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Arano - Pascoli

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Arano (Pascoli)

Arano è un componimento poetico di Giovanni Pascoli, che nell’edizione di Myricae del


1892 apre la sezione L’ultima passeggiata, titolo che fa riferimento a una gita nella
campagna toscana a fine estate.
Arano faceva parte di un gruppo di otto madrigali che Pascoli pubblicò in un opuscolo in
occasione delle nozze dell’amico Severino Ferrari nel 1886.

Si descrive una scena di lavoro nei campi, con i contadini che arano e gli uccelli che
sorvolando li “spiano”.
Si tratta di un madrigale con due terzine e una quartina in versi endecasillabi, con schema
di rime ABA CBC DEDE.

Testo
Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,
arano: a lente grida, uno le lente

vacche spinge; altri semina; un ribatte 5


le porche con sua marra pazïente;
ché il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi s’ode
il suo sottil tintinno come d’oro. 10

Arano (Pascoli) – Parafrasi

Nel campo, dove tra le file di viti


spicca qualche foglia rossastra, e dai cespugli
dai quali sembra alzarsi da terra come fumo la nebbia mattutina,
[i contadini] stanno arando: con grida leggere, uno di loro
spinge le vacche; un altro semina; uno frantuma
le zolle di terra con la zappa paziente;
così che il passero esperto già gode,
e spia ciò che succede dai rami spogli del gelso;
e del pettirosso si ode, tra le siepi,

il verso sottile come il tintinno dell’oro.

Nella poesia Arano, Pascoli descrive una scena di lavoro nei campi, con i contadini
che arano e gli uccelli che sorvolando li “spiano”.
Arano (Pascoli) – Analisi
Nella prima strofa lo sguardo osserva un campo avvolto dalla nebbia mattutina dalla quale
traspare («brilla») il «roggio», il colore rossastro, di alcune foglie di vite.
La seconda strofa è aperta dal verbo al plurale «arano», che riprende il titolo, privo di
soggetto: il verbo in enjambement al v. 4 chiude il periodo iniziato nella terzina precedente
ed è seguito da tre verbi che specificano il lavoro dei contadini – soggetto sottinteso
dell’intero componimento – nel campo (uno «spinge» le vacche, un altro «semina», uno
infine «ribatte» le zolle di terra).

La strofa conclusiva si concentra sulle immagini del passero – il quale sa che quando i
contadini se ne saranno andati potrà beccare le sementi tra le zolle e gode a questo
pensiero – e del pettirosso, il cui verso squillante ma sottile richiama il tintinno degli oggetti
d’oro, in un’associazione di suono e colore. Quest’ultima immagine è esempio del
fonsimbolismo pascoliano, con i suoni della /i/ e della /t/ che rimandano al “tintinno”
descritto.

Arano (Pascoli) – Figure retoriche


Diverse sono le figure retoriche presenti in questa poesia di Pascoli.
Varie volte ricorre la figura dell’enjambement (vv. 1-2, 4-5, 5-6, 9-10).
Si notano poi due similitudini, la prima al v. 3 (sembra la nebbia mattinal fumare) e la
seconda al v. 10 (il suo sottil tintinno come d’oro).

Al v. 6 è presente un’ipallage (marra pazïente; l’aggettivo paziente, qualità del contadino, è


trasferito all’oggetto da lui utilizzato, la marra, ovvero la zappa).
La sinestesia è presente nel v. 4 (lente grida) e nel v. 10 (sottil
tintinno); tintinno è onomatopea.
Nei vv. 7 e 9 si nota la figura dell’anastrofe (in cor già gode; nelle siepi s’ode).

Funere mersit acerbo è una celebre poesia di Giosuè Carducci; il poeta la compose circa
un mese dopo la morte del figlio Dante, avvenuta il 9 novembre 1870 a soli tre anni dalla
nascita. Fa parte della raccolta Rime nuove.
Carducci si rivolge al fratello, anche lui di nome Dante, che si era suicidato nel 1857,
appena ventenne; a lui chiede di accogliere il piccolo nipote che il poeta immagina
impaurito e confuso al suo arrivo nel regno dei morti. Pochi mesi più tardi, Carducci
dedicherà al figlio morto prematuramente un'altra poesia divenuta celeberrima: Pianto
antico.
Il titolo del sonetto, particolarmente significativo, è tratto da un passo dell'Eneide (VI, 426-
430):
Continuo auditae voces vagitus et ingens
infantumque animae flentes, in limine primo
quos dulcis vitae exsortis et ab ubere raptos
abstulit atra dies et funere mersit acerbo…

Subito si udirono voci e un forte vagito


di infanti, anime piangenti, sul far della soglia:
estranei alla dolce vita, strappati al petto [della madre]
il giorno oscuro li rapì e li sommerse con morte acerba…

Si tratta di un riferimento al pianto dei bambini morti piccolissimi e che Enea sente quando
scende nell'Ade.
Da un punto di vista metrico si tratta un sonetto in endecasillabi con schema ABAB ABAB
CDC DCD (rime alternate nelle quartine e nelle terzine).

Testo
Di seguito il testo del componimento.

O tu che dormi là su la fiorita


collina tósca, e ti sta il padre a canto;
non hai tra l’erbe del sepolcro udita
pur ora una gentil voce di pianto? 4
È il fanciulletto mio, che a la romita
tua porta batte: ei che nel grande e santo
nome te rinnovava, anch’ei la vita
fugge, o fratel, che a te fu amara tanto. 8

Ahi no! giocava per le pinte aiole,


e arriso pur di visïon leggiadre
l’ombra l’avvolse, ed a le fredde e sole 11

vostre rive lo spinse. Oh, giú ne l’adre


sedi accoglilo tu, ché al dolce sole
ei volge il capo ed a chiamar la madre. 14
Funere mersit acerbo – Parafrasi

O tu [il riferimento è al fratello Dante] che riposi nella fiorita


collina toscana [il riferimento è a Santa Maria a Monte, in Toscana] accanto a
nostro padre,
non hai udito, tra le erbe che ricoprono la tua tomba,
poco fa, una voce gentile rotta dal pianto?
È il mio bambino, che sta bussando
alla porta solitaria del tuo sepolcro; lui che, avendo il tuo nome, illustre e sacro
[per i poeti]
perpetuava il tuo ricordo; anche lui fugge la vita
fratello mio, quella vita che per te fu colma di amarezze.

Oh no! Lui giocava tra le aiuole variopinte


e, ancora allietato ancora dalle gioiose fantasie dell'infanzia,
l'ombra della morte lo avvolse, e alle fredde e solitarie
rive dell'oltretomba [il riferimento è alle rive dell'Acheronte] lo trascinò. Oh [ti
supplico]
nel tenebroso regno dei morti accoglilo tu, poiché il dolce sole
lui cerca volgendo il capo e invoca la madre.

Nota – La parte finale del testo può essere interpretata anche in modo diverso; …al dolce
sole / ei volge il capo potrebbe anche voler significare che il piccolo non vedrà più la luce
del sole (il capo è rivolto in direzione opposta al sole).

Funere mersit acerbo – Analisi


Funere mersit acerbo è il primo componimento poetico che Carducci dedica al figlioletto
scomparso; pochi mesi dopo scriverà Pianto antico, uno dei capolavori del poeta toscano.

Carducci mostra tutto il suo dolore per la scomparsa del figlio attraverso un accorato
appello al fratello Dante, morto forse suicida molti anni prima (la versione ufficiale del
suicidio è messa in dubbio da vari studiosi; una delle ipotesi è che il secondogenito di
Michele Carducci sia stato colpito a morte dal padre durante una furiosa lite).
Nella prima quartina (vv. 1-4) il poeta si rivolge al fratello sepolto nella fiorita / collina tósca,
nello stesso luogo dove è sepolto il padre Michele (il riferimento è al cimitero – chiamato
oggi Campo della Rimembranza - di Santa Maria a Monte, in provincia di Pisa) e a lui
chiede se, in quel luogo dove lui si trova, ha udito il pianto di un bambino.

Nella seconda quartina (vv. 5-8) il poeta spiega al fratello che quella voce appartiene al
figlio Dante, è lui che sta bussando alla porta dello zio e che, portando lo stesso nome
(definito grande e santo perché è lo stesso del Divin Poeta), ne perpetua il ricordo; anche
il piccolo Dante ha perduto la vita, quella che al fratello di Carducci ha procurato molte
amarezze (a te fu amara tanto).
La prima terzina (vv. 9-11) si apre con un'esclamazione (Ahi no!), un grido che sembra
quasi un tentativo di ribellione del poeta al duro destino che gli ha sottratto il figlio ancora
in età acerba; il padre lo ricorda affettuosamente, ancora lo vede giocare spensierato e
pieno di gioia tra le aiuole fiorite, ma poi c'è il ritorno alla realtà, la constatazione che ormai
la morte lo ha trascinato nelle rive fredde e solitarie dell'aldilà (vv. 11-12, l’ombra l’avvolse,
ed a le fredde e sole / vostre rive lo spinse).

La terzina finale (vv. 12-14) è l'accorato appello al fratello; a questi il poeta chiede di
accogliere e rassicurare quel bimbo solo e smarrito in quel luogo tenebroso e che piange
cercando la madre.

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