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Favole

Di Cayo Julio Fedros in italiano

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FAVOLE

Fedro
LIBRO PRIMO
PROLOGO

COn metro umil, nè a dure leggi avvinto,

Ciò ch’Esopo inventò, resi più adorno.


Due pregi ha il libricciuol; il riso move,
E con saggio consiglio il viver regge.

Se’ alcun mi rechi a biasmo che le piante,


Non che le fiere, abbia a parlare indotto;

Che son finti racconti gli sovvenga.


FAVOLA I.

Il Lupo e l’Agnello

A un rio medesmo, da la sete spinti,


L’Agnello e ’l Lupo eran venuti. Il Lupo
Al fonte più vicin; da lunge assai,

Bevea l’Agnello; allor che ingorda fame


Punse il ladron a ricercar tal rissa.

Perchè l’acqua, a lui dice, osi turbarmi?


L’Agnel tremante: intorbidar poss’io
L’onda, che dal tuo labbro al mio trascorre?

Quegli vinto dal ver: ma tu soggiugne,


Fin da sei mesi con acerbi motti

M’oltraggiasti: io non era allora nato,


L’Agnel risponde: affè, riprende il Lupo,
Che villania il padre tuo mi disse.
Così l’addenta, e ne fa ingiusto scempio.
La favoletta per coloro è scritta,
Che con falsi pretesti i buoni opprimono.
FAVOLA II.

Le Rane, che chiedono un re.

Retta fiorìa da giuste leggi Atene:


Allor che troppo libera licenza,
Sconvolse la città; sicchè del retto

Santo primier costume il fren le tolse,


Nè guari andò, che le fazion s’uniro,

E fer Signor Pisistrato. La grave


Lor servitude i cittadini piangendo;
Non già perchè crudel fosse costui,

Ma chi avvezzo non è, mal soffre il giogo:


Raccontò questa novelluccia Esopo.

Sciolte da servitude eran le Rane;


Quando d’aver un re vogliose, a Giove
Con tai grida il richieser, ch’e’ ridendo,
Un picciol travicelio a lor destina.
Lo strepito che fa ne l’improvviso
Cader, sgomenta il pauroso gregge.

Ma poichè lungo tempo impantanato


Giaceva, da lo stagno chetamente

Una alza a caso il capo, il guata; e l’altre


Aduna, e mostra il rege: arditamente
Salgonvi sopra a gara, e dopo averlo
D’ogni feccia imbrattato, ambasciatori
Spediro a Giove, tal sovran chiedendo,

Che con la forza i rei costumi affreni,


Se quello far noi puote. Immantinente

Lor manda Giove un Idro, che a lo stagno


Giunto appena, le ingoja ad una ad una.
Vorrian fuggire; ma il timor le arresta,

Nè dà lor campo ad implorar mercede.

A Mercurio commetton di nascosto


Che chieggia pietà a Giove: ma il gran Padre:
Poichè un re buon, dice, vi dispiacque

Abbiatene un crudele. E Voi ancora


Tollerate costui; un mal più grave

Se nol soffrite, cittadin’, v’aspetta.


FAVOLA III.

La Cornacchia superba e il Pavone

Per insegnarci, anzi ch’ambir l’altrui,


De i ben’ che ’l ciel ci diede, ad esser paghi,
Di tal esempio Esopo ci provvide.

Una Cornacchia follemente altera,


D’alcune piume ad un Pavon cadute,

S’adorna, e le Cornacchie avute a vile,


Fra i bei Pavon’ si mischia. A la sfacciata
Essi svelgon le penne, e sì co’ rostri

L’inseguon, che mal concia, e in van gemente,


Ver le antiche campagne il volo indrizza,

Ove acerba sostiene acre ripulsa.


Una di quelle allor ch’avea sprezzate:
Spiacerti non dovean nostri abituri,
Nè a sdegno aver ciò che ti diè natura.
Così sfuggita quella beffa aresti,

Nè accorar ti potrebbe or la ripulsa,


Che schernita ti rende, ed infelice.
FAVOLA IV.
Il Cane che porta la carne per lo fiume.

BEn è ragion, che ’l suo perda colui,


Che l’altrui di rapire avido agogna.
Con carne in bocca a nuoto per un fiume
Passava un Cane. La fallace immago,
Che forman l’acque, a credere l’induce,
Che altro Can v’è con altra carne in bocca.
Tenta rapirla, ma riman l’ingordo
Deluso; l’afferrata a lui s’invola,
Nè l’altra cui bramò, toccar poteo.
FAVOLA V.

La Vacca, la Capra, la Pecora, e il Leone.

CHi di forza preval, la fe non serba;


E ben chiaro il dimostra il mio racconto.
Una Vacca, una Capra, ed una Pecora,

Che più ch’altro animal le ingiurie soffre)

Ne’ boschi a caccia d’un Leon compagne,


Fero d’un Cervo d’ampia mole preda.
Ne fa il Leon le parti, e sì soggiugne:

Prendo, poichè son re, la prima: l’altra


È mia, perchè son forte: anche la terza,

Se vi avanzo in valore, a me si debbe.


Se alcuno poi contrastarmi osa la quarta,
Fia che sciagura incontri. In cotal guisa
Lo sleal tutto il Cervo a se destina.
FAVOLA VI.

Querela delle Rane contro al Sole.

D’un vicin ladro le pompose nozze


Esopo vide, e a così dire imprese:
Volea il Sole ammogliarsi, quando altissime

Strida fino a le stelle alzar’ le Rane.


Mosso a cotesta petulanza Giove,

Ne richiese il perchè. Ora se tutti


I laghi, una risponde, ei solo asciuga,
E ardente sete noi meschine uccide;

Che fia se figli da tai nozze ottenga?


FAVOLA VII.

La Volpe ad una Maschera o sia faccia da scena.

S’Imbattè in una Maschera la Volpe:


Oh qual beltà di cervel, disse, è priva!
* A coloro il narrai, cui se fortuna

Diè gloria e onor, fu di buon senno avara.


FAVOLA VIII.

Il Lupo e la Gru.

SE da’ malvagi ricompensa attendi,


Doppio è il tuo errore: a’ rei soccorso appresti,
Nè potrà tua follia irne impunita.

* Erasi al Lupo ne la gola fitto


Un osso sì, che dal dolor forzato,

Alto premio propose a chi il traesse.


Alfin la Gru dal giuramento indotta,
Fidando il lungo collo al Lupo in bocca,

Giunge a le fauci, e con suo gran periglio,


Trattone l’osso, ogni dolor gli toglie.

Chiesto il promesso premio; il Lupo: ingrata,

Da che fuor di mia gola impune il capo


Traesti, non se’ paga, e mercè chiedi?
FAVOLA IX.

Il Passere, e la Lepre.

È Un folle avviso dar consiglio altrui,


Nè curar se medesimo. In brieve il mostro:
* Fra gli artigli de l’Aquila una Lepre

Altamente gemea. Sì la dileggia


Un Passere: dov’è tuo lieve corso,

E come i piedi così tardi avesti?


Parlava ancora, e lo Sparvier repente
Lo afferra, e a morte in van gemente il tragge.

Benchè di vita è sul confin la Lepre,


Quasi l’altrui rechi al suo mal conforto:

Tu che sicuro, dice, mi schernivi,


Con pari duolo il tuo destino or piagni.
FAVOLA X.

Il Lupo e la Volpe innanzi alla Scimmia.

CH’ad un, s’è colto una fiata in frode,


Se poscia dice il ver fe non si presti;

Con brieve favoluzza Esopo il mostra.


* Accusata di furto era da un Lupo

La Volpe: essa lo niega. Eletta è Giudice


La Scimmia, che le parti entrambe udite,
Sì parla: tu non sembri aver perduto

Lupo, ciò che richiedi, e avrai rapito


Tu Volpe ciò ch’accortamente nieghi.
FAVOLA XI.

L’Asino e il Leone, che vanno a caccia.

Chi a le parole egual non ha valore,


Ancorchè uno stranier tal volta inganni,
Da chiunque il conosce è avuto a scherno.

* Volle a caccia un Leone ir col giumento;


Di fronda il copre, e che con voce strana

Le fiere intimorisca, ad esso impone;


Ch’ei prese nel fuggir poscia le arebbe,
L’orecchiutello grandi strida innalza,

Da cui, e dal difforme ignoto aspetto


Le fiere intimorite per le note

Strade tentan fuggir; ma impetuoso


Il Leone le assale, e ne fa scempio.
Da la strage indi stanco, a se il richiama,
Ed a lui fa di più gridar divieto.
Esso altier: di mia voce or che ti sembra?

Tanto, il Leon soggiugne, che se ignota


Erami la tua schiatta, e ’l valor tuo,

Sarei, se fuggir’ l’altre, io pur fuggito.


FAVOLA XII.

Il Cervo alla fonte.

SPesso addivien, che cosa avuta a vile


Util più sia che la tenuta in pregio:
E chiaro vel dimostra il mio racconto:

* Presso ad un fonte ove bevuto avea,


Fermossi un Cervo, e la sua immagin vide,

E le gracili gambe dileggiando,


Le ramose alte corna ammira, e loda,
Quando de’ cacciatori a le improvvise

Grida atterrito, con veloce corso


I campi passa, e folta selva il cela;

E la turba de’ Cani in van lo siegue.


Ma da l’eccelse corna trattenuto,
Da’ fieri morsi a dura morte è addotto.
O me infelice, è fama che dicesse
Allor morendo: veggio al fin qual danno
Ciò che lodai m’apporti, e quale aita

Mi recò ciò ch’a torto ebbi in dispregio.


FAVOLA XIII.

La Volpe e il Corvo.

SI pente in van cui finta lode alletta,


Che ria vergogna suo mal grado il segue.
* Mangiar volea sovra alto ramo assiso

Il cacio tolto a una finestra il Corvo.


La volpe il vede: o come belle sono,

Dice, le penne tue! qual leggiadria


Ne le tue membra scorgo, e nel sembiante!
Se al resto è ugual la voce, fra gli augelli

Nessuno tuoi pregi adegua: allor lo stolto


Per farsi udir, lascia la preda, e canta.

L’ingannevol Volpetta avidamente


Il cacio addenta. Allor s’avvide il Corvo,
Ma tardi, e si lagnò di sua follìa.
Sempre al valor prevalse l’accortezza.
FAVOLA XIV.

Il Ciabattino fintosi Medico

A Povertà ridotto un Ciabattino,


In luogo ignoto andonne, e là si finse
Medico, e dispacciando finti Antidoti,

Con ciance di grand’uomo il grido ottenne.


Il re de la città, cui da gran tempo

Fier morbo aggrava, un bicchier chiede, e il vero


Così n’esplora: co’ lodati antidoti
Finge mescer in acqua un rio veleno:

E premio proponendo al finto medico,


Vuol che la beva. Esso al timor di morte,

Palesa, che non arte, o il saper suo,


Ma la stoltezza altrui sì chiaro il fece.
Allor al popol radunato disse
Il saggio re: qual è vostra follìa,
Ch’a lui fidar non dubitate il capo,
A cui nessun diede a calzar le piante!

* Renda cauti color l’istoria mia,


La cui sciocchezza gl’impostori impingua.
FAVOLA .

L’Asino al vecchio pastore.

SE il Principe si cangia, un uom del volgo


Null’altro cangia, che del Prence il nome;
Che ciò sia ver, brieve racconto insegna.

* Nel prato un Vecchio l’Asinel pascea,


Ma de’ nemici a l’improvvise grida,

Atterrito, a fuggir l’Asino esorta,


Per non restar de l’oste entrambi in preda.

Ei però non s’affretta, e al Vecchio chiede,

Se doppia soma il vincitor gl’imponga?


No, gli risponde il Vecchio. E che m’importa,
Di aver nuovo padron, s’ugual n’ho il peso?
FAVOLA XVI.

Il Cervo e la Pecora.

IN prestito chiedendo uom frodolento,


S’offra mallevador, simile a lui,
Anzi ch’assicurarti, ordisce inganno.

* Con sicurtà del Lupo, ad una Pecora,


Un moggio di frumento il Cervo chiese.

Essa che inganno teme: suole il Lupo


Rapir, risponde, e ratto girne altrove:
E tu del pari a gli occhj altrui t’involi.

Se in giudicio a chiamarvi un dì costretta


Verrà ch’io sia; dove dovrò cercarvi?
FAVOLA XVII.

La Pecora, il Cane e il Lupo.

PEna incontra chi tesse ai buoni inganno.


* D’aver dato in prestanza un Cane infinse
A la Pecora un pane, e a lei lo chiese.

Citato il Lupo in testimonio, attesta

Che diece, non che un solo, a lui dovea.


Sicchè da falso testimonio astretta,
Paga ciò che non dee. Dì pochi andaro,

Che vide il Lupo ne la fossa; e questa


De la tua fraude, disse, è la mercede.
FAVOLA XVIII.

La donna partoriente.

NEssun brama tornar ov’ebbe danno.


* Già scorso il tempo, ed imminente il parto,
Su la terra giacea stesa una Donna.

Strida, ed urli mandando. E perchè in letto,


Lo sposo, dice, non ti corchi, u’ meglio,

Di natura deponga il grave incarco?


Perchè veder non so (quella risponde)
Come, ove nacque il mal, guarir si possa.
FAVOLA XIX.

La Cagna Partoriente.

SE cortese è un malvagio, inganni adopra,


Ed a schifarli il mio racconto insegna.
* Fra’ dolori di parto una sua amica

Cagna, un’altra pregò, che le lasciasse

Depor nel suo tugurio i pargoletti;


E agevolmente l’impetrò: ma poscia
Che se ne andasse instando l’altra, a’ nuovi

Prieghi ricorre, e un brieve tempo chiede,


Finchè la prole maggior forza acquisti.

L’ottien; ma allor ch’il luogo vuol per l’altra,


Essa dice, il darò, se il tuo valore,
Me insieme, e i figli miei combatter possa.
FAVOLA XX.

I Cani famelici.

FOlle consiglio, ed è di effetto privo,


E i mortali in ruina, e a morte adduce.
* D’un fiume in fondo videro una pelle

Alcuni Cani; in vana speme addotti


Di trarla fuori, incominciaro a bere;

Ma gonfj pria creparo, anzi che il cuojo


Ad assaggiar alcun di lor giugnesse.
FAVOLA XXI.

Il Leone vecchio, il Cignale, il Toro e l’Asino.

CHi da l’antica dignità decade


Allor che più l’insegue avversa sorte,
Scherno divien de gl’infingardi ancora.

* Privo il Leon di forze, e d’anni carco,


Su l’estremo confin del viver suo,

Qual fulmine il Cignal, col dente acuto,


Prende di torto antico alta vendetta.
Poco ne va, che il Toro, del nemico

Il ventre con le corna, e fere, e squarcia.


L’Asin che scorge impuni irne le offese,

La fronte del Leon coi calci infrange.


Esso morendo, infin, disse, che i forti
M’insultaro, mi dolse; ma ch’un vile
Disonor di natura osi cotanto,
Ed io lo soffra, doppiamente io muojo.
FAVOLA XXII.

La Donnola e l’Uomo.

LA Donnola da un Uom dianzi presa,


Per la morte sfuggir tai preci porge.

Tengo la casa tua netta da’ topi;


Perciò cortese a me perdona. L’altro:

Se per me tu il facessi, io l’avrei caro,


E a le preghiere tue sarei cortese;
Ma poichè a goder ciò che godrian essi,

Tue cure impieghi, ed essi pur divori,


Cotesto benefizio invan millanti:

E in così dir la cattivella uccide.


* Riconosca diretto a se il racconto
Chi sovvenendo altrui, se stesso avanza,
E un vano merto a gl’imprudenti estolle.
FAVOLA XXIII.

Il Cane fedele.

UN’improvvisa liberalitade,
Se a’ folli piace, i saggi in van lusinga.
* Un ladroncel notturno per far prova,

Se col cibo amicarsi possa il Cane,


Un pan gli porge. Il Cane a lui rivolto,

Ch’io taccia, dice, tu lo speri indarno;


A più vegliar cotesto don m’astrigne,
Tal che del mio tacer tu non profitti.
FAVOLA XXIV.

La Rana crepata e il Bue.

CHi dal destino avaro ha scarsi beni,


Se il grande imitar vuol, ruina incontra.
* Da la Rana in un prato il Bue fu visto;

E punta da livor di tanta mole,


Gonfia la scabra pelle, e chiede a’ figli,

Se ancora il Bue ne la grandezza avanzi.


Rispondono, che no. Ella più gonfiasi,
E chi maggior fia, chiede. Il Bue ripetono.

Sdegnata alfin, con tal forza si gonfia,


Che rottasi la pelle, estinta giace.
FAVOLA XXV.

Il Cane e il Cocodrillo.

SE stesso a scherno espone, e in van s’adopra,


Chi condur tenta i saggi a’ rei consigli.
* Che bean correndo sitibondi i Cani

Al fiume Nilo, per non esser preda


De Coccodrilli, è fama. Un Cane adunque

Avendo in guisa tal impreso a bere;


A lui un Coccodrillo: A tuo grand’agio

Bei presso al fiume, e non temer d’inganno.


L’altro dice, il farei, se quel desio,

Ch’hai di mia carne, a me fosse nascoso.


FAVOLA XXVI.

la Volpe, e la Cicogna.

NOn offendere alcun: ma chi n’offenda,


A vendicar, la favoletta insegna.
* Dicesi, che la Volpe invitò a cena

Una Cicogna, ch’apprestar si vide


In largo piatto liquida vivanda:

Talchè tutta lambir la può la volpe;


Il famelico augel nulla n’assaggia.
E questo pur a cena l’altro invita;

E posto trito cibo in vaso angusto,


Tutto col becco agevolmente il prende,

E si pasce a sua voglia. Indarno l’altra,


Cui tormenta ria fame, il collo lambe.
Sì allor parlò l’augello: invan ti lagni,
Ch’altri il tuo esempio in danno tuo rivolga.
FAVOLA XXVII.

Il Cane, il Tesoro e l’Avoltojo.

ADattata a gli avari è la novella,


E ad un, che nato in umil fortuna,
A la fama di ricco avido aspira.

* L’ossa d’un uom dissotterrando un Cane


Trovò un tesor. Gli Dei d’Averno in pena

Del sacrilego ardir, la copidigia


Gl’inspirar di ricchezze. Tal desio
L’ingombra sì, che cibo alcun non cura,

Onde da dura fame è alfin consunto.


Sul cui cadaver sceso l’Avoltojo,

Ben giusto è, dice, che tu giaccia estinto;


Poichè vilmente in strada conceputo,
E cresciuto al letame, in un istante
Di regali ricchezze t’invaghisti.
FAVOLA XXVIII.

La Volpe e l’Aquila.

NOn dispregi il possente un uom del volgo


Cui non previsto apre vendetta il varco
* Ingegnoso pensier. L’Aquila i figli

Rapì a la Volpe, e a i figli suoi nel nido

Li diè in cibo: la prega l’altra indarno,


Poichè l’augel, cui la sublime cima
Rendea sicuro, i preghi altrui non cura.

La Volpe, che sue preci ir vede a vuoto,


Da l’altare una fiaccola rapita,

Tutto di fiamme l’albero circonda;


E la morte de’ figli a lei minaccia.
L’augel cui de la prole il rischio affanna,
Supplice i Vulpicin’ salvi le rende.
FAVOLA XXIX.

L’Asino mottegiatore del Cignale.

GLi stolti co’ motteggi un piacer lieve


Cercando, fanno altrui villana offesa,
Ed espongon se stessi a rio periglio.

* Col Cignale incontratosi un Giumento,


Buon dì fratel, gli dice. Egli il saluto

Rigetta, e d’onde e’ fia fratel gli chiede?


Almen (l’Asin risponde, estratto il pene)
Se in altro par che a te non rassomigli,

Questo mi par al ceffo tuo simile.


Assalir lo volea, e farlo in brani

Il Cignale; ma pur l’ira rattenne;

E agevol fora vendicarmi, ei dice,


Ma lordarmi di un vil sangue non voglio.
FAVOLA XXX.

Le Rane che temono i combattimenti de’ Tori.

SOno i Plebei in gran periglio allora,


Che vengono a tenzon fra loro i grandi.
* Vide i Tori pugnar da la palude

Una Rana, e a noi, dice qual sovrasta


Strage crudel! Perchè, soggiugne un’altra,

Se per regger la mandra è la tenzone,


E lontan da gli stagni è il lor soggiorno?
Nè natura comun, nè tetto abbiamo,

Risponde; ma colui che rimane vinto,


I boschi abbandonando, ne gli stagni

Asconderassi, e noi fuggenti invano


Col duro piè schiacciando infrangerà;
Ed ecco a noi funesto il lor furore.
FAVOLA XXXI.

Il Nibbio e le Colombe.

CHi per difsa ad uom tristo s’affida,


Dove ajuto ei ricerca, danno incontra.
* Spesso col ratto volo le Colombe,

Il Nibbio predatore avean deluso.


A la frode e’ ricorre; onde l’inerme

Stuolo tragge in inganno; e perchè, dice,


In continua angoscia i dì menate?
Meglio fora, che fatta lega insieme,

Il comando io n’ottenga; sì n’andrete


Per mia difesa da gli oltraggi franche.

Esse credule al Nibbio in man si danno,


Che fatto lor Signore, or questa or quella
Presa fra’ duri artigli, si divora.
Una di quelle allor che eran rimase:
Tale il volemmo, s’è crudel costui.

Il Fine del Libro Primo.


LIBRO SECONDO.
PROLOGO

DE’ mortali a i desiri impongon freno


I racconti, onde Esopo a noi fe’ dono,
Talchè il comun fallire si corregga,
E industre ingegno ad acuirsi apprenda:
Quinci qualunque sia la favoletta,
Se dal proposto fin non s’allontani,
E diletti l’orecchio, illustre assai
Non per l’Autor, ma per se stessa è l’opra.
Del saggio vecchio ad imitar lo stile,
Impiegherò mie cure; ma se alcuna

Cosa di mio frapporre unqua mi piaccia,


Sicchè diletto, variando, apporti,
Vo’ che il lettor in buona parte il prenda.
Mia brevitade questo don vi porge,
Di cui prolissa esser non dee la lode.
FAVOLA I.

Il Giovenco, il Leone e il Cacciatore.

A rigettar de gli avidi le inchieste,


Ed a’ modesti a offrir tuoi doni apprendi.
* Stava sopra un Giovenco testè ucciso

Fiero Leone. Un Cacciator là giunto


Ne chiede parte; io lo farei, risponde,

Ma prenderne tu stesso hai per costume;


E sì l’ardir del temerario affrena.
In buon punto uom dabben colà perviene;

Ma il Leon vede appena, e il piè ritira.


Ei mite, non temer; dee tua modestia

Averne parte. Francamente prendila.


Il bue divide, e fa ritorno al bosco.
* Degno di lode esempio! e pur si vede
Ricco l’ardir, e la modestia grama!
FAVOLA II.

La Vecchia e la Giovane, amanti d’un Uomo di mezza età.

O sien le Donne amanti, o pure amate,


Vi spogliano a la fin. Ecco l’esempio.
* Un uom di mezza età duo Donne amava;

Una con la lindezza gli anni asconde;


Giovine e bella è l’altra; uguale etate

Mentre affettan mostrargli entrambe, i crini


Gli svelgono a vicenda. Ei che si crede,
Che il pulisca lor cura, di repente

Calvo divien. I bianchi crin’ gli avea


Svelti la Giovinetta, e l’altra i neri.
FAVOLA III.

L’Uomo, e il Cane.

UN Uomo a can rabbioso, onde fu morso,


Pane gittò ne la ferita intinto,
Che remedio opportuno essere udìo.

Dove sien molti Can’ (soggiugne Esopo)


Guardati di nol far, perchè altrimente,

Ove tale mercè sia de la colpa,

Rimarem tutti de’ lor denti in preda.

* Malvagio oprar se lieto fine ottenga,


I pravi esempj ad imitar ne invita.
FAVOLA IV.

L’Aquila, la Gatta, e la Scrofa selvaggia.

L’Aquila in cima d’una quercia annosa


Fatto avea il nido. Una selvaggia Scrofa
Depose i porcelletti a la radice:

Nel cavo ch’è nel mezzo, partoriti


Avea una Gatta i pargoletti suoi,

Che cotal camerata a caso unita


Con arti scellerate, e rie disciolse.
De l’Aquila s’aggrappa al nido, e oh quale

Danno a te, dice, e forse a me sovrasta!


Col continuo scavar che fa la Scrofa

La quercia atterrar vuol, sicchè cadendo


I nostri figli uccida. A cotai detti
De l’augel turba alto terrore i sensi.
Allor l’astuta corre in ver la Scrofa;
E in gran periglio, dice, è la tua prole.
Quando uscirai con essa a la pastura,

L’Aquila è pronta a farne avida preda.


La Gatta dopo aver anche costei

Ripiena di timor, s’intana e asconde;


Indi pian piano a la campagna uscendo,
Giunta la notte, del trovato cibo
Largamente se stessa, e i figli pasce:

Qual timida il dì tutto osserva, e guata.


L’Aquila intanto paurosa stassi

Su gli alti rami ad osservar la Scrofa.


Questa, i figli perchè non le sien tolti,
De la tana non esce. Indi ambe, e i figli

Di pura fame morti, a’ suoi Gattucci,


Lauto convito l’empia Gatta appresta.

* Stolta credulità quinci comprenda,


Un frodolento qual ruina apporti.
FAVOLA V.

Cesare al custode dell’Atrio.

CErta di Faccendier’ razza evvi in Roma,


Che nulla fa, e in mille cure immersa,
Qua e là senza ragion corre affannosa,

Onde reca a se pena, onta ad altrui.


E difficil’ impresa; pur m’accingo

Con non finto racconto ad emendarla:


E degno è ben che orecchio gli si appresti.
* Nel viaggio, che fe’ Tiberio a Napoi,

A la sua Villa di Miseno giunto,

Che in erto colle fabbricò Lucullo,


Sicchè il Mar di Sicilia a sua veduta
Ha soggetto, e da lunge il Tosco mira;
Fra gli alto-cinti servidor de l’atrio,
Un, cui fascia d’Egitto, da le spalle
Tratta, la veste tal raggruppa e strigne,

Che dal suo nodo sien le falde sciolte:


D’acqua ripien preso un orciuol di legno,

Onde al Padron si mostri ufficioso,


Che per verzure amene iva a diporto,
Il terren caldo inaffia. Ma il Padrone
Punto nol cura; indi per noti giri
In un altro vial il suo Signore

Precorre, ed ivi pur la polve ammorza.


L’astuzia di costui comprende il Duce,

E quale nel suo oprar fin si proponga;


Ma vuol, che speme lo lusinghi indarno:
Poscia a se il chiama. Ei pronto si presenta,

E lieto attende la guanciata amica,


Che libertade apporti. Sorridendo

Così scherzò la maestà del Prence:


Poco hai tu fatto, e ciò l’hai fatto indarno;
Assai più care le guanciate io vendo.
FAVOLA VI.

L’Aquila, la Cornacchia, e la Testuggine.

NEssun contro a un potente è assai difeso;


Ma se rìo consigliero a lui s’aggiunga,
Nequizia a forza unita il tutto atterra.

* Trasse l’Aquila in alto una Testuggine,


Che tutta ascosa entro la dura scorza

Non lascia che l’augel le faccia offesa.


Là vola una Cornacchia, e avvicinatasi,
Pingue è, dice, tua preda: pur m’avveggio,

Che se ciò che far dei, non ti si additi;


Andrai di grave peso indarno carca.

Parte a lei ne promette. L’altra allora:


Ver l’alte stelle innalza il volo, e a piombo
Sopra uno scoglio l’abbandona, e infranta
La dura scorza, a tuo piacer l’addenta.
Pronto l’augel l’innalza, ed ottenuto
Dal rio consiglio fortunato evento,

Ricca parte ne dona a la Cornacchia.


Così colei difesa da natura,

Tal che una darle morte unqua non seppe,


Quella, in cui due s’unir’, campar non pote.
FAVOLA VII.

I Muli, e i Ladroni.

GIvan due Muli di gran soma carchi


Gravi di pubblico oro; ed ampie ceste
Portava l’un; sacchi pien d’orzo l’altro.

Superbo il primo per lo ricco peso


Scuotendo acuto campanel dal collo,

Erta tien la cervice, ed orgogliosa;


Dimesso l’altro, chetamente il segue.
Quand’ecco i Ladri da gli agguati scagliansi

Contro del Mulo altero, e ne la zuffa


In cui la ricca soma a lui s’invola,

Soffrir più colpi a l’infelice è forza;


Il vil peso de l’altro hanno in dispregio.
Mentre il compagno de la sorte duolsi:
A gran pro (dice l’altro) io fui negletto:
Nessun ferimmi, e intero l’orzo io serbo.
* Sicure son le povere fortune,

Son le opulente a gran perigli esposte.


FAVOLA VIII.

Il Cervo, e i Buoi.

SCacciato fuor de’ folti boschi il Cervo,


Da fiero cacciator che a morte il cerca,

Tal ha timor, ne la vicina villa,


Entro a una stalla celasi fra Buoi.

Quando un lor: misero, in bocca a morte


Entro abituro uman tua vita affidi?
Qui lacciatemi, a lui soggiugne il Cervo:

Quando il vorrà fortuna a’ boschi io riedo.


La notte vien, e a’ Buoi la fronde arreca

Il bifolco, nè il Cervo ivi discopre.


Vengono gli altri tutti, e pur di tanti
(Fra quali evvi il fattor) nessun l’osserva.
Sicchè a’ Buoi, donde fu sottratto a morte,
A render grazie il Cervo s’accingea.
Bramiam bensì, che salvo al bosco rieda

Un dice; ma se vien quel ch’ha cent’occhi,


Fia tua vita in periglio: il dice appena,

Che ritorna il Padron da cena, e visto


Poc’anzi i Buoi negletti, a lor s’accosta:
E perchè, dice, senza fronda, e senza
Toglier via queste ragnatelle! In somma,
Mentre tutto ricerca, e tutto osserva,

Scuopre a l’eccelse corna il Cervo ascoso.


Ei chiama la famiglia: il prende, e uccide.

* La Favola tal senso in se racchiude:


Vede acuto il Padron ne le sue cose.
E P I L O G O.

A L’ingegno d’Esopo eresse Atene,

Un simulacro, e in base eterna un Servo


Pose, perchè si veggia, che Virtude,
Non chiarezza di sangue onore arreca.

Quantunque ne la gloria e’ mi prevenne,


Pur questo ottenni almen, ch’ei sol non fosse;

Nè ciò livor, emulazion mi spinse.


Che se il Lazio mie cure e approvi, e onori,
Ei molti avrà da star co’ Greci a fronte.

Se condannarmi invidia imprenda; il merto


Fra se stessa a approvar sarà costretta.

Se poi tue orecchie il mio lavor diletti,


E a rilevar pervenga l’opra mia,
Le querele a sbandir ciò fia bastante.
Se cada in man di quei, cui ria natura
De’ buoni a roder l’opre a vita trasse,
Costante il soffrirò; finchè conosca

Fortuna il suo delitto, e rossor n’abbia.

Il Fine del Libro Secondo.


LIBRO TERZO
PROLOGO

AD EUTICO.

SE legger brami, Eutico, i libri miei,


Ogni cura allontana, onde a la sciolta

Mente de’ versi la forza pervenga.


Ma il tuo ingegno non merta, a me rispondi,

Ch’un sol momento al mio dover si rubi.


Dunque fia me’, che ciò tua man non tocchi,
Che ad occupate orecchie mal s’adatta.

Ma tu fosse dirai: verran le Ferie,


Ove a gli studj da gli affari io rieda.

Fia dunque allor che tu a mie baje attenda,


Quando te da gli affari a se richiami
E moglie a casa, e amici; e il corpo stanco,
E la mente da mille cure oppressa
Giusto sollievo, e brieve ozio richiegga;

Da cui più franco al primo oprar ritorni?


Altro impiego deh prendi, altri costumi,

Se de le Muse a’ liminari aspiri.


Io che pur nacqui su l’Aonio giogo,
U’ diè a la luce l’alma Dea Memnosine
Di nove figlie il nobil Coro a Giove,
E chiara lode ottenni da tai studj,

Ove i natali in certa guisa io trassi;


Io cui brama d’aver unqua non prese,

Ne la sacra famiglia a stento, e appena,


Mi veggio ammesso. E che avverrà a colui,
Che purchè a l’oro altro nuovo oro aggiunga,

Cui più del letterario acquisto apprezza,


Nulla cura il vegliar le notti intere?

Ma comunque sia questo, come a Priamo


Disse Sinon, condotto a lui davanti,
Il terzo Libro de le mie Novelle,

Ove Esopo a seguir industre impresi,


Al merto ed onor tuo scrivo, e consagro,

Mel recherò, se il leggi, a gran ventura!


Se no, diletto i posteri n’avranno.
Or brievemente qual’origin trasse

La Favola dirò. Per iscoprire


Ciò che in palese un servo non ardìo,

(Sì di sua sorte il fan cauto i perigli)


I sensi suoi in favole rivolse,

E al livor con novelle si sottrasse.


Il varco aprimmi Esopo; io dietro a lui
Più di ciò ch’egli scrisse, inventar seppi,
Da cui la parte scegliere mi piacque,
Che sembrommi più acconcia a mia sventura.

Se il testimon, l’accusator, il giudice


Non fosse un sol Sejano, io mi direi

Dal mal che soffro, giustamente oppresso,


Nè di cotal conforto in cerca andrei.
Che se taluno il suo sospetto inganni,

E a se ciò tragga, ove il comune io purgo,


Porrà lo stolto in chiaro i suoi rimorsi.

Ma costui pur vo’ che mia scusa ascolti.


Nessun addito. Il pubblico costume
Io sol disvelo. È malagevol l’opra;

Ma se Anacarsi Scita, o il Frigio Esopo,


Eterna fama con l’ingegno loro

Acquistaro; io che nacqui a’dotti Greci


Più vicin, lascerò che neghittoso
Sonno a’miei Traci un giusto onor rapisca?
Nè il primo già sarò, cui vantin essi
Fra’ dotti spirti; ebbero un Lin d’Apollo,
Ed Orfeo de le Muse illustri germi.

Costui le pietre al dolce canto trasse,

Placò le fiere, e l’Ebro altier rattenne.


Dunque sen parta Invidia: ella in van piagne.
Di chiara lode è degno il mio lavoro.
* Alfin t’ho indotto a leggere. Un sincero
Dal tuo noto candor giudicio attendo.
FAVOLA I.

La Vecchia all’anfora, o sia Orcioletto vuoto.

VIde una Vecchia un orcioletto vuoto


Giacer negletto, in cui v’eran rimasi
D’un ottimo Falerno vecchi avanzi.

La cui fragranza d’ogni intorno sparsa,


Con le narici quanto pote, attratta,

O che soave odor! gli dice: O quanto


Di buono sarà stato in te una volta,
Se tanto n’hanno i rimasugli ancora!

Ciò ch’io dir voglio, sa chi mi conosce.


FAVOLA II.

La Pantera, o i Pastori.

SOglion gli offesi il contraccambio rendere.


* Inavvedutamente una Pantera

Sdrucciolò ne la fossa. De’ villani,


Chi pietre contra, e chi legni le avventa.

Altri però di lei mossi a pietade,


(Poichè, se alcun non le portasse offesa,
Pur la trarrebbe sua sventura a morte)

Le gittan pane, onde alcun tempo viva.


Notte si fa, ciascun che si lusinga

Di morta ritrovarla il dì vegnente,


Ogni timor sbandito, a casa riede.
Ma la Pantera, poi ch’ebbe col cibo
Ristorate le forze, un lieve salto
Da la fossa spiccando al suo covile
Veloce torna. Indi a non molti giorni

Repente uscendo, uomini e greggi assale;


E ruine a l’intorno, e morti arreca.

Allor quei che a la fiera dier perdono,


La vita in don le chieggiono, ed ogni altro
Danno a patir son pronti. E ben sovviemmi,
E chi sassi avventommi, ella risponde,
E chi pan mi gettò. Voi non temete:

Di quei che m’oltraggiar’, nemica io riedo.


FAVOLA III.

Esopo, e il Villano.

CHe più d’un indovin l’intenda Uom pratico,


È proverbio; il perchè non v’ha chi ’l dica

Lo insegnerà pria d’altri il mio racconto.


* Fuvvi già tal, nel cui gregge gli agnelli

Nacquer col capo umano. A gl’indovini


Mesto ricorre per consiglio. Il capo
Del padron si minaccia, un di lor disse,

Se vittima il periglio non rimova:


Altri: di padre drudo, e moglie infida

Figli vuolsi indicar. Ostia più pingue,


Cotesto mal però fia che allontani.
In somma in varie opinion’ divisi
Accrescon nuova pena a l’infelice.
Esopo allor vecchio di acuto naso,
Cui vender fole non poteo natura;

Vuoi tu, dice, Villan, ciò, che s’addita,


Da te far lungi? a’ tuoi pastor’ dà moglie.
FAVOLA IV.
Il Capo della scimmia.

FRa l’altre merci ad un macello appese


Esposta vide un uomo anche una Scimmia,
E del sapor ne chiese. Il Macellajo:
Qual è il capo, tal è il sapore ancora.
* Arguto egli è anzi che vero il motto:
Spesso virtude in sozzo corpo albergo,
E a’ rei costumi dà beltà ricetto.
FAVOLA V.

Esopo e un Petulante.

FAusto evento a perir molti ne addusse.


* Folle Garzon un sasso a Esopo avventa;
Cui egli: O che bel colpo! E a lui dà un soldo:

Per Dio, dicendo, altro non ho: pur eccoti


Come n’ottenga. Tal possente, e ricco

Ne vien incontro, in cui se accetti il colpo,


Premio ne avrai. Sel crede, e scaglia il sasso;
Ma s’ingannò, poichè del premio in vece,

Su una forca pagonne il giusto fio.


FAVOLA VI.

La Mosca, e la Mula.

UNa vil Mosca sul timone assisa


A la Mula: Sei pur, dice, tu pigra!
Vuoi che il collo col mio stilo ti punga?

E perchè non affretti il tardo passo?


Cui l’altra: tue parole io nulla apprezzo:

Bensì temo colui, che in scanno assiso,


Le briglie tiene e con maestra sferza
A suo talento ogni mio passo regge.

Vanne, e tue folli ciance altrove arreca:

Io so quando posarmi, o correr deggia.


* Così ridir tu puoi di quei, che privi
D’ugual valor, spargon minacce al vento.
FAVOLA VII.

Il Cane, e il Lupo.

LIbertà quanto è cara, in brieve espongo.


* Un Lupo, cui consunto ha lunga fame,
Un ben pasciuto Cane a sorte incontra:

Fermi si salutaro. Primo il Lupo:


Onde tal liscio, onde sì lauto cibo,

Il ventre ti distese? Io più robusto


Di te, a perir son da ria fame astretto.
Semplicemente il Can: Fia ugual tua sorte,

Se ugual servizio il mio padron n’ottenga.


E qual? Custode il dì sia de la soglia

Da i ladri la magion guardi la notte.


Io son pronto; nè boschi, e pioggia, e nevi
Soffrir m’è forza, e dura vita io meno;
Quanto più agevol fora sotto il tetto
Viver agiato, e largamente pascermi?
Vien dunque meco. Nel cammin s’accorge,

Che roso il Can da la catena ha il collo.


Onde è ciò, amico? Nulla. Amo saperlo.

Poichè sembro feroce, il dì mi legano

Perchè allor dorma, e desto sia la notte:


Sciolto su l’imbrunir, vo dove voglio:
Benchè nol chiegga, mi si porta il pane;

Da la mensa il padron l’ossa mi porge;


La famiglia gli avanzi; e se a taluno

Vien qualche cibo a noja, a me si getta:


Così senza fatica empiomi il ventre.
Ma se d’altrove andar mi vien talento,

Possol’io far? O questo no! e tu goditi,


Cane, le tue venture: io non le curo.

Regnar non vo’, se libertade io perdo.


FAVOLA VIII.

Il Fratello, e la Sorella.

SPesso a mirarti il mio racconto insegna.


* Un padre d’un bellissimo fanciullo,
Una deforme, e sconcia figlia avea.

Mentre (qual di sua età costume il porta)


Prendevan giuoco, a caso su lo scanno

Veggion lo specchio de la madre, e in esso


S’affaccian. Sue bellezze il fanciul vanta.
Ella nol soffre, e a grave oltraggio il reca.

Corre al padre e l’accusa che maneggi


(Benchè nato uomo) i femminili arredi.

Il buon padre li bacia, e uguale amore

Ver entrambi mostrando, al sen gli stringe.


Anzi vo’, dice, ch’ogni dì lo specchio
Consultiate; onde, o figlio, tua avvenenza
Non macchin rei costumi; e tu il tuo volto

Vinca con virtù belle, ed atti onesti.


FAVOLA VIII.

Il Fratello, e la Sorella.

SPesso a mirarti il mio racconto insegna.


* Un padre d’un bellissimo fanciullo,
Una deforme, e sconcia figlia avea.

Mentre (qual di sua età costume il porta)


Prendevan giuoco, a caso su lo scanno

Veggion lo specchio de la madre, e in esso


S’affaccian. Sue bellezze il fanciul vanta.
Ella nol soffre, e a grave oltraggio il reca.

Corre al padre e l’accusa che maneggi


(Benchè nato uomo) i femminili arredi.

Il buon padre li bacia, e uguale amore

Ver entrambi mostrando, al sen gli stringe.


Anzi vo’, dice, ch’ogni dì lo specchio
Consultiate; onde, o figlio, tua avvenenza
Non macchin rei costumi; e tu il tuo volto

Vinca con virtù belle, ed atti onesti.


FAVOLA X.

Il Poeta sopra il Credere, e non Credere.

IL credere egualmente è periglioso,


Che il non creder: gli esempli in breve il mostrano.

A la madrigna perchè fe si diede,


Ippolito morì, perchè a Cassandra

Non si diè, n’ebbe Troja eccidio estremo:


Dunque pria ch’al giudicio alcun t’arrenda,
Un sollecito esame il tutto indaghi,

Anzi che la sentenza s’avventuri.


Ma perchè non si dica, che con vecchj

Esempj favolosi il persuada,


Ciò narrerò, ch’a mia memoria avvenne.
* Tenero amor in ver la moglie, e il figlio,
Cui preparata avea la pura toga,
Portava un uomo; allor che da un liberto,
Cui de l’eredità speme lusinga,

Tratto è in disparte, e son da lui del figlio,


Dal mentitor finti delitti esposti.

Più però de la moglie, e sovra ogni altro,


Ciò ch’altamente sa che il cuor gli pugne,
Ch’a un drudo in braccio l’infedel si dona,
Di casa onde l’onor deturpa, e sfregia.
Da cotai detti acceso, irsene in Villa

Insigne; ma in città rimaso occulto


La notte a casa d’improvviso riede,

E va direttamente ove la moglie


Dorme, ch’il figlio vuol ch’ivi pur dorma,
De la già adulta età custode industre.

Mentre lume si cerca, e de’ famigli


Chi corre in qua, chi in là, ei che non pote

Rattener il furor, ch’il cuor gl’ingombra,


S’accosta al letto, ed a tentone cerca,

S’alcuno vi dorme: allor ch’a certi crini


S’accorge, che v’è un uom, nulla avvertendo,

Purchè il dolor de l’onta, e l’ira sfoghi,


Tutto al figlio nel petto il ferro immerge.
Portano intanto il lume; il figlio vede,
E la casta consorte ancor nel primo
Sonno involta, onde nulla udito avea.
Del suo delitto nel pensier raggira

La giusta pena, e il ferro, di che armollo


Stolta credulitade, in se rivolge.

Accusata la moglie, a Roma è tratta


Al tribunal de i cento. Sua innocenza
Sembra oscurar l’eredità ch’ottenne.
Ma chi quella difende, non consente
Che per sospizion si tragga a morte.

Ne l’ardua quistion sospesi i Giudici,


Pregano Augusto ch’ei, disciolto il nodo,

Porti a la fe del giuramento aita.


Le tenebre ch’avea calunnia avvolte
Sgombrate, e il ver ne la sua fonte appreso:

Paghi (dice) il Liberto, che n’è autore,


La pena. L’empio e sposo e figlio uccise.

Merta pietà la Donna, e non gastigo.


Che se i neri delitti avesse il vecchio
Sollecito ricerco, e la menzogna

Supposta a duro esame; da rie morti

Non fora or sua famiglia in tutto estinta.


* Tutto ascolti; ma tardi ad altrui creda;
Forse reo sarà tal, che tu nol pensi;
E orditi sono a un innocente inganni;
Ciò pure ai meno accorti avvertir pote,
Che non l’altrui opinion li guidi:

Ambizion troppo a sue voglie inchina.


Odio la porti, o amor; a quel tu credi,

Che conosca tu stesso. Poichè offese


Alcun mia brevità, lungo è il racconto.
FAVOLA XI.

L’Eunuco ad un malvagio.

DI due, ch’eran venuti a lite insieme,


Era l’uno malvagio, e l’altro Eunuco.
Colui fra i motti acerbi e fra le ingiurie,

In ciò, di ch’era privo, il punge e morde.


E però le fatiche io mal non soffro,

Rispose quegli; ma tu, stolto, il danno


D’avversa sorte accusi. È vergognoso
Alfin ciò a l’uom, ch’il suo fallir gli adduce.
FAVOLA XII.

Il Pollo alla gioja.

MEntre fra l’immondezze esca ricerca,


Trovò una gioja un pollo: ed ho in qual luogo
Neglètta è, disse, sì pregevol cosa?

Se trovato ti avesse un che ti apprezza,


Già l’antico splendor (oh qual!) ne avresti.

A me che non le gioje, il cibo estimo,


A che val, che ti sia tu qui scoperta?
Nè a me puoi, nè a te giovar poss’io.

* A colui si dirige il mio racconto


Che non apprende de’miei detti il senso.
FAVOLA XIII.

Le Api, e i Fuchi al tribunale della Vespa.

DEntro un’annosa quercia avevan l’Api


Fatti i lor favi, e questi neghittosi
Fuchi se gli arrogaro. Fu la lite

Portata al tribunal. Giudice siede


La Vespa, che ben sa l’indol d’entrambi;

Onde essa legge a’ litiganti impone.


Somigliante è il colore, uguale è il corpo;

Sicchè da lor l’Autore io non discerno.


Perchè dunque la fe giurata io serbi,

Tal vo’ la prova: altro alvear si prenda;


E nuovo mel s’infonda entro a le cere.
Tal sapor, da la forma, che somigli
Quel che recaste, fia l’autor palese.
Spiace a’ Fuchi la legge, accetta è a l’Api.
Pronunzia tal sentenza allor la Vespa:

Chi far non possa il mele, e chi lo fece,


È in chiaro. A l’Api il frutto lor si renda.

* Di buon grado il racconto omesso avrei,


Se avesser la promessa attesa i Fuchi.
FAVOLA XIV

Esopo che giuoca.

VIsto, che in mezzo de’ fanciulli Esopo


A le noci giuocava, un Ateniese
Fermossi, e l’ebbe come sciocco a scherno.

Se n’avvide il buon vecchio, che potea


Anzi che esser deriso, altri deridere:

E un arco teso in mezzo a la via posto,


Che cosa disse ho fatto, o ser saputo?
Il Popolo s’affolla. Il derisore

Pensa, e ripensa in van, e in van s’affanna.


Tal che confessa al fin, che nol comprende.

Esopo vincitor: Se l’arco teso,


Terrai sempre, sarà ben tosto infranto;
Ma se il rallenti, fia che forza acquisti.
* Così la stanca mente abbia ristoro,
Onde a’ gravi pensier’ più sciolta rieda.
FAVOLA XV.

Il Cane all’Agnello.

A un Agnel che belava infra le capre


Ove, gli dice il Can, folle t’aggiri?
Qui non c’è la tua madre: indi in remota

Parte le pecore gli dimostra.


Non quella, che a talento concepisce,

E un tempo fisso porta ignoto peso,


Poscia cader dal ventre il lascia, io cerco.
Io colei cerco, che sue poppe appresta.

E a’ figli toglie, sicchè io n’abbia, il latte.


Pur chi ti partorì più prezzar dei.

A partito t’inganni. E come seppe,


Se nascer bianco, o pur nero io dovessi?
Ma via, saputo l’abbia; fu gran dono,
Volermi maschio, perchè tal nascessi,
Ch’ognor del macellajo il colpo attenda.
Come vuoi ch’anzi quella apprezzi, ed ami,

Cui nulla scelta in generar si lascia,

Che l’altra, che ver me giacente, e infermo,


Cortese (a pietà mossa) si dimostra?
Non da necessitade di natura,
Ma da bontade i Genitor’ ravviso.
* Che l’uom riman da benefizj avvinto,

Non da le leggi, il mio racconto addita.


FAVOLA XVI.

La Cicala, e la Civetta.

SOvente avvien, che lo scortese il fio,


Che sua alterezza meritogli incontri.
* Con dispettoso canto a una Civetta,

Che sol di notte va di cibo in cerca,


E in qualche cavo tronco dorme il giorno,

Toglieva il sonno un’incivil Cicala.


Se pregata è a tacer, ella più stride;
Dan nuove preci nuova lena al canto;

Sicchè non v’esser scampo, e sue parole


Dispregiarsi, veggendo la Civetta,

A la frode rivolta sì le parla.


Giacchè il tuo dolce armonioso canto,
Tal che di Febo udirmi sembra il plettro,
Dormir mi vieta, il nettare vo’ bere,
Che testè diemmi Palla. Se t’è a grado,
Vieni che il beveremo. La Cicala,

Ch’ardea di sete, appena udìo le lodi

Di sue voci, che ratta a lei sen vola.


Tosto fuor de la tana l’altra escita,
La trepida Cicala insiegue, e uccide,
Che morta quello diè, che negò viva.
FAVOLA XVII.
Gli Alberi in tutela degli Dei.

QUando da’Numi gli Alberi in tutela


Fur presi, l’alta Quercia a Giove, il Mirto
A Venere, l’Alloro a Febo piacque.
Gradì Cibele il Pino, Ercole il Pioppo.
Stupì Minerva, che infeconde piante
A lor piacesser, e il perchè ne chiese.
Sì parlò Giove: perchè alcun non creda,
Che l’ossequio col lor frutto si compre;
Ma Minerva, ognun dica ciò ch’ha in grado;
Ch’io per le frutta sue l’Ulive eleggo.
Il gran Padre a lei volto: è giusto, o figlia,
Di saggia il nome, onde ciascun t’onora.
Che se ciò facciamo, util non have,
L’onor che ne ridonda, è folle onore.
* Qualunque cosa di vantaggio priva
Vuol la novella mia che non s’imprenda.
FAVOLA XVIII.

Il Pavone a Giunone.

MAl soffrendo il Pavon che a se negato,


Concesso fosse a l’Usignuolo il canto,
Con Giunon si lagnò, che dove ammira

Di quel la voce ognun; ei fuori appena


La manda, che dispregio, e beffe incontra.

La Dea il consola: ed in grandezza il vinci,


Ed in beltade. Il collo pur t’adorna
Vivo smeraldo, e a te l’occhiuta coda

(Sì vario n’è il color) più gemme intessono.


Muta avvenenza ma qual pro mi reca,

Se nel canto ei m’avanza? A suo talento


Divise i pregi il fato: a l’Usignuolo
Il canto, a te beltà, la forza a l’Aquila.
Se a destra è il Corvo, e la Cornacchia a manca,
Predicon l’avvenir; e ognun n’è pago.
* Ciò che ti vien negato, nol ricerca,

Nè sarai poscia a querelarti astretto.


FAVOLA XIX.

Esopo ad un Ciarlone.

NIun altro servo avea il padron d’Esopo,


Cui s’impone, che pria del consueto
La cena appresti: per alcune case

Ricerca Esopo il fuoco, al quale accenda


La lucerna, e a la fine lo ritrova:

E accorciando la strada, per la piazza,


Tosto a casa ritorna. Un Saccentino
Il vede, e perchè, dice, ora col lume,

Che il pianeta maggiore è nel meriggio?


Un Uom cerco, ei risponde, e in fretta parte.

* Se il motto a rilevar l’altro pervenne,


Vide ch’un Uom non riputollo Esopo,
Poichè in altro occupato, fuor di tempo,
Con baje intrattener pure il volea.
FAVOLA XX.

L’Asino e i Galli sacerdoti di Cibele.

CHi nasce sventurato, non sol vivo


Lo insiegue rio destin, ma morto ancora
Lo preme, e incalza. * I Galli di Cibele,

Un Asinel di lor bagaglio carco,

Seco in cerca condurre avean costume.


Da fatiche e percosse ucciso, timpani
Del cuojo scorticato ne formaro.

Da un lor diletto la cagion richiesta:


Lusingava costui (disser) sua speme,

Che morto fora da percosse immune:


Pur a lui morto altre soffrirne è forza.

Il Fine del Terzo Libro.


LIBRO QUARTO
FAVOLA I.

La Donnola, e i Topi.

LIeve forse ti sembra, e folle cura,


Se allor che son da gravi studj scarco,
Scrivendo io scherzi; ma tu queste baje

Penetra: oh quanto d’util v’è racchiuso!


Non sempre son quai pajono le cose,

E più d’uno deluse il primo aspetto:


Sicchè rado addivien, che quando avvolse
Ne le tenebre l’arte, tu lo scopra;

E ch’io nol finga, mostrerà il racconto


De’ Topi e de la Donnola. Da gli anni

Resa inetta una Donnola a raggiungere


Gli snelli Topi, entro a farina involta
Per cotal guisa in luogo oscuro giacque,
Che parea morta. Un Topo esca la crede,
E se le avventa: essa lo azzanna, e uccide;

Così al secondo, al terzo, e ad altri accade.


Al fin ne vien un che forbito, e lacci,

E trappole più volte avea scampato.


Scoprì lunge l'inganno, e fossi, dice,
Tu che giacente entro farina io scorgo,
Salva così come farina sei.
FAVOLA II.

La Volpe, e l’Uva.

Da fame spinta d’alta vite a l’Uva.


Quanto mai pote lanciasi una volpe;
Ma coma vide ir ogni sforzo a voto,

Partì, dicendo, io non la curo: è acerba.


*La favola è per tal, che con parole,

Ciò ch’ottener non può, biasma e dispregia.


FAVOLA III.

Il Cavallo, e il Cignale.

IN quel guado in cui ber solea un Cavallo,


Mentre il Cignal s'avvolge, il turba e mesce.
Quindi vien lite: il Destrier d'ira acceso,

A l'Uom ricorre, e lui del suo soccorso


Chiesto, sul dorso il toglie, e al Cignal riede,

Cui trafigge con dardi il Cavaliere.


Indi al Destrier rivolto: aita indarno
Non ti donai, gli dice, e preda io n'ebbi,

E appresi quanto tu giovar mi possa;


E suo malgrado il freno vuol, ch'ei soffra.

Egli allor mesto: o qual pazzia mi prese!


Mi fei per leggier onta ad altrui servo.
* Impari quinci l'iracondo i torti
Anzi a soffrir, che darsi ad altri in mano.
FAVOLA IV.

Il Poeta.

CHe sovente in un sol più senno alberghi,


Che in molti insieme, il mio racconto insegna.
* Morì tal, che di se lascio tre figlie.

Era una bella, e con gli sguardi avvezza

Era una bella, e con gli sguardi avvezza


A trar gli uomini in rete: la seconda

Sol’era a’ campi, e a filar lane intenta:


Bruttissima la terza, e bevitrce.

Erede fa la madre; ma con patto


Ch’il retaggio ugualmente a lor divida,
Sì però, che di quel d’onde fien ricche,
Nulla resti in possesso, o in balìa loro.
Allor poscia ch’il tutto avran consunto,
Cento sesterzj paghino a la madre.

Già ne va piena Atene; in van la donna


Più Giuristi ricerca; ch’a le figlie

Come possesso non provenga, o frutto


Da tal’Eredità, non v’ha chi intenda;
Nè come il prezzo sborsino, se nulla
Lor rimane. Assai tempo era già speso
In fallaci ricerche: a sue ragioni

Cede la madre, e come sa, del vecchio


La mente adempie: femminili arredi

A le galante, e vesti, e lavatojo


D’argento, Eunuchi, e giovanetti imberbi:
A l’altra campi, ville, armenti, e buoi,

E giumenti, ed aratri, ed operaj:


Cantina e botti di vin vecchio piene

A la terza destina, con polita


È ben acconcia casa, ed otri ameni.
E suo pensier già ad eseguir s’accinge,

Ed il popol le applaude, che il desio

Sa de le figlie. Allor repente Esopo


Ne la folla s’intrude, e oh quanto grave
Sarebbe, dice, s’or vivesse, al padre
Scorgere, che di tutti gli Ateniesi
Non vaglia alcun a interpretar sua mente!
Onde pregato, sì l’arcano scioglie:

La casa, gli ornamenti, gli orticelli


Deliziosi, e il vin serbato ottenga

Colei, che solo campi, e lane apprezza.


Abiti, perle, servitori, eccetera
Dati a la bevitrice: abbia la bella
Gli armenti, e lor custodi, e campi, e ville.
Nessun fia di lor, che patir possa

Cose al suo genio avverse, e quel ch’ottenne


La bevitrice, d’onde vin provveda;

Per abbigliarsi vendrà l’altra i campi.


Quella cui piaccion solo e campi e lane,
Dissiperà la casa, e gli orti ameni.

Sì fia che il lor retaggio a lor non giove;


E da ciò che vendero, avrà la madre

Il denar, che lasciolle il vecchio astuto.


* Ed ecco ciò, che pria fu a molti ascoso,
Per accortezza d’un sol uom, palese
FAVOLA V.

Il combattimento de’ Topi, e delle Donnole.

ALlor che vinti i Topi da l’esercito


De le Donnole (e ben nota è la storia,
Nè v’è taverna in cui non sia dipinta)

Fuggivano, ed intorno a le lor tane


Pavidi a grande stento s’affollavano;

Ma pur v’entraro ed iscampar la morte;


I Duci, che per dar un manifesto
Segno, cui seguan gli altri ne la pugna,

Avean le corna al capo intorno avvinte,


S’impacciar’ne le porte, ove in minuti

Brani, tritati da’ nemici ingordi,


Restan ne’ cavi ventri innabissati.
*Sono i primati a gran periglio esposti:
La vil plebe ritrova agevol scampo.
FAVOLA VI.

Il Poeta.

TU che nasuto i miei scritti censuri,


Nè lor d’un guardo (è tal tuo sdegno) onori,
Soffri, finchè de la tua austera fronte

Le rughe appiani, e a me miglior ti renda;

Con novelli coturni eccoti Esopo.


* Deh non avesse mai Tessala scure
Stesi nel Pelio giogo a terra i pini:

Deh non avesse fabbricato unquanco


Col consiglio di Palla Argo la nave,

Ch’a Barbari in lor danno, e a Greci aprìo


Del mar l’ignoto sen: indi la morte
Ampla vide a sue prede aprirsi strada.
Quinci ne piagne del superbo Aeta
La casa, e di Medea per l’empio ardire
Soffrir’ di Pelia i regni eccidio estremo.

Essa in più modi barbari ingegnosa,


Co’ sparsi brani del fratello, e il varco

A la fuga trovò; in quel paterno


Sangue lordò le figlie. Che ti sembra,
Lettor, di tal principio? Ed è scipito,
Mi rispondi, ed è falso: ognun pur sa,
Che molto innanzi con possente armata

Signor del vasto Egeo si fe’ Minosse,


E un giusto freno a la baldanza impose.

Come fia dunque, o leggitor Catone,


Ch’unqua a te piaccia, se diletto alcuno
non può recarti, o favoletta, o favola?

Non pugner le belle arti, se ti è caro


Da le punture lor andarne esente.

Il dissi a tal (se pur vi è alcun sì stolto)

Che tutto ha a schifo, e per parer saccente,

Scioglie contro del ciel l’audace lingua.


FAVOLA VII.

La Vipera e la Lima.

CHi un più mordace a lacerar s’accinge,


In questa favoluccia si ravvisi.
* Ne la bottega d’un ferrajo giunse

Una Vipera, ed esca ivi cercando,


Una lima afferrò, che contumace:

Pensi, a lei disse, o stolta, farmi offesa,


Che rodere ogni ferro ho per costume?
FAVOLA VIII.

La Volpe e il Becco.

QUando un astuto a grave rischio è tratto,


Cerca con l’altrui danno averne scampo.
* Inavvedutamente era caduta

In un pozzo la Volpe, a cui l’uscita,


Il margo un cotal poco alto divieta;

Quando un Becco assetato colà giunto,


Se dolce, e molta sia l’acqua, le chiede.
La Volpe a frode intesa, amico, scendi,

A lui risponde; è dolce essa cotanto,

Che saziar non puossi il piacer mio.


Scende il barbuto: allor la Volpicella
S’appoggia a l’alte corna, e un lieve salto
Spicca dal pozzo, e nel pantano il lascia
FAVOLA IX.

De’ vizj degli uomini.

DUe tasche ci diè Giove: una de’nostri


Vizj ripiena al dorso appesa; l’altra
De l’altrui colpe grave al collo impose.

* Ecco perchè gli errori tui non vedi:


Altri fallisce appena, e tu ’l riprendi.
FAVOLA X.

Il Ladro che spoglia l’Altare.

UN Ladro al fuoco de l’Altar di Giove


Il lume accese, onde spogliarlo ardìo,
Ed iva già del sacro frutto onusto;

Quando del nume cotai voci usciro:


Benchè don di ria gente è ciò che involi,

Sicchè l’odio, e’l tuo furto a me non cale;


Tu però, scellerato, con la vita,

Allor che giunga il destinato giorno,


Vo’ che ne paghi il fio. Ma perchè il fuoco,

Per cui Religione i Numi adora,


A favor non risplenda de’malvagi;
Ch’altro indi s’accenda, io fo divieto.
Così non più si accende il sagro fuoco
A la lucerna, o questa a lui si alluma.
* Quanto d’util racchiuda la novella,

Il potrà solo disvelar l’Autore.


Ella dunque ne avverte, che non rado

Nutre fiero nemico nostra mensa.


Che non per ira il ciel punisce i rei,
Ma spesso tarda la vendetta il fatto
Con gli empj; alfin ogni adoprar condanna.
FAVOLA XI.

Ercole e Giove.

GIusto è l’odio, che ha il forte a le ricchezze;


Che ricco erario a vera lode è avverso.
* Accolto in ciel per sua virtude Alcide,

Mentre tutti gli Dei seco s’allegrano,


E lor s’inchina; al venir Pluto il figlio

De la fortuna, altrove gli occhj volge,


E tal cagione al Padre, che il richiede,

N’adduce: Odio colui che a' tristi è amico,


E con l’offerte ogni ragion corrompe.
FAVOLA XII.

Il Leone regnante.

QUanto d’util comprende un retto avviso!


S’approva il detto; pur veggiam non di rado,
Che sincero parlar ruina apporta.

* Re de le fiere fattosi il Leone,


Per conseguir di giusto Prence il nome,

Oltre al natìo costume, di non molto


Cibo è contento, e ad esse in mezzo, esatta
Incorrotta giustizia a tutte rende
FAVOLA XIII

I pochi versi di questa favola non si traducono, perchè di essi non s’è potuto
ricavare un senso perfetto; per altro, qualunque cosa ne dicano alcuni in
contrario, io li reputo avanzi d’una Favola connessa con la seguente: nè
meritano essi di esser tradotti.
FAVOLA XIV.

Prometeo.

ONde fia, ch’a mollezza alcuno inclini,


Chiesto da un altro il vecchio, così parla:
*Prometeo quel, di cui testè parlai:

E che il loro impastò, d’onde l’uom costa,


Che se in fortuna avviensi, immantinente

Rompesi; speso un giorno intero avea,


A disgiunto formar ciò ch’onestade
Con vesti ricoprire a noi prescrive,

Per adattarlo, ove bisogno il chiede.


Allorchè Bacco di repente a cena

L’invitò, così il nettare gli piacque,


Che in piè non ben reggendosi, a gran notte
A casa giunse: ed ei, che vuol pur compiere
L’intrapreso lavoro; e sonno, e vino
Sì l’ingombra, che i membri non discerne,

E quel de l’uno applica all’altro; e quinci


Un rio piacer la voluttà ne prova.
FAVOLA XV.
Le Capre e i Becchi.

PArean sdegnarsi i Becchi, allorchè Giove


Fe’ de la barba a le Caprette il dono:
Quasi le mogli a lor volesse uguali.
Cui Giove: deh lasciate, che cotesta
Godan ombra di gloria, e gli ornamenti,
Quando il vigor lor manca, abbian comuni.
* A non curar la novelluzza insegna
Se alcun, che di valor lasciamo addietro,
Rassembri ugual ne l’apparenze a noi.
FAVOLA XVI.

Il Piloto e i Naviganti.

QUerelandosi un uom di sua sventura,


Per consolarlo, Esopo a dir imprese.
* Nave agitata da contrarj venti

De’ passeggier fra i fremiti, e le angoscie,


Da lieve aura sottratta è dal periglio;

Indi i nocchier’ da gioja tal son presi,


Qual subito seren l’arreca il giorno,
Di fosco, e mesto, allor che il cangia in lieto.

Reso il Piloto dal periglio accorto:


Nè a duol, dice, si dee, nè ad allegrezza

Darsi in preda; la vita è or lieta, or mesta.


FAVOLA XVII.

Gli Ambasciatori de’ Cani a Giove.

MAndaro Ambasciatori i Cani a Giove


Ad implorar mercè; poichè lor grave
Servitù s’imponeva, ed a gli umani

Strazj soggetta. Il pan, ch’a lor si porge,


Di crusca è asperso, e l’insoffribil fame

A spegner con le feci son costretti.


Van lentamente, in ogni mondezzajo

L’esca fiutando, nè di Giove al trono


Chiamati, dan risposta. Al fin Mercurio

Con fatica li trova, e a lui li tragge.


Ma fissar’ nel gran Padre i guardi appena,
Tal timor li sorprese, che la reggia
Tutta lordar’ di stomacose feci.
A colpi di baston cacciati fuora,
Ch’a’ suoi riedano, Giove nol consente.

Stupiti gli altri di cotal tardanza,


Di alcun delitto lor preso sospetto,

Novelli ambasciatori destinaro.


La fama intanto il lor fallir palesa;
Sicchè temendo, che un’ugual sciagura
Non accada a’ secondi, ad essi il podice
Di replicato e folto odor empiro.

Vanno, udienza chieggono, l’impetrano.


Siede il gran Padre, e la folgore scuote.

Trema ogni lato: intimoriti i Cani,


Poichè giugne il rumor loro improvviso,
E feci, e odore insiem mandan dal ventre.

Grida ognun, che si dee punir tal’onta:


Ma pria che Giove a lor gastigo imponga;

Non dèe, soggiugne, rattenere il Prence


Gli Ambasciatori, e agevol fia, trovarsi
Pari a l’onta la pena; e sarà questa.

Tardi n’andrete, e vo’ che fame insegnivi

Por freno al ventre. A que’ poi che inviaro


Si goffi Ambasciator’, soffrir fia forza
De l’uom le ingiurie. A la prigion son tratti,
Nè si rilascian tosto. Ecco il perchè.
I Can’, che i primi Ambasciatori, e gli altri
Aspettano, se in cane ignoto abbattonsi,

Lo fiutan dove avean l’odor riposto.


FAVOLA XVIII.
L’Uomo e il Serpe.

TArdi si pente chi soccorre i tristi.


* Dal freddo un Serpe intirizzito, preso
Fu da tal, che crudele in ver se stesso,
Scaldollo in seno: si riebbe appena,
Che l’uccise: il perchè chiesto: a’ malvagi
perchè, disse, non sia chi a giovar renda.
FAVOLA XIX.

La Volpe e il Drago.

TErra scavava per formar sua tana


La Volpe, e fatte alquante buche avea;
Allor che giunse ove tesori un Drago

Appiattati guardava. Il vide appena,

Che, di grazia, gli dice, se cotanto


Incauta m’inoltrai, tu mel condona;
Indi, chiaro poichè tu scorgi, o Drago,

Nulla confarsi l’oro al viver mio,


Dimmi cortese, quale o premio, o frutto

Ciò ti reca, sicchè tu sempre vegli


In tenebre? Nessuno, egli rispondi;
Ma Giove me l’impose. Adunque nulla
Ne prendi, o doni? E’ tale il mio destino.
Se audace parlo, mel condona: irato
Cielo chi a te è simile, a vita trasse.

* Tu adunque, che n’andrai ove andar’pria


Quanti fur di te innanzi; a che t’affanni

Sordido, cieco, ed infelice avaro?


Gaudio d’erede, a cui il suon di cetta,
E di flauto, tristezza, e angoscia arreca,
Che ti privi di cibo, i Dei d’incenso,
Cui de’viveri il prezzo elice il pianto;

E purchè a l’arca un qualche soldo aggiungasi,


Con sordidi spergiuri il cielo stanchi:

E purchè Libitina non acquisti


Tutta la spesa al funeral recidi.
FAVOLA XX.

Fedro.

QUel che livor fra se raggira appresi;


E se occultar lo brama, in van s’adopra,
Ciò ne’ miei libri, che di fama è degno,

È d’Esopo. Se cosa egli abbia a vile,


Vorrà che ad ogni patto a me s’ascriva.

Ma in tal guisa m’oppongo: o fia di biasmo:


O pur di lode degno il mio lavoro;
Esopo mi fu duce, il resto è mio.

Ma si prosegua ciò che a dire impresi.


FAVOLA XXI.

Il Naufragio di Simonide.

DOvunque va, seco ha dovizie il Dotto.


* Simonide d’illustri carmi autore,
Per men sentir di povertade il peso,

Per le chiare citta de l’Asia in giro


Cominciò a gir, u’ stabilito il prezzo,

Le lodi in verso a’ vincitor’ tessea.


Fatto ricco in tal guisa, al patrio suolo
Che in Geo nascesse il vuol comune sentenza)

S’accinge a far ritorno, e al mar s’affida.

Tal legno ascende, cui sdruscito, fera


Tempesta in mezzo a l’onde, e fiede, ed apre.
Chi ciò ch’have di prezzo, e chi il danajo
De la vita sostegno, al seno stringe.
Un saccente: Simonide, deh nulla
Di tue ricchezze prendi? Il tutto ho meco.

Rari scampan nuotando; i più sommerge


Il grave peso, e ciò che pur rimane,

Tolto lor da ladron’, restano ignudi.


Clazomene in buon punto era vicina,
Cittade antica, e là drizzan suoi passi.
Uom de le Muse amico, che in gran pregio,
Ed in ammirazion have Simonide,

Di cui frequente leggea i carmi, in esso


S’avviene, e appena il suo parlar lo addita,

Ch’avidissimamente a se lo tragge,
E vesti, e soldo, e servi a lui destina.
Con la tabella il vitto accattan gli altri.

In essi a caso s’incontrò il Poeta,


E meco, disse, ecco se tutto io serbo,

De le cose rapite a voi che resta?


FAVOLA XXII.

Il Monte Partoriente.

VIcino a partorir, con alte grida,


Tutto il mondo tenea sospeso un Monte.
A la fin n’uscì un Topo. * A te lo scrissi,

Da cui gran cose attendo, e nulla io veggio.


FAVOLA XXIII.

La Formica e la Mosca.

FRa la Mosca era insorta, e la Formica,


Chi di lor sovrastasse, acre contesa.
Sì cominciò la Mosca: ed ancor osi

Venir meco a tenzone? Allor che s’offre


Vittima a’ Dei, le viscere n’assaggio.

Fra gli altari io dimoro; in capo a’ Regi


Se m’è a grado, m’assido; e su i bei labbri
De le caste matrone io m’intrattengo;

Nulla fatico, ed il miglior mi godo.


Ch’hai tu di somiglievole, villana?

Lo seder a la mensa de gli Dei


Reca gloria, egli è ver; purchè ne sia
Invitato, non già, se avuto a schifo.

De le matrone i baci, e i re millanti?


Quando ben mi ricorda, allor che il grano

Per il verno sollecita raccolgo,


Veduta averti d’ogni vil sozzura

Pascerti presso a’ muri. Tu gli altari


Frequenti; ma però se’ giunta appena,
Che ti discaccian tosto: non lavori;
Ma nulla hai pronto, ove bisogno il chieggia;
Ciò che vuolsi celar, commendi altera.

Mi disfidi la state, il verno taci,


Allor che il freddo intirizzita a morte

T’adduce; nulla io soffro, e ricca casa


Di sicuro soggiorno mi provvede.
Ecco abbastanza tua alterigia doma.

* Segna il racconto quei che finte lodi


S’arrogan, e coloro a cui virtude

Soda gloria comparte, ed onor vero.


FAVOLA XXIV.

Simonide che gli Dei preservano da morte.

QUal nasca giovamento da gli studj


Fra gli uomini il narrai; or quanto i Numi
Gli onorar’, dir a’ posteri m’accingo.

* Per tesser lodi a un vincitor Atleta,

Simonide, di cui parlai poc’anzi,


Stabilì il prezzo, e in loco ermo sen gìo.
Ma l’argomento lieve a la feconda

Vena frenando il corso, qual si suole


Da’ Poeti, licenza prende, e i due

Figli di Leda, che cangiarsi in stelle,


Frappose; indi simil laude a l’Atleta
Fe’ derivar. S’approvò l’opra, e un terzo
De la mercede convenuta ottenne.
Richiesta l’altra, la daran risponde,
Quei ch’ebbero due parti di tue lodi;

Ma perchè disdegnato tu non parta,


Poichè i congiunti, (e te a’ congiunti ascrivo,)

A la cena invitai, te pure invito.


Benchè deluso, e l’onta alto il trafigga,
Per non farsi l’Atleta in tutto avverso,
Promette, e a l’ora destinata riede.
Siede a mensa: le tazze, l’apparato

Il convito, la casa empion di gioja.


Quando repente due, più che d’umano

Sembiante, di sudor, di polve aspersi,


Impongono ad un servo, che il Poeta
Faccia sì, che a lor venga incontinente;

Giovargli assai, ch’e’ non frapponga indugio,


Sì turbato gliel dice, che Simonide

In fretta parte: il piede ha fuori appena,


Che cadendo la volta tutti opprime,

Nè a la porta più alcun giovin si trova.


Come ciò si riseppe, ognun s’avvide

Che gli Dei fur que’ due, che per mercede


De’ loro encomj, gli donar’la vita.
FAVOLA XXV.

Il Poeta.

MOlto ancor mi rimane, e ad arte il lascio


Pria perchè esser grave ad un, cui molte
E varie ingombran cure, io non rassembri,

Poscia perchè s’a caso ad altri è in grado,


Cotai studj seguir, abbiane il come.

Benchè sia ricca la materia in guisa,


Che mancar questa anzi che possa a noi,
Mancar vedrassi chi il lavor ne imprenda.

Quel premio, che a la nostra brevitade


Promettesti, io richieggo, e quel che in voce

Voler darmi dicesti, al fin mi dona.


Ogni dì più si fa morte vicina,
E quando mi prolunghi i doni tuoi,
Tanto ne ruba il tempo, immantinente
Se li rechi, più ancor godronne il frutto.
Finchè un po’ dunque mi riman d’etade

Or or mancante, il tuo soccorso appresta.


Che pro, se mi sovvenga, allor che morte

Imminente il comun tributo esiga?


Ma perchè mille suppliche t’arreco,
Quando tu stesso a la pietade inchini?
Spesso perdono un reo convinco ottenne;

Il merta ben, se un innocente il chiegga.


Queste son le tue parti; pria fur d’altri,

E passeran con simil giro in altri.


Risolvi ciò che fe, che il giusto ammette
E allegrezza mi arrechi tua sentenza.

Ma dal confín prescritto io mi dilungo.


È pur difficil, che colui, cui nota

È sua innocenza, rattener si possa,


Allor che petulante astio ’insegue!
Tu mi chiedi, qual è? dirallo il tempo.

Lessi fanciul cotal sentenza: In pubblico


Far motto a un uom di volgo è di periglio.

Fissa ia mente starà, fin ch’avrò senno.

Il fine del libro Quarto


LIBRO QUINTO.
PROLOGO

FErmo era di por fine a l’opra mia,

Ricca perchè restasse altrui la messe:


Il mio pensier quando entro me ripresi;
Poichè imitar se alcun vuol mio lavoro,

Come può dirgli l’indovina mente,


Ciò ch’io omisi per fama indi ritrarre?

Ha il suo pensar ciascun, ha lo stil suo.


Dunque avveduto , non leggier pensiero,
Ciò che impresi a seguir, vie più m’indusse

Quinci poichè apportar ti suol diletto

Udir le favolucce, ch’Esopèe,


Non più d’Esopo appello; ei fu di poche.
Dietro a sua scorta io son di molte autore:
Nuovo è il racconto, è la materia antica.
Se tu sovente, che sei meco erede,
Le legga, e quanto a lui piace, le roda,

Se non puote imitarlo, atro livore.


Che tu, ch’altri a te egual, ne’scritti suoi

Le mie baje frammetta, e degno m’abbia


Di lunga fama; assai di lode ottenni.
De’ Dotti il plauso di ritrarne io bramo.
IL POETA.

SE in avvenir d’Esopo il nome incontri;

Poichè a lui diedi ciò ch’io dar dovea,


Perchè stima s’accresca a l’opra, il posi.
Siccome avvien, ch’a tempi nostri aggiugnete

Pregio al lavor se qualche artier desia,


Prasitele nel marmo ne fa autore,

Ne l’argento Miron. Mordace invidia,


Anzi che un buon presente, i morti estolle.
Ma cotal favoletta s’incominci.
FAVOLA I.

Demetrio, e Menandro.

USurpato d’Atene avea lo scettro


Demetrio Falerèo. A gara, e in folla,
Come costume ha il volgo, a lui s’accorre:

Suonano intorno a fioca voce i plausi.


I primati medesmi, ancorchè angoscia

De la mutata sorte il cuor lor punga;


A la man, che gli aggrava, imprimon baci.
E’ quegli ancor, cui nulla oprare è cura,

Perchè ad essi il mancar non sia dannoso,


E quasi a forza addotti, al fin vi vanno.

A questi, di Commedie illustre autore,


Menandro, il di cui volto è ignoto al Duce,
Che n’avea lette, ed ammirate l’opre,
S’unìo: sciolta è la veste: ondeggia il passo;
Molle d’unguenti è il crine. Il vede appena:
Chi è quel bagascion, dice, che ardisce

Farmisi innanzi? È lo scrittor Menandro,


Rispondono i vicin’: si cangia tosto.

Manca il rimanente
FAVOLA II.

I Viandanti, e il Ladro.

FAcean viaggio due compagni, un prode,


Imbelle l’altro. Masnadier gli assale,
Chiede il danaro, o lor minaccia morte.

Lo afferra il prode, e forza a forza opposta,


L’uccide incauto. Il vede l’altro appena,

Che accorre, e spada impugna; e via gittata


La Penola, che il braccio rattenea,
Ove è il ribaldo? (dice:) mostrerogli

Con chi l’ha presa. Almen cotal aita


Recato avestù, il prode a lui soggiugne:

Ugual creduto a le parole il core,


Più valor ne la zuffa avrei dimostro.
Or tue folli minacce, e il ferro ascondi,
Se chi non ti conobbe ingannar puoi:
Io che vidi qual forza a fuggir abbia,
Al tuo valor so ch’affidar non dessi.

* Ne la favola mia colui ravviso,


Che se prospera sorte arride, è forte;

Finchè pende dubbiosa, è fuggitivo.


FAVOLA III.

Un Calvo, e la Mosca.

UN Calvo, cui nel nudo capo punse


Una Mosca, sperando d’ischiacciarla,
Si diè grave ceffata. Essa il dileggia:

Se morte dar si vuol per lieve offesa,


Che fia teco, che danno e beffe incontri?

Meco in grazie ritorno agevolmente,


Perchè lungi da offesa è il mio pensiere.
Ma te, animal malvagio, di vil razza,

Che in succhiar sangue uman rio piacer prendi,


Spegner vo’, come che più danno io n’abbia.

* Non egualmente ch’avvertita offesa,


Quella che il caso fe’, punir si debbe;
Ma pur da pena non la sciolsi unquanco.
FAVOLA IV.

L’Uomo, e l’Asino.

AD Ercole, da cui fu da rio morbo


Sottratto un Uom, e pria promise in voto;
E poscia in sacrificio un Porco offrìo;

E l’orzo, che restovvi, a l’Asin porse;


E’ sì ’l rigetta: il don mi fora grato,

Se chi se ne cibò, vivesse ancora.


* La favoletta tal timor m’incusse,

Che i perigliosi lucri ebbe in orrore.


Pur ricco è, dite, chi a quel d’altri agogna.

A color che periro attendi; salvi


Pochi vedrai; fur gli altri tratti a morte.
Dannosa a molti, utile audacia è a pochi.
FAVOLA V.

Il Giullare, e il Villano.

SPesso i mortali tal furore ingombra,


Che al preso inganno appigliansi tenaci,
Finchè chiaro argomento il fallo scopra.

* Cura d’illustri giuochi un ricco prende;


E perchè novità li renda accetti,

Di nuovo gioco offre mercè a l’autore:


Di lode a la tenzon vengon gli artieri:
Fra questi per li suoi urbani motti

Noto Giullar, tal ne promise, ch’unqua


Per l’addietro teatro alcun non vide.

La fama tutta la cittade aduna;


Fassi il teatro a la gran folla angusto.
Quando senza apparato, e senza attori
Solo in scena compare. Si procaccia
La stessa novità silenzio: il capo

Repente in sen si pone, e fuor tramanda


Voce di Porco tal, che tutti induce

A pensare, che verro in seno asconda.


Ch’apra il mantel si grida. Ei l’apre, e nulla
Vi si scopre: d’applausi il ciel rimbomba.
Vide il gioco un villan, e affè (soggiugne)
Costui non l’avrà vinta; e il dì vegnente,

Che molto meglio egli è per farlo, accerta.


Maggior fassi il concorso; prevenuto

E’ il volgo a favorir del primo il giuoco;


Tal che al Villan per far scorno, s’asside.
Ecco entrambi: il Giullar primo grugnisce;

Suona a l’intorno il plauso, e un lieto viva.


Allor fingendo di coprir col manto

Un porcelletto, che di fatti avea,


A lui strigne l’orecchia il Villan furbo,
E n’esprime dolenti, ed alte grida.

Che il Giullar molto meglio imita il verre,


E che l’altro si scacci, ognuno esclama.

Apre il seno il Villano, e mostra il porco.


E sì additando de l’error la prova,
Ecco, dice, quai giudici voi sete.
FAVOLA VI.

Due Calvi.

TRovossi a caso un pettine in istrada


Da un Calvo: ed ecco un altro Calvo accorre,
E ciò ch’hai trovo dipartiam, gli dice.

Esso pettin dimostra, e tal favella:


Favorir volea il ciel, ma nol consente

Invido fato: del tesoro in vece,


Carbon (come suol dirsi) ci si offerse.
A chi speme andò a vuoto adatto è il motto
FAVOLA VII.

Il Principe trombettiere.

CHi per lieve aura di se stesso prende


Opinion, ch’oltre il dover lo estolle;
Agevol fia che beffe e scherno incontri.

* Fu in qualche pregio un Trombettier, di nome


Principe, del cui suono sul teatro,

Frequente usar Batillo avea costume.


Mentre in palco s’aggira (nè in quai giochi
Ciò avvenne, si sovvien) la manca coscia,

Tal ei cadde, si ruppe immantinente,


Per cui due destri flauti infranti arrebbe.

Fra dolenti querele, e grida, a mano


Lo riportano a casa; indi a non molti
Mesi, a guarir mentre incomincia; il volgo
De’ spettator’, qual folle lor desio
E capriccioso il vuol, lo attende al ballo,
Che dal suon di lui prendea vigore.

Tal, che ampli giochi celebrar desia,


Sa, che Principe è presso a risanarsi;

Va, prega, ed offre, perchè almen la scena


Renda col suo comparir più lieta.
Viene l’atteso giorno: ecco il teatro
Fremer per lui: morto talun l’accerta;
Ch’a momenti s’attende, altri assicura.

Tolto il sipario, terminati i tuoni,

Qual peregrin costume il vuol, parlato


Avean gli’Iddii; allor che il noto canto
Al Trombetta s’impone, ed era questo:

Ti allegra, o Roma: hai salvo il Prence: Voce


Risuona, che il teatro empie di gioja.

Ad onor suo lo reca il buon Trombetta,


Ed a gli spettator’ fa baciamani.
L’ordine Equestre il folle error conosce,

E con gran risa impone, che s’intuoni


Di nuovo il canto: al suolo il buon Trombetta

Si profonde col volto: a lui fan plauso


Con piacevole festa i Cavalieri:
Che chiegga la corona il volgo stima;
Ma poichè la sua sciocchezza ognun comprese,
Candida benda in van la coscia avvolge,
In van bianca ha la veste, e bianco il piede;

Che presolo pe’ crin’, lo caccian fuori;


Nè a lui giovaro le onorate insegne,

Da cui ne va l’Augusta Casa altera.


FAVOLA VIII.

L’Occasione dipinta.

LIeve il corso, la man di ferro armata,


Chioma a la fronte,e capo, e corpo ignudo,

Che se una volta preso avvien che sfugga,


Nè pur se Giove il segua, afferrar puote;

La breve simboleggia, e fuggitiva


Occasion de le mondane cose.
Perchè dunque del buon voler lo effetto

Pigrizia non ne rubbi, i nostri Padri


Cotal del tempo immagine ci diero.
FAVOLA IX.

Il Toro, e il Vitello.

TOrnar per foro angusto al suo presepe


Poteva appena, e sol cozzando un Toro.
Un Vitel, che s’inchini lo consiglia:

Taci, ei risponde; anzi che tu nascessi


Io già il sapeva. * Il motto a quello è adatto,

Che un più saggio di se corregge, e ammenda


FAVOLA X.

Il Cacciatore, e il Cane.

UN Can, cui non poteo veruna fiera


Star a fronte, al padron mai sempre accetto,
Con l’etade il primier valor perdette.

Un giorno dietro ad un Cignal lasciato,

Tosto l’azzanna; ma da’rosi denti


Fugge franca la fiera, e si rinselva.
Irato il cacciator, lo sgrida. Il vecchio

Sì latrando soggiugne: ti deluse


Non l’animo, il valor: ciò che già fui,

Commendi, e quel ch’or più non son, condanni.


* Perchè io ciò scriva ben, Fileto, il vedi.

Il Fine del Libro Quinto.


APPENDICE DELLE FAVOLE DI FEDRO

DA UN ANTICO MANOSCRITTO D A MARQUARDO GUDIO T R A S C R


ITTE
FAVOLA I.

Il Nibbio malato.

DA molti mesi infermo, oltra speranza


Omai veggendo la sua vita un Nibbio,
Prega la madre, che a camparlo, imprenda

Lunghi pellegrinaggi, ed offra voti.


Ella, dice, il farò, ma temo, in vano.

Tu profanasti i sacri luoghi, e a l’are

Le vittime involasti: or con qual fronte,

Per trarti di periglio, pregar deggio?


FAVOLA II.

Le lepri attediatesi di vivere.

CHi non sa sofferir le sue sciagure,


L’altrui rimiri, e tolleranza apprenda.
* Da gran fracasso al bosco spaventate

Le Lepri un giorno, orsù (disser) fia meglio,


Che tronchi morte alfin giorni sì gravi.

Mentre van dunque a immergersi in un lago,


Spaventate al lor giungere le rane,
Si nascondon fra l’alghe a la rinfusa.

Un Lepre allor: altri eguale affanno


Vivon pur: con lor del par vivete.
FAVOLA III.

La Volpe, e Giove.

NOn ha fortuna sì leggiadro manto,


Che una malvagia e ria natura asconda.
* Di volto uman resa una Volpe adorna,

Nel toro accolta ricevè da Giove


Trono regal. S’asside, e un bacherozzo

Da un angolo spuntar vede, e repente


Si lancia, e il piglia. Risero gli Dei,

N’arrossì Giove, che dal regio trono,


E dal ciel con tai motti la sbandìo.

Vivi qual merti, al compartito onore


Se apprender non sapesti ugual costume.
FAVOLA IV.

Il Leone, e il Sorcio.

A Non offendere i minori insegna


La favola. * Dormendo ne la selva
Un Leon, mentre a lui giocan d’intorno

I villerecci sorci, un d’essi a caso


Sopra gli passa, e lo risveglia: pronto

Il Leone lo arresta: ei d’imprudenza


Reo si confessa, ed il perdon ne chiede.
Vede il Leon da regio onor lontana

Cotal vendetta, e mite a lui perdona.


Indi a poco di notte, mentre ei preda,

Cerca a l’intorno, ne la fossa inciampa.


Tosto che preso si conosce
Alza i ruggiti, al cui rimbombo orrendo
Accorso il Sorcio, ogni timor deponi,
Gli dice: il mio sta col tuo dono a fronte:

E immantinente tutti e lacci, e nodi


Ricerca, e rode, e il Leon rende al bosco.
FAVOLA V.
L’Uomo, e gli Alberi.

PEre chi al suo nemico ajuto appresta.


* Aveva un uom fatta un’accetta, e il manico,
Per forte averlo, a gli alberi richiese.
Essi concordi eleggon l’Olivastro.
S’accetta il dono, e fattane la scure,
I roveri più annosi sceglie, e atterra.
Il Frassino a la Quercia in cotai motti
E’ fama, che parlò: giusto è lo scempio.

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