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Codice Deontologico Commentato1

commento codice deontologico psicologi

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Codice deontologico

Capo I - Principi generali

Articolo 1
Le regole del presente Codice deontologico sono vincolanti per tutti gli iscritti all'Albo degli
psicologi.
Lo psicologo è tenuto alla loro conoscenza, e l'ignoranza delle medesime non esime dalla
responsabilità disciplinare.

La caratteristica principale di questo articolo è quella dell’obbligatorietà espressa a più livelli,


sia perché il codice è richiesto da una Legge dello Stato che prevede la predisposizione di un
C.D. sia perché le regole di comportamento professionale contenute nel Codice si
presentano come strettamente vincolanti per tutti gli iscritti essendo previste, sempre per
legge, delle sanzioni esplicite ed articolate, fino a conseguenze di grossa rilevanza per lo
svolgimento della professione. Il potere decisionale è demandato ai Consigli regionali e
provinciali dell’Ordine.
Tale obbligatorietà esterna rispecchia ed è rispecchiata da un obbligatorietà interna, in uno
stretto collegamento tra deontologia e codice etico quale imperativo interiore a guida
dell’attività professionale.
La stessa approvazione del Codice per referendum dagli iscritti coinvolge in maniera diretta il
gruppo professionale, non solo nell’assenso di norme stabilite, ma di più nell’assumere un
ruolo autonomo ed attivo di scelta determinante ai fini dell’effettiva vigenza del codice
stesso. Questa assunzione di responsabilità, peraltro, equivale a riconoscere come proprie le
regole deontologiche, in quanto corrispondenti ad un sistema di valori di riferimento

1
comune alle categorie di professionisti. In questo modo il Codice diventa un vero e proprio
strumento di identità.

Articolo 2
L'inosservanza dei precetti stabiliti nel presente Codice deontologico, ed ogni azione od
omissione comunque contrarie al decoro, alla dignità ed al corretto esercizio della
professione, sono punite secondo quanto previsto dall'art. 26, comma 1°, della Legge 18
febbraio 1989, n. 56, secondo le procedure stabilite dal Regolamento disciplinare.

La norma in esame stabilisce il principio secondo il quale non solo l’inosservanza delle regole
deontologiche espressamente contemplate nel C.D., ma altresì ogni condotta, attiva o
omissiva, che sia contraria al decoro, alla dignità e al corretto esercizio della professione,
costituisce infrazione disciplinare punibile secondo quanto previsto dalla L.P. all’art.26/1.
Tale norma si fonda sulla considerazione che la deontologia precede la formazione del C.D. ,
quale “comune sentire etico” della comunità professionale. Pertanto, il Codice altro non è
che la concretizzazione di tale “comune sentire” in forma scritta ed esplicita. Può accadere
quindi che certi comportamenti professionali anche se non previsti espressamente dagli
articoli del Codice, possano venire considerati lesivi del decoro, della dignità e dell’esercizio
deontologicamente corretto della professione. Ciò implica che il Codice non è
necessariamente esaustivo nella contemplazione di tutte le possibili infrazioni disciplinari e
che pertanto viene lasciato all’apprezzamento dei singoli Consigli dell’Ordine uno “spazio
libero” di valutazione della condotta professionale degli iscritti all’ordine.
Tale margine valutativo e il grado di discrezionalità che lo accompagna esercitato dagli
organi giudicanti implica di poter ritenere deontologicamente scorretta una condotta non
espressamente sanzionata dal codice. In questo caso le categorie di illecito deontologico cui
ci si riferisce sono tutti quei casi in cui sono violati i criteri di decoro, di dignità e di
correttezza nell’esercizio dell’attività professionale, e dunque suscettibili di sanzione.
Per decoro e dignità si intende lo stile che nell’atteggiamento, nei modi e nella condotta è
conveniente alla condizione professionale dello psicologo. La correttezza professionale sta

2
nell’aderenza ai principi informatori della deontologia nei rapporti con i clienti, con i
pazienti, con i colleghi: rispetto, lealtà e onestà.
L’art. 26/1 dispone che
“all’iscritto all’albo che si renda consapevole di abuso o mancanza nell’esercizio della
professione o che comunque si comporti in modo non conforme alla dignità e al decoro
professionale, a seconda della gravità del fatto, può essere inflitta da parte del Consiglio
regionale o provinciale dell’Ordine una delle seguenti sanzioni disciplinare: a) avvertimento,
b) censura, c) sospensione dell’esercizio professionale per un periodo non superiore ad un
anno; d) radiazione.
Né la citata legge né il C.D. stabiliscono un collegamento rigido tra le infrazioni disciplinari e
la qualità della pena. Anche a tale proposito si può affermare che sussiste un elevato grado
di discrezionalità, sia nell’attribuire ad una certa condotta la qualifica di infrazione alle
norme deontologiche, sia nella determinazione della sanzione disciplinare da infliggere a tale
condotta.
Da parte sua l’interessato a cui è stata inflitta la sanzione disciplinare può ricorrere al
tribunale competente per territorio; ciò implica che l’ultima parola, in materia di
applicazione del C.D., spetta alla Magistratura ordinaria.

Articolo 3
Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed
utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell'individuo, del gruppo e della
comunità.
In ogni ambito professionale opera per migliorare la capacità delle persone di
comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole, congrua ed
efficace.
Lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che,
nell'esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri;
pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi,
finanziari e politici, al fine di evitare l'uso non appropriato della sua influenza, e non

3
utilizza indebitamente la fiducia e le eventuali situazioni di dipendenza dei committenti e
degli utenti destinatari della sua prestazione professionale.
Lo psicologo è responsabile dei propri atti professionali e delle loro prevedibili dirette
conseguenze.

Il presente articolo, nel primo e nel secondo comma, evidenzia due caratteristiche della
professione di psicologo. La prima di queste attiene a quella che si potrebbe definire la
missione dello psicologo consistente nell’accrescimento delle conoscenze sul
comportamento umano e nell’utilizzazione di tali conoscenze per promuovere il benessere
psichico del singolo individuo, del gruppo e dell’intera comunità umana.
È evidente che vengono considerati, quali compiti primari della nostra professione, da un
lato l’attività di studio e di ricerca tendente all’ampliamento del patrimonio conoscitivo
relativo alla condotta dell’uomo, dall’altro l’attività applicativa di dette conoscenze al fine di
prevenire il disagio psichico e di curare tale disagio. La promozione del benessere psicologico
comprende sia i compiti di quella che viene comunemente definita come la “psicologia della
salute”, che si pone l’obiettivo di rimuovere le cause del disagio prima che esse producano
effetti patogeni, sia la psicologia terapeutica che interviene dove il malessere sia già in atto.
Il secondo comma indica gli strumenti affinchè l’intervento dello psicologo sia efficace. Tale
intervento, infatti, è produttivo di effetti benefici nel momento in cui genera una migliore
capacità di comprensione di sé e del prossimo. Anche se non esplicitata, nel secondo
comma, è compresa la considerazione del valore positivo della “tolleranza” come frutto della
capacità di comprensione dei bisogni e delle qualità dell’altro.
Il terzo comma richiama il dovere di non trascurare tutti quegli elementi che potrebbero
condurlo ad un uso negativo della propria capacità di influenzare il prossimo per fini non
rispondenti agli interessi dell’altro e di non abusare della fiducia e della dipendenza nei suoi
confronti che i fruitori delle sue prestazioni professionali, ovvero i committenti delle stesse,
potessero nutrire quale prodotto del rapporto professionale instauratosi.
L’ultimo comma, sottolinea come lo psicologo sia responsabile dei propri atti professionali e
delle conseguenze, prevedibili e dirette, di tali atti. Ciò comporta che lo psicologo non può
sottrarsi alle proprie responsabilità professionali, delegandole ad altri. Ma anche che non
deve consentire che tale responsabilità gli sia sottratta o negata.

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Quali riferimenti interni al Codice, si considerino l’art. 28 che vieta qualsiasi attività che
possa produrre indebiti vantaggi diretti o indiretti connessi al rapporto professionale, al di
fuori del pattuito compenso; e l’art. 34 che ribadisce l’impegno dello psicologo a contribuire
allo sviluppo delle discipline psicologiche e a diffonderle per favorire il benessere umano e
sociale.

Articolo 4
Nell'esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza,
all'autodeterminazione ed all'autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni;
ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall'imporre il suo sistema di valori; non opera
discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-
economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità.
Lo psicologo utilizza metodi e tecniche salvaguardando tali principi, e rifiuta la sua
collaborazione ad iniziative lesive degli stessi.
Quando sorgono conflitti di interesse tra l'utente e l'istituzione presso cui lo psicologo
opera, quest'ultimo deve esplicitare alle parti, con chiarezza, i termini delle proprie
responsabilità ed i vincoli cui è professionalmente tenuto.
In tutti i casi in cui il destinatario ed il committente dell'intervento di sostegno o di
psicoterapia non coincidano, lo psicologo tutela prioritariamente il destinatario
dell'intervento stesso.

In questo articolo si va a descrivere, da un lato coloro che si avvalgono delle sue prestazioni
nel rispetto della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo e dall’altro un modo dello
psicologo di guardare alla persona, che va anche al di là dello specifico discorso
professionale. Infatti una consapevolezza professionale che la tolleranza ed il rispetto della
differenza costituiscono un valore ai fini della costituzione di sistemi e relazioni meno
ammalanti, alla fine non può non avere anche coerenti ricadute culturali sul soggetto
psicologo.

5
Il modo di guardare il mondo dello psicologo, la sua laicità intellettuale, non possono non
ricadere sul suo modo di accogliere una persona prima ancora che uno specifico contratto
possa descriverla come paziente o cliente o utente.
L’art. 4 costituisce il fondamento etico della struttura del C.D.
Il primo comma infatti riprende, sintetizzandoli, i principi fondamentali della Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo.
Nel secondo comma lo psicologo deve accertarsi che i metodi e le tecniche utilizzati siano
coerenti con i principi sopraesposti e che anche eventuali iniziative a cui collabora non lo
mettano in qualche modo in contraddizione con essi.
In base al terzo comma deve chiarire nei contesti istituzionali in cui opera, l’imprescindibilità
di tali principi , tanto più nei casi in cui proprio su di essi sorgono conflitti tra l’interesse
dell’istituzione ed il diritto dell’utente al rispetto della propria dignità, riservatezza,
autonomia…. Questo comma rappresenta un ambito all’interno del quale lo psicologo è
chiamato non solo a rispettare i principi etico-deontologici all’interno della relazione con
l’utente, ma anche all’interno di una relazione complessa che comprende l’istituzione presso
cui opera che potrebbe tendere a condizionare il professionista verso azioni in contrasto con
i principi suddetti.
Allo stesso modo, in base al quarto comma tale imprescindibilità è riaffermata anche davanti
ad un committente diverso dal destinatario dell’intervento, infatti dovrà essere sempre
quest’ultimo il soggetto tutelato prioritariamente.

Articolo 5
Lo psicologo è tenuto a mantenere un livello adeguato di preparazione professionale e ad
aggiornarsi nella propria disciplina specificatamente nel settore in cui opera. Riconosce i
limiti della propria competenza ed usa, pertanto, solo strumenti teorico-pratici per i quali
ha acquisito adeguata competenza e, ove necessario, formale autorizzazione.
Lo psicologo impiega metodologie delle quali è in grado di indicare le fonti ed i riferimenti
scientifici, e non suscita, nelle attese del cliente e/o utente, aspettative infondate.

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Questo articolo delinea la figura dello psicologo in quanto scienziato.
Diversamente da altre prestazioni di aiuto (per es. sacerdoti, astrologi, cartomanti ecc) la
psicologia si basa su fondamenti di carattere scientifico derivanti anche dalla approvazione
della comunità di studiosi che la sottopongono continuamente a verifica e falsificazione.
Proprio perché è una scienza in progress, in cui la ricerca e la sperimentazione sono in
continua evoluzione, si richiede che il professionista si sottoponga ad una formazione
permanente, sia attraverso la partecipazione a seminari e a congressi, sia attraverso lo
studio di pubblicazioni rilevanti.
Nei casi in cui la competenza dello psicologo sia limitata questi, ai sensi del presente articolo,
ha il dovere di denunciare i limiti del proprio sapere. Ne consegue che egli debba utilizzare
strumenti quali test solo quando abbia acquisito una sufficiente capacità di somministrarli e
di interpretarli senza azzardare interpretazioni improvvisate.
Nell’ultimo capoverso questo articolo impone allo psicologo di non suscitare nel cliente e/o
utente aspettative infondate, per esempio magnificando i propri risultati precedenti o la
“potenza” della sua metodologia. Se è pur vero che l’aspettativa di un buon risultato da
parte del paziente gioca un ruolo positivo ai fini dell’efficacia della psicoterapia ciò non
significa che influenzare le aspettative del paziente possa tradursi in una fabbrica di illusioni.

Articolo 6
Lo psicologo accetta unicamente condizioni di lavoro che non compromettano la sua
autonomia professionale ed il rispetto delle norme del presente codice, e, in assenza di tali
condizioni, informa il proprio Ordine.
Lo psicologo salvaguarda la propria autonomia nella scelta dei metodi, delle tecniche e
degli strumenti psicologici, nonché della loro utilizzazione; è perciò responsabile della loro
applicazione ed uso, dei risultati, delle valutazioni ed interpretazioni che ne ricava.
Nella collaborazione con professionisti di altre discipline esercita la piena autonomia
professionale nel rispetto delle altrui competenze.

7
Questo articolo, diversamente dalla maggior parte dei primi 21 articoli, parla esplicitamente
di difesa dell’autonomia professionale, sottolineando l’obiettivo della tutela del gruppo
professionale stesso nei confronti, soprattutto, di professioni di confine.
La necessità di parlare di difesa dell’autonomia professionale non si fonda di fatto sulla
sterile visione corporativa della professione ma sulla ferma condivisione del principio che, a
tutela dell’utenza, ogni atto professionale debba basarsi sul possesso di competenze
specifiche, acquisite attraverso un altrettanto specifico ed appropriato iter formativo.
È proprio da ciò che deriva il senso forte del concetto di responsabilità con tutte le sue
implicazioni giuridiche, come diritto e obbligo a rispondere delle conseguenze dei propri
comportamenti assunti in base ad una meditata scelta. Tale scelta può fondarsi solo sulla
sicura padronanza delle basi teoriche e degli strumenti professionali.
In questo articolo si indica inoltre la necessità di contrastare sia una confusiva e
disfunzionale sovrapposizione di ruoli e di compiti, sia i tentativi di appropriazione di funzioni
e prestazioni psicologiche da parte di altri professionisti, non lasciando a questi ultimi la
possibilità di decidere come debbano essere effettuati dagli atti professionali specifici dello
psicologo, che senza un’adeguata preparazione produrrebbero danni per l’utenza.
La funzione dell’art. 6 è quella di vigilare per la tutela della professione, non solo in senso
repressivo, ma anche assertivo e propositivo, stimolando nella comunità professionale
un’elaborazione costruttiva della definizione interna ed esterna della specificità della
professione.

Articolo 7

Nelle proprie attività professionali, nelle attività di ricerca e nelle comunicazioni dei
risultati delle stesse, nonché nelle attività didattiche, lo psicologo valuta attentamente,
anche in relazione al contesto, il grado di validità e di attendibilità di informazioni, dati e
fonti su cui basa le conclusioni raggiunte; espone, all'occorrenza, le ipotesi interpretative
alternative, ed esplicita i limiti dei risultati. Lo psicologo, su casi specifici, esprime
valutazioni e giudizi professionali solo se fondati sulla conoscenza professionale diretta
ovvero su una documentazione adeguata ed attendibile.

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Il contenuto e il significato di tale articolo ribadiscono e specificano quello dell’art. 5; mentre
quest’ultimo detta principi che valgono per la formazione dello psicologo stesso e il suo
livello di competenza l’art. 7 regola la stessa problematica in relazione ai terzi. La norma
prevede che lo psicologo formuli interpretazioni sulla base di informazioni valide ed
attendibili, indicando dati e fonti, presentando il suo giudizio come ipotetico e pertanto non
escludendo altre ipotesi interpretative. Ciò rende conto del fatto che in psicologia, a seconda
della prospettiva in cui ci si pone i giudizi possono essere di tenore diverso.
Nell’ultimo capoverso l’art.7 prescrive che gli psicologi debbano evitare di esprimere giudizi
su fatti o persone di cui non abbiano una conoscenza professionale e diretta. Si potrà così
contrastare la pessima abitudine di taluni di interpretare persone e condotte attribuendo
tratti e caratteristiche ad individui che non conoscono neanche. L’esame diretto può essere
escluso solo se i giudizi professionali sono fondati su una documentazione adeguata e
attendibile.

Articolo 8
Lo psicologo contrasta l'esercizio abusivo della professione come definita dagli articoli 1 e
3 della Legge 18 febbraio 1989, n. 56, e segnala al Consiglio dell'Ordine i casi di abusivismo
o di usurpazione di titolo di cui viene a conoscenza.
Parimenti, utilizza il proprio titolo professionale esclusivamente per attività ad esso
pertinenti, e non avalla con esso attività ingannevoli od abusive.

Il primo comma del presente articolo impone l’obbligo di contrastare l’esercizio abusivo della
professione di psicologo così come è definita dagli articoli 1 e 3 della L.P.
Art.1 L.P.:
La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la
prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione riabilitazione e di sostegno in ambito
psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende
anche le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito.
Art. 3 L.P.:

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l’esercizio dell’attività psicoterapeutica è subordinato ad una specifica formazione
professionale da acquisirsi, dopo il conseguimento della laurea in Psicologia o in medicina o
in chirurgia, mediante corsi di specializzazione almeno quadriennali che prevedano adeguata
formazione e addestramento in psicoterapia..
Tutte le attività sopradescritte, preventive, diagnostiche, abilitative e riabilitative e di
sostegno in ambito psicologico sono esclusivamente riservate a quanti sono abilitati
all’esercizio della professione di psicologico, mentre l’esercizio della psicoterapia è
consentito, oltre che agli psicologi anche agli iscritti all’albo dei medici e chirurghi,
naturalmente dopo dell’acquisizione di una specifica formazione e uno specifico
addestramento professionale ad hoc.
Il C.D. ritiene che sia nell’ipotesi che si tratti di un esercizio abusivo configurabile come
reato, sia nell’ipotesi in cui venga esercitata l’attività psicoterapeutica senza la prescritta
formazione sussista l’obbligo per l’iscritto all’albo di segnalare al consiglio dell’ordine i casi in
oggetto.
Le sanzioni disciplinari verranno erogate dall’ordine degli psicologi soltanto a chi commette
le infrazioni sopra esposte essendo iscritto al relativo albo e quindi, più specificatamente, nei
casi di esercizio non autorizzato dell’attività psicoterapeutica compiuta da appartenenti
all’albo professionale; negli altri casi la segnalazione all’ordine consentirà a quest’ultimo di
investire l’autorità giudiziaria per i provvedimenti di competenza di quest’ultima.
L’obbligo di vigilanza che questo articolo impone viene ribadito nell’art. 36/3 del C.D.
Il principio ispiratore di tale norma si riferisce al fatto che ogni volta che si verifica una
situazione di abusivismo della professione si pone da un lato, a rischio la salute e l’interesse
dell’utente che si serve di prestazioni professionali non supportate da un’adeguata
competenza, dall’altro viene danneggiata la categoria professionale per la concorrenza
illecita da parte di persone non qualificate a svolgere definite attività che sono riservate a chi
è iscritto all’albo professionale.
Il secondo comma stabilisce il doppio obbligo di non utilizzare il titolo di psicologo per
attività che non siano ad esso attinenti e di non avvallare con tale titolo attività ingannevoli o
abusive. In altri termini viene sancito come deontologicamente scorretto che lo psicologo
utilizzi la sua qualifica professionale per compiere atti che risultino essere estranei alle sue
specifiche competenze professionali. Ugualmente viene considerato contrario alle norme di

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una corretta condotta professionale il coprire, con il titolo di psicologo, comportamenti di
terzi che abbiano carattere fraudolento o abusivo. (per esempio lo psicologo consente che
nel proprio studio venga svolta attività psicoterapeutica da parte di persone non abilitate.

Articolo 9
Nella sua attività di ricerca lo psicologo è tenuto ad informare adeguatamente i soggetti in
essa coinvolti al fine di ottenerne il previo consenso informato, anche relativamente al
nome, allo status scientifico e professionale del ricercatore ed alla sua eventuale
istituzione di appartenenza. Egli deve altresì garantire a tali soggetti la piena libertà di
concedere, di rifiutare ovvero di ritirare il consenso stesso.
Nell' ipotesi in cui la natura della ricerca non consenta di informare preventivamente e
correttamente i soggetti su taluni aspetti della ricerca stessa, lo psicologo ha l'obbligo di
fornire comunque, alla fine della prova ovvero della raccolta dei dati, le informazioni
dovute e di ottenere l'autorizzazione all'uso dei dati raccolti. Per quanto concerne i
soggetti che, per età o per altri motivi, non sono in grado di esprimere validamente il loro
consenso, questo deve essere dato da chi ne ha la potestà genitoriale o la tutela, e, altresì,
dai soggetti stessi, ove siano in grado di comprendere la natura della collaborazione
richiesta.
Deve essere tutelato, in ogni caso, il diritto dei soggetti alla riservatezza, alla non
riconoscibilità ed all'anonimato.

Questo articolo ha per oggetto il “consenso informato” per quanto attiene alle attività di
ricerca dello psicologo.
L’articolo si divide in due parti: la prima riguarda il consenso informato espresso in piena
libertà e con conoscenza di causa da parte del soggetto sperimentale o da chi ne ha la
potestà giuridica, sia prima che dopo la ricerca, quando la sua natura lo richiedesse. La
seconda riguarda il diritto dei soggetti sperimentali allo stretto anonimato.
I temi trattati sono:

11
- l’accuratezza dell’informazione sulla natura della ricerca al fine di ottenere
spontaneamente e ponderatamente il consenso da parte di chi è richiesto di partecipare in
qualità di soggetto sperimentale della ricerca, alla ricerca stessa.
- la presentazione spontanea e necessaria, da parte dello sperimentatore, della propria
identità, del suo status scientifico e professionale ed eventualmente anche dell’istituzione
alla quale egli afferisce se ciò potesse meglio qualificare e rassicurare il soggetto
sperimentale circa la bontà intrinseca della ricerca e circa la conduzione della stessa.
- la garanzia attribuita ai soggetti sperimentali da parte dello sperimentatore circa la loro
piena libertà di aderire o si sottoporsi alla ricerca, o di rifiutare o di ritirare, in qualsiasi
momento il consenso stesso.
- se la natura specifica della ricerca non permette al ricercatore di informare
preventivamente e correttamente i soggetti sperimentali, egli è obbligato a dare le
informazioni dovute e a ricevere il consenso a riguardo dell’uso dei dati raccolti da parte del
soggetto sperimentale almeno alla conclusione della ricerca o della raccolta dei dati.
- il consenso, in sostituzione di persone incapaci di esprimerlo validamente di persona per
età o per altri motivi, deve essere espresso formalmente da parte di coloro che ne hanno la
potestà genitoriale o la tutela, oppure dagli stessi soggetti purché siano in grado di
comprendere la natura della ricerca e della collaborazione richiesta.
- infine, lo psicologo che fa ricerca sarà impegnato a tutelare il diritto dei soggetti
sperimentali alla riservatezza, alla loro riconoscibilità e all’anonimato.
Per quanto riguarda il primo tema e, cioè, il consenso informato e la libertà del soggetto di
ritirarsi dalla ricerca si deve ribadire la responsabilità del ricercatore derivante dal fatto che
egli deve ottenere sempre il consenso del soggetto sperimentale prima di sottoporlo
all’indagine e anche per poter utilizzare qualsiasi tipo di dati. Il consenso deve poter essere
“informato” e cioè esso deve poter essere emesso non solo nella piena libertà ma anche
nella comprensione di tutti gli aspetti della ricerca così che il soggetto sperimentale
potrebbe ritirare il suo consenso. Egli dunque deve essere informato in modo chiaro della
sua libertà di ritirarsi dalla ricerca in qualsiasi momento lo ritenesse opportuno per motivi
personali o per ragioni di incongruenza tra il consenso dato e la situazione attuale,
sopravvenuti nel tempo. Il consenso informato deve essere ottenuto anche a riguardo
dell’utilizzo dei dati della ricerca e in ogni caso al soggetto sperimentale deve essere lasciata

12
la possibilità dell’anonimato; nei casi particolari in cui questo non fosse possibile, deve
essere ottenuto il consenso del partecipante il quale deve essere informato di tutti gli usi
prevedibili e della diffusione dei dati che lo riguardano. Quando l’obiettivo scientifico della
ricerca richiedesse che il soggetto sia tenuto all’oscuro di alcuni aspetti di essa, lo psicologo,
al termine della ricerca o della raccolta dei dati, deve informare esaurientemente il soggetto
sperimentale del disegno sperimentale della ricerca e ottenere il consenso informato
all’utilizzo dei dati.
Per quanto attiene al secondo tema dell’articolo e cioè quello relativo alla riservatezza,
all’anonimato e alla non riconoscibilità del soggetto che partecipa alla ricerca, si deve
affermare con forza il principio secondo il quale il partecipante alla ricerca non debba mai
essere riconoscibile personalmente, sia nella presentazione dei dati sia attraverso i mezzi
utilizzati per la ricerca, come nel caso di registrazioni.

Articolo 10

Quando le attività professionali hanno ad oggetto il comportamento degli animali, lo


psicologo si impegna a rispettarne la natura ed a evitare loro sofferenze.

Il presente articolo ha per oggetto il trattamento il rapporto che potrebbe intercorrere tra lo
psicologo e il soggetto animale.
Esiste una dichiarazione universale dei diritti dell’animale del 1978 dove si garantisce il
diritto dell’animale al rispetto, alla considerazione, alle cure e alla protezione da parte
dell’uomo. Viene inoltre indicato il riconoscimento e il rispetto della dimensione fisica e
psichica dell’animale.
Un’interessante proposta nella ricerca scientifica sui diritti degli animali è oggi portata avanti
da molti studiosi tra cui Singer. Si evidenzia la necessità di porre gli animali nella sfera dei
soggetti viventi dotati di valore inerente, non solo riguardo alla vita biologica ma anche a
quella psichica con il rispetto che è loro dovuto.
In genere, gli esperimenti in psicologia potrebbero sembrare apparentemente meno invasivi
e meno dannosi di altri, in quanto molta parte della maggior parte della ricerca psicologica si
13
basa sull’osservazione del comportamento, e dunque potenzialmente più innocui ai fini della
sopravvivenza fisica.
Il problema non riguarda unicamente la responsabilità dello psicologo per gli aspetti legati
alla modalità di esecuzione dell’esperimento, ma per il trattamento dell’animale in ogni
momento della sua esistenza nei laboratori (garanzia di condizioni alimentari, igieniche,
abitative e sociali).
Un secondo importante problema non riguarda unicamente la variabile oggettiva come
criterio di valutazione del rispetto dell’animale. Introducendo il principio etico del “rispetto
della natura” del soggetto animale, l’articolo in esame indica un’attenzione che va oltre il
dato di garanzia delle condizioni oggettive necessarie alla sopravvivenza dell’animale.
Questo principio riconosce l’animale in quanto soggetto avente diritto di essere rispettato
nella sua natura specifica che allude a una dimensione del suo benessere sia fisico che
psicologico. L’attenzione va sugli aspetti qualitativi dell’esistenza e dunque alla necessità di
preservare l’animale dalla sofferenza fisica e psichica durante tutta la durata della ricerca.

Articolo 11

Lo psicologo è strettamente tenuto al segreto professionale. Pertanto non rivela notizie,


fatti o informazioni apprese in ragione del suo rapporto professionale, nè informa circa le
prestazioni professionali effettuate o programmate, a meno che non ricorrano le ipotesi
previste dagli articoli seguenti.

Il rapporto che lo psicologo intrattiene professionalmente con il paziente/utente è per sua


natura confidenziale. Se ciò non fosse e il destinatario della relazione di aiuto non ritenesse
riservato quanto comunica, ciò lo indurrebbe ad alterare, nascondere o omettere
informazioni che possono essere necessarie affinché il processo terapeutico sia efficace.
Le notizie da non rivelare devono essere apprese in ragione dal rapporto professionale, e
dunque il segreto non riguarda notizie che si sono conosciute accidentalmente o in contesti
diversi da quello professionale, per esempio amichevole. Potrà semmai essere considerata la

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violazione dell’art. 2 che prevede che, indipendentemente della violazione delle norme del
C.D., lo psicologo deve tutelare il decoro e la dignità come professione.
La violazione dell’obbligo del segreto comporta la violazione dell’art. 622 del codice penale
che dispone che chiunque riveli, senza giusta causa, notizie ricevute in ambito della propria
professione, è punito con la reclusione fino ad un anno o con una multa.

Articolo 12
Lo psicologo si astiene dal rendere testimonianza su fatti di cui è venuto a conoscenza in
ragione del suo rapporto professionale.
Lo psicologo può derogare all'obbligo di mantenere il segreto professionale, anche in caso
di testimonianza, esclusivamente in presenza di valido e dimostrabile consenso del
destinatario della sua prestazione. Valuta, comunque, l'opportunità di fare uso di tale
consenso, considerando preminente la tutela psicologica dello stesso.

L’art. 12 specifica e rafforza il contenuto dell’art. 11. Lo psicologo non deve violare il segreto
professionale neanche in occasione di una testimonianza processuale. Sussistendo il segreto
dell’interesse del paziente/utente l’art. 12 consente che, avente il diritto, questi dia
consenso allo psicologo di testimoniare su quanto da lui conosciuto professionalmente. Si
pensi al caso in cui l’imputato di un processo di omicidio abbia interesse a che il suo
psicoterapeuta deponga circa le sue condizioni psichiche in un periodo subito precedente al
fatto dannoso con lo scopo di ottenere una pronuncia per infermità o semi infermità
mentale.
Perché il consenso sia valido deve essere “informato” e cioè il soggetto deve rendersi conto
delle conseguenze della testimonianza e deve essere “valido” nel senso che deve essere
prestato da persona in grado di vagliare, giudicare e decidere per quanto lo riguarda in
argomento. Nell’interesse dello psicologo tale consenso è meglio che sia dimostrabile e
documentabile (con una dichiarazione scritta).
L’ultima parte di questo articolo mette in evidenza l’importanza dell’interesse alla tutela
psicologica rispetto all’attività giudiziaria e prevede che lo psicologo, anche in caso di
consenso possa decidere, nell’interesse psicologico del paziente, comunque di non
15
testimoniare. Nel concreto ciò potrà creare qualche problema giudiziario perché il
magistrato a fronte di un consenso informato valido e dimostrato potrebbe esigere che lo
psicologo testimoni. Il consiglio dell’Ordine aiuterà a dirimere il conflitto.

Articolo 13

Nel caso di obbligo di referto o di obbligo di denuncia, lo psicologo limita allo stretto
necessario il riferimento di quanto appreso in ragione del proprio rapporto professionale,
ai fini della tutela psicologica del soggetto.
Negli altri casi, valuta con attenzione la necessità di derogare totalmente o parzialmente
alla propria doverosa riservatezza, qualora si prospettino gravi pericoli per la vita o per la
salute psicofisica del soggetto e/o di terzi.

Questo articolo è uno dei più spinosi e complessi da interpretare a causa della previsione
dell’obbligo di referto e della deroga al segreto per la tutela della salute del paziente o di
terzi. Non vi è dubbio che in alcuni casi lo psicologo sia obbligato a denunciare fatti
costituenti reato e particolarmente nei casi in cui rivesta la qualifica di pubblico ufficiale o di
incaricato di pubblico servizio si pensi per esempio allo psicologo che riveste il ruolo di
consulente tecnico d’ufficio o che operi quale dipendente di un ente pubblico.
L’art. 361 e 362 del codice penale rispettivamente stabiliscono che se il pubblico ufficiale e
l’incaricato di un pubblico servizio omette o ritarda di denunciare all’Autorità giudiziaria un
reato di cui ha avuto notizia nell’esercizio o a causa delle sue funzioni, è sanzionabile e
perseguibile penalmente.
L’art. 365 del codice penale fa riferimento solo all’esercizio della professione; più in
particolare esso recita che “chiunque, avendo nell’esercizio della propria professione
sanitaria prestato la propria assistenza o opera in casi che possano presentare i caratteri di
un delitto per il quale si debba procedere d’ufficio, omette o ritarda di riferirne all’autorità
giudiziaria è punito e sanzionato. Questa disposizione non si applica quando il referto
esporrebbe la persona assistita a procedimento penale.”

16
Così se lo psicologo non esercita la professione dello psicoterapeuta non ha l’obbligo del
referto. Così per esempio, lo psicologo dello sport che riceva la confidenza di un’atleta, per il
quale presta attività psicologica, che probabilmente i suoi bassi risultati nel salto in lungo
dipendono dal fatto che è ricattato da una banda di spacciatori, non ha l’obbligo di riferire
all’Autorità. Mentre per un pubblico ufficiale o per l’incaricato di pubblico servizio è fatto
l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 361 e 362 codice penale.
Per quanto riguarda l’ultima parte dell’art. 365 del codice penale esso precisa che non
bisogna riferire fatti per cui il paziente potrebbe essere sottoposto a procedimento penale.
Quindi, per esempio, se egli è stato complice nel commettere un reato, il referto non dovrà
essere fatto perché espone ai rigori della legge penale il paziente. Accettando
l’interpretazione della normativa, lo psicologo sarà tenuto a presentare il referto se il
paziente gli dirà che da piccolo è stato stuprato, poniamo da un parente, anche nel caso che
il terapeuta sospetti che si tratti di una fantasticheria.
Il C.D. all’art. 13 al comma 1 esige che lo psicologo, sia di fronte al referto che di fronte alla
denuncia, lo psicologo limiti la trasmissione delle sue conoscenze allo stretto necessario, ciò
ai fini di tutelare psicologicamente il soggetto. Enunciazione questa giustamente
programmatica ma che nella attualità della vita potrebbe rendersi difficilmente applicabile.
Si pensi al caso di un terapeuta che riferisca all’autorità il fatto che il proprio paziente gli ha
detto di essere stato stuprato da piccolo da uno zio, quando poi sia il paziente che lo zio,
magari conviventi saranno interrogati sui fatti.
Il secondo comma dell’art. 13 affronta un tema spinoso ovvero il possibile contrasto tra la
riservatezza e il segreto da un lato e dall’altro il pericolo per la vita o la salute psicofisica del
soggetto e/o di terzi. Nei casi in cui il paziente riveli di voler uccidere qualcuno occorrerà
valutare attentamente la gravità delle proprie affermazioni e l’intenzione ad agire facendo
comunque riferimento al proprio Consiglio dell’ordine. Fra i terzi va incluso lo stesso
psicoterapeuta che potrebbe derogare alla dovuta riservatezza per la tutela della propria vita
e salute. Il secondo comma in generale precisa che lo psicologo valuta con attenzione la
necessità di derogare totalmente o parzialmente alla propria doverosa riservatezza qualora
si prospetti un grave pericolo per la salute psicofisica di terzi.

17
Articolo 14
Lo psicologo, nel caso di intervento su o attraverso gruppi, è tenuto ad in informare, nella
fase iniziale, circa le regole che governano tale intervento.
È tenuto altresì ad impegnare, quando necessario, i componenti del gruppo al rispetto del
diritto di ciascuno alla riservatezza.

Questo articolo affronta l’area degli interventi psicologici rivolti a gruppi di individui, dove ai
diritti e alle regole definiti per la relazione professionale con un singolo soggetto si
sovrappongono i diritti e le regole dello specifico contesto operativo gruppale. Le tematiche
riguardanti lr regole della relazione professionale con i singoli utenti sono analiticamente
trattate nel capo II del C.D.
L’inserimento di questo art. nel capo I relativo ai principi deontologici generali e fra gli altri
articoli riguardanti il segreto professionale, risponde alla necessità di far emergere alcuni
elementi di rilevanza deontologica di quest’area dell’intervento professionale che interseca
molti settori della psicologia; non a caso l’art. 3 del C.D. individua il gruppo, insieme
all’individuo e alla comunità, come area di conoscenza e di intervento per la promozione del
benessere psicologico. Inoltre, nonostante l’articolo abbia una collocazione apparentemente
anomala rispetto al capo I in quanto il primo comma ha un maggior livello di coerenza con il
capo II (rapporti con l’utenza e con la committenza), la sua collocazione si comprende per il
maggior peso specifico del secondo comma e per il suo legame con gli altri articoli sul
segreto professionale.
L’articolo tratta i temi del contratto professionale e della riservatezza in termini molto
generali. Ciò in quanto i settori di intervento psicologico con i gruppi sono estremamente
diversificati e spaziano dal campo psicoterapico, al counselling, alla psicologia del lavoro e
delle organizzazioni, alla psicologia di comunità, alle attività in campo scolastico, a quelle
didattiche o do supervisione. Da tale eterogeneità deriva la scelta di una norma generica che
pone essenzialmente due imperativi:
- l’intervento psicologico con gruppi necessita di un’esplicitazione chiara delle specifiche
regole che lo governano;

18
- lo psicologo deve consentire che i soggetti che partecipano ai gruppi, pur non essendo
legalmente tenuti al segreto come lo è il professionista, rispettino il diritto di ciascuno alla
riservatezza sulle informazioni che lo riguardano.
Viene utilizzata l’espressione “su e attraverso i gruppi” perché, per l’eterogeneità descritta, il
gruppo può essere oggetto dell’intervento o strumento attraverso il quale si interviene per
finalità diverse, esterne o interne al gruppo o ad una parte di esso.
Il primo comma introduce temi più dettagliatamente descritti dall’art. 24, rispetto al quale si
differenzia per l’introduzione del riferimento alle regole che governano l’intervento con i
gruppi. L’art. 24, che fa esplicito riferimento al rapporto professionale con il gruppo, obbliga
a fornire tutte le informazioni sul’intervento e sui limiti giuridici della riservatezza, essenziali
anche perché possa essere espresso il consenso informato e il contratto possa essere
correttamente fondato.
Anche se l’art. 14 non esplicita in concetto di consenso informato appare evidente che le
informazioni devono essere fornite in modo che i soggetti possano comprenderle e quindi
possano aderirvi.
Inoltre, rispetto all’informazione sulle regole che governano i gruppi, si consideri
l’importanza della chiarezza sulle funzioni che lo psicologo è chiamato a svolgere, in quanto
da queste discende la relazione con i singoli soggetti e con il gruppo. La definizione di queste
funzioni e con esse delle relative regole, è ancora più necessaria nel caso in cui il gruppo
destinatario della prestazione non ne sia anche il committente; per esempio il caso di
somministrazione collettiva di test psicologici, dove dal rispetto di regole collettive deriva la
validità della prova che peraltro spesso è irripetibile.
Nel secondo comma viene introdotto il diritto alla riservatezza di ciascun membro del
gruppo; si responsabilizza lo psicologo alla gestione delle problematiche attinenti al segreto,
nei casi in cui ci sono soggetti ad esso non vincolati. In questo caso non si pongono vincoli
legali, ma squisitamente deontologici, affinché lo psicologo “impegni i componenti del
gruppo” che non sono tenuti al segreto, ad assumere un atteggiamento di responsabilità per
affermare e difendere un diritto alla riservatezza che è proprio di coloro che condividono
l’esperienza. Lo psicologo, dunque, deve essere in grado di catalizzare un’attenzione etica
dei soggetti all’interno del lavoro psicologico, in primo luogo attraverso l’assunzione di una
posizione professionale deontologicamente corretta ed in secondo luogo attraverso

19
un’attivazione diretta dei soggetti circa i vincoli che sono chiamati ad assumere
reciprocamente all’interno di un gruppo. Lo scopo della norma è infatti quello di tutelare
l’utenza in relazione alla possibilità che la situazione di lavoro in gruppo possa mettere a
rischio il diritto soggettivo alla riservatezza.
Tuttavia, si può distinguere un gruppo terapeutico da un gruppo di formazione, dove nel
primo si pone anche un problema di riservatezza su chi ne faccia parte mentre nel secondo
ciò è totalmente irrilevante. L’ambito clinico è quello in cui è più chiara la necessità di porre
le condizioni affinché i componenti del gruppo siano chiamati ad assumere dei vincoli
reciproci, non solo sulle informazioni relative a chi ne fa parte, ma anche sui contenuti
espressi al suo interno.

Articolo 15
Nel caso di collaborazione con altri soggetti parimenti tenuti al segreto professionale, lo
psicologo può condividere soltanto le informazioni strettamente necessarie in relazione al
tipo di collaborazione.

Questo articolo indica la condotta da tenere nei confronti dei colleghi o di altri soggetti
tenuti al segreto professionale. Anche se l’articolo non lo dice si presuppone che tale
collaborazione esista con il consenso da parte dell’avente diritto. Così uno psicologo non
riferirà niente ad un avvocato che richieda notizie del suo paziente ai fini di un’azione di
risarcimento per danno biologico/psichico senza che l’utente/paziente manifesti un
consenso valido e informato e possibilmente dimostrabile documentalmente o
testimonialmente come vuole l’art. 12 del C.D.
Il C.D. prescrive che le informazioni fornite siano strettamente collegate al tipo di
utilizzazione prevista nel rapporto di collaborazione (è superfluo riferire all’avvocato che
deve richiedere un risarcimento per danno psichico, che il cliente ha problemi edipici non
risolti ecc.).
Ovviamente il vigore di questo articolo si attenua o viene meno ogni qualvolta che la
riservatezza è limitata da alcune circostanze, come ad esempio il fatto che ci sia un mandato
di un giudice in relazione ad una perizia che deve stabilire l’entità del danno psichico o
20
quando sussiste una valida ragione quale l’impossibilità del paziente a prestare il consenso o
ricorre una qualsiasi condizione o emergenza per cui bisogna proteggerlo senza attendere
che presti il consenso, oppure qualora si prospettino gravi pericoli per la vita o per la salute
psicofisica del soggetto e/o di terzi (art. 13 C.D.)

Articolo 16
Lo psicologo redige le comunicazioni scientifiche, ancorché indirizzate ad un pubblico di
professionisti tenuti al segreto professionale, in modo da salvaguardare in ogni caso
l'anonimato del destinatario della prestazione.

Questo articolo rappresenta l’ennesima espressione del principio deontologico generale


relativo al diritto di riservatezza. La norma posta da questo articolo attiene all’obbligo, da
parte dello psicologo, di redigere le comunicazioni scientifiche omettendo i nomi dei
destinatari delle prestazioni cui si fa eventualmente riferimento nell’ambito di tali
comunicazioni e facendo ricorso, dunque, per indicare le persone, alle sole iniziali, a sigle o
nomi di fantasia. Lo psiocologo è obbligato anche ad ometter, comunque, nelle sue relazioni,
qualsiasi particolare che possa condurre all’individuazione, da parte di un fruitore della
comunicazione scientifica, dell’identità del destinatario della prestazione.
Lo spirito dell’art. 16 obbliga lo psicologo alla salvaguardia dell’anonimato del destinatario
della prestazione anche quando la comunicazione scientifica non consista, come solitamente
avviene, in uno scritto o in un intervento orale ed assuma, invece, forme diverse come ad
esempio quella della videoregistrazione.
Lo scopo generale della norma è quello di tutelare l’utenza rispetto al rischio che il suo
diritto alla riservatezza venga infranto nei casi in cui lo psicologo effettui comunicazioni
scientifiche. Il fatto che l’articolo precisi che l’obbligo dello psicologo relativo alla
salvaguardia dell’anonimato del destinatario della prestazione valga anche quando la
comunicazione scientifica sia indirizzata ad un pubblico di professionisti tenuti al segreto
professionale ha due scopi: il primo è quello di fornire la garanzia del fatto che le
informazioni relative al destinatario della prestazione possano essere divulgate,
pubblicazioni scientifiche come atti di convegni, ad esempio, possono essere acquistate
21
anche dai non addetti ai lavori; il secondo è quello di fornire la garanzia del fatto che
informazioni relative al destinatario della prestazione possano giungere a professionisti
rispetto ai quali egli può avere necessità di riservatezza. Quest’ultimo tema è inoltre,
ribadito nell’art. 15 che prevede che anche in caso di collaborazione con altri soggetti tenuti
al segreto professionale possono essere condivise soltanto le informazioni strettamente
necessarie in relazione al tipo di collaborazione.

Articolo 17
La segretezza delle comunicazioni deve essere protetta anche attraverso la custodia e il
controllo di appunti, note, scritti o registrazioni di qualsiasi genere e sotto qualsiasi forma,
che riguardino il rapporto professionale.
Tale documentazione deve essere conservata per almeno i cinque anni successivi alla
conclusione del rapporto professionale, fatto salvo quanto previsto da norme specifiche.
Lo psicologo deve provvedere perché, in caso di sua morte o di suo impedimento, tale
protezione sia affidata ad un collega ovvero all'Ordine professionale.
Lo psicologo che collabora alla costituzione ed all'uso di sistemi di documentazione si
adopera per la realizzazione di garanzie di tutela dei soggetti interessati.

La segretezza delle comunicazioni del cliente e/o paziente deve essere protetta anche
attraverso la custodia ed il controllo di appunti, note, scritti o registrazioni di qualsiasi
genere e sotto qualsiasi forma, che riguardino il rapporto professionale. Lo psicologo
dovunque svolga la sua attività, deve mettere in atto una serie di comportamenti e
accortezze per tutelare la privacy del paziente/cliente. Se questo è relativamente facile in
uno studio privato lo è meno in un ambulatorio pubblico. Se la cartella clinica trova il suo
posto in uno schedario del quale lo psicologo, la sua segretaria o altro personale autorizzato
possiede le chiavi ciò significherà che tutte le persone che potenzialmente entreranno in
contatto con i dati sensibili del paziente sono tenuti al segreto professionale.
Il problema della riservatezza dell’informazione fornita in terapia si propone anche quando il
lavoro è di gruppo (per esempio in C.S.M o in consultori), avendo i diversi operatori
dell’èquipe multidisciplinare diritto/necessità di accesso ai dati contenuti in cartella. Qui lo
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psicologo deve valutare se trascrivere in cartella tutto quanto di delicato il paziente gli
riferisce (pulsioni, fantasie, sensi di colpa…) e comunque una serie di informazioni che sono
particolarmente preziose per lui, per una comprensione approfondita del caso o per motivi
di studio e ricerca, oppure se debbano essere riportate a parte e tenute sotto il suo
personale controllo. Sta allo psicologo dunque, valutare situazione per situazione come la
riservatezza debba essere assicurata.
Un problema nuovo è rappresentato dall’archivio contenuto nei computer o nei dischetti,
l’accesso a questo materiale può essere intenzionalmente o incidentalmente raggiungibile
da persone estranee al trattamento se non protetto da codici di accesso. Anche l’abitudine
sempre più frequente (nel corso di studi, ricerche o supervisioni) di spedire per fax o per mail
una serie di informazioni inerenti il trattamento di casi clinici può mettere a rischio la privacy
alla quale il paziente ha diritto. Poiché chi riceve questo materiale riservato spesso è
personale di segreteria o comunque non tenuto al segreto professionale. Anche la
videoregistrazione dei casi clinici non è esente dal problema della riservatezza.
Mentre l’art. 15 tutela il segreto e la riservatezza nei confronti dei soggetti a loro volta tenuti
al segreto professionale, questo articolo riguarda persone che non hanno questo obbligo e
che sono pertanto potenzialmente più pericolose al fine di una possibile divulgazione di
materiale che deve restare riservato.
Particolare importanza ha il rapporto con segretari o tirocinanti che per ragione del loro
lavoro vengono a conoscere fatti particolarmente importanti. Lo psicologo, per quanto gli sia
possibile nei loro confronti, dovrà cercare di fare in modo che la loro conoscenza sia limitata
allo stretto necessario e che siano avvisati della responsabilità che si assumono nel divulgare
tali fatti.
Nel secondo comma si prescrive che la documentazione di cui al primo comma deve essere
conservata per almeno i 5 anni successivi la conclusione del rapporto professionale fatto
salvo quanto previsto da norme specifiche. Ciò anche se non esplicitato, implica che tale
documentazione vada redatta in modo comprensibile e nel rispetto delle norme del C.D.
soprattutto nel caso in cui si ritenga che essa possa avere un rilievo esterno come per
esempio un processo.

23
Infine, l’ultimo comma chiede allo psicologo che collabora alla costituzione ed all’uso di
sistemi di documentazione di adoperarsi per realizzare garanzie di tutela del cliente e/o
paziente.

Articolo 18
In ogni contesto professionale lo psicologo deve adoperarsi affinché sia il più possibile
rispettata la libertà di scelta, da parte del cliente e/o del paziente, del professionista cui
rivolgersi.

Lo psicologo può dover fare riferimento ai fini diagnostici e terapeutici ad altri specialisti. Ciò
può verificarsi nella pratica privata come nelle strutture pubbliche sia ambulatoriali che
ospedaliere. Per es. può evidenziarsi l’opportunità di avviare il paziente verso una particolare
forma di psicoterapia o suggerire un sostegno individuale nel corso di terapie di gruppo e
viceversa. Può anche verificarsi la necessità di una consulenza legale ai fini di intervenire su
alcune situazioni di coppia, di affido dei figli ecc.. In tutti i casi è necessario che la libertà di
scelta del cliente/paziente sia rispettata e che egli venga informato sul perché della richiesta
di un intervento di un altro professionista. L’accettazione consapevole da parte del paziente
della prescrizione è un punto essenziale al quale fa seguito, in particolare nell’ambito
privato, l’indicazione da parte del professionista, qualora il suo paziente non sappia a chi
rivolgersi e chieda in tal senso aiuto. È possibile che a volta, il paziente accetti suo malgrado,
la “prescrizione” e l’avvio verso un determinato professionista perché ha paura di
contrariare lo psicologo in virtù dell’influenza che egli ha su di lui. Oltre a configurarsi come
una limitazione della libertà del paziente, questo tipo di comportamento non può che
riverberarsi negativamente sul rapporto terapeutico, mettendone in forse i risultati. La
richiesta di consulenza può avvenire anche dallo stesso paziente per motivi diversi che lo
psicologo non dovrebbe trascurare anche ai fini di un’utilità psicologica secondaria.
Situazione ancora più delicata, può accadere che il paziente tra un incontro e l’altro, si
rivolga di sua iniziativa ad un altro professionista, per avere conferma della correttezza del
trattamento terapeutico a cui è sottoposto o per essere rassicurato. Questi comportamenti
spesso innescano sentimenti controtrasferali nello psicologo, quando non vere e proprie
24
reazioni di rifiuto; essi tuttavia dovrebbero essere interpretati come una maggiore richiesta
di attenzione da parte del paziente e comunque di un clima terapeutico non ottimale.
Comunque, non sempre i nominativi indicati dallo psicologo sono ispirati a requisiti di
competenza e serietà, creando così circuiti chiusi in cui l’invio del paziente acquista il valore
di uno scambio. Occorre mettere in evidenza che lo psicologo deve sempre porre l’interesse
del suo paziente al di sopra di ogni sua convenienza, dovendo la sua condotta rapportarsi
oltre che a norme deontologiche scritte a una qualità etica implicita nella sua professione.

Articolo 19
Lo psicologo che presta la sua opera professionale in contesti di selezione e valutazione è
tenuto a rispettare esclusivamente i criteri della specifica competenza, qualificazione o
preparazione, e non avalla decisioni contrarie a tali principi.

Si tratta di una disposizione che specifica i contenuti degli art.5 e 7 del C.D. relativamente ad
un’attività diagnostica specifica, quella che riguarda la selezione e la valutazione degli
individui. Anche in questo caso lo psicologo non può e non deve avventurarsi al di fuori della
propria competenza, qualificazione e preparazione. Non basta quindi essere psicologi, avere
qualche vago ricordo di una materia di esame universitario, per potersi sentire in grado di
selezionare e valutare. L’ultima parte dell’articolo precisa che ove la selezione e la
valutazione sono stati fatti da altri lo psicologo non dovrà avvallarne i contenuti se questi
sono contrari ai principi di competenza, qualificazione e preparazione. Lo psicologo dunque
non potrà né eseguire né avallare la somministrazione e valutazione di test o questionari
creati o somministrati da persone senza una preparazione specifica.

Articolo 20
Nella sua attività di docenza, di didattica e di formazione lo psicologo stimola negli
studenti, allievi e tirocinanti l'interesse per i principi deontologici, anche ispirando ad essi
la propria condotta professionale.

25
Questa disposizione si propone di promuovere transgenerazionalmente la cultura
deontologica. Non essendo la deontologia una materia formalmente riconosciuta nel
curriculum degli studi universitari e di tirocinio essa deve permeare l’attività dei docenti, dei
professori e dei tutor. Lo studente, il discente, il tirocinante devono essere posti nella
condizione di apprendere il “fare” dello psicologo come governato da una bussola che
costantemente indica i principi deontologici cui ispirarsi.
L’ultima parte che l’art. richiede è che tale formazione non avvenga soltanto attraverso
contenuti informativi ma anche attraverso l’esempio diretto. Il trasferimento di conoscenza
deve avvenire a differenti livelli di astrazione, relativamente:
- al contenuto concernente la materia che si sta insegnando
- alle norme deontologiche
- alla condotta dell’insegnante e del tutor che da contestuale testimonianza
dell’adeguamento alle norme deontologiche che va spiegando, per esempio curando il
rispetto nel rapporto con l’allievo/tirocinante, trattandolo come un futuro collega e non
come un subordinato.

Articolo 21
Lo psicologo, a salvaguardia dell'utenza e della professione, è tenuto a non insegnare l'uso
di strumenti conoscitivi e di intervento riservati alla professione di psicologo, a soggetti
estranei alla professione stessa, anche qualora insegni a tali soggetti discipline
psicologiche.
È fatto salvo l'insegnamento agli studenti del corso di laurea in psicologia, ai tirocinanti, ed
agli specializzandi in materie psicologiche.

La motivazione di fondo di questo articolo consiste nell’opportunità, non solo a difesa delle
prerogative professionali dello psicologo, ma anche e soprattutto a tutela della salute
pubblica, che persone estranee alla professione di psicologo e pertanto non avendo la
necessaria preparazione di base, siano indotte ad utilizzare, in modo improprio, strumenti
specifici di competenza dello psicologo. Risulta evidente che la norma non vieta
l’insegnamento dello psicologo ai non psicologi; il divieto riguarda, invece, l’insegnamento di
26
strumenti conoscitivi e di intervento riservati allo psicologo, proprio in quanto
correttamente utilizzabili solo ove il loro uso sia supportato da un bagaglio di competenze
che sono patrimonio della nostra professione.
Esemplificando, appare deontologicamente non corretto non che sia comunicata la
conoscenza dell’esistenza di test di personalità, o del colloquio clinico, o di strumenti
diagnostici ma che sia insegnato il loro uso, poiché è ovvio che tale insegnamento non può
che indurre il discente a volere, a sua volta, utilizzare tali strumenti in modo abusivo e
scorretto. A ciò si aggiunga che l’utilizzazione di strumenti psicodiagnostici da parte di
persone estranee alla professione di psicologo avverrebbe al di fuori di ogni possibilità di
controllo deontologico e quindi di sottomissione alle regole di comportamento di questo
codice, poiché è ovvio che i poteri disciplinari dell’Ordine sono esercitabili soltanto nei
confronti degli iscritti all’albo e non di chi è estraneo alla professione.

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Capo II – Rapporti con l’utenza e con la committenza

Articolo 22
Lo psicologo adotta condotte non lesive per le persone di cui si occupa professionalmente,
e non utilizza il proprio ruolo ed i propri strumenti professionali per assicurare a sè o ad
altri indebiti vantaggi.

L’art. 22 è fra quelli che hanno un elevato livello di sovrapposizione con norme penali e civili,
e tende a rilevare le implicazioni deontologiche di comportamenti legalmente perseguibili o
ai margini della perseguibilità.
Tale articolo di correla con i principi e le finalità professionali definiti agli art. 2,3,4, e 5 del
Capo I del C.D. e va interpretato in relazione ad essi.
L’espressione “lo psicologo adotta condotte lesive” sottolinea che, a differenza delle norme
penali e civili che focalizzano l’attenzione sulla persona e i suoi diritti, le norme
deontologiche centrano l’attenzione sul professionista, su qualità e correttezza della sua
prestazione, anche a prescindere dal fatto che ci sia o non ci sia stata lesione.
È importante tenere in considerazione che la Legge interviene per normare una professione
prevalentemente per tutelare gli interessi degli utenti. Vengono definiti requisiti inderogabili
di accesso alla professione, ciò ha il fine di innalzare il livello di preparazione professionale e
di garantire uno standard minimo di professionalità. La norma deontologica, definita e
applicata all’interno della categoria professionale, può valutare la correttezza tecnica e
metodologica in funzione ad un livello di qualità da garantire all’utente, entrando dunque
nel merito dell’intervento. A ciò si lega il dovere del professionista ad erogare la prestazione
secondo standard di qualità ed utilizzando correttamente il ruolo professionale e al diritto
dell’utente di riceverla con adeguate garanzie di competenza e capacità. Per distinguere
deontologicamente “le condotte non lesive”non ci si deve riferire solamente alla tutela
concreta dell’utente ma anche dalle condotte professionali che possono risultare lesive in
relazione al dovere di interpretare correttamente il proprio ruolo professionale e di applicare
metodologie e strumenti in coerenza con modelli teorici riconoscibili ed accreditati

28
scientificamente. A ciò si lega strettamente la seconda parte dell’articolo che configura come
infrazione deontologica il non corretto uso del ruolo e degli strumenti professionali, quello
che in termini legali viene definito come abuso. Il riferimento ad esso è legato allo squilibrio
esistente tra il professionista e il destinatario delle sue prestazioni. Il livello di conoscenza,
l’uso degli strumenti professionali di competenza esclusiva, il valore legale delle valutazioni
del professionista sulla condizione personale del soggetto, descrivono bene l’asimmetricità
della relazione. Utilizzare tale asimmetricità al di fuori degli ambiti e delle finalità previsti
costituisce un abuso. Il C.D. sanziona i comportamenti scorretti finalizzati all’ottenimento,
attraverso il potere derivante dalle proprie conoscenze o dal ruolo, di vantaggi indebiti, per
sé e per gli altri.
Il vantaggio che il professionista può ricercare è unicamente quello legalmente definito come
compenso per la prestazione erogata e, al di fuori di questo, richiedere e accettare altro
costituisce un vantaggio indebito.
L’articolo ha una particolare valenza all’interno delle attività cliniche dove lo squilibrio di
potere può configurarsi in termini ancora più accentuati per la condizione soggettiva di
difficoltà in cui si trova il destinatario della prestazione e per le caratteristiche della relazione
che si instaura tra questo e il professionista.
Lo scopo della norma è innanzitutto tutelare le persone di cui lo psicologo si occupa
professionalmente, richiamando quest’ultimo a vagliare in modo estremamente rigoroso le
proprie condotte professionali.
Una condotta può configurarsi lesiva quando:
- non vengono scelte ed applicate metodologie e strumenti in coerenza con modelli teorici
riconoscibili e accreditati scientificamente.
- si configuri estranea alla natura della professione di psicologo ed alla sua definizione
formale (art.3 c.d.)
- il potere conferito dal ruolo professionale non sia esercitato esclusivamente per le finalità
connesse al mandato ricevuto, al contratto definito dalle parti e al benessere psicologico del
soggetto.
Lo scopo della orma è infatti anche quello di richiamare lo psicologo ad esercitare il proprio
ruolo e ad utilizzare gli strumenti professionali esclusivamente per le finalità corrette. L’art.
quindi tende a delineare il profilo di uno psicologo preparato sul piano della competenza

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professionale e corretto sul piano etico, in grado di offrire prestazioni qualificate, di non
debordare dal proprio ruolo e di interpretare la professione in termini di servizio reso
all’utente ed alla società.
L’articolo introduce in termini generali, tematiche riguardanti i rapporti con l’utenza e la
committenza, successivamente approfondite nei dieci articoli seguenti.
I casi più emblematici riguardano l’uso del ruolo professionale per ottenere vantaggi non
connessi con il corrispettivo dovuto:
- l’uso di informazioni apprese all’interno di un contesto professionale per acquisire vantaggi
economici, anche non strettamente connessi all’utente o che non lo danneggiano: lo
psicologo che acquisisce informazioni da un cliente all’interno di un contesto professionale
per effettuare vantaggiose operazioni economiche e finanziarie.
- rapporti di affari o condivisione di interessi economici, contestuali e contemporanei ai
rapporti professionali.
- richiesta o accettazione di beni o servizi: lo psicologo che accetta da un utente valori o beni
aggiuntivi rispetto al corrispettivo professionale legittimo o che lavorando in un contesto
istituzionale richieda vantaggi per se o per i propri familiari.

Articolo 23
Lo psicologo pattuisce nella fase iniziale del rapporto quanto attiene al compenso
professionale.
In ambito clinico tale compenso non può essere condizionato all'esito o ai risultati
dell'intervento professionale; in tutti gli ambiti lo psicologo è tenuto al rispetto delle tariffe
ordinistiche, minime e massime.

L’articolo in questione regola alcuni aspetti dell’instaurarsi del rapporto professionale fra lo
psicologo e il cliente, aspetti che in questo caso riguardano l’ambito economico. La norma ha
lo scopo di affermare come, sin dall’inizio, tale rapporto debba svilupparsi in un clima di
chiarezza e di trasparenza, sia per quanto riguarda l’aspetto quantitativo del compenso, sia
per ciò che attiene alle modalità con le quali va commisurato il compenso stesso.

30
È opportuno richiamare alcune regole, dettate dal codice civile, e che concernono l’accordo
che si stabilisce tra il professionista ed il cliente, intendendo per cliente colui che si rivolge al
professionista e gli conferisce un incarico professionale, a suo favore o a favore di un terzo,
come ad esempio accade quando un genitore chiede una prestazione psicodiagnostica a
favore del figlio minorenne.
L’accordo che si instaura tra lo psicologo e il cliente pone in essere un negozio giuridico
regolato da alcuni articoli del codice civile che riguardano appunto le professioni intellettuali
e in particolare la natura del rapporto e il compenso. Circa la natura del rapporto alla
prestazione dell’attività professionale deve corrispondere la prestazione della retribuzione
che ne costituisce l’equivalente economico.
Il contratto prende vigore nel momento in cui si incontrano le volontà delle parti e cioè
quando alla domanda del cliente di fruire della prestazione del professionista quest’ultimo
risponde manifestando la sua adesione alla richiesta. La stipulazione del contratto avverrà il
più delle volte verbalmente. L’obbligo che il professionista assume, quanto meno nell’ambito
clinico, viene definito come “un’obbligazione di mezzi”: ciò significa che il professionista si
impegna a porre al servizio del cliente la sua scienza, e deontologicamente la sua coscienza,
per rispondere alla domanda; in altri termini garantisce che utilizzerà tutte le sue risorse
professionali disponibili per ottenere il risultato desiderato, ma non potrà mai assicurare
l’esito della sua prestazione. Pertanto laddove tale risultato non sia raggiunto, il
professionista non potrà essere considerato inadempiente se abbia agito secondo criteri di
correttezza e di competenza.
La retribuzione dello psicologo non deve essere subordinata ai risultati della prestazione
professionale tranne i casi in cui la sua prestazione non dipenda esclusivamente dalla propria
competenza professionale come nel caso in cui egli sia chiamato per una ricerca o
un’indagine di mercato; in questi casi, l’attività professionale dell’operatore non ha alcun
pregio se non si è raggiunto il risultato prestabilito, posto che tale risultato dipenda dalle
abilità del professionista.
Il diritto ad ottenere la retribuzione del lavoro svolto, prescinde, nell’ambito clinico, dal
raggiungimento dell’obiettivo, mentre non è così quando si deve raggiungere un risultato il
cui conseguimento dipende unicamente dalla capacità professionale dello psicologo.
L’articolo in esame ribadisce come il compenso, in ambito clinico, non possa essere

31
condizionato dall’esito della prestazione del professionista il quale dovrà correttamente
astenersi dal promettere risultati certi dal suo intervento.
Il compenso deve essere commisurato all’importanza del lavoro svolto e al decoro della
professione. La L.P. prevede (art. 28 lettera g) l’esistenza di un tariffario, il compenso dovrà
essere contenuto nei limiti previsti dalla tariffa.
Per quanto riguarda il recesso la legge prevede che il cliente possa, in qualsiasi momento e
per qualsiasi motivo, anche non espresso risolvere il suo rapporto con il professionista,
rimborsandolo per le spese sostenute e per il lavoro svolto. Per contro, il professionista può
recedere dal contratto solo per “giusta causa” ed in modo da evitare pregiudizio per il
cliente.
Il C.D. prevede che il compenso sia pattuito nella fase iniziale del rapporto, ciò ha lo scopo
evidente di porre immediatamente in chiaro quale sia l’onere economico che verrà a gravare
sul cliente. La norma tiene in considerazione la situazione di dipendenza psicologica che
normalmente deriva dal rapporto con lo psicologo e che rende estremamente opportuno
che non si verifichino situazioni di sfruttamento di tale dipendenza sul piano economico. Ciò
non impedisce che la misura del compenso possa essere soggetta a variazioni nel corso di
una prestazione professionale che si protragga nel tempo; in tale ipotesi è dovere del
professionista non solo pattuire, sin dall’inizio, il compenso attuale, ma altresì convenire con
il cliente che tale compenso sarà suscettibile di aumento durante lo svolgimento dell’opera
professionale. Inoltre occorrerà attenersi al tariffario stabilito non oltrepassando il valore
massimo. L’osservanza dei minimi è invece imposta a salvaguardia del decoro della
professione ed è altresì dettata dall’obbligo di evitare un’illecita concorrenza tra colleghi
praticando tariffe irrisorie volte all’accaparramento della clientela.
Rimane irrisolta la questione se sia deontologicamente corretto che lo psicologo presti la
propria opera gratuitamente. Ciò non è vietato, sotto il profilo deontologico, quando ciò non
sconfini in una concorrenza sleale. Perché ciò non avvenga tale gratuità deve avere il
carattere della saltuarietà e dell’occasionalità.

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Articolo 24
Lo psicologo, nella fase iniziale del rapporto professionale, fornisce all'individuo, al gruppo,
all'istituzione o alla comunità, siano essi utenti o committenti, informazioni adeguate e
comprensibili circa le sue prestazioni, le finalità e le modalità delle stesse, nonché circa il
grado e i limiti giuridici della riservatezza.
Pertanto, opera in modo che chi ne ha diritto possa esprimere un consenso informato.
Se la prestazione professionale ha carattere di continuità nel tempo, dovrà esserne
indicata, ove possibile, la prevedibile durata.

Questo articolo specifica come l’esercizio della professione deve attuarsi nei confronti di
persone che siano adeguatamente informate circa le attività che verranno svolte nei loro
confronti. Le informazioni che devono essere fornite devono essere “adeguate e
comprensibili”; esse devono essere fornite nella fase iniziale del rapporto professionale e
riguardano le prestazioni dello psicologo, la loro finalità e le modalità con cui vengono svolte.
Quando per esempio si ha da trattare con un gruppo familiare bisognerà che ciascuno sappia
in che modo le prestazioni sono svolte per loro personalmente o nei confronti della famiglia
come gruppo.
Perché il consenso possa dirsi adeguatamente informato bisogna:
- che il soggetto sia ed appaia in grado di comprendere la materia su cui presta il consenso;
- che le informazioni fornite siano espresse in modo chiaro e comprensibile evitando
terminologie specialistiche;
- che le informazioni fornite siano pertinenti, rilevanti e complete tenendo conto della
capacità di comprensione del soggetto;
- che il consenso sia libero cioè non ottenuto attraverso minaccia o violenza da terzi;
Ovviamente non sempre il consenso può essere libero e volontario, per esempio non lo è nel
caso di una perizia o in un trattamento diagnostico/psicoterapeutico in carcere dove avviene
per legge o per ordine di un magistrato.
Il secondo comma precisa che con le stesse modalità di chiarezza e tempestività i soggetti
devono essere informati che le notizie conosciute dallo psicologo sono coperte dal segreto
professionale. Allo stesso modo i soggetti dovrebbero però essere informati dei limiti

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riguardanti il segreto che possono derivare dalla situazione, dal contesto (per esempio
perizia o trattamento carcerario) e dai particolari contenuti delle informazioni.
L’ultimo comma dell’art. 24 prevede che se la prestazione professionale ha carattere di
continuità nel tempo dovrà essere indicata, ove possibile, la prevedibile durata. Ciò specifica
un’esigenza di trasparenza nei rapporti particolarmente significativa. Sapere grosso modo
quali tempi sono previsti per una terapia piuttosto che un'altra fa parte della possibilità di
esprimere un consenso veramente informato.
Riassumendo lo psicologo deve informare circa:
- le modalità della prestazione
- la finalità della prestazione
- il proprio ruolo e la propria competenza
- i rischi e i disagi che l’utente/paziente può subire durante la prestazione
- i benefici che si possono ottenere
- con buona approssimazione i tempi, la durata e i costi della prestazione
- le alternative al trattamento presentato e le loro caratteristiche
- la possibilità che l’utente/paziente possa chiedere chiarimenti circa la prestazione in
qualsiasi momento
- la possibilità di revocare il consenso in qualsiasi momento
- la necessità del suo consenso per registrazioni audio e video altrimenti il professionista
prenderà solo appunti scritti
- il diritto dell’utente/paziente di interrompere la prestazione in qualsiasi momento
- le caratteristiche del segreto professionale e della riservatezza di cui lo psicologo è tenuto

Articolo 25
Lo psicologo non usa impropriamente gli strumenti di diagnosi e di valutazione di cui
dispone.
Nel caso di interventi commissionati da terzi, informa i soggetti circa la natura del suo
intervento professionale, e non utilizza, se non nei limiti del mandato ricevuto, le notizie
apprese che possano recare ad essi pregiudizio.

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Nella comunicazione dei risultati dei propri interventi diagnostici e valutativi, lo psicologo
è tenuto a regolare tale comunicazione anche in relazione alla tutela psicologica dei
soggetti.

L’art. 25 affronta alcune tematiche più delicate del rapporto tra lo psicologo e i destinatari
dell’intervento professionale, specie in ambito clinico. L’art.22 già tratta il tema dell’uso
scorretto degli strumenti professionali al fine di trarne vantaggi indebiti; il primo comma
dell’art. 25 riprende il tema nello specifico dell’attività clinica dello psicologo e dei relativi
strumenti di diagnosi e valutazione. Viene dunque posta attenzione su un settore
professionale dove è marcato lo squilibrio di potere tra le parti. La padronanza e l’uso di
conoscenze e strumenti pongono lo psicologo in una posizione di asimmetricità rispetto al
paziente, che rende necessarie delle forma di tutela deontologica. Ciò significa che una
premessa essenziale per un corretto sviluppo della relazione professionale è che gli
strumenti diagnostici e valutativi siano utilizzati esclusivamente per finalità di aiuto o
all’interno di un mandato di cui ruoli e finalità sono chiaramente riconoscibili.
Il secondo comma entra nel merito delle situazioni in cui utente e committente non
corrispondono, ed il rapporto tra le parti, in particolare con la persona oggetto della
prestazione, deve caratterizzarsi per l’estrema chiarezza circa le finalità, il ruolo che lo
psicologo assume e i vincoli dello stesso rispetto a ciascuna delle parti. Si prescrive che ci sia
un’informazione esplicita ai soggetti interessati in quanto da essa derivano i termini del
contratto professionale che lega lo psicologo alle parti e viceversa. Un esempio emblematico
è rappresentato dal caso di intervento dello psicologo in qualità di perito con il compito di
rispondere a specifici quesiti professionali. In tale situazione costituisce infrazione
deontologica non informare il soggetto da esaminare riguardo il proprio ruolo e che l’esito
della valutazione è destinato al committente così come è deontologicamente scorretto
l’inserimento all’interno della valutazione di elementi estranei al mandato ricevuto, specie se
questo può danneggiare il soggetto esaminato. Il C.D. rimarca la necessità di salvaguardare la
tutela psicologica del soggetto e la corretta informazione delle parti circa i ruoli ed i vincoli
che il professionista assume nei confronti di entrambe.
La posizione che lo psicologo si trova ad assumere quando il committente è diverso dal
destinatario della prestazione è tutt’altro che rara e si verifica nell’ambito di rapporti con

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singoli soggetti, di rapporti in cui il committente è un datore di lavoro e di rapporti in cui il
committente è un ente o un’istituzione pubblica. Risulta quindi necessario delineare degli
elementi minimi da cui poter far sviluppare le relazioni professionali con garanzie di
correttezza nei confronti delle parti.
Il terzo comma esplicita il principio per il quale le comunicazioni di interventi diagnostici e
valutativi non possono avere come unico riferimento il mandato o il compito ricevuto ma
anche la tutela psicologica del soggetto di cui lo psicologo è chiamato a rispondere. Le
comunicazioni vanno comunque regolate in relazione alla tutela psicologica dei soggetti. È
importante quindi un’adeguata e attenta scelta dei termini, precisi e chiari, in modo da
favorire, senza rassicurare ingiustificatamente, la giusta mobilitazione delle risorse del
soggetto.

Articolo 26
Lo psicologo si astiene dall'intraprendere o dal proseguire qualsiasi attività professionale
ove propri problemi o conflitti personali, interferendo con l'efficacia delle sue prestazioni,
le rendano inadeguate o dannose alle persone cui sono rivolte.
Lo psicologo evita, inoltre, di assumere ruoli professionali e di compiere interventi nei
confronti dell'utenza, anche su richiesta dell'Autorità Giudiziaria, qualora la natura di
precedenti rapporti possa comprometterne la credibilità e l'efficacia.

Nel primo comma di questo articolo si parla di problemi o conflitti personali, nel secondo di
precedenti rapporti. Un importante punto di distinzione tra il primo e il secondo comma è
dato dal fatto che nella prima parte si richiamano dati di vita interiore (problemi e conflitti),
quindi di sondabilità complessa e comunque soggettiva, nella seconda parte si richiamano
invece dati più formali e quindi maggiormente oggettivizzabili e di più semplice sondabilità.
Tuttavia, in relazione al secondo comma, c’è da sottolineare che sono molti i ruoli
professionali assumibili, gli interventi che possono essere compiuti e molte le nature dei
precedenti rapporti.
Il primo comma dell’articolo implica una doppia valutazione circa la presenza eventuale di
problemi o di conflitti, e circa la loro potenziale interferenza. Dato che è lo stesso dottore
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che nei fatti opera tale doppia valutazione su circostanze che riguardano la sua stessa
persona ancora una volta la deontologia ci rimanda alla qualità tecnico professionale dello
stesso psicologo, alla sua coscienza ed etica. Questo articolo infatti presuppone una qualità
autovalutativa dello psicologo, presupposto difficilmente sondabile e misurabile.
Occorre sottolineare che questo articolo non si riferisce solo a contesti clinici che sono
propriamente organizzati per accogliere certe “implicazioni” di emozione e sentimento e
“lavorarci attorno”, ma si riferisce anche ai contesti in cui questo va a configurarsi come
“problema”. Lo psicologo viene chiamato quanto più possibile a salvaguardare la propria
attività professionale dal “preesistente” potenziale contaminante, sia esso un problema o
conflitto personale, o un precedente rapporto, altrimenti tale attività rischia la propria
credibilità e la propria efficacia.
Per esempio, se uno psicoterapeuta accetta in terapia un soggetto con cui ha avuto a che
fare con la vita reale, difficilmente riesce a prescindere dagli elementi di realtà, dai giudizi e
dai sentimenti preesistenti. Ciò può verificarsi anche in ambito non clinico: lo psicologo
ancora fortemente investito rispetto alle tematiche della propria separazione coniugale,
occupandosi di un’analoga problematica in sede peritale, attiva interferenze disturbanti sul
piano della corretta prestazione professionale.

Articolo 27
Lo psicologo valuta ed eventualmente propone l'interruzione del rapporto terapeutico
quando constata che il paziente non trae alcun beneficio dalla cura e non è
ragionevolmente prevedibile che ne trarrà dal proseguimento della cura stessa.
Se richiesto, fornisce al paziente le informazioni necessarie a ricercare altri e più adatti
interventi.

Questo articolo regola l’interruzione del rapporto psicoterapeutico. Anche a questo


proposito, giova richiamare le norme del codice civile in cui si stabilisce che il cliente può
recedere dal contratto, rimborsando al professionista le spese sostenute e pagando il
compenso per l’opera svolta e che il professionista può recedere il contratto per giusta
carica. Vi è un’evidente asimmetria per cui il cliente è libero di interrompere in qualsiasi
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momento il rapporto con il terapeuta, mentre quest’ultimo può esercitare tale diritto solo
ove ricorra una giusta causa. In tal modo il codice ha voluto che il cliente, che è il contraente
più debole, non possa essere abbandonato per capriccio del professionista.
Assai delicata appare la valutazione della giusta causa. In linea di massima essa consiste
quando eventi esterni o interni al rapporto abbiano fatto venir meno la fiducia del
professionista nei confronti del cliente, ovvero quando situazioni oggettive impediscono al
professionista di assistere efficacemente il cliente. Il codice civile inoltre, stabilisce che anche
quando sia presente un giustificato motivo, il recesso del professionista debba avvenire in
modo da evitare ogni danno al cliente.
Il C.D. nell’articolo in esame, si pone in modo complementare al codice civile, prevedendo
che l’interruzione del rapporto terapeutico debba avvenire su proposta del terapeuta,
quando quest’ultimo constati che la cura non reca alcun beneficio al paziente, e non è
prevedibile che neppure il protrarsi della terapia possa condurre a risultati positivi. Sussiste
per lo psicologo l’obbligo deontologico di non decidere unilateralmente l’interruzione del
rapporto, bensì di proporre, e cioè di prendere in considerazione e di discutere con il
paziente l’ipotesi di porre fine al trattamento, quando si prospetti l’inutilità del trattamento
anche in un futuro. Tale inutilità può derivare da un’infinità di cause che vengono
accomunate dall’assenza di beneficio per il paziente. Certamente tale assenza di beneficio
richiede una valutazione prognostica corretta. La correttezza professionale del terapeuta
impone che non si protragga il rapporto psicoterapeutico quando tale prosecuzione sia di
giovamento soltanto al professionista, giovamento che può essere di qualsiasi natura,
economica, ma anche di studio e di ricerca scientifica.
È evidente che il terapeuta può interrompere il suo rapporto non solo quando si verifica
l’inefficacia della sua prestazione ma in tutti i casi in cui sussista una giusta causa (malattia,
trasferimento di sede ecc) tale da giustificare tale interruzione. In tale ipotesi non si tratta di
un dovere ma di una sua facoltà, che deve essere esercitata in ogni caso con l’attenzione
rivolta agli interessi del cliente, così da evitare ogni possibile pregiudizio.
Ulteriore obbligo deontologico, nel caso di interruzione di psicoterapia, sta nel fornire al
paziente ogni utile informazione perché il paziente stesso possa trovare altre vie
terapeutiche con altri psicoterapeuti seguenti lo stesso modello teorico del terapeuta o con

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altri professionisti che seguono altre linee teoriche purchè siano in grado di fornire
un’efficace risposta ai bisogni del paziente.
Notevoli problemi possono sorgere quando cliente e paziente non coincidano nella stessa
persona. Può infatti accadere che il cliente (cioè colui che ha stipulato con il professionista
un contratto avente ad oggetto le prestazioni professionali) decida l’interruzione del
rapporto e ciò non sia condiviso ne dallo psicologo (il che è irrilevante) e neppure dal
paziente (cioè colui in favore del quale lo psicologo opera), il che invece assume importanza.
In tale ipotesi, l’interesse del paziente impone a quest’ultimo l’obbligo deontologico di
tentare di convincere, previo consenso informato del paziente stesso, il cliente a mantenere
in vita il rapporto professionale manifestando le ragioni ed i motivi secondo i quali è da
ritenersi utile per il paziente il protrarsi dell’intervento dello psicologo. Se tale tentativo
fallisce lo psicologo dovrà chiarire con il paziente le cause per cui il rapporto viene interrotto
o sospeso.

Articolo 28
Lo psicologo evita commistioni tra il ruolo professionale e vita privata che possano
interferire con l'attività professionale o comunque arrecare nocumento all'immagine
sociale della professione.
Costituisce grave violazione deontologica effettuare interventi diagnostici, di sostegno
psicologico o di psicoterapia rivolti a persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene
relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale
e/o sessuale. Parimenti costituisce grave violazione deontologica instaurare le suddette
relazioni nel corso del rapporto professionale.
Allo psicologo è vietata qualsiasi attività che, in ragione del rapporto professionale, possa
produrre per lui indebiti vantaggi diretti o indiretti di carattere patrimoniale o non
patrimoniale, ad esclusione del compenso pattuito.
Lo psicologo non sfrutta la posizione professionale che assume nei confronti di colleghi in
supervisione e di tirocinanti, per fini estranei al rapporto professionale.
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Questo articolo contiene numerose disposizioni che hanno il compito di tutelare l’immagine
sociale della professione anche attraverso la corretta gestione di relazioni multiple che
possono confondere la vita privata con quella professionale. Se per esempio la vita privata
dello psicologo per qualche ragione viene alla conoscenza del pubblico bisognerà che venga
valutato che questa situazione non interferisca con la sua attività.
Il secondo comma impedisce l’attività diagnostico/terapeutica nei confronti di persone con
cui lo psicologo ha o abbia avuto relazioni significative di natura personale, in particolare di
natura affettiva, sentimentale e sessuale. Tale attività è vietata anche nel caso che si instauri
nel corso del rapporto professionale e che quindi segua l’inizio della prestazione. Questo
secondo tipo di violazione è definito “grave”. La ragione di questi divieti è rappresentata dal
fatto che nel contesto diagnostico le relazioni multiple personali/affettive possono essere
fonte di conflitti e di distorsioni dell’immagine dello psicologo. Ciò da un lato perché la sua
prestazione può essere inquinata dalla familiarità, dalla scarsa obbiettività, dalla mancanza
di distacco e dalla tentazione di tutelare interessi e motivi sentimentali e sessuali propri,
dall’altra perché le persone che ne ricevano la prestazione possono avere disagi per la
confusione di ruoli.
Il C.D. non indica nessun limite di tempo e il divieto di instaurare relazioni particolari con il
paziente, non si protrae all’infinito.
Il terzo comma ha una natura diversa pur essendo anch’esso diretto ad evidenziare che
l’immagine sociale dello psicologo possa essere danneggiata. È vietata qualsiasi attività che
in ragione del rapporto professionale possa produrgli utilità indebiti diretti o indiretti diversi
dal compenso pattuito.
L’ultimo comma di questo articolo del C.D. accentua la necessità che lo psicologo non sfrutti
la propria posizione professionale nei confronti di colleghi in supervisione o di tirocinanti per
fini estranei al rapporto professionale. È contrario al principio espresso in questo articolo
avere in psicoterapia i propri studenti e o chiedere ad essi prestazioni diverse rispetto a
quelle per cui sono in tirocinio o in supervisione.
La ratio di questa disposizione è quella di tutelare l’immagine della psicologia e di chi la
esercita diffidando dal creare situazioni da cui possono emergere conflitti o ambiguità da cui
lo psicologo può trarre indebiti vantaggini quanto diversi da quelli che gli provengono
legittimamente dal fatto di occupare un certo ruolo e di avere un certo status.

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Articolo 29
Lo psicologo può subordinare il proprio intervento alla condizione che il paziente si serva di
determinati presidi, istituti o luoghi di cura soltanto per fondati motivi di natura
scientifico-professionale.

L’articolo deroga quella gravissima deroga deontologica, costituita da forma di


“comparaggio” economico tra psicologo e presidi, istituti e luoghi di cura. Naturalmente lo
psicologo dipendente pubblico che subordini il proprio intervento al ricorso a determinati
presidi, istituti o luoghi di cura non è vietato in maniera assoluta, ma soltanto se discende
dall’intenzione dello psicologo il trarne indebiti vantaggi. Certi interventi, possono essere
subordinati al ricorso a determinati previdi terapeutici, per delle legittime, soggettive e
motivabili opzioni scientifiche.

Articolo 30
Nell'esercizio della sua professione allo psicologo è vietata qualsiasi forma di compenso
che non costituisca il corrispettivo di prestazioni professionali

Questo articolo richiama molte delle questioni sollevate anche dal precedente.
Il cliente è già per definizione in una posizione di debolezza nei confronti del proprio
psicologo e ciò lascia ampi margini a casi di approfondimento. All’interno degli interventi
professionali i passaggi di dipendenza non devono mai costituire per lo psicologo
un’occasione o una tentazione di sfruttamento di opportunità redditizie.
Per esempio la valutazione circa la durata del rapporto clinico può rischiare di essere
condizionata da motivi di convenienza, in riferimento inevitabilmente anche alla tipologia
del paziente con cio instaurare rapporti particolarmente redditizi. Ci sono anche altre
circostanze assimilabili al compenso improprio che vengono trattate in altri articoli in
quanto, in relazione ad esse, altri versanti di rilevanza deontologica assumono priorità: si
pensi, ad esempio alle dinamiche sentimentali ed ai rapporti sessuali considerati all’art. 28.
Lo scopo di quest’articolo è quello della tutela prioritaria del cliente-paziente ma
secondariamente anche di salvaguardare lo psicologo rispetto al rischio di “vendere” la sua
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discrezionalità e “libertà” in tal modo compromettendo irrimediabilmente la possibilità di
svolgere la sua funzione professionale.
All’interno di questo articolo rientrano i casi di richiesta o accettazione di doni, servizi o
comunque valori che abbiano una chiara valenza o siano convertibili in forma economico-
finanziaria: denaro, oggetti di valore, prestazioni di varia natura e rilevanza, doni.
Tuttavia si pone spesso il problema di come considerare il dono di valore essenzialmente
simbolico (un mazzo di fiori, un dolce, un libro). Da un punto di vista tecnico-professionale
un dono non valutabile merceologicamente, come un prodotto artigianale, potrebbe non
configurarsi come un compenso aggiuntivo anzi potrebbe essere considerato come coerente
con una buona relazione interpersonale. Tuttavia, i doni potrebbero rischiosamente venire
investiti di impropri e interferenti significati e risulta necessario salvaguardare il paziente da
interpretazioni improprie sia sull’accettazione sia della non accettazione di doni da parte
dello psicologo. Sarebbe utile in ogni caso in sede di contratto terapeutico chiarire anche
questi aspetti e ciò potrebbe a monte evitare il verificarsi di situazioni imbarazzanti o
difficilmente gestibili.

Articolo 31
Le prestazioni professionali a persone minorenni o interdette sono, generalmente,
subordinate al consenso di chi esercita sulle medesime la potestà genitoriale o la tutela.
Lo psicologo che, in assenza del consenso di cui al precedente comma, giudichi necessario
l'intervento professionale nonché l'assoluta riservatezza dello stesso, è tenuto ad
informare l'Autorità Tutoria dell'instaurarsi della relazione professionale.
Sono fatti salvi i casi in cui tali prestazioni avvengano su ordine dell'autorità legalmente
competente o in strutture legislativamente preposte.

Questo articolo introduce nei rapporti tra psicologo e minori una doppia possibilità: la prima
prevista dal primo comma, che conformandosi alla norma generale del diritto minorile
italiano, subordina la prestazione professionale del minore al consenso di chi su di lui
esercita la potestà genitoriale o la tutela; la seconda, come delineata nel secondo o terzo
comma, pone l’interesse per il benessere psicologico del minore al di sopra della norma
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generale. È questa una visione assai aperta dei diritti del minore alla libertà di scelta, molto
attenta alle trasformazioni culturali e che si avvale anche di una tendenza legislativa di questi
ultimi anni che fa esplicito riferimento al minore come soggetto. infatti il diritto italiano se
per alcuni versi vede nel minore un soggetto che, sino ai 18 anni di età, rimane sotto la
giurisdizione della famiglia, per altri ha pian piano ridimensionato tale potestà, provvedendo
ad allargare notevolmente l’area dei diritti e delle scelte assicurate al ragazzo, anche in
contrasto con la volontà genitoriale. Il secondo comma di questo articolo in particolare è
costruito sulla concezione di un rapporto tra lo psicologo e il minore dal quale la famiglia è
tagliata fuori, essendovi per il professionista l’obbligo all’assoluta riservatezza. A garanzia
della relazione professionale che si è instaurata, e quindi a garanzia sia del minore che dello
psicologo, sta il dovere, da parte di quest’ultimo, di darne informazione all’autorità tutoria. Il
motivo di tale obbligo sta sia nell’interesse del cliente, che non deve in ogni caso essere
lasciato nell’assumersi la responsabilità di una decisione rilevante quale quella di servirsi
delle prestazioni dello psicologo, sia a salvaguardia della stesso professionista, che potrebbe
essere facilmente accusato di un illecita ingerenza, ad esempio in problematiche di natura
familiare. Essendo l’autorità tutoria in qualche modo estranea alle dinamiche nelle quali il
paziente è coinvolto, con maggiore obiettività è in grado di valutare se l’intervento dello
psicologo debba essere o no autorizzato.
Uno dei principi ispiratori del C.D. è quello del consenso informato, per cui ogni atto
psicologico deve essere consapevolmente accettato dal soggetto cui è rivolto. L’articolo in
esame affronta il problema di quanti, per età o per patologia, non sono in grado di esprimere
in modo giuridicamente valido questo consenso; più precisamente la questione si pone
quando i destinatari della prestazione professionale dello psicologo siano minorenni o
interdetti, e quindi ritenuti dalla legislazione vigente incapaci di agire o di intendere e volere.
Il C.D. nello stabilire che le prestazioni a persone minorenni o interdette sono generalmente
subordinate al consenso di chi esercita sulle stesse la potestà genitoriale o la tutela, impone
appunto che il consenso debba essere dato da chi è in grado di sostituirsi ai soggetti incapaci
nell’autorizzare tali prestazioni. L’avverbio generalmente non è stato posto casualmente;
infatti possono esserci casi in cui tale consenso non può, nello stesso interesse del
destinatario, venire previamente richiesto, sia perché le circostanze portano a ritenere
formalmente che esso non verrebbe fornito, sia perché motivi di riservatezza e di efficacia

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dell’intervento dello psicologo impongono che di tale intervento nessuno sia portato a
conoscenza. Questo è per esempio, il caso di un adolescente minorenne che richiede un
trattamento psicoterapeutico per problemi che riguardano i rapporti con i genitori, ove i
genitori stessi si siano manifestati contrati al fatto che il figlio si rivolgesse allo psicologo
oppure nei casi in cui il paziente desideri che i genitori non siano messi al corrente di questa
sua iniziativa. In tale ipotesi se ci si attenesse strettamente al codice civile, nessun contratto
potrebbe essere stipulato tra il soggetto minorenne, incapace quindi di agire in modo
legalmente valido.
L’aderenza rigorosa alla Legge civile non appare dunque compatibile con i criteri
deontologici e con la supremazia dell’interesse del paziente.
Naturalmente il consenso di chi esercita la potestà genitoriale e del tutore non è richiesto
nel caso in cui la prestazione professionale avvenga per ordine di un’autorità legalmente
competente, come nel caso di una perizia psicologica commessa dal PM o dal giudice
istruttore o da un intervento diagnostico disposto dal tribunale per i minorenni; tale
consenso non è richiesto se l’intervento dello psicologo avviene all’interno di un consultorio
per adolescenti.

Articolo 32
Quando lo psicologo acconsente a fornire una prestazione professionale su richiesta di un
committente diverso dal destinatario della prestazione stessa, è tenuto a chiarire con le
parti in causa la natura e le finalità dell'intervento.

La norma posta da questo articolo richiama i principi deontologici generali espressi nell’art. 4
relativi all’uso, da parte dello psicologo, dei suoi metodi e delle sue tecniche nel rispetto
della dignità e dell’autodeterminazione delle persone ed alla necessaria e prioritaria tutela
del destinatario dell’intervento qualora quest’ultimo sia diverso dal committente.
Questo articolo mira a determinare corrette ed equilibrate condizione di partenza tra le parti
in causa, qualora committente e destinatario non coincidano. Infatti, molto spesso, in questi
casi si può riscontrare una tendenza di ciascuna delle parti ad un prevalere manipolatorio nei
confronti dell’altra, anche se in buona fede. Lo psicologo ha dunque l’obbligo di informare
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adeguatamente il suo destinatario del suo intervento circa la prestazione stessa anche se
essa è stata commissionata da altri ed anche qualora l’interesse del committente possa
essere quello di tenere il destinatario all’oscuro circa la natura e le finalità dell’intervento.
Tale norma va comunque sempre contestualizzata rispetto allo spirito del codice la cui
applicazione e interpretazione deve in ogni caso fondarsi sul rispetto dei suoi principi
generali.
Lo scopo della norma è quello di tutelare l’utenza rispetto al rischio che la scienza psicologica
possa essere utilizzata ai fini di un occulto controllo o manipolazione dei destinatari
dell’intervento psicologico.
Per esempio uno psicologo del lavoro che svolga tra i dipendenti di un’azienda un’indagine
psicologica volta ad individuare i lavoratori più adatti a determinate mansioni, ai fini di un
cambiamento di incarico, e che presenti la sua indagine come una ricerca volta a raccogliere
suggerimenti per migliorare l’organizzazione del lavoro, infrange la norma posta dall’art. 32.

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Capo III – rapporti con i colleghi

Articolo 33
I rapporti fra gli psicologi devono ispirarsi al principio del rispetto reciproco, della lealtà e
della colleganza.
Lo psicologo appoggia e sostiene i Colleghi che, nell'ambito della propria attività, quale
che sia la natura del loro rapporto di lavoro e la loro posizione gerarchica, vedano
compromessa la loro autonomia ed il rispetto delle norme deontologiche.

L’art. 33 riguarda sostanzialmente le caratteristiche intrinseche della relazione tra soggetti e,


cioè, il rispetto, la lealtà è la colleganza. Per questa ragione esso riveste un’importanza
fondamentale e contribuisce a caratterizzare anche gli altri articoli di questo capo.
Il concetto di lealtà e di rispetto sono sostenuti dal principio della colleganza e cioè
“dall’essere in connessione con”, “l’essere colleghi”. Il principio di colleganza è fondato sulla
comunione dei principi e dei valori che definiscono l’identità dello psicologo. Questa norma
richiama il principio etico della difesa e del sostegno della professionalità, il che significa
poter superare una prospettiva egocentrica del professionista affinché non fondi le sue
azioni sulla preoccupazione di essere protagonista individuale ma promotore e interprete dei
valori di cui si fa portatore la psicologia.
L’art. 3 sottolinea il primato del senso del dovere insito nell’azione professionale rispetto a
quello dell’interesse legittimo personale e ciò in funzione del primato dell’etica sociale
nell’ambito della professione. Il presente articolo, quindi, sulla base dell’art. 3, ribadisce che
l’azione professionale del singolo, anche quando ispirata da esigenze di competizione di
mercato, non deve pregiudicare i vincoli solidaristici che debbono invece trovare conferma
nella comune collaborazione. Tale articolo comporta il dovere etico di sostegno solidale tra
colleghi anche nei casi in cui è compromessa l’attività professionale del singolo attraverso la
perdita dell’autonomia o della possibilità di adempiere al proprio dovere. Il presente articolo
inoltre fa riferimento al fatto che deve esistere tra i colleghi psicologi la consapevolezza di un
bene sovrastante quello di ciascuno preso singolarmente: è appunto il bene della

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professione, intesa come qualcosa che è al servizio delle persone e non uno strumento per
l’affermazione narcisistica ed egocentrica del singolo psicologo.

Articolo 34
Lo psicologo si impegna a contribuire allo sviluppo delle discipline psicologiche e a
comunicare i progressi delle sue conoscenze e delle sue tecniche alla comunità
professionale, anche al fine di favorirne la diffusione per scopi di benessere umano e
sociale.

L’impegno che qui si chiede allo psicologo è visto nell’ottica dei rapporti di colleganza. Si
richiede, dunque deontologicamente doveroso che vi sia una diffusione, all’interno della
comunità professionale, delle acquisizioni sia nel campo teorico che in quello applicativo, in
modo che queste divengano patrimonio comune e non restino confinate nell’ambito delle
conoscenze del singolo professionista.
Tale imperativo sottende la considerazione che tanto maggiore è tale diffusione, tanto più
cresce il livello delle competenze e tanto più l’intervento dello psicologo sul piano sociale
acquista di peso e di efficacia.
Il presente articolo condanna un certo grado di egoismo intellettuale che rischia di produrre,
tra l'altro, l’avvento di teorie stravaganti e prive di qualsiasi fondamento scientifico.

Articolo 35
Nel presentare i risultati delle proprie ricerche, lo psicologo è tenuto ad indicare la fonte
degli altrui contributi.

Questo articolo è direttamente collegato con l’articolo precedente. Il C.D. ha aggiunto


l’obbligo dello psicologo di comunicare alla comunità professionale i risultati delle sue
conoscenze/ricerche e delle tecniche adottate per ottenere gli scopi prefissati che sono
riconducibili sempre al benessere umano e sociale. l’impegno di favorire la diffusione delle

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conoscenze acquisite con la ricerca e con l’esperienza, si collega ad un altro principio etico
basilare nella ricerca, cioè quello di indicare sempre in modo esplicito e chiaro le fonti a cui si
fa riferimento. Il rigore e l’onestà sono fondamentali per lo psicologo per dare solidità e
serietà ai suoi studi. Questa norma richiama il principio etico del rispetto e della
valorizzazione del lavoro dei colleghi e per i contenuti delle conoscenze psicologiche:
valorizzando il patrimonio intellettuale comune e condividendolo con i colleghi permettendo
a tutti di risalire alle fonti originarie a cui ci si è ispirati.

Articolo 36
Lo psicologo si astiene dal dare pubblicamente su colleghi giudizi negativi relativi alla loro
formazione, alla loro competenza ed ai risultati conseguiti a seguito di interventi
professionali, o comunque giudizi lesivi del loro decoro e della loro reputazione
professionale.
Costituisce aggravante il fatto che tali giudizi negativi siano volti a sottrarre clientela ai
colleghi. Qualora ravvisi casi di scorretta condotta professionale che possano tradursi in
danno per gli utenti o per il decoro della professione, lo psicologo è tenuto a darne
tempestiva comunicazione al Consiglio dell'Ordine competente.

Il primo comma si basa sull’obbligo, solidaristico, di rispettare la persona del collega


evitando di esprimere nei suoi confronti opinioni comunque lesive del suo decoro e della sua
reputazione professionale. In particolare, la norma fa divieto di dare giudizi negativi relativi
alla sua formazione, alla sua competenza e ai risultati della sua attività professionale, giudizi
che risulterebbero comunque diffamatori. Ovviamente tale divieto attiene a manifestazioni
di pensiero pubbliche, per cui non costituisce violazione di precetto la comunicazione diretta
ad una sola persona, a meno che tale comunicazione non assuma il carattere di ripetitività
con più interlocutori successivi. La scorrettezza deontologica è considerata più grave se i
giudizi negativi sono finalizzati a sottrarre il collega cui sono diretti la sua clientela. In tal
caso, è evidente che tale valutazione sfavorevole risulti particolarmente maliziosa con il fine
certamente indegno di portare a se o ad altri i clienti del collega diffamato.

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Il secondo comma costituisce l’obbligo di dare tempestiva comunicazione al Consiglio
dell’ordine competente nei casi di cui si venga a conoscenza, e che riguardino situazioni di
condotta professionale scorretta che rechi pregiudizio all’utente, o che comunque leda il
decoro della professione. La norma tende a scoraggiare un comportamento omertoso.

Articolo 37
Lo psicologo accetta il mandato professionale esclusivamente nei limiti delle proprie
competenze.
Qualora l'interesse del committente e/o del destinatario della prestazione richieda il
ricorso ad altre specifiche competenze, lo psicologo propone la consulenza ovvero l'invio
ad altro collega o ad altro professionista.

La norma posta da questo art. si rifà ad un principio deontologico generale espresso all’art.
5, relativo al riconoscimento dei limiti della propria competenza. Tale norma attiene alla
responsabilità di accettare impegni professionali solo entro altri limiti, assumendo il compito
difficilissimo di farsi giudice di se stesso, della propria eventuale inadeguatezza rispetto ad
un compito e della necessità di proporre di proporre l’intervento di un collega o di un altro
professionista. Il fatto che questo articolo preveda la proposta e non la prescrizione della
consulenza e dell’invio attiene alla necessità che, in relazione a questi ultimi, vi sia il
consenso dell’utente.
Lo scopo della norma è da un lato quello di tutelare l’utenza rispetto al rischio di non
ricevere prestazioni professionali adeguate ai propri bisogni e alle proprie necessità;
dall’altro lato quello di tutelare l’immagine della professione rispetto al rischio di scadere,
nella pubblica considerazione, in relazione all’offerta di prestazioni professionali inadeguate.
Lo scopo della norma è anche quello di tutelare i professionisti in relazione all’indebita
sottrazione di lavoro da parte di concorrenti sleali in aree di loro specifica competenza.
Uno psicologo non formato all’esercizio della psicoterapia che accetti di prendere in carico in
un rapporto psicoterapeutico un paziente, costituisce uno degli esempi più tipici di
violazione dell’art. 37. Si consideri inoltre il caso di uno psicologo che in ambito clinico, pur
in presenza di una situazione che richieda una valutazione accreditabile ad altre figure
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professionali, ad esempio per disturbi che hanno anche valenza organica, non propone una
consulenza medica, assumendo l’iniziativa di un invio ad un altro professionista.

Articolo 38
Nell'esercizio della propria attività professionale e nelle circostanze in cui rappresenta
pubblicamente la professione a qualsiasi titolo, lo psicologo è tenuto ad uniformare la
propria condotta ai principi del decoro e della dignità professionale.

Questo articolo richiama, seppur in termini diversi, quanto prescritto all’art. 2.


Viene ribadito l’obbligo deontologico di osservare nella propria condotta i principi del decoro
e della dignità professionale; ciò sia nello stretto ambito dell’esercizio dell’attività
professionale quindi nel porsi in relazione con la committenza e con l’utenza, sia nella veste
pubblica di rappresentante pubblico della rappresentazione. Si prescrive pertanto, che lo
psicologo, nell’assumere di fronte alla collettività il ruolo di esponente della professione si
attenga ad un comportamento che non comporti un’immagine negativa della professione. Le
situazioni di violazione sono molteplici. Viola certamente la norma lo psicologo che, nel
corso di un pubblico dibattito, mantenga un comportamento volgare o ridicolo; contrasta
con il dovere di tutelare il decoro e la dignità della professione lo psicologo che ardisca, su
basi estremamente fragili, esprimere giudizi e valutazioni azzardate e scientificamente
infondate, svalutative della scienza o della professione psicologica.

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Capo IV – rapporti con la società

Articolo 39
Lo psicologo presenta in modo corretto ed accurato la propria formazione, esperienza e
competenza. Riconosce quale suo dovere quello di aiutare il pubblico e gli utenti a
sviluppare in modo libero e consapevole giudizi, opinioni e scelte.

La norma posta dall’art. 39 si riferisce al principio deontologico espresso nell’art. 5, relativo


al non suscitare aspettative infondate e quello espresso nell’art. 3, relativo alla promozione
della capacità delle persone di “comprendere se stessi e degli altri e di comportarsi in
maniera consapevole, congrua ed efficace”. Questa norma attiene da un lato alla veritiera
informazione sulla propria formazione, esperienza e competenza, indipendentemente
dall’attività professionale e al procacciamento di clienti; essa attiene dall’altro all’impegno
generale dello psicologo a stimolare l’autonomia cognitiva dei soggetti e dunque a favorire lo
sviluppo di “giudizi, opinioni e scelte” liberi e consapevoli, anche attraverso un uso non
manipolatorio dell’informazione.
Il significato combinato dei due commi descrive dunque lo psicologo come produttore e
facilitatore di chiarezza e genuinità nell’informazione, nella comunicazione e nel
comportamento.
Lo scopo della norma è da un lato quello di tutelare il decoro, la dignità e l’immagine della
professione e, dall’altro, quello di tutelare la collettività in relazione al rischio di essere
influenzata da informazioni false o scorrettamente veicolate, anche in relazione a
comportamenti non meramente tecnici dello psicologo ed anche a questioni che non
attengano direttamente allo psicologo o alla psicologia.

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Articolo 40

Indipendentemente dai limiti posti dalla vigente legislazione in materia di pubblicità, lo


psicologo non assume pubblicamente comportamenti scorretti finalizzati al
procacciamento della clientela. In ogni caso, la pubblicità e l'informazione concernenti
l'attività professionale devono essere ispirate a criteri di decoro professionale, di serietà
scientifica e di tutela dell'immagine della professione.

Il presente articolo si divide in due parti. La prima ha come oggetto l’impegno etico e morale
dello psicologo, indipendentemente da quanto prescrive la Legge in materia di pubblicità, di
non accedere ad alcun comportamento finalizzato al procacciamento della cliente che sia
collegato a modalità scorrette e non condividibili dalla comunità professionale. La seconda
ha come oggetto il dovere dello psicologo di proporre al pubblico un’immagine della sua
professione che sia ispirata e sostenuta da principi della serietà scientifica, di tutela
dell’immagine della professione e del decoro professionale.
Sono molte le difficoltà incontrate da questa specifica professione nel proporsi in modo
autentico al pubblico: sul versante delle credenze popolari consolidate, il confronto è difficile
per gli errori epistemologici che sottendono una rappresentazione sociale dell’identità
professionale dello psicologo, confusa con quella attribuita allo sciamano o al venditore di
parole e quella attribuita al medico. È da sottolineare la differenza che può intercorrere tra
pubblicità intesa come mezzo per mettere un servizio a disposizione delle persone e
pubblicità intesa come promozione di sé. Nel primo caso prevalgono il criterio del rispetto
dell’utenza, il rispetto e il riconoscimento del valore dell’attività dello psicologo e quindi
della propria attività professionale, la preoccupazione per la qualità del servizio fornito. In
sintesi prevale la preoccupazione di trasmettere un’informazione autorevole e forte circa
l’autentica professionalità dello psicologo. Nel secondo caso prevale l’interesse personale, e
cioè il procacciamento della clientela, l’arricchimento personale, la fama ecc.

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Capo V – Norme di attuazione

Articolo 41
È istituito presso la "Commissione Deontologia" dell'Ordine degli psicologi l'"Osservatorio
permanente sul Codice Deontologico", regolamentato con apposito atto del Consiglio
Nazionale dell'Ordine, con il compito di raccogliere la giurisprudenza in materia
deontologica dei Consigli regionali e provinciali dell'Ordine e ogni altro materiale utile a
formulare eventuali proposte della Commissione al Consiglio Nazionale dell'Ordine, anche
ai fini della revisione periodica del Codice Deontologico. Tale revisione si atterrà alle
modalità previste dalla Legge 18 febbraio 1989, n. 56.

È istituito presso la “Commissione Deontologica” dell’ordine degli psicologi l’Osservatorio


permanente del C.D., con il compito di raccogliere la giurisprudenza in materia deontologica
dei Consigli Regionali e provinciali dell’Ordine, ed ogni materiale utile a formulare eventuali
proposte della Commissione del Consiglio Nazionale dell’Ordine ai fini della revisione
periodica del C.D. Tale revisione si atterrà alle modalità previste dalla L.P.
L’istituzione di un osservatorio permanente ha il compito di adeguare il Codice a quanto da
esso non previsto nella sua prima formulazione e che la vita degli ordini va registrando ma
anche a una serie di situazione del tutto nuove con le quali la professione di psicologo si
trova a doversi in un futuro confrontare.
In una società complessa che registra l’intreccio sempre più rapido di culture ed etnie
diverse e dove gli effetti del progresso scientifico e tecnologico determinano cambiamenti
nelle strutture di base della società, intervenendo su ruoli individuali, struttura familiare,
istituzioni formative e lavorative, significati e norme di comportamento, la capacità
dell’Ordine di cogliere tutto quanto di nuovo si va determinando, sapendo coglierne
l’aspetto etico e procurando di tradurlo in norme deontologiche trasferibili agli iscritti, è
quanto mai importante.
L’Osservatorio permanente ha il compito di registrare situazioni che segnalino le conquiste
ma anche il malessere e i conflitti ad esse connessi. La presenza all’interno dell’Osservatorio

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che abbiano competenza in materia deontologica, studiosi di bioetica, particolarmente
sensibili ai fatti nuovi che questa nostra cultura registra ma anche esperti in ambito giuridico
che abbiano maturato esperienze in ambito disciplinare , sostanzia l’opera che l’Osservatorio
è chiamato a svolgere.

Articolo 42
Il presente Codice deontologico entra in vigore il trentesimo giorno successivo alla
proclamazione dei risultati del referendum di approvazione, ai sensi dell'art. 28, comma 6,
lettera c) della Legge 18 febbraio

La L.P., all’art. 28/6 lettera c, elenca fra i compiti del Consiglio Nazionale dell’Ordine, quello
di predisporre e di aggiornare il C.D. vincolante per tutti gli iscritti, e di sottoporlo
all’approvazione per referendum agli iscritti stessi.
A differenza di ciò che avviene in altri ordini professionali, il legislatore ha ritenuto che il C.D.
sia il prodotto non di un organo ordinistico, ancorché rappresentativo, ma dell’intera
comunità professionale, chiamata a pronunciarsi con la procedura referendaria. Se il Codice
deve esprimere il comune sentire del gruppo dei professionisti cui si riferisce, appare
corretto che esso sia valutato dall’intero gruppo, il quale può approvarlo o respingerlo
attraverso il voto. Ciò garantisce una più certa aderenza al dettato del codice al sentire
deontologico che la comunità degli psicologi, in quel particolare momento storico percepisce
come proprio.

La protezione legale
La data del 18 febbraio 1989 segna la costituzione della protezione legale assicurata alla
professione dello psicologo. La L.P., giunta dopo anni di attese, costituisce il segno concreto
del riconoscimento sociale, oltre che giuridico, della professione di psicologo di cui
regolamenta gli accessi. La L.P. ha consentito alla professione di emergere definitivamente
dal limbo della confusività operativa, e soprattutto per il settore clinico, di rigettare le accuse
di clandestinità e abusivismo lanciate contro gli psicologi clinici e gli psicoterapeuti.
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