamento
avviene sempre in una sola direzione e cioè addolcendo, attenuando tutte le
formule.»
Questa lettera a Longo risulta una vera e propria ammonizione sul
presente e sul futuro del partito. «Infine certi stati d’animo scaturiscono dal fatto
più volte osservato che sì tutti possono parlare, dire ciò che vogliono, ma il
gruppo dirigente picchia soltanto e sempre in una sola direzione. E si batte in
una sola direzione proprio nel momento in cui bisognerebbe stare quanto mai
attenti al revisionismo, perché le spinte revisioniste sono potenti [...] nessuno di
noi, credo, può ritenere che il nostro partito sia corazzato, immune da ogni e
qualsiasi influenza estranea.»
Ho accennato prima della lettera a Colombi che è emblematica della
chiusura del passaggio politico. Secchia critica il fatto che per la prima volta
manchi un riferimento al marxismo-leninismo. Alle critiche Colombi risponde
che più volte l’espressione è citata, ma Secchia rileggendo le tesi nota come le
espressioni siano utilizzate sempre separatamente. Si cita il marxismo, si parla
di insegnamenti del marxismo e del leninismo, si parla di teoria rivoluzionaria e
83
di concezione leninista del partito, ma mai si usa l’espressione marxismo-
leninismo. Potrà apparire questione di sottigliezza, ma in realtà non lo è.
«Io non ho mai detto che nel progetto di tesi non ricorresse mai la
parola marxismo e leninismo o la parola rivoluzionario. Ho detto chiaramente
che quando si parla della teoria che guida il nostro partito non si dice mai qual è
questa teoria, non si specifica mai se è il marxismo, se è il leninismo, o se è il
marxismo-leninismo.» L’opposizione di Secchia può forse essere chiarita da un
altro passaggio della lettera, dove analizza tutte le espressioni usate. Questo in
particolare mi ha colpito. La tesi è “il travaglio di questi dieci anni […] hanno
portato alla rottura di incrostazioni dogmatiche e spinto alla riscoperta della
sostanza più autentica della nostra teoria rivoluzionaria e ad una più
consapevole visione del socialismo.” Il commento di Secchia è abbastanza
sprezzante: « Quanto poi alla modestia di questa affermazione, che negli ultimi
dieci anni abbiamo riscoperto la sostanza più autentica la concreta visione del
socialismo, lascio al tuo giudizio.»
La mancanza di un reale mutamento nella linea politica del PCI, il
contesto internazionale che va ad aggravarsi, la situazione italiana che peggiora
e rende i suoi più cupi presentimenti degli anni precedenti una realtà evidente,
nonostante l’enorme forza che il PCI ha ancora, sono segni profondi nella
riflessione secchiana, che vede anche nel partito l’inizio della vittoria di
tendenze ormai apertamente revisionistiche. Il tutto è acuito da quella
spaccatura di fondo tra un partito che non riesce più ad incamerare al suo
interno ed organizzare tutte le istanze di cambiamento più profondo della
società, e le nuove generazioni che in massa si mobilitano con la forza e la
convinzione che Secchia vorrebbe per il suo partito, ma mancando di un
referente politico capace di canalizzare quella forza, rischiano di disperdere un
potenziale di lotta enorme.
Tutti sono concordi nel parlare di un Secchia tormentato da questo
problema che con la malattia di Longo e la direzione di Berlinguer che poi
diventerà segreteria si acuisce ulteriormente. Nel 1971 scrive nei suoi diari
riferendosi al comitato centrale del partito. «Non ho potuto ascoltare il rapporto
di Berlinguer, ma le sue conclusioni sono di uno sbracamento riformista senza
precedenti. A suo confronto Amendola diventa uno di sinistra.» Questa
84
tensione tra la deriva del partito che ormai non riesce più ad attrarre e ciò che si
produce fuori lo inquieta.
Pochi anni prima, nel 1968 aveva espresso un parere positivo sulle proteste
giovanili, invitando il partito a prendere contatto con le nuove generazioni. Le
linee dei suoi appunti saranno ribadite poi in una lettera a Longo sempre del
1968. Quella tensione di fondo scaturisce da un ragionamento profondo: i partiti
mutano nel tempo, e con loro muta la linea politica. Ciò che una volta era
rivoluzionario oggi è visto come vecchio e contraddittorio.
«Perché molti di noi non saremmo forse stati comunisti se il partito
avesse avuto la politica fondamentale di oggi» Secchia lo dice senza giri di
parole, e proprio questo è quello che vede nelle nuove generazioni in cui
riconosce, non senza contraddizioni, lo stesso spirito che aveva animato la
gioventù nella costruzione del Partito Comunista e nella lotta per la liberazione.
Non è un caso quindi che si rivolga a Longo, che lo faccia spesso e che accolga
con favore l’incontro tra il segretario del PCI ed una delegazione del movimento
studentesco romano. «Se a noi nel 1920 avessero presentato come sembra fare
Amendola il vecchio partito socialista con l’aria di dire: qui c’è già la pentola
ove farvi bollire, non sarebbe approdato a nulla. Non ne volevamo sapere più
del vecchio PSI, delle vecchie barbe.» Da questa citazione potrebbe apparire
una versione di Secchia “giovanilista” che attua un semplice discorso
generazionale, ma non è così: la questione è espressamente politica.
«Il contrasto fondamentale dell’epoca nostra non è contrasto tra
generazioni (anche se elementi del genere sono presenti: bisogni, cultura, modi
di sentire diversi) ma è il contrasto tra il capitalismo e le sue vecchie strutture,
che rappresenta il passato e il socialismo, che rappresenta l’avvenire.» La lotta
della gioventù rappresenta per Secchia l’esplosione di questo contrasto, con le
forze nuove della società che lottano per spezzare il vecchio, espressione del
sistema capitalistico. «Sugli studenti e la loro avanzata in tutti i paesi è mia
opinione che si tratti del più possente movimento rivoluzionario di questi anni.
Lotta di generazioni e lotta di classe. Il movimento studentesco ha assunto una
dimensione politica che va al di là dalle rivendicazioni universitarie. È un
movimento di classe e di generazioni così impetuoso quale non si aveva da
cinquant’anni. Non tutte le loro posizioni sono chiare ed accettabili, non tutti gli
85
obiettivi sono precisi. Non c’è ancora un’organizzazione, una guida che li
raggruppi, li coaguli come nel 1920, ma il dato positivo che esce fuori è che
tutto il movimento è orientato a sinistra, per la pace, per la lotta, per il potere e
per il socialismo.» Quanto appaiono diverse, anche se Secchia non rinuncia a
mettere giustamente in luce le contraddizioni ed i limiti del movimento
studentesco, le sue parole con quelle di una parte del corpo dirigente del Partito
Comunista, che al movimento studentesco guarda con aperta diffidenza. Secchia
invece non esita a paragonarsi, a rivedere lo stesso spirito che animò la sua lotta.
«L’influenza che esercitò allora la rivoluzione russa l’hanno esercitata
in questi anni le rivoluzioni dei popoli per la loro indipendenza. Le guerre di
liberazione, Cina, Cuba, Vietnam – scrive Secchia a Longo – per questo i loro
idoli oggi sono Ho Chi Min, Che Guevara ecc sono gli uomini oggi viventi ed
operanti […] non si può amare ciò che non si conosce e tanto meno
entusiasmarvisi.» Con questo Secchia invitava ad evitare schematismi ed
eccessive marginalizzazioni, mettendo in luce proprio l’analogia con il
comportamento avuto dal gruppo dirigente giovane che costituì il partito
comunista. Per questi motivi secondo Secchia il partito deve rompere gli indugi
e farsi avanti nel tessere un rapporto con i movimenti giovanili.
Già nel ’68 scrive: « Noi ci troviamo di fronte ad un movimento
largamente positivo animato da un grande slancio di lottare per il potere. Si
tratta di dare a questo movimento una coscienza, una unità sulla base della
nostra esperienza, delle nostre lotte di ieri e di oggi. È naturale che il partito si
faccia avanti come il partito rivoluzionario, il solo che può soddisfare e
risolvere i problemi della vita italiana e del suo avvenire. Ma senza la pretesa
che il nostro partito così com’è possa essere il loro partito, il “partito nuovo”»
Già dal ’68 Secchia individua una questione centrale del rapporto tra il
partito comunista e le nuove generazioni, un ragionamento che continuerà per
l’inizio degli anni ’70 fino alla sua morte. Per Secchia la contestazione
giovanile è un terreno prezioso da cui attingere, nel tentativo di invertire la
tendenza alla moderazione della linea politica del partito comunista. Il fatto che
la frattura si sia prodotta – anche se quando scrive Secchia nel ’68 non ha
ancora raggiunto i profili più netti che si avranno negli anni ’70 – è imputabile
alla linea del PCI, a quell’aver perso la sua capacità di attrarre le forze migliori
86
e più propense alla lotta, che oggi si sviluppano al di fuori del partito. Secchia
comprende che dall’incontro fecondo dell’esperienza politica del PCI, e lo
slancio delle nuove generazioni potrebbe crearsi un percorso virtuoso, che eviti
la deriva moderata del PCI da una parte, l’incapacità di finalizzare la lotta
politica delle nuove generazioni dall’altra. Il fatto che questo processo non ci
realizzi, e che anzi con il compromesso storico il PCI scelga nettamente l’altra
strada, spingendo la contestazione giovanile sull’altro fronte, è a parere di chi
scrive uno tra gli elementi storici che più di tutti ha la responsabilità della
condizione attuale.
Nel concludere la sua lettera a Longo nel ’68 Secchia parla del contesto
italiano, della Nato, della presenza di possibilità di colpi di Stato e restrizioni
dell’ordinamento democratico. Entrando velocemente nel dibattito di allora,
Secchia pur ammettendo la necessità di comporre alcune spinte eccessive che
potrebbero dare il pretesto alla reazione afferma: « queste contraddizioni sono a
mio modo di vedere anche le conseguenze di una politica oscillante e talvolta
contraddittoria. La situazione è vero, è pure essa piena di contraddizioni, ma
appunto per questo richiede un indirizzo chiaro e conseguente, perché si può
parlare sin che si vuole di lotta su due fronti, ma intanto si tratta di saper
individuare in ogni momento qual è il nemico ed il pericolo principale. E qui
faccio punto, perché il discorso diviene troppo lungo.» nella criticità e
nell’accenno appena posto alla discussione con Longo si rivede la vecchia
critica di Secchia al partito, quel non aver saputo difendere le posizioni, e l’aver
lentamente capitolato torna nuovamente nella dimensione di un’azione politica
paralizzata dall’idea di non dare appigli alla reazione per colpire il PCI e
l’ordinamento democratico. Ma questa linea che pone la necessità di contrastare
ogni spinta, manca, a dire di Secchia, di altrettanta convinzione nell’altra
direzione, quella di individuare e contrastare il nemico principale. E qui le
nuove generazioni sarebbero un alleato indispensabile per il PCI, assolutamente
necessario per battere il potere dei monopoli, e l’eventuale reazione. Alleato che
tuttavia il PCI allontana troppo spesso da sé, non riuscendo ad individuare il
giusto equilibrio di quei due fronti di lotta, con la conseguenza di finire per
apparire in un certo senso difensore dello stato di cose presente. Poche righe
prima aveva scritto « non si può da un lato preparare le masse a condurre forti
87
lotte economiche e politiche a impegnare una lotta più decisiva contro la NATO
ecc, a saper fronteggiare eventuali colpi di stato e dall’altro sparare a zero
contro i giovani che sanno affrontare la polizia, che si allenano nelle lotte più
dure…»
Questa critica, spesso espressa, così come la discussione sul ruolo della
repressione e la posizione che il PCI avrebbe dovuto tenere fanno guardare con
un certo sospetto a Secchia all’interno del partito. Sono gli anni in cui alla
contestazione di piazza inizia ad affiancarsi anche l’ipotesi di gruppi che
parlano di lotta armata, e che iniziano a praticarla. Le accuse a Secchia sono
molte e profondamente ingiuste. In primo luogo si fa riferimento alle sue
pubblicazioni sulla Resistenza, che avvengono proprio in quegli anni, rispetto
alle quali il partito rimprovera a Secchia una propensione troppo spiccata a
calcare l’aspetto della lotta armata, della sua organizzazione. Secchia diventa la
memoria sepolta dal PCI, impegnato a rassicurare ampi settori della
popolazione sulla sua natura, una memoria che non deve tornare fuori. Il lavoro
di memoria storica, cui Secchia si dedica, è frutto della totale esclusione dal
vertice del PCI e allo stesso tempo un lavoro che Secchia sente come necessario
e primario per trasmettere alle nuove generazioni un patrimonio di conoscenza
assolutamente fondamentale per conoscere la storia della resistenza, ed essere
capaci di contrastare quella visione democratico-borghese che già all’epoca
iniziava a muovere i primi passi. Ma il richiamo che Secchia fa alla lotta armata
durante la Resistenza non è certo una legittimazione delle Brigate Rosse. Di
certo non è neanche quello che vorrebbe il PCI dell’epoca, ossia la rimozione
sostanziale degli aspetti di lotta che esulano dall’azione parlamentare e
sindacale.
La tensione è ben evidente in una lettera che Secchia scrive a Pajetta nel
1970, in cui Secchia precisa la sua riflessione su passato e presente, e sulle
modalità: in sostanza per Secchia a differenza di una certa linea del PCI il
discrimine non è assoluto ma relativo, storico; si basa sulle condizioni presenti.
Rimuovere del tutto la memoria di quella storia non è un pericolo solo per la
memoria passata, ma anche per l’incapacità di fronteggiare evidentemente il
nemico attuale. Scrive Secchia a Pajetta, che lo aveva criticato su questo
aspetto: « Non ho mai pensato, né ritengo che oggi si possa condurre la lotta
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armata. È persino ridicolo dover scrivere di queste cose, e tuttavia bubbole del
genere si vanno dicendo» (mi permetto di ricordare che pochi anni dopo il titolo
di un libro biografico parlerà di Secchia proprio in questi termini errati, e che
l’autrice non era di certo estranea alla politica e all’ambiente del partito).
La visione di Secchia, fatta la doverosa precisazione, emerge
chiaramente nelle righe seguenti. «Di una cosa sono invece profondamente
convinto ed è che i lavoratori italiani devono sempre essere pronti come
orientamento politico, come forza unitaria, come capacità combattiva a qualsiasi
eventualità. Non credo cioè che Nixon ed i suoi accoliti accettino la… via
italiana al socialismo» (i punti di sospensione sono di Secchia ndr). Secchia
critica l’atteggiamento del PCI che denunciando le possibili attività delle forze
reazionarie, non provvede a istruire parallelamente le masse sul da farsi. La
critica non troppo velata è anche che ogni rassicurazione sulla linea del partito e
sulle modalità non basterà certo a fermare eventualmente la reazione. «Si fa
presto a dire: ma scrivere su certi argomenti, ricordare certe lotte del passato
disturba la nostra linea politica, certi scritti possono essere mal interpretati,
specie dai giovani. Ma se domani ci capitasse qualcosa di groppo, altro che il
mal interpretato, si ricomincerebbe con le solite recriminazioni che non ci
eravamo preparati, e tutto ciò non servirebbe a un bel niente.»
È chiaro allora che da Secchia non arrivò alcun appoggio alla lotta
armata negli anni ’70, come ipotizzato da qualcuno, con l’evidente volontà di
marginalizzare una posizione scomoda, ma allo stesso tempo la sua azione a
difesa della memoria storica era un antidoto per il presente, un lasciare traccia di
cosa e di come si era agito, per permettere di non giungere impreparati nel caso
in cui la reazione avesse tentato effettivamente di prendere il sopravvento.
Secchia intellettualmente non si piegava alla volontà di rimuovere quel passato,
di piegarlo alle esigenze del presente, che nel PCI andava già emergendo.
I rimproveri a Secchia avvenivano anche per la sua posizione rispetto
alla repressione. Secchia non avrebbe di certo digerito un PCI che avesse
lasciato passare le leggi speciali, come accadde poco dopo la sua morte. La
storia non si fa con i se e con i ma, però alcuni scritti lasciano chiaramente
individuare una critica chiara al partito e alla sua linea, anche su questo.

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In uno dei suoi ultimi scritti nel 1973 intitolato “Lotta antifascista e
giovani generazioni” Secchia criticava una certa indifferenza del PCI, allora
grande partito, verso la repressione che andava acuendosi. «Sta di fatto che le
prigioni sono piene di giovani antifascisti. Può darsi che qualcuno di loro abbia
ecceduto, compiuto azioni inconsulte, ma è certo che per la maggior parte si
tratta di giovani denunciati per reati di opinione, incarcerati e perseguitati per
aver sostenuto idee rivoluzionarie, giovani che si sono coraggiosamente battuti
nelle fabbriche e nelle scuole. Noi non possiamo starcene zitti, fingere di non
vedere, non esprimere solidarietà non protestare contro questa aperta violazione
della Costituzione e dei diritti dei cittadini, solo perché si tratta di giovani
cosiddetti “extraparlamentari” […] Nessuno si illuda di poter rafforzare la
democrazia e le istituzioni democratiche con i mezzi di polizia ed i codici
fascisti.»
Questo scritto del 1973, che precede di poco la sua morte è un vero e
proprio testamento di Secchia per quanto attiene al rapporto tra partito e nuove
generazioni. Secchia torna su questo argomento, che a dire il vero non ha mai
abbandonato, dal 1968, ma con contenuti parzialmente diversi, dovuti alla
situazione del contesto generale che era andata mutando. Non siamo ancora alla
completa ed irreversibile spaccatura del ’77, ma rispetto al 1968, lungi
dall’avvicinarsi i due mondi del PCI e della contestazione giovanile si sono
ulteriormente separati. I partiti della cosiddetta estrema sinistra sono una realtà
che ha rotto il monopolio politico del PCI. I toni si fanno più complessi, meno
entusiastici, le indicazioni di azione più calzanti e critiche, ma resta la finalità di
fondo: avvicinare quei due mondi è l’unica condizione per salvare entrambi e
per far avanzare la lotta di classe in Italia, e con rendere possibile quella
prospettiva di costruzione del socialismo che se i giovani vedono sbagliando
con eccessiva fiducia, immediatamente possibile e realizzabile, il PCI ha ormai
gradualmente abbandonato, per eccesso di tatticismo e realismo politico,
mutando la sua natura.
Il titolo del suo scritto “Lotta antifascista e nuove generazioni” non è
casuale. Secchia pone in analogia e continuità la lotta delle nuove generazioni
con la lotta antifascista. La ritiene una giusta reazione allo stallo che si è
prodotto nel dopoguerra, quello stallo che lui aveva denunciato e che aveva
90
infine prodotto i risultati purtroppo previsti. «I giovani che avevano partecipato
alla Resistenza, demolendo la vecchia Italia sulla quale si era retto il fascismo e
ormai in rovina, si erano battuti per costruirne una nuova, per realizzare un
regime di democrazia progressiva, per attuare le necessarie riforme di struttura.
Invece fino ad oggi, tutto si è risolto nel “dare una mano di bianco” alle vecchie
struttura; il che oltre a molte insoddisfazioni, ha lasciato il paese sotto la
ricorrente minaccia del pericolo di involuzione reazionaria e fascista.»
E’ questa insoddisfazione per Secchia l’elemento che realizza la
premessa per il movimento studentesco. Una insoddisfazione per quel
rinnovamento mancato, che oggi viene posto all’ordine del giorno. Un obiettivo
che suonava come necessario alle orecchie del dirigente comunista che più di
ogni altro aveva posto l’accento sulla questione nell’immediato dopoguerra, che
ora vedeva avverarsi le sue più cupe prospettive, ma intravedeva nei giovani la
forza che avrebbe potuto operare un rovesciamento di una situazione che
sembrava ormai data. Un movimento che Secchia vede in continuità con i moti
del 1960 contro il governo Tambroni, dove per la prima volta la gioventù era
tornata a sollevarsi in massa per impedire l’accordo della DC con i fascisti del
MSI. Già allora dice Secchia si poneva la questione di come interloquire con le
nuove generazioni, questione che negli anni ’70 sarebbe diventata un pensiero
fisso di Secchia.
Poi giunge la mobilitazione del ’68 e Secchia conferma quanto espresse
allora: un movimento non settoriale, in cui la protesta studentesca assunse la
necessità della lotta contro il capitalismo. Il movimento studentesco è un
movimento di classe, di lotta contro il sistema. Esprime la sua convinzione della
giustezza della strada tracciata con l’incontro tra Longo ed alcuni studenti
romani, rappresentativi del movimento. Nel suo scritto cita un ottimo passaggio
del discorso di Longo in cui si spingeva a discutere, a riconoscere il ruolo del
movimento studentesco. Ma proprio da questo scatta il rammarico di Secchia. «
La situazione del ’73 non è la stessa del ’68, né tutti i nostri difetti allora
sottolineati da Longo sono superati […] Non di rado i giovani vengono visti
soltanto come “nuovi iscritti” da conquistare, come elettori. Si calcola qual è il
numero dei nuovi elettori che ogni leva porta a votare e si dimentica o si
sottovaluta il fatto che milioni di giovani non hanno ancora diritto al voto
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(anche se con il voto non si risolvono certo tutti i problemi, ci vogliono le lotte
di massa). E che questi stessi giovani, elettori o non, hanno gravissimi problemi,
esigenze da soddisfare che non trovano risoluzione nell’attuale società. Forse si
è indebolita (e non possiamo certo farne colpa ai giovani) la coscienza della
necessità dell’azione politica di massa, unitaria e permanente; la coscienza
chiara che in questa lotta politica generale di massa, un posto e una iniziativa di
primo piano spettano alle nuove generazioni. Ma questa persuasione e questa
coscienza i giovani non le acquistano da soli, “spontaneamente”, anzi nella loro
affannosa ricerca sono portati per lo più a scegliere strade diverse e
contrapposte […] è il Partito Comunista, che deve impegnarsi ad aiutare i
giovani, a prendere coscienza della necessità di un’azione politica unitaria, di
massa e permanente, nella quale i giovani possano e debbano trovare il loro
posto, non soltanto come “strumenti” e “oggetti” ma come protagonisti
principali.»
Per Secchia inoltre la seconda generazione del movimento studentesco è
diversa dalla prima. «Quella di oggi è più vicina idealmente e allo stesso tempo
più lontana cronologicamente dalla Resistenza: più vicina alla resistenza e
all’antifascismo di oggi, più lontana dalla Resistenza di trent’anni or sono alla
qualche anzi questi giovani muovono critiche che a noi non sempre piace
ammettere, ma che non sono tutte sbagliate, come per esempio quella che la
vecchia Resistenza ha raggiunto in parte assai modesta i suoi obiettivi. Questo
va detto e lo diciamo anche noi, in contrapposizione alla esaltazione retorica dei
primi anni dopo la Liberazione».
Secchia parla della critica dei giovani al PCI, del timore di essere
ingannati del provare repulsione per le parole che non corrispondono ai fatti
«Questa reazione dei giovani è sana […] il loro atteggiamento è positivo se
significa rifiuto della menzogna convenzionale e dominante, ma è insufficiente,
troppo esclusivista e pericoloso se diventa aprioristico, perché tale
atteggiamento impedisce generalmente di vedere proprio la trappola che si
vorrebbe evitare.»
Secchia pone la necessità che il PCI abbandoni la pregiudiziale di
dialogo con i movimenti, e con i partiti extraparlamentari che vanno
costituendosi, anzi invita a giudicare come veri e propri partiti alcuni soggetti
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organizzativi nati dal movimento. È il caso del Movimento Studentesco a
Milano ad esempio. E chiede che con queste organizzazioni si parta dall’idea
della necessaria discussione sul profilo politico delle idee e non sull’accusa e
sull’ostracismo. «Possiamo anche comprendere che vi siano dei giovani e non
giovani i quali abbiano perduto la fiducia nella “legalità” democratica, che non
siano d’accordo sulla possibilità di avanzare pacificamente sulla strada del
socialismo e di potervi arrivare senza scosse profonde; ma sino a quando di
tratta di idee, di opinioni, dobbiamo dibattere, discutere, contrastare con idee e
argomenti validi. Possiamo non concordare, come non concordiamo, con le
posizioni di certi gruppi che, anche estranei all’avventurismo e all’uso della
violenza individuale, all’uso della violenza come forma di lotta politica, hanno
tuttavia una linea politica ed una ideologia diverse dalle nostre. Ma alle idee si
deve rispondere con altre idee e non possiamo certo accettare che giovani e non
giovani vengano arrestati, processati, tenuti per mesi ed anni in carcere solo per
avere espresso le loro idee. Questa è repressione reazionaria e fascista.»
Su questa necessità di contatto per Secchia occorre comprendere
il’impazienza dei giovani «guai se non lo fossero!» e ricorda come spesso aveva
fatto che anche la loro generazione era stata impaziente ed aveva commesso
degli errori. «Errori ne abbiamo commessi noi. Certo questo non è un buon
motivo per lasciare che li commettano anche loro […] Noi dobbiamo criticare e
respingere senza debolezze gli errori, le posizioni sbagliate, ma anche con la
volontà di assimilare quanto è assimilabile, tutto quanto possono portare di
positivo gli uomini, in particolare i giovani, con i quali dobbiamo discutere e ai
quali ci unisce la lotta contro il fascismo e per rinnovare dalle fondamenta
l’attuale società.»
Per Secchia il richiamo al fascismo non è mero ricordo del passato, né si
esaurisce nella lotta contro i gruppi neofascisti, pur presenti e su cui Secchia da
un giudizio netto. Il fascismo a cui fa riferimento Secchia è qualcosa di più
complesso; è l’insieme del sistema delle forze reazionarie che ha difeso il potere
dei monopoli, impedendo quel cambiamento di fondo che la Resistenza aveva
configurato. Il fascismo è il potere della Democrazia Cristiana, pronto ad
allearsi con le parti più reazionarie della società per impedire il cambiamento, è
il Patto Atlantico che protegge gli interessi del capitale italiano, e che impone la
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sua cappa sulla possibile realizzazione di una reale sovranità popolare. Sono
quelle forze che hanno riportato l’Italia ad un sistema politico che esclude le
masse da una reale gestione del potere, e che sono pronte ad un’ulteriore
involuzione reazionaria qualora si paventi l’ipotesi reale del cambiamento. E le
giovani generazioni sono una forza essenziale per combattere il potere politico.
« Per questo – conclude- è auspicabile un incontro sempre maggiore, una
convergenza delle giovani generazioni e anche dei gruppi dissidenti, ma
sinceramente rivoluzionari, con il Partito Comunista, con la classe operaia, con
le forze popolari che esso in gran parte rappresenta.» Sono tra le ultime parole
scritte da Secchia, pubblicate postume, solo dopo la sua morte. E in queste
parole, nell’auspicio di Secchia, che purtroppo non si realizzò per profonde
divergenze politiche, sta l’ultimo dei grandi momenti centrali in cui Secchia
aveva indicato una strada alternativa che poteva essere elemento di soluzione e
modificare realmente il corso della storia.
Le responsabilità del PCI furono tante. La linea del partito, lungi dal
tornare indietro, andò sempre avanti, acuendo il divario con parti importanti
della società e con le nuove generazioni. Le forze migliori, più chiaramente
rivoluzionarie cercarono altrove la loro militanza politica; il PCI si chiuse alla
contestazione e scivolò su posizioni ulteriormente moderate, fino al governo di
solidarietà nazionale. Al contempo il pericolo paventato da Secchia rispetto alle
prospettive del movimento, quel ricadere nella “stessa trappola che si vorrebbe
evitare”, si è realizzato. L’insieme di questi due fattori, di questi due processi
divergenti al momento necessario, ma convergenti nell’elemento definitivo,
nell’abbandono del marxismo-leninismo, nella ricerca di nuove vie riformiste,
all’estremo opposto estremiste, molte delle quali finite nello stesso calderone
delle prime, è stato un elemento chiave del disastro che si è prodotto anni dopo.
Secchia aveva capito che il PCI poteva essere salvato solo dall’incontro
con le nuove generazioni, e che queste potevano diventare realmente
rivoluzionarie solo assumendo quel patrimonio ideale, storico e politico che il
PCI andava progressivamente abbandonando. Ma al posto di rialzare la bandiera
che si stava ammainando si decise che quella bandiera non era più valida. Con
la giusta mancanza di fiducia verso i giovani dirigenti del partito, gli stessi che
anni dopo sarebbero stati protagonisti della svolta di Occhetto, vedeva nei
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giovani che lottavano al di fuori del PCI, quella nuova generazione che avrebbe
potuto rappresentare in un certo senso la stessa scossa profonda, che la sua
generazione aveva dato al tempo della scissione con il PSI e della nascita del
Partito Comunista d’Italia. Una scossa inserita nel contesto rivoluzionario dei
popoli del mondo che alzavano la testa contro l’imperialismo e lottavano per
costruire il socialismo. Quel processo non accadde, le divisioni si acuirono,
l’occasione andò persa, e il PCI ha grandi responsabilità su questo.
La lezione di Secchia fu assunta da alcuni di compagni che dalla fine
delle esperienze della sinistra extraparlamentare entrarono nel PCI con
l’obiettivo di mutarne la linea, di arginare un processo ormai irreversibile. Si
crearono così delle aree interne, le stesse che Secchia non aveva mai avuto e
mai cercato di avere, che spesso – ironia della storia - si raggrupparono proprio
attorno a figure osteggiate da Secchia, a quei dirigenti che avevano costituito il
nuovo gruppo dirigente del partito nuovo togliattiano, sostituendo la vecchia
guardia partigiana. Giganti al confronto delle nuove leve che si proponevano
ormai la svolta definitiva, ma non privi delle contraddizioni originarie. Fu forse
proprio questa natura contraddittoria a dare a quei gruppi una funzione storica
importante, ma in definitiva perdente. Importante per aver mantenuto con la
lotta contro lo scioglimento del PCI e la costituzione di Rifondazione
Comunista all’inizio, quantomeno la bandiera della presenza organizzata dei
comunisti. Perdente storicamente proprio per le contraddizioni profonde da cui
era nata, per aver unito tutto ed il contrario di tutto, per aver tentato di
ricostituire una simbologia, una presenza senza altrettanta coscienza del ruolo
storico, senza volontà rivoluzionaria. Ben presto anche simbologia e presenza,
date le premesse, andarono perdute. La storia successiva è per lo più storia di
opportunismo, dalla quale la nostra generazione deve compiere una profonda
opera di emancipazione.
In questa lotta la figura di Pietro Secchia merita la giusta considerazione
storica, che troppo spesso in vita gli è stata negata. La lezione di Secchia è una
lezione preziosa, che i giovani devono conoscere, devono studiare, devono
assumere come propria. Sono convinto che i comunisti oggi non possano fare a
meno della lucidità con cui Pietro Secchia intuì, denuncio dalla sua posizione
privilegiata di protagonista, i limiti storici di quanto stava accadendo, gli errori,
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le sconfitte che andavano prefigurandosi. Studiarne le ragioni affinché nel
processo di ricostruzione della presenza organizzata dei comunisti in Italia,
rispetto alle nuove sfide che oggi ci attendono, quegli errori servano da lezione
e non si ripetano. Allora anche quegli errori avranno avuto una funzione storica
positiva, perché studiati e compresi avranno creato una nuova generazione di
rivoluzionari più cosciente delle proprie responsabilità dei propri compiti e del
proprio ruolo. Allora il lavoro di un grande rivoluzionario, di un grande
dirigente comunista, che ci aiuta su questa strada, non sarà stato vano.

di Alessandro Mustillo (segretario nazionale FGC)

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Il marxismo non ha mai fatto del successo immediato
la misura della verità. Una politica è giusta
indipendentemente dal successo immediato, nella misura
in cui essa rappresenta gli interessi reali della classe cu
cui si appoggia. I comunisti hanno l’ambizione di
conquistare alle loro idee la maggioranza del popolo, ma
non sono così ingenui da pensare che questa conquista
possa farsi in modo regolare e tanto meno spontaneo, su
una strada piana e ben lastricata, senza ostacoli e dirupi
scoscesi. Se si dimenticano questi dati elementari si
falsifica la storia, si falsifica il marxismo.

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