Arano - Pascoli
Arano - Pascoli
Si descrive una scena di lavoro nei campi, con i contadini che arano e gli uccelli che
sorvolando li “spiano”.
Si tratta di un madrigale con due terzine e una quartina in versi endecasillabi, con schema
di rime ABA CBC DEDE.
Testo
Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,
arano: a lente grida, uno le lente
Nella poesia Arano, Pascoli descrive una scena di lavoro nei campi, con i contadini
che arano e gli uccelli che sorvolando li “spiano”.
Arano (Pascoli) – Analisi
Nella prima strofa lo sguardo osserva un campo avvolto dalla nebbia mattutina dalla quale
traspare («brilla») il «roggio», il colore rossastro, di alcune foglie di vite.
La seconda strofa è aperta dal verbo al plurale «arano», che riprende il titolo, privo di
soggetto: il verbo in enjambement al v. 4 chiude il periodo iniziato nella terzina precedente
ed è seguito da tre verbi che specificano il lavoro dei contadini – soggetto sottinteso
dell’intero componimento – nel campo (uno «spinge» le vacche, un altro «semina», uno
infine «ribatte» le zolle di terra).
La strofa conclusiva si concentra sulle immagini del passero – il quale sa che quando i
contadini se ne saranno andati potrà beccare le sementi tra le zolle e gode a questo
pensiero – e del pettirosso, il cui verso squillante ma sottile richiama il tintinno degli oggetti
d’oro, in un’associazione di suono e colore. Quest’ultima immagine è esempio del
fonsimbolismo pascoliano, con i suoni della /i/ e della /t/ che rimandano al “tintinno”
descritto.
Funere mersit acerbo è una celebre poesia di Giosuè Carducci; il poeta la compose circa
un mese dopo la morte del figlio Dante, avvenuta il 9 novembre 1870 a soli tre anni dalla
nascita. Fa parte della raccolta Rime nuove.
Carducci si rivolge al fratello, anche lui di nome Dante, che si era suicidato nel 1857,
appena ventenne; a lui chiede di accogliere il piccolo nipote che il poeta immagina
impaurito e confuso al suo arrivo nel regno dei morti. Pochi mesi più tardi, Carducci
dedicherà al figlio morto prematuramente un'altra poesia divenuta celeberrima: Pianto
antico.
Il titolo del sonetto, particolarmente significativo, è tratto da un passo dell'Eneide (VI, 426-
430):
Continuo auditae voces vagitus et ingens
infantumque animae flentes, in limine primo
quos dulcis vitae exsortis et ab ubere raptos
abstulit atra dies et funere mersit acerbo…
Si tratta di un riferimento al pianto dei bambini morti piccolissimi e che Enea sente quando
scende nell'Ade.
Da un punto di vista metrico si tratta un sonetto in endecasillabi con schema ABAB ABAB
CDC DCD (rime alternate nelle quartine e nelle terzine).
Testo
Di seguito il testo del componimento.
Nota – La parte finale del testo può essere interpretata anche in modo diverso; …al dolce
sole / ei volge il capo potrebbe anche voler significare che il piccolo non vedrà più la luce
del sole (il capo è rivolto in direzione opposta al sole).
Carducci mostra tutto il suo dolore per la scomparsa del figlio attraverso un accorato
appello al fratello Dante, morto forse suicida molti anni prima (la versione ufficiale del
suicidio è messa in dubbio da vari studiosi; una delle ipotesi è che il secondogenito di
Michele Carducci sia stato colpito a morte dal padre durante una furiosa lite).
Nella prima quartina (vv. 1-4) il poeta si rivolge al fratello sepolto nella fiorita / collina tósca,
nello stesso luogo dove è sepolto il padre Michele (il riferimento è al cimitero – chiamato
oggi Campo della Rimembranza - di Santa Maria a Monte, in provincia di Pisa) e a lui
chiede se, in quel luogo dove lui si trova, ha udito il pianto di un bambino.
Nella seconda quartina (vv. 5-8) il poeta spiega al fratello che quella voce appartiene al
figlio Dante, è lui che sta bussando alla porta dello zio e che, portando lo stesso nome
(definito grande e santo perché è lo stesso del Divin Poeta), ne perpetua il ricordo; anche
il piccolo Dante ha perduto la vita, quella che al fratello di Carducci ha procurato molte
amarezze (a te fu amara tanto).
La prima terzina (vv. 9-11) si apre con un'esclamazione (Ahi no!), un grido che sembra
quasi un tentativo di ribellione del poeta al duro destino che gli ha sottratto il figlio ancora
in età acerba; il padre lo ricorda affettuosamente, ancora lo vede giocare spensierato e
pieno di gioia tra le aiuole fiorite, ma poi c'è il ritorno alla realtà, la constatazione che ormai
la morte lo ha trascinato nelle rive fredde e solitarie dell'aldilà (vv. 11-12, l’ombra l’avvolse,
ed a le fredde e sole / vostre rive lo spinse).
La terzina finale (vv. 12-14) è l'accorato appello al fratello; a questi il poeta chiede di
accogliere e rassicurare quel bimbo solo e smarrito in quel luogo tenebroso e che piange
cercando la madre.