Vizi e Virtu PDF
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“..Edificare Templi alla Virtù, scavare oscure e profonde prigioni al vizio..”
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“..Edificare Templi alla Virtù, scavare oscure e profonde prigioni al vizio..”
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“..Edificare Templi alla Virtù, scavare oscure e profonde prigioni al vizio..”
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lavorare al Bene ed al Progresso dell'Umanità
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“..Edificare Templi alla Virtù, scavare oscure e profonde prigioni al vizio..”
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A coloro che hanno donato simili perle va tutta la nostra più profonda
gratitudine e riconoscenza.
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Omaggio ad AxisMundi
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I
Omaggio ad AxisMundi
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E‘ la sanzione della comunità che stabilisce cosa è vizio e cosa è virtù, all‘interno di un
sistema di regole preposte all‘ottimizzazione del comportamento.
Il vizio è l‘altra faccia di una medaglia che ha dal recto la virtù. La cappella di Rosslyn,
vicino a Edimburgo, resa celebre dal Codice da Vinci (Brown, 2003), è un affascinante
edificio di fattura gotica del XV secolo alla cui costruzione si dice abbiano posto mano i
Templari riparati in Scozia; esso presenta enigmi irrisolti tra cui le pannocchie di mais
scolpite nei bassorilievi delle pareti quando l‘America ancora non era stata scoperta, o
i numerosi omini verdi disseminati ovunque. Nella decorazione muraria della navata
destra ci sono la striscia dei vizi e la striscia delle virtù.
Ma l‘avarizia è tra le virtù, mentre le opere di carità sono tra i vizi. L‘ignoto autore ha
voluto ammonirci a non separare troppo rigidamente queste due opposte condizioni
dell‘anima umana: l‘una può facilmente trapassare nell‘altra, perché esse derivano
dallo stesso principio organizzatore.
Noi oggi lo diciamo così: vizi e virtù derivano delle stesse strutture neurobiologiche. Il
vizio è lo squilibrio di ciò di cui la virtù è l‘armonia, oppure la virtù è la moderazione di
ciò di cui il vizio è l‘eccesso. Le forze pulsionali sono il cavallo imbizzarrito che in
prima istanza ci domina e ci soggioga, ci fa andare ora qua ora là, essere uno nessuno
e centomila, a secondo dell‘impulso prevalente al momento; ma sono anche la materia
grezza che si può purificare, controllare, innalzare, sublimare.
Questo è il senso della metafora della pietra e del fuoco, dell‘apoftegma fac volatile
fixum et fixum volatile. Il combattimento interiore è una metafora universale delle
religioni. Citando un moderno predicatore, Livio Fanzaga, padre scolopio e direttore di
Radio Maria:
Analogo discorso vale per jihad, un termine che costituisce il cuore stesso della
religione islamica, e che è sovente frainteso od usato a sproposito in Occidente. Se
andiamo all‘etimologia della parola, la radice è ja-ha-da che vuol dire letteralmente
―fare uno sforzo‖, e che si trova in circa ottanta accezioni negli insegnamenti
dell‘Islam. Il primo ambito è quello dell‘individuo. Ogni essere umano sente in sé delle
forze che si potrebbero definire negative come la violenza, la collera, la cupidigia, il
desiderio, ecc. Lo sforzo che egli o ella compie per lottare contro dette forze si chiama
jihad: questo jihad, chiamato comunemente jihad an-nafs, lo ―sforzo dell‘essere‖, è al
centro della spiritualità islamica perché rappresenta la fatica continua che ciascuno
deve fare per dominare il proprio essere, per donargli accesso alla sfera superiore
dell‘umano che cerca Dio con allo stesso tempo la costante preoccupazione della
dignità e dell‘equilibrio dell‘individuo stesso.
Un altro significato è quello che riguarda il jihad nel senso dell‘impegno in guerra: in
questo caso particolare si chiama jihad al-qital. Tutto cio‘ che abbiamo detto sul jihad
an-nafs è fondamentale perché il principio è lo stesso: proprio come un essere fa lo
sforzo e resiste alle tentazioni di violenza e di collera, allo stesso modo una comunità
II
Omaggio ad AxisMundi
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umana deve resistere agli atti di aggressione dei quali essa potrebbe essere oggetto.
Probabilmente in tale senso il termine jihad e‘ stato abusato e mal compreso dagli
stessi musulmani, che sovente non hanno resistito alla tentazione di strumentalizzarlo
per obiettivi politici propri, prestando il fianco agli avversari dell‘Islam che hanno
trovato in questa estensione del significato un pretesto per screditare l‘Islam stesso ed
i Musulmani.
Lo sforzo è dunque sociale, economico e politico. Jihad significa lavorare molto per
realizzare ciò che è giusto: il Corano lo nomina 33 volte, ed ogni volta esso ha un
significato differente, ora riferito ad un concetto come la fede, ora al pentimento, ora
alle azioni buone, ora all‘emigrazione per la causa di Dio. Nell‘accezione piu‘ vera e
completa, il jihad rappresenta lo sforzo intimo e personale che ogni credente deve
compiere per riuscire a conformare il propro comportamento alla volontà di Dio. Il
jihad, dunque, non è una guerra, anche se, in determinate circostanze, esso puo‘
assumere la forma di una guerra.
L‘Islam vuole essere una religione di pace, ma ciò non vuol dire che accetti
l‘oppressione o che chieda la passività o una generica presa di distanza di fronte
all‘ingiustizia. L‘azione è importantissima, ma l‘Islam ci insegna a fare il possibile per
eliminare tensioni e conflitti, e per lottare contro il male e l‘oppressione attraverso
mezzi pacifici e non violenti fino a quando sia possibile.
E‘ curioso notare che attraverso il concetto di combattimento interiore due delle grandi
religioni monoteistiche, la cristiana e l‘islamica, reintroducono al loro interno dei germi
di politeismo, nella rappresentazione e nella ipostatizzazione delle forze antitetiche tra
cui si dibatte la personalità umana.
Infatti, quando si parla di lotta interiore contro i vizi e a pro delle virtù, si mettono in
campo quelle componenti che costituiscono la natura molteplice della psiche, e che
sono a volte cooperanti, ma altre volte impegnate in conflitti che possono essere
paralizzanti per l‘intero di cui fanno parte. Per la terza religione monoteistica,l‘ebraica,
rimandiamo ai capitoli sulla Qabbalàh per ricordare che questa, come tutte le
mistiche, oltrepassa i confini dell‘ortodossia aprendo al simbolico e all‘ineffabile,
III
Omaggio ad AxisMundi
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attingendo a registri che non sono permessi nella religione ufficiale, e riproponendo in
sostanza l‘idea della natura molteplice del divino, e corrispondentemente dell‘umano.
Ma anche nell‘Induismo l‘idea delle componenti molteplici della psiche le une contro le
altre armate, e del compito dell‘iniziato di comporre e ottimizzare questo scontro per
altri versi creativo si ripropone nel testo religioso fondamentale, la Bhagavad Gita. Lo
scoramento di Arjuna, il protagonista, l‘eroe che sarà alfine vincitore delle passioni,
nasce dal vedere schierati a battaglia i due opposti eserciti che lo atterriscono perché
ognuno di loro, con parenti, maestri, amici e compagni ne invoca la lealtà e
l‘appartenenza a se stesso. Come può egli combattere e uccidere la carne della sua
carne e il sangue del suo sangue?
La Bhagavad Gita è una metafora della lotta interiore, espressa dall‘immagine del
campo dove si affrontano le opposte forze pulsionali.Nel primo verso del poema
compare il termine sanscrito composto dharmaksetra, tradotto con terra santa, che è
la terra dei Kuru, uno dei principali luoghi santi di tutti gli indù. Ma esiste anche un
altro significato profondo della parola che non esclude il primo e che diviene chiaro nel
capitolo tredici, dove si parla del complesso psico-fisico dell‘uomo come ksetra, campo,
e della realtà spirituale presente in lui come ksetrajna, conoscitore del campo.
Quindi, la grande battaglia del Kuruksetra, del campo sacro dei Kuru, si combatte una
volta in illo tempore, nel tempo sacro al di fuori del tempo e all‘origine del tempo e
della realtà creata; ma si combatte ogni giorno nell‘interiorità dell‘uomo che, come dice
Jung, ha deciso di essere un problema e un compito a se stesso. Essa infatti è la
battaglia tra le forze del dharma, i Pandava figli di Pandu, e le forze dell‘adharma, i
Kaurava figli di Dhartarastra, ovvero tra le forze dell‘ordine e della legge e le forze del
caos e dell‘informe, le forze del bene e le forze del male, le forze della coscienza e della
meccanicità. L‘arena del dharma si svolge nell‘uomo, perché è in lui che l‘atto diventa
etico, e ciò che nell‘animale è semplice moto pulsionale si ritrova nell‘essere umano
sottoposto al potere discriminatorio del libero arbitrio; e quindi su ciascun uomo grava
una scelta che costituisce il motivo fondamentale e universale delle religioni. L‘atto del
libero arbitrio non è compiuto una volta per tutte e concluso, ma si rinnova ogni
giorno nella presenza a se stessi e nella guardia mai abbassata per perfezionarsi e
padroneggiare le forze cieche e oscure della psiche animale che vorrebbero direzionarci
secondo il loro criterio.
Prima ancora che da Aristotele nell‘Etica a Nicomaco, il tema delle virtù era stato
affrontato da Platone, e quindi la teologia cristiana deve tener conto di questi
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Omaggio ad AxisMundi
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ponderosi precedenti quando compendia le virtù degli antichi nelle tre virtù teologali e
nelle quattro virtù cardinali. Le virtù teologali sono quelle virtù che riguardano il
rapporto con Dio, rendono l‘uomo capace di vivere in relazione con la Trinità e fondano
ed animano l‘agire morale cristiano, vivificando le virtù cardinali. Nella dottrina della
Chiesa cattolica queste virtù, a differenza delle virtù cardinali, non possono essere
ottenute con il solo sforzo umano ma sono infuse nell‘uomo dalla grazia divina. Esse
sono tre, la fede, la speranza e la carità.
Sotto l‘influenza della dottrina cristiana del peccato e della redenzione, nel Medioevo i
vizi non sono più visti come abiti comportamentali contratti da cattive abitudini, ma
come un‘opposizione della volontà dell‘uomo alla volontà di Dio. Tommaso d‘Aquino li
elenca nella successione settenaria divenuta poi canonica. La riflessione sui vizi è
sviluppata soprattutto dai monaci eremiti, che li vedono come le tentazioni che
distraggono il penitente dal distacco dalla materialità e dal corpo e dalla dedizione a
Dio, e cercano quindi di approntare gli strumenti per rafforzare la sua risoluzione e
perseveranza.
L‘eremita Evagrio Pontico (monaco, asceta e scrittore cristiano, Ebora 345-Egitto 399)
introduce l‘idea di una successione di vizi capitali come armamentario sequenziale del
quale il diavolo si serve per eccitare le passioni del monaco. Egli riconosce negli otto
―cattivi pensieri‖ (logismoi) gli strumenti con cui Satana, il tentatore, strappa
quest‘ultimo dalla condizione di apatheia che è il requisito indispensabile del
perfezionamento spirituale. Il percorso dei vizi inizia coi peccati più carnali e prosegue
in una caratterizzazione in senso sempre più mentale, con una progressiva
spiritualizzazione della colpa.
Anche per Cassiano (santo, Romania 360-Provenza 435) gli otto vizi scandiscono le
tappe di un cammino di allontanamento dalla perfezione che dai piaceri carnali arriva
alle colpe di natura puramente spirituale (superbia e vanagloria). Per Evagrio e
Cassiano la successione tra colpe carnali e spirituali non è data solo da un principio
gerarchico di gravità della colpa, ma costituisce anche un percorso obbligato, una
sequenza necessaria, per cui la colpa più elevata, spirituale, presuppone per attuarsi
quella inferiore, materiale. In un modello generativo il monaco deve eliminare i vizi
carnali per non cadere in quelli spirituali.
Gregorio Magno (papa e santo, Roma 540-604) ricompone la cesura tra vizi carnali e
vizi spirituali, riportandola all‘interno di ogni singolo vizio, riconoscendo in tutti e sette
i vizi un ruolo congiunto di spirito e carne, scoprendo nell‘interiorità il luogo di origine
di ognuno di essi, ma evidenziandone anche le manifestazioni carnali in quelli
spirituali. Egli fissa anche come canonico dei vizi il numero perfetto, riassorbendo la
vanagloria nella superbia, ed omologandolo al settenario delle virtù.
La fortuna del settenario è legata all‘idea che esista un ordine naturale dei vizi, una
sistematicità dell‘universo della colpa, che si ripropone sempre uguale a se stessa,
poiché sempre uguale è la natura del peccato. Da qui l‘idea di un albero dei vizi, che si
sviluppa da quello che di essi è il più fondamentale, la superbia, e l‘immagine del
processo generativo dei vizi paragonabile a quello di una pianta.
V
Omaggio ad AxisMundi
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Vi sono due creature mostruose dell‘Apocalisse che sono metafora della corruzione
umana: il drago rosso, che viene dopo la donna vestita di sole, ed ha dieci corna e
sette teste, ognuna recante un diadema, e la bestia del mare, anch‘essa con dieci
corna, sette teste tutte con un diadema e un titolo blasfemo, corpo di pantera, teste di
leone e zampe d‘orso.
Ad esse si riconduce il linguaggio figurato per indicare il settenario dei vizi, mentre per
l‘ascesa verso la perfezione, le tappe del cammino di redenzione, lo sviluppo della virtù
si usa il simbolo del viaggio, della montagna sacra, dei gradini di una scala in salita.
Il monaco orientale Giovanni Climaco (monaco eremita e santo, Siria 575-Monte Sinai
650) nella sua Scala del Paradiso condensa i due temi dei vizi e delle virtù, in
un‘immensa scala, che sembra non finire mai, con innumerevoli gradini costituiti da
vizi da debellare o da virtù da conquistare.
Dante ridivide di nuovo i due percorsi, anzi li triplica, in un imbuto del vizio, l‘Inferno,
nella montagna della virtù, il Purgatorio, e nelle sfere celesti della perfezione, il
Paradiso.
La montagna del Purgatorio è simmetrica alla voragine dell‘Inferno, coi suoi nove
cerchi, cui corrispondono l‘antipurgatorio, il paradiso terrestre, e sette cornici che
ospitano i penitenti dei sette vizi capitali.
Con l‘Illuminismo la differenza tra vizi e virtù si fa sfumata perché i vizi concorrono
come le virtù a sviluppare l‘industria, il commercio e il benessere sociale. In un breve
trattato del 1724, Modesta difesa delle case di piacere, de Mandeville dimostra la
duplice funzione sociale delle case di tolleranza, nel permettere la soddisfazione
regolamentata dell‘impulso sessuale, e nel costituire una fonte di profitto.
I vizi capitali compaiono nella Metafisica dei costumi e nella Antropologia pragmatica
di Kant, dove il vizio rimane sì la manifestazione di una deviazione morale, ma in
quanto costituisce l‘espressione di una certa tipologia della natura umana, ovvero di
una caratterologia, che si declina appunto nelle forme rappresentate dai sette vizi.
Si fa strada quindi con Kant una interpretazione dei vizi che viene poi ripresa dalla
psichiatria dell‘Ottocento, con Griesinger, Wernicke, Kraepelin e Freud.
Con l‘affermarsi della visione scientifica della natura umana, i vizi escono dall‘alveo
della morale ed entrano in quello della psicopatologia. In altre parole cessano di essere
trasgressioni della volontà divina per divenire, molto più terrenamente, deviazione di
una certa costituzione di base, che assume i vari aspetti della tipologia dei vizi.
Essi non sono dunque più peccati o comunque scadimenti erratici della condotta, ma
malattie, anzi malattie della mente, di cui si deve occupare prima la psichiatria
costituendone una tassonomia e poi la psicoanalisi formulandone delle ipotesi
eziologiche, che si collocano nella teoria dello sviluppo infantile della nevrosi.
Così il goloso presenta una fissazione allo stadio orale, l‘avaro a quello anale, il
lussurioso può essere un semplice disregolato del più evoluto stadio fallico, mentre
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Omaggio ad AxisMundi
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l‘invidia secondo la Klein risale ai primordi dello sviluppo psichico, alla posizione
schizoparanoide della fase orale precoce.
I vizi capitali e le virtù, che nel pensiero dei filosofi antichi e della teologia medioevale
erano appannaggio della morale, nella psichiatria nosografica ottocentesca divengono
oggetto di studio della psicopatologia, che associa a ciascuno di essi un typus
psychologicus e una conformazione caratteriale; mentre poi con l‘avvento delle
neuroscienze essi divengono patrimonio della neurofisiologia e della
neurofisiopatologia, che studiano il funzionamento del cervello sano e di quello malato
in quanto funzionalmente alterato, e quindi caratterizza i comportamenti abnormi
come specifiche disregolazioni neurorecettoriali. Il passo fondamentale della
neurofisiopatologia è associare a ciascun vizio-virtù in quanto comportamento
anomalo/equilibrato una motivazione di base, e con essa una struttura
neurocircuitale che funziona con specifici neurotrasmettitori, catalogandolo/a come
espressione alterata/armoniosa della struttura funzionale di base che sottende il
comportamento. Così ciascun vizio e virtù è implementato da un sistema operativo-
emozionale psico-comportamentale, e lo studio del sistema circuitale nella sua
normalità e nella sua patologia diviene la base per la comprensione delle abnormità
comportamentali. Tale sviluppo costituirà la parte successiva del nostro lavoro, e sarà
inevitabile che metta a confronto chi ci segue con conoscenze abbastanza
specialistiche, accanto poi a passaggi più etico-filosofico-religioso. Ma nella visione che
oggi proponiamo di una riunificazione del sapere l‘una dimensione non può
prescindere dall‘altra.
L‘uomo, in una certa misura, è arbitro del proprio destino, mentre l‘animale è al
servizio dell‘inganno riproduttivo, ovvero della coercizione verso la continuazione della
specie, che gli impone il suo programma attraverso un comportamento determinato
dal codice genetico.
Tuttavia non dobbiamo dimenticarci che se pure abbiamo il libero arbitrio il discrimine
tra vizio e virtù è molto labile, e che le stesse forze che ci innalzano alle vette del
sublime ci sprofondano negli abissi dell‘inconsceità e dell‘automatismo animale.
In questa chiave di lettura le facoltà dell‘anima che erano state date all‘uomo per la
sua felicità e perfezionamento risultano stravolte e corrotte. Non è solo un
travestimento, è un vero e proprio pervertimento, nel senso di sviamento di uno stesso
principio costitutivo dal suo originario percorso di elevazione ed evoluzione per essere
adibito ad attività e fini egoistici e materiali. Ciò che costituisce la grandezza dell‘uomo
è anche la stoffa della sua miseria, e risiede nei suoi lati oscuri ed animali, che
possono essere innalzati e sublimati alle vette dello spirito, o lasciati deperire nella
cecità e meccanicità della loro condizione originaria.
VII
Omaggio ad AxisMundi
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Oltre che nella specularità formale del settenario dei vizi e delle virtù e nella
raffigurazione metaforica della buona e della cattiva pianta, gli autori medioevali
evidenziano il nesso ben più sostanziale tra il vizio e la virtù nella loro comune
struttura costitutiva nella mente dell‘uomo deformata e corrotta dal peccato.
In questa ottica il libero arbitrio non è più una sottigliezza dei filosofi, né un atto
volizionale discreto che si compie una volta per tutte, ma si diluisce e si declina in una
serie di azioni più o meno estese e prolungate, diviene atteggiamento interiore, pratica
quotidiana, tensione verso il proprio perfezionamento spirituale, esercizio di costante
vigilanza nei confronti delle forze della meccanicità che ci portano all‘azione irriflessiva
di risposta a corto circuito, come pure alle lunghe incubazioni della vendetta e
dell‘ossessione: a fronte dello scadimento nell‘istintività incontrollata la
consapevolezza richiede continua attenzione, sforzo direzionato, rinuncia autoimposta,
sofferenza calcolata.
L’avarizia
Il sistema operativo emozionale della paura è adibito a fronteggiare le minacce alla
continuità dell‘esistenza, che possono verificarsi sia in termini di pericoli interni, che
di minacce esterne. I primi sono in sostanza tutti i mutamenti delle variabili
dell‘organismo che vanno al di là dei limiti di compatibilità del sistema. In questo
senso Lichtenberg, Lachmann e Fosshage (1992) parlano di sistema motivazionale di
regolazione dell‘omeostasi fisiologica, intendendolo come preposto alla salvaguardia
dell‘equilibrio delle variabili critiche per il mantenimento della vita. Poi ci sono i
pericoli del mondo esterno, il cui impatto determina la paura. Squilibri interni e
pericoli esterni hanno un uguale risultato: minacciano la sopravvivenza
dell‘organismo, la sua continuità nel tempo, la sua possibilità d‘esistenza.
VIII
Omaggio ad AxisMundi
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L‘essere umano, nel suo progressivo distaccarsi dallo status di uomo-natura per
approdare a quello di essere prodotto e produttore di cultura ha trasferito
l‘espletamento dei suoi bisogni fondamentali su un piano sempre più simbolico.
Ebbene, nessun oggetto reale rappresenta altrettanto la continuità del continuare ad
esistere quanto il denaro. Il denaro è il sostituto della continuità dell‘esistenza: quando
l‘individuo muore, lascia il suo denaro, che vive anche senza di lui. Nello stesso tempo,
finché è in vita l‘accumulare denaro sembra offrirgli un antidoto alla precarietà
dell‘esistenza. Oggi poi, coi progressi della scienza!
L‘illusione del denaro è che esso possa fornire o acquistare ciò di cui abbiamo
realmente bisogno. Le conseguenze sono fallaci e fuorvianti, ―Io sono ciò che ho, ciò
che possiedo‖, un sentimento di chiusura dell‘io (Bettazzi, 1999). Allo stesso modo il
possesso del denaro diventa l‘illusione del potere assoluto. Per questo esso va protetto,
non sprecato, amministrato oculatamente. Ciò lo trasforma da mezzo per realizzare
qualcosa in fine di per sé.
Si innesta allora un gioco perverso, nel senso che il denaro non va speso perché il suo
potere risiede nella sua potenzialità inespressa, è dunque un potere virtuale, ma che
fa sì che esso vada tesaurizzato anziché utilizzato perché accumuli sempre più potere.
Infatti il denaro, come fa notare Galimberti (2003), è un simbolo propiziatorio
paradossale: esso conserva il proprio potere a patto di non essere speso, perché una
volta speso si perde. Però è anche vero che se uno non lo spende non ne gode. Il
questo senso, l‘avaro inverte il mezzo col fine, perché ciò che appunto è un mezzo per
poter provvedere alle necessità materiali diventa un fine in se stesso.
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Omaggio ad AxisMundi
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preposto, l‘acquisto di beni per vivere? Staccare il denaro dalla sua spendibilità è una
operazione perversa? Il termine perversione ha ampiamente dilatato il suo alone
semantico dall‘originaria accezione di comportamento psicosessuale che si esprime in
forme atipiche rispetto alla norma.
In questo senso il termine di perversione può essere applicato non solo alla pulsione
sessuale ma ad ogni altro tipo di pulsione. Nel caso della pulsione autoconservativa,
ovvero della motivazione a mantenere la continuità dell‘esistenza, il denaro visto come
un fine e non come un mezzo sarebbe una perversione, un traviamento del fine
originario di esso, che è quello di acquisire dei beni di vita, dei beni per la vita. In
realtà l‘accumulo di denaro può essere visto anche come l‘esaltazione e il
perfezionamento del bisogno di autoconservazione, poiché dimostra, con la sua stessa
esistenza e continuità, che anche il suo possessore esiste, e continuerà a esistere, a
dispetto delle limitazioni imposte dalla biologia e dalla condizione fallace di uomo-
natura.
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Omaggio ad AxisMundi
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Il primo scheletro che gli archeologi scoprirono tra le rovine di Pompei era di un uomo
che stringeva in una mano un pugno di monete d‘argento: sotto l‘eruzione vulcanica
egli si era aggrappato ad esse per l‘ultima volta. L‘avarizia dunque appronta un
rimedio tangibile contro la più ancestrale delle paure, la paura della morte. Anche se
lo fa al prezzo di immobilizzare la vita in una non-vita, in un‘attesa perenne, in un
rimandare la fruizione e il godimento del bene che si accumula per potenziarlo sempre
di più e determinarne il massimo apprezzamento in un imprecisato e improbabile
istante del futuro. L‘avarizia è la negazione del rischio, è il massimo di conservazione
dell‘esistente, è l‘attaccamento al più caduco, al più greve, al più mondano dei beni
materiali, il denaro. Nella parabola dei talenti, Gesù Cristo stigmatizza il
comportamento del più pavido dei tre servitori, quello che ha sepolto la somma
affidatagli anziché investirla e farla fruttare (Mt. 25, 14-30 e Lc. 19, 12-27). Ma
ammonisce anche a non accumulare tesori sulla terra, dove tignola e ruggine
consumano e dove ladri scassinano e rubano, ma a raccogliere il proprio tesoro nel
cielo, perché là dove è il tesoro dell‘uomo là è anche il suo cuore (Mt. 16, 19-21). In
fondo l‘avarizia è il frutto di un errato calcolo: è il prodotto dell‘istinto di
sopravvivenza, ma sposta la vita in un‘opaca dimensione di dilazione e di attesa in cui
appunto essa è solo sopravvivenza. E il momento in cui vi dovrebbe essere la fruizione
del bene al suo apice è proprio il momento della morte – perché a quel punto
l‘accumulazione è arrivata al massimo – ma purtroppo esso si traduce nel momento
drammatico della resa dei conti. Come si vede nel quadro di Bosch, La morte
dell‘avaro; la morte attende dietro la porta, ma il diavolo tenta l‘avaro un‘ultima volta,
allungandogli una borsa di denaro sul letto, mentre a i piedi di quest‘ultimo un ladro
(o un erede) inizia a trafugargli i suoi beni prima ancora che sia avvenuto il trapasso. Il
quadro di Bruegel il vecchio mostra invece che l‘avarizia non è solo dei ricchi: una
povera donna sferra il suo misero attacco con armi incongrue, stringendo il suo tesoro,
e avviandosi verso la porta dell‘inferno.
Nella storia del settenario dei vizi capitali, l‘avarizia compete con la superbia per il
primato. Depongono per la supremazia della superbia la vicenda di Lucifero, che per
essa fu scacciato dai cieli, come riporta il profeta Isaia, e il testo dell‘Ecclesiastico:
―inizio di tutti i peccati è la superbia‖ (10,15). Ma si schiera, per così dire, per l‘avarizia
la sentenza di S. Paolo ―L‘attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali‖ (Tm,
6, 10) e altrove lo stesso Ecclesiastico: ―nessuno è più scellerato dell‘avaro‖ (10, 9) e
―niente è più iniquo dell‘amore per il denaro‖ (10, 10). In altri due topoi S. Paolo
rincara la dose, definendola addirittura una forma di idolatria (Ef., 5,5 e Col. 3,5).
XI
Omaggio ad AxisMundi
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L‘avarizia costituisce una delle tre tentazioni cui Gesù è sottoposto da Satana nel
deserto, insieme alla gola (trasformare le pietre in pane) e alla superbia (ordinare agli
angeli di proteggere la sua caduta), anzi è l‘ultima e la più grave (adorare Satana per
ottenere tutte le ricchezze del mondo).
Anche Dante all‘inizio nel suo viaggio ultraterreno colloca l‘avarizia tra i tre ostacoli
che gli si frappongono, nella fattispecie della lupa, assieme alla superbia (il leone) e
alla lussuria (la lonza). S. Agostino poi distingue tra un‘avarizia speciale, l‘amore per il
denaro, e un‘avarizia generale, ―desiderare di avere più del necessario per amore delle
cose e della propria eccellenza‖ (citato in Casagrande e Vecchio, 2000).
Quanto all‘idolatria, S. Tommaso precisa che tra avarizia e idolatria c‘è un rapporto di
similitudine, non di identità, poiché l‘avaro non si sottomette al denaro per idolatrarlo,
ma per farne uso. La caratteristica del bene perseguito dall‘avarizia la rende il vizio più
abietto, stante il carattere grossolanamente materiale della ricchezza, inferiore ai beni
dell‘anima, ma anche il più infimo di quelli del corpo. E questo rende la colpa
dell‘avaro ancora più grave.
Per Egidio Romano, perché l‘onore è tributato a una creatura materiale, inanimata e
insensibile, ad un dio in fin dei conti impotente, a un bene infimo e corruttibile (citato
in Casagrande e Vecchio, 2000). Per Peraldo, l‘avarizia dei cristiani è peggiore
dell‘idolatria dei pagani, perché distoglie lo sguardo dal vero Dio, pur conoscendolo –
al contrario dei pagani – e lo rivolge a dei beni ignobili, a un falso dio che condanna
chi lo segue all‘errore e all‘infelicità (ibid.).
L‘avaro è segnato dall‘iniquità, poiché si impadronisce di beni che gli erano stati
assegnati da Dio perché li distribuisse ai poveri. Ad essa si contrappone un vizio di
segno opposto, la prodigalità: prodigo è chi, amando troppo poco la ricchezza, la
dissipa rovinando se stesso e la sua famiglia, o chi elargisce senza criterio la propria
ricchezza, spesso a chi non la merita, solo per vanità e stoltezza.
Nella sequenza dei vizi e delle virtù che Giotto raffigura nello zoccolo di finti marmi
della Cappella degli Scrovegni manca l‘avarizia, e la carità trova il suo opposto
nell‘invidia.
L‘ipotesi più diffusa fino a poco tempo fa era che Enrico Scrovegni, usuraio e figlio di
un usuraio, commissionò e pagò gli affreschi della cappella annessa al suo fastoso
palazzo per fare ammenda della sua vita scellerata passata ad accumular denaro.
XII
Omaggio ad AxisMundi
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dono alla comunità padovana, a cui proporsi, forse, quale nuovo signore; tant‘è vero
che si fece collocare come destinazione post mortem tra gli eletti in paradiso, mentre
colloca l‘incarnazione suprema dell‘ignominia, Giuda, all‘inferno, al posto dei
simoniaci, coi quali evidentemente sentiva di non avere nulla a che spartire!
Perché, potremmo dire ironicamente, ha i titoli per farlo! Quanto il vero Dio è
nascosto, invisibile, misterioso, insondabile, tanto il denaro è presente, vicino,
rassicurante, disponibile, servizievole. L‘uno è potente in teoria, ma spesso latente in
pratica; l‘altro è potente, eccome! Il denaro lenisce anche le paure della vecchiaia e
della malattia.
Coi progressi della scienza e della medicina in particolare, non solo si è allungata l‘età
media, ma si può avere una vita sessuale ben oltre il climaterio o l‘andropausa (la
quale ultima oggi ormai non si nomina neppure più), si può avere un aspetto che si
protrae negli anni piacente, si può mantenersi sani e prestanti a lungo, e
conseguentemente si ha la possibilità di godere di tutti i piaceri della vita. La morte
evidenzia l‘unica defaillance del denaro, perché essa sì può separarcene.
Questo ragionamento non tiene conto del fatto che il denaro come bene sostitutivo,
come farmaco salvavita, conferisce un piacere di per sé. Il piacere che consiste nel
contare i soldi, sorvegliare l‘andamento dei propri titoli, adempiere all‘amministrazione
dei propri beni, e gioire delle ricchezze che si hanno sotto il sole. Qui il sistema della
paura si ingrana con quello della ricerca, perché se c‘è uno stato eccitatorio nel
conseguire un‘impresa, lo stato si protrae dopo nel contemplare il risultato.
XIII
Omaggio ad AxisMundi
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che come possibilità astratta di conseguimento dei beni che con esso si possono
ottenere. Con Nietzsche, e con Galimberti, il denaro sviluppa un sentimento di potenza
assoluto. E‘ una forma della volontà di potenza che per mantenersi non deve mai
esercitarsi.
Così esso rimane integro e interamente a nostra disposizione. La potenza non deve mai
trasformarsi nel proprio esercizio e nel proprio godimento, perché altrimenti il potere
del denaro andrebbe perduto come potere. Per Galimberti, questa è non vita, perché
porta alla negazione della spinta vitale alla soddisfazione del desiderio; per noi, questa
è vita traslata, sostituita, surrogata – non possiamo usare il termine sublimata perché
implica uno spostamento a livelli più sottili e raffinati dell‘essere, ed il denaro è per
definizione l‘aspetto più materiale e grossolano della vita – piacere vissuto per procura,
assicurazione contro la morte che ne offusca la minaccia e se pure minimamente
l‘allontana lo fa a prezzo di sterilizzare la vita.
La Fortezza
La corrispondenza tra vizi e virtù è un fatto arbitrario. Abbiamo visto come nella
processione dei vizi e delle virtù della Cappella degli Scrovegni la carità trovi il suo
opposto nell‘invidia, anziché classicamente nell‘avarizia, e questo fatto abbia dato
adito a varie interpretazioni. Questo perché in realtà ogni vizio e ogni virtù sono una
mescolanza di diverse motivazioni di base, e quindi essi sono variamente embricati tra
loro. La fortezza, ad esempio, entra di diritto nell‘esercizio di ogni virtù, e questo è il
significato di virtù cardinali, nel senso che esse sono il cardine della vita encomiabile.
Tuttavia, bisogna dire con Fanzaga (2004) che il nucleo della virtù risiede nella
volontà, e non nel temperamento, e lo stesso si potrebbe dire del vizio, perché se anche
questo consiste in un predominio dell‘impulso sulla ragione, tuttavia è pur sempre l‘Io,
e dunque il libero arbitrio, ad assecondare la componente istintuale del
comportamento.
Nella Bibbia il termine fortezza ha un alone semantico molto più ampio, che
comprende sia la forza fisica, che la forza morale, sotto specie di coraggio,
sopportazione, pazienza. La forza può essere del demonio, dell‘uomo, degli eserciti, del
giusto, ma è soprattutto di Dio. Infatti mentre il pensiero greco considera la forza un
principio cosmico della natura cieca, il pensiero ebraico pone la forza e ogni principio
energetico nel Dio personale, Jahvè. Da qui l‘esaltazione della forza incontenibile di
Dio assieme alla sua giustizia, misericordia, generosità. La potenza sovrannaturale del
divino nel Nuovo Testamento si trasferisce a Gesù Cristo, che in virtù di essa opera i
suoi miracoli; e da lui agli Apostoli, dopo la discesa dello Spirito durante la Pentecoste,
che li rende a loro volta capaci di operare dei miracoli. Infatti nella Prima Lettera di
Giovanni i cristiani sono chiamati ischyroi, forti, perché possono resistere al maligno e
al peccato per mezzo della parola di Dio che abita in loro.
XIV
Omaggio ad AxisMundi
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La definizione offerta dal Catechismo della Chiesa cattolica (1808) definisce la fortezza
come la virtù che sostiene il cristiano nelle prove e nelle difficoltà, poiché non è sempre
facile compiere il bene, e la fortezza entra in gioco nella capacità di resistere alle
tentazioni e di testimoniare la fede anche in tempo di persecuzioni e sotto la minaccia
di morte. In questi casi la fortezza riveste i panni della calma e del dominio di sé,
anche nell‘ora estrema, conferiti dalla fiducia, anzi dalla fede che si può anche perdere
la vita terrena per un dono più grande, la vita eterna. Tuttavia per il cristiano la virtù
umana può arrivare solo fino a un determinato punto, oltre il quale necessita
dell‘intervento della grazia divina. Ciò vale non solo per la fortezza ma per tutte le
virtù. Ciò che differenzia le virtù acquisite con lo sforzo umano da quelle acquisite con
la grazia santificante è l‘obiettivo finale. Nella prospettiva cristiana scopo della vita
virtuosa è l‘imitatio Christi, l‘imitazione di Cristo, perché Egli è la perfetta natura
divina che si è incarnata in una persona umana.
In questo l‘interpretazione di Tommaso che sostiene che il più grande atto di forza
risiede nel sustinere, nella capacità di saper reggere, è corretta se si considera che è
più difficile sopportare che avventurarsi, poiché è più difficile trattenere in sé i propri
impulsi che lanciarli nell‘impresa. La costrizione ad agire detta il suo tempo, ma si
vince se il tempo è dominato dalla pazienza, che è parte della fortezza. Questa produce
una sopportazione ferma e diuturna delle cose ardue e difficili, e all‘uomo che sa
sopportare arride il successo.
XV
Omaggio ad AxisMundi
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La morte è il solo saggio consiegliere che abbiamo. Ogni volta che senti, come a te
capita sempre, che tutto va male e che stai per essere annientato, voltati verso la tua
morte e chiedile se è vero. La tua morte ti dirà che hai torto; che nulla conta
veramente al di fuori del suo tocco. La tua morte ti dirà: ―Non ti ho ancora toccato‖
(1972, p.43).
Tale atteggiamento interiore non vale solo per l‘ultima morte, quella definitiva, ma per
tutte le altre morti del quotidiano, ovvero le esperienze di lutto, separazione, perdita, e
conseguentemente necessità di elaborazione della mancanza e dell‘abbandono che
costellano la vita umana. E lo stesso vale per le espressioni della nostra fragilità, la
malattia, la vecchiaia, il dolore, che minano il nostro senso di sè e la nostra potenza; e
per i fallimenti, le delusioni, il venir mento di persone cui ci siamo attaccati. Prendere
su di sé il proprio limite richiede forza; e la forza è una forza calma. Per questo la
mancanza di forza spiega il dilagare della violenza, che in quanto opposta alla forza è
violenza gratuita, ingiustificata, insensata. Si rovescia sugli altri la propria morte per
rimuoverla, proiettarla, allontanarla da sé. La forza, al contrario, conosce il proprio
limite e tollera con benevolenza e considerazione quello dell‘altro. Per Spinoza, la
generosità è una determinazione della forza, che nasce dal desiderio di aiutare gli
uomini e di unirli a sé in amicizia.
La fortezza assicura, nelle difficoltà, la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. La
fortezza è la capacità di resistere alle avversità, di non scoraggiarsi dinanzi ai
contrattempi, di perseverare nel cammino di perfezione, cioè di andare avanti ad ogni
costo, senza lasciarsi vincere dalla pigrizia, dalla viltà, dalla paura. Sono incerti i limiti
tra la fortezza e il coraggio, quest‘ultimo risiede più nel temperamento, la fortezza più
nella volontà: secondo Fanzaga ―il coraggio riveste i panni nobili della fortezza quando
è orientato al bene‖ (p. 99). Il direttore di Radio Maria evidenzia il nesso tra fortezza e
paura, nel senso che la fortezza implica il superamento della paura. La paura trae
origine dalla nostra condizione di limitatezza ed inanità di fronte al pericolo e
all‘ignoto, dalla percezione della nostra fragilità e impotenza, dal sentimento della
precarietà della condizione umana.
XVI
Omaggio ad AxisMundi
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compiere queste imprese, costringe la forza dei suoi istinti a collaborare, seppure
controvoglia, alla Grande Opera.
L‘idea è espressa in modo ancora più pregnante da Fulcanelli nel suo commento alle
statue che ornano, in guisa di guardie del corpo, il sepolcro del duca Francesco II di
Borgogna nella chiesa di Nantes, opera dello scultore Michel Colombe e dei suoi allievi
Guillaume Regnauld, suo nipote, e Jehan de Chartres. Esse raffigurano le quattro
virtù cardinali. La Fortezza è rappresentata da una giovane donna, che indossa una
corazza finemente cesellata e un elmo a testa di leone, e sostiene con la mano sinistra
una torre dalla quale estrae con la mano destra un rettile, che Fulcanelli precisa
essere non un serpente ma un drago. Perché lo scultore, evidentemente imbevuto di
cultura alchemica, ha sostituito il leone nemeo con il drago mercuriale? Perché il
drago è il simbolo della prima materia, del substrato di partenza dell‘opus, che l‘adepto
dovrà perfezionare e purificare, onde produrre l‘oro. La torre si può considerare il
contenente, il rifugio, l‘asilo protettore del drago mercuriale, l‘athanor dove esso viene
sottoposto alle procedure dell‘opus. L‘adepto deve estrarlo mediante operazioni di
soluzione e fissazione (solve et coagula), compiute attraverso un sovente sui generis, lo
Spirito Universale, che viene incorporato anzi corporificato nel Mercurio dei Filosofi,
l‘Androgino mercuriale che contiene in sé la completezza e la totalità. Ma per far ciò è
necessario vincere l‘ansia e l‘impazienza, avere la fermezza dello star lì, dell‘esserci, del
persistere ad onta dei contrattempi, degli insuccessi, delle difficoltà. Ecco perché la
fortezza si colloca all‘inizio del cammino dell‘opus, come virtù cardinale che è
necessaria per superare il primo ostacolo, le nostre debolezze e le nostre insicurezze.
La paura è dunque l‘emozione che sbarra la strada all‘adepto all‘inizio della sua opera.
E‘ la paura dell‘ignoto, dell‘insuccesso, della solitudine, della vecchiaia, della malattia
e della morte. La falsa soluzione è l‘attaccamento alla materia nella sua veste più
rappresentativa e rassicurante, il denaro. Ma per andare avanti bisogna non aver
paura. Non a caso i quattro imperativi dell‘iniziato, i quattro pilastri della costruzione
che egli dovrà edificare dentro di sé, le quattro qualità fondamentali che devono
ispirare la sua condotta, sono Sapere, Volere, Osare, Tacere, ovvero la Conoscenza, la
volontà, il Coraggio e il Silenzio.
La lussuria
Nel mondo classico, la sessualità non è considerata peccaminosa, anzi è vista come un
mezzo di contatto col divino, la passione non rientra nella sfera del peccato, a meno
che non diventi eccesso, squilibrio, tracotanza, ubris. I Baccanali vengono proibiti
nell‘antica Roma nel 186 a.C. perché le pratiche dell‘estasi, attraverso il contatto con
forme allargate di consapevolezza, possono diventare turbative dell‘ordine esistente.
Stesso discorso per l‘induismo, dove la sessualità anche estrema è utilizzata nella via
iniziatica del Tantra e codificata nel Kama Sutra. In queste culture più che dalla
sessualità in sé il vizio sembra dato dall‘eccesso, dall‘estremo, che comporta quallo che
Platone chiama ―follia del corpo‖. E in effetti la parola ―lussuria‖ rimanda da un lato al
lusso, e quindi all‘esagerazione, dall‘altro all‘esuberanza di linfa, al rigoglio,
all‘incontenibilità di una vegetazione, appunto, lussureggiante. Ma anche alla radice di
lust, che in tedesco significa ―desiderio sessuale‖ e per traslazione ―piacere‖, e in
inglese ―desiderio sessuale‖.
XVII
Omaggio ad AxisMundi
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cliente, il sesso vero e proprio si riduce a undici minuti, dunque per undici minuti di
piacere gli uomini impegnano e devolvono la loro vita con energie apparentemente
degne di miglior causa. Il corollario è che o tutta la civiltà è assurda, o c‘è
qualcos‘altro. Questo qualcos‘altro è appunto l‘inganno riproduttivo, il laccio con cui la
specie vincola l‘individuo e l‘utilizza per i suoi fini.
L‘Ebraismo è una cultura apparentemente sessuo-repressiva che poi sotto il velo della
mistica sa produrre la sensualità del Cantico dei Cantici. Il Deuteronomio e il Libro
dell‘Esodo formulano il sesto comandamento come ―Non commettere adulterio‖, che è
diverso dal nostro più generico ―Non fornicare‖. La parola ―fornicare‖ infatti, di uso
non comune in italiano, deriva, secondo Isidoro di Siviglia, da fornix, edificio a forma
di arco presso il quale stavano le meretrici. Fornicazione è dunque il congiungimento
carnale fuori dal matrimonio, e per metonimia tutti i peccati connessi alla sessualità.
La sessualità in quanto fornicazione diviene peccato in sé. Invece se il vizio lussurioso
viene ristretto all‘adulterio la sessualità viene svincolata dalla connotazione negativa in
se stessa, ma l‘assume solo in quanto è turbativa dell‘ordine e del sacro vincolo della
famiglia, che costituisce l‘ossatura della società. Ma si cade in un circolo vizioso: per
poter disciplinare le proprie brame e contenerle all‘interno degli steccati imposti dal
matrimonio, bisogna aver imparato a domarle prima, quando si è liberi e meno
determinati dalle responsabilità. Dunque bisogna aver acquisito il controllo sugli atti e
sui pensieri, sui desideri, sulle fantasie quando non si è ancora irregimentati dal
vincolo coniugale. In questo senso istruisce il Vangelo: ―Avete inteso che fu detto: non
commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guardi una donna per desiderarla, ha
già commesso adulterio con lei nel proprio cuore‖ (Mt., 5, 28).
Si può dunque cogliere un passaggio: sia essa dentro o fuori il sacro vincolo del
matrimonio, la lussuria è considerata nella società occidentale giudaico-cristiana non
un male in sé, ma un peccato in quanto menomazione della volontà, svilimento del
sentire, condizionamento dell‘agire. Il desiderio sessuale diviene peccato capitale
quando il soggetto si lascia travolgere dalle proprie passioni, perdendo completamente
il controllo di sé. La lussuria compromette e diminuisce il libero arbitrio in quanto è
grave turbemento della ragione e della volontà, accecamento della mente, incostanza e
incoerenza, egoistico amore di sé, incapacità di dominare i propri impulsi e le proprie
passioni. In questo senso la lussuria è un polo del conflitto tra mente e corpo, ragione
e istinto, segnato dalla prevalenza del lato oscuro, irriflessivo, incontrollato. La Chiesa
risolve il problema dell‘erranza e dell‘ingestibilità del desiderio nel dato preriflessivo del
peccato originale: vedremo che questo regime intepretativo e regolativo durerà fino
all‘affermazione della scienza moderna e della parte di essa volta allo studio
dell‘anima, la psicoanalisi.
Nei Tre saggi sulla teoria della libido (1905), Freud traccia una storia filogenetica delle
tappe dello sviluppo nell‘infanzia della pulsione sessuale attraverso il passaggio e
XVIII
Omaggio ad AxisMundi
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l‘investimento delle zone erogene. Zone erogene che come dirà più tardi Fairbairn
(1944) rappresentano altrettante modalità di relazione con l‘oggetto. Questi stili di
rapporto si ritrovano nella vita affettiva dell‘adulto in quanto improntano di sé le
relazioni con gli oggetti significativi, e quindi costituiscono i nuclei relazionali
disfunzionali che sono alla base della sofferenza psicologica. Ma le vicissitudini nel
rapporto con l‘oggetto e con le zone erogene riguardano non solo la pulsione sessuale,
ma anche la pulsione aggressiva, e perciò in parallelo con la storia dello sviluppo della
libido si dovrebbe scrivere una storia evolutiva della pulsione di morte (Freud abbozza
l‘idea nel Problema economico del masochismo (1924), senza tuttavia svilupparla
compiutamente). Dunque nelle pervesioni sessuali abbiamo da un lato un intreccio e
un conflitto tra le pulsioni di base, che si frammischiano variamente, e
successivamente una loro contrapposizione all‘istanza morale, al Super-io, che è il
prodotto della straticazione delle figure genitoriali introiettate. Nella perversione,
istinto di vita e istinto di morte si fronteggiano e si contrappongono, ma alla fine è
sempre l‘istinto di morte a prevalere, e a segnare i comportamenti con una distruttività
che travalica l‘amore.
L‘idea di perversione implica quella di una via traversa, aberrante, rispetto alla retta
via, dunque l‘idea di un ordine naturale rispetto al quale il perverso è sradicato e
deviato. Secondo la teoria psicoanalitica, un atto perverso è un atto in cui pulsioni
distruttive e pulsioni amorose sono intimamente mischiate, ma in cui alla fine quelle
aggressive prevalgono e sopraffanno le libidiche. La perversione dunque mima il
naturale da cui ha estirpato se stessa per meglio parodiarlo (Roudinesco, 2007). Il
discorso perverso poggia su un dualismo manicheo che sembra escludere la parte
oscura alla quale comunque deve la sua esistenza. Il perverso si muove amabilmente
in un universo di assoluti, vizio o virtù, bene o male, dannazione o salvezza, sanità o
follia, affascinato dall‘idea di affrancarsi dal tempo e dalla morte. La perversione è un
fenomeno presente in tutte le società umane, poiché in ogni cultura esistono delle
ripartizioni – proibizione dell‘incesto, delimitazione della follia, designazione del
mostruoso e dell‘anormale – che le danno un posto in quanto contrapposta alla regola,
e la rendono perciò desiderabile. Essa preserva la norma assicurando alla società
umana la permanenza dei suoi piaceri e delle sue trasgressioni. E proprio per il suo
potere seduttivo viene designata non solo come una trasgressione e un‘anomalia, ma
anche come un discorso notturno dove nell‘odio per sé e nella fascinazione della morte
si annuncia la grande maledizione del godimento illimitato.
Per questo la lussuria, forma eccessiva del desiderio sessuale, diviene una delle
manifestazioni più comuni del disagio della nostra società, dove siamo alla continua
ricerca di nuove esperienze e nuove emozioni che ci facciano sentire ―vivi‖. La dualità
agonistica dei sessi cede il passo alla loro indifferenziazione, e i labirinti dell‘Eros
sfociano infine nella forma ambigua e distorta del transessuale, l‘antico ermafrodito, la
cui figura confusa e confusiva mette fine ai due stereotipi della femminilità ideale e
della mascolinità ideale, più utili alla costruzione di un ordine che allo scambio di
codici degli amanti.
XIX
Omaggio ad AxisMundi
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Finché la donna è stata inchiodata alla natura e l‘uomo libero di mettersi in scena
nella storia, la differenza sessuale è stata marcata dall‘appartenza a due diversi
scenari. Oggi che l‘emancipazione femminile ha confuso gli scenari, viene fuori che i
sessi sono meno diversi di quanto sembri, anzi essi tendono a confondersi se non a
scambiarsi, perché nessuno di noi è per natura legato a un sesso. L‘ambivalenza
sessuale, l‘attività e la passività, la bisessualità e la transessualità sono presenti
insieme nel corpo di ogni soggetto, e non come differenza legata a un determinato
organo sessuale. Esiste un maschile nella donna e un femminile nell‘uomo, sia a
livello biologico (gli stessi ormoni e neurotrasmettitori responsabili del desiderio
sessuale e del comportamento esistono come abbiamo visto nei due capitoli precedenti
in entrambi i sessi, seppure a dosaggi differenti) che a livello psicologico.
Il mito dell‘androgino che Platone espone nel suo Simposio dunque trova la sua ragion
d‘essere innanzitutto nella biologia e conseguentemente nella psicologia e nel
comportamento. Oggi i ruoli sono sempre più sovrapposti, ci sono maschi femministi
che fanno i casalinghi e donne falliche bramose di esercitare quel potere che un tempo
era appannaggio degli uomini; e questa confusione dei ruoli può essere alla radice del
grado estremo di ricerca dell‘eccesso e dell‘ignoto che spinge degli apparentemente
irreprensibili padri o dei viziati rampolli di buona famiglia ad avventuarsi col simbolo
dell‘ambiguità e dell‘indifferenziazione, il moderno androgino, il transessuale.
D‘altra parte il desiderio sessuale è anche spinta creativa, pulsione vitale, propellente
per la ricerca e l‘esplorazione di nuovi orizzonti, ricchezze, possibilità. In questo senso
la lussuria è l‘espressione di una gioia sana, l‘espansione di una carne possente. La
morale cristiana ne ha fatto una debolezza, l‘ha resa un peccato e l‘ha coperta di
ipocrisia. Ma la doppia morale borghese della società occidentale ha provveduto ben
presto a indirizzare la spinta della pulsiione sessuale su due binari distinti e
incomunicabili. Da un lato quello dell‘amore romantico, della tenerezze ampollose,
della purezza ostentata, del servaggio dell‘uomo alla donna, delle margherite sfogliate,
dei duetti sotto la luna, dei falsi pudori ipocriti. In questo ambito gli esseri, avvicinati
da un‘attrazione fisica, invece di esprimere i loro desideri, le preferenze dei corpi, la
gioia o la delusione dell‘unione sessuale, si dilettano a parlare della fragilità dei loro
cuori, delle ipnotizzanti complicazioni del sentimentalismo, delle gelosie surrettizie, e
di artificiosi castelli in aria. Nell‘altro ambito, quello dell‘amore sensuale, il desiderio
prorompe e dilaga, e pur di possedere e controllare mercifica il corpo femminile e lo
degrada. La donna-madonna e la donna-puttana. Così il desiderio da adito alla ricerca
dell‘oggetto perseguendo anche vie traverse, e sono quelle del denaro, del potere, dello
status sociale. Lo stesso impulso che spingeva i guerrieri di una volta alla vittoria, per
far razzia di beni e di donne, oggi muove gli uomini d‘affari e di potere che dirigono le
banche, le industrie, la stampa, i traffici internazionali, la politica a moltiplicare l‘oro e
le cariche utilizzando le loro energie e la loro inventiva per conquistare e possedere gli
oggetti del loro piacere. La lussuria è il motore delle loro azioni, la loro spinta
galvanizzante.
La liberazione della donna ha fatto di questa non solo oggetto ma a sua volta soggetto
della spinta vitale al possesso. La donna, uscita dal recinto stretto che la consacrava
esclusivamente alla procreazione, è divenuta protagonista della guerra di conquista.
Ciò ha innescato una trasformazione epocale. Che, in un circolo autoconcluso, dalla
sessualità nasce e nella sessualità si risolve. Prendendo, ancora una volta, le forme
contorte dei labirinti dell‘Eros, ovvero le perversioni. Perversioni sono quei
comportamenti sessuali che si esprimono in forme atipiche rispetto alla norma ( e qui
dunque bisognerebbe precisare il tipo di norma che si assume come criterio di
riferiemento, e che nel nostro caso è il completo sviluppo della libido
XX
Omaggio ad AxisMundi
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La storia della lussuria, e dei comandamenti ad essa strettamente correlati VI° e IX°, è
una storia molto complessa, perché è la storia del conflitto tra anima e corpo nel
Cristianesimo, e implica la risposta alla domanda quale anima e quale corpo, poiché
esiste un corpo nell‘anima (la rappresentazione di esso) e un‘anima nel corpo (le
propriocezioni somatiche dalle quali nasce l‘esperienza dell‘Io e della coscienza). Dov‘è
dunque che si colloca il vizio della lussuria, e la mancata ottemperanza agli obblighi di
―non fornicare‖ e ―non desiderare la donna d‘altri?‖.
Già è significativo che alla prescrizione del VI comandamento, che è una generica
condanna degli ―atti impuri‖, se ne sia aggiunta una più specifica col IX, mirata
all‘adulterio. Dunque, l‘istinto sessuale è condannabile di per sé o solo quando esso è
soddisfatto in situazioni inaccettabili per la legge morale? Nel primo caso, la sessualità
è di per sé peccato, comunque, a prescindere dalla situazione contingente, e la Chiesa
imbocca questa strada fin dall‘interpretazione che S. Agostino dà del peccato originale.
L‘incontenibile vergogna che assale Adamo ed Eva dopo aver mangiato appunto il
frutto del peccato nasce dalla consapevolezza degli organi sessuali e in particolare
della loro improvvisa e sfrontata disobbedienza. La sessualità si configura come
istinto, anzi l‘istinto per eccellenza, che si sottrae al controllo della ragione e per di più
col suo inarrestabile affermarsi la nega. Il desiderio poi è stato fin dall‘inizio corrotto
irrimediabilmente dall‘atto sciagurato di rivolta contro il volere divino grazie al quale
ha potuto manifestarsi. Esso si erge dunque nel conflitto del corpo con l‘anima, anzi
ne è il primo e più classico prototipo, tanto che fin dall‘inizio promuovere le ragioni del
desiderio sessuale significa affermare le ragioni del corpo contro quelle dell‘anima. Si
consolida così nella Chiesa cristiana una tradizione che identifica la concupiscenza
con la concupiscenza degli organi sessuali e quest‘ultima con il peccato originale.
Sessualità e peccato originale finiscono col confondersi e col coincidere, e la sessualità
resta pensabile solo in relazione al peccato. A seguito di esso, la natura diviene
inevitabilmente corrotta, priva di quella perfezione di cui Dio l‘ha dotata al momento
della creazione, e il segno di quella corruzione diviene il disordine che regna
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Omaggio ad AxisMundi
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Il dato più appariscente del vizio della fornicazione, o della lussuria, è il legame col
corpo. Secondo Cassiano la fornicazione è insieme alla gola un vizio carnale, un vizio
cioè che implica necessariamente la partecipazione del corpo, il quale però non si
limita a fornire alla lussuria il supporto fisico per le sue manifestazioni, ma ne subisce
anche le conseguenze, in quella pittoresca serie di infermità fisiche che sono le
conseguenze del peccato, solitario o in coppia, cogli eccessi che gli sono
inesorabilmente correlati – e ai quali rinvia il termine lussuria – dalla cecità, alla
lebbra, al rammollimento cerebrale. Dove non c‘è corpo non c‘è lussuria, e i demoni,
che sono esseri incorporei, devono ricorrere per tentare gli umani ad ingegnosi
mascheramenti, che poi si riconducono ad un unico comune denominatore, assumere
un corpo femminile, veicolo indiscusso della tentazione e del peccato. Per secoli infatti
la lussuria viene descritta come un vizio maschile, che le donne provocano,
incrementano e favoriscono, anche se poi più raramente degli uomini sembrano capaci
di compierlo in prima persona. Sì che, messe in secondo piano come soggetti del vizio,
occupano la scena principalmente come oggetti e occasioni di lussuria degli uomini.
C‘è già lussuria nei primi e subitanei moti del desiderio oppure è lussuria solo la
successiva elaborazione che di quei desideri viene fatta nell‘anima? Per Pietro
Abelardo, che di queste cose aveva fatto personale esperienza – come il bellissimo
epistolario tra lui ed Eloisa come sventurati amanti dà sublime testimonianza – il
peccato non sta nel desiderio sessuale, né nella volontà di perseguirlo, ma solo nel
consenso che l‘anima dà a quel desiderio e a quella volontà. Egli introduce l‘idea di
una naturalità del desiderio sessuale, e non solo, ma anche dell‘atto e del piacere
sessuali. La sua è una concezione gradualistica del peccato di lussuria, secondo la
quale i primi moti di desiderio sono ritenuti meno gravi della successiva elaborazione
razionale che ne viene fatta, ed il desiderio va distinto dal consenso al desiderio.
La distinzione tra atti e intenzioni è ripresa in senso inverso, condannando anche il
desiderio, da Tommaso da Chobam, che fa notare che se al sesto comandamento se
n‘era aggiunto il nono questo significava che il vizio della lussuria non consisteva solo
negli atti ma anche nella volontà, che dunque può peccare da sola, senza che ad essa
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Omaggio ad AxisMundi
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segua l‘azione. Giovanni da Gerson produce una serie di distinzioni e una casistica
che articola in peccati dal veniale al mortale i diversi tipi di pensiero che infine si
traducono nell‘atto impuro.
Nel clero secolare la lussuria è un peccato meno grave, ma più insidioso e pervasivo:
mentre per i monaci essa comprende tutte le manifestazioni della sessualità, per i
chierici essa è più grave negli atti che implicano il congiungimento tra i due sessi. Alla
peccaminosità dell‘unione con la donna Pier Damiani aggiunge quella dell‘unione
contra naturam, che si compie da soli, con altri uomini o con animali. Mentre la
lussuria dei monaci si attua soprattutto all‘interno della mente, quella dei chierici è
per lo più esterna, comporta la profanazione dei luoghi e dei tempi connessi
all‘esercizio dell‘attività sacerdotale. Il sacerdote viene meno in tal modo alla sua
funzione di guida spirituale, e la sua autorità sui fedeli è gravemente compromessa: la
lussuria non è più un ostacolo al perfezionamento spirituale, ma un impedimento al
governo degli altri, della comunità di cui il sacerdote è il pastore, e la cui tutela
culminerà nella prescrizione del celibato sacerdotale.
D‘altra parte per i semplici appartenenti alla comunità l‘antidoto alla lussuria è dato
dal sacramento del matrimonio. Il quale legalizza e istituzionalizza il desiderio
sessuale, essendo una medicina che non guarisce la malattia, ma la rende
sopportabile, abbassando una febbre altrimenti devastante, secondo il precetto di S.
Paolo: ―Tuttavia, a causa della fornicazione, ogni uomo abbia una moglie e ogni donna
un marito‖ (I Cor., 7, 1-2); e poi ―Se non riescono a contenersi si sposino, meglio
sposarsi che ardere‖ (I Cor., 7, 9). Il che non toglie però che la condizione più perfetta
sia la castità: ―E‘ bene per l‘uomo non toccar donna‖ (I Cor., 7, 1). L‘unione coniugale
dunque è un bene, certo inferiore alla castità, sia per la procreazione dei figli e la
continuazione della specie che per la costituzione di una società naturale che l‘unione
di due sessi comporta. Per S. Agostino il peccato non sta nel coito, che è voluto da Dio
e necessario per la conservazione della specie, ma nell‘uso che gli uomini decaduti
dalla condizione di perfezione originaria ne fanno. In questo caso anche i coniugi
possono compiere un peccato di fornicazione quando si uniscono in un rapporto
carnale non temperato, non finalizzato alla procreazione ed inquinato da passione,
libidine, trasgressione dei divieti imposti dal calendario individuale (mestruo,
gravidanza) e collettivo (quaresima, domenica e altre festività). Ancora una volta in
ottemperanza all‘etimologia della parola è un problema di eccesso che conduce al
peccato di lussuria, una trasgressione della norma e della misura. La lussuria viene
ad occupare lo spazio del superfluo, che eccede dai due obiettivi della generazione ed
educazione dei figli. Essa non mira al contenimento della concupiscenza ma al
raggiungimento del piacere, e travalica il posto che Dio ha conferito alla sessualità e
l‘ordine delle cose.
Pier Lombardo e Graziano decidono del carattere dl vizio dentro e fuori del
matrimonio, nelle cinque forme della fornicazione semplice, dell‘adulterio, dell‘incesto,
dello stupro e del peccato contro natura. Quest‘ultimo comprende gli atti sessuali non
volti alla procreazione (masturbazione e sodomia), quelli consumati con gli animali e
quelli attuati con parti del corpo che non siano i genitali. Si apre l‘immenso capitolo
delle perversioni sessuali, che sarà portato a compimento alla fine dell‘Ottocento da
von Kraft Ebing e interpretato da Freud. La colpa di questi comportamenti sta nello
spezzare il legame tra sesso e generazione e tra sesso e società: la fornicazione, spiega
S. Tommaso, è un peccato contro il nascituro, condannato, nella promiscuità
XXIII
Omaggio ad AxisMundi
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sessuale, a non avere un padre e una madre certi, e dunque a non essere
adeguatamente difeso, educato e provvisto dei beni necessari.
La temperanza
Opposta alla lussuria è la temperanza. Se il vizio rappresenta l‘eccesso di un bisogno
che di per sé non è superfluo né condannabile perché è essenziale per la sopravvivenza
non dell‘individuo ma della specie, la virtù starà nel giusto bilanciamento del desiderio
stesso, nella sua armonizzazione con gli altri bisogni di base, nella conciliazione tra
interessi dell‘individuo e interessi della specie. E infatti essa è la mescolanza, il
reciproco aggiustamento dei principi opposti. L‘antidoto alla lussuria non è l‘astinenza,
ma l‘unione di maschile e femminile, sia vissuta nel mondo reale dei rapporti tra
persone, che con un oggetto interiore, un opposto creato dalla mente.
XXIV
Omaggio ad AxisMundi
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Come per il desiderio si giocava l‘equivoco se il peccato e il vizio fossero attinenti solo
al suo aspetto sessuale o al desiderio in genere, così per la virtù ci si chiede se la
temperanza sia la moderazione di tutti i desideri o solo di quello sessuale. L‘attrattiva
dei piaceri non si limita necessariamente ai piaceri della carne (e anche in questo
caso, di quali? La gola ad esempio è un altro piacere della carne) ma comprende anche
la bramosia del denaro, degli onori, del potere, del prestigio sociale. Però la Chiesa, da
S. Agostino in poi, con la teoria del peccato originale ha teso a identificare la
perversione del desiderio come la conseguenza del peccato originale, che trasforma
una tendenza naturale in un eccesso egoistico: così dunque essa privilegia l‘accezione
sessuale del desiderio.
Secondo Giovanni Reale, raffinato interprete del pensiero greco, la temperanza, vista
come controllo razionale, non va confusa con la moderazione, termine fin troppo
generico, ma neppure con l‘ambiguità sottesa alla prudenza o con il meschino calcolo
razionale di ciò che conviene o non conviene all‘uomo desiderante, bensì va intesa
come cura dell‘anima, formazione interiore, insomma come ragionevolezza, ―fecondata
dall‘entusiasmo e dall‘amore‖. In Socrate la temperanza si delinea come autodominio,
libertà dagli istinti animali, dalla voracità dei desideri e degli impulsi. Così in Platone:
―La temperanza è una specie di ordine ed una continenza di certi piaceri e desideri,
come dicono quando dicono … che uno è più forte di se stesso …. Questa frase mi
pare voglia dire che nell‘uomo, appunto, e nell‘anima sua, c‘è qualche cosa che è,
rispettivamente, parte migliore e parte peggiore, e questo sia il significato di ―più forte
di se stesso‖, e suoni a lode; e quando per cattiva educazione o cattiva compagnia, il
meglio, essendo troppo poco, sia soverchiato dalla quantità del peggio, la cosa torna
allora a biasimo ed a rimprovero, e si chiama da meno di sé e intemperante chi è in
questo modo‖.
Nell‘Etica Nicomachea di Aristotele la temperanza viene posta come giusto mezzo tra
intemperanza e insensibilità, e messa accanto a coraggio, liberalità, magnanimità,
mansuetudine e giustizia. Essa va insegnata fin dall‘infanzia, educando i bambini a
moderare i loro desideri, poiché essi vivono in perenne stato di desiderio, essendo in
loro molto sviluppata la ricerca del piacere (Freud avrebbe parlato in tal senso di
principio del piacere come regolatore dell‘apparato psichico).
XXV
Omaggio ad AxisMundi
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Nel Nuovo Testamento nella seconda lettera di Pietro si dice: ―Per questo mettete ogni
impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla
conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla
pietà l‘amore fraterno, all‘amore fraterno la carità.Se queste cose si trovano in
abbondanza in voi, non vi lasceranno oziosi né senza frutto per la conoscenza del
Signore nostro Gesù Cristo‖.
La temperanza è una delle quattro virtù morali classiche che furono mutuate dall‘etica
storica alla cultura dell‘Europa cristiana. Essa fu indicata per la prima volta come
virtù cardinale da S.Tommaso d‘Aquino assieme a prudenza, giustizia e fortezza, in
quanto queste virtù fanno da cardine per la vita di un uomo che cerca di avvicinarsi a
Dio. Per il teologo aquinate gola e lussuria sono due aspetti della concupiscenza, che
egli definisce ―l‘appetito del piacere‖ (―concupiscentia est appetitus delectabilis‖,
Somma teologica, 1-2:30,1), e la temperanza è il dominio della volontà sugli istinti e
sugli appetiti sensibili. La codificazione delle quattro virtù cardinali viene riproposta
definitivamente nel Concilio di Trento.
XXVI
Omaggio ad AxisMundi
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Nel Catechismo della Chiesa cattolica, nella parte terza La vita in Cristo, sezione prima
La vocazione dell‘uomo: La vita nello spirito, si dice:
―La temperanza è la virtù morale che modera l‘attrattiva dei piaceri e rende capaci di
equilibrio nell‘uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e
mantiene i desideri entro i limiti dell‘onestà‖.
Anche in altre religioni la temperanza è fortemente valutata, e si chiede ai fedeli di
praticarla con opere di mortificazione della carne come il digiuno o la castità. Per il
Buddhismo è uno dei cinque precetti dettati dallo stesso Gautama Buddha, però dato
il carattere antirepressivo di questa religione essa perde la funzione di mortificazione e
acquista quella di addestramento alla disciplina, col fine di favorire l‘apertura mentale
scartando tutto il non necessario. Questo è il modo in cui la considera anche lo Yoga.
Esso la pone tra le cinque astinenze o yama, che sono il primo grado dello Yoga, quello
in cui l‘adepto deve comininciare col porre il corpo e lo spirito nelle migliori condizioni
di salute e di rendimento possibili (gli altri sette gradi sono:osservanze, posizioni,
controllo del respiro, eliminazione delle percezioni esterne, concentrazione,
contemplazione e meditazione).
XXVII
Omaggio ad AxisMundi
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opposti, della loro combinazione, e della nascita dalla loro unione di un terzo principio,
volatile, che si libra nell‘atmosfera del vas.
La Temperanza viene dopo l‘Arcano della Morte, che in realtà non significa fine della
vita, ma della condizione presente, colle sue limitazioni, i suoi lacci e i suoi
impedimenti, e dunque opportunità di superamento di essa, di trasformazione e
rinnovamento; essa ci dice che la continuazione del cammino iniziatico implica la
possibilità di rinascita, ma questa per attuarsi esige la separazione, l‘estrazione, la
circolazione e l‘unione degli opposti. Dopo l‘Opera al Nero, e la putrefactio, il tempo è
maturo per la combinazione delle sostanze purificate e rigenerate. L‘attivazione e
l‘armonizzazione dei fluidi vitali e dei principi energetici esige dei contenitori nei quali
il processo si possa attuare, ma che siano tali da consentirgli una dinamica, perché
l‘estrazione, la purificazione e la ricombinazione delle essenze distillate richiedono una
loro circolazione da un vaso all‘altro.
Nell‘interpretazione della seconda delle figure allegoriche poste a guardia del sepolcro
di Francesco II Duca di Bretagna nella Cattedrale di Saint Pierre a Nantes, ad opera di
Michel Colombe e dei suoi allievi Guillaume Regnauld e Jehan de Chartres, Fulcanelli
(1965) evidenzia come l‘austera dama che raffigura la Temperanza abbia in mano un
orologio, il cui quadrante possiede, come in uso all‘epoca, una sola lancetta. Oppure
l‘oggetto che reca potrebbe essere una lanterna. Sia che dispensi la luce, sia che regoli
il tempo, questa figura detta le regole del processo di trasmutazione. Esso può
compiersi solo al cospetto dell‘illuminazione interiore dell‘iniziato; ma, in ogni caso, la
condizione che dispensa il successo dell‘Opera è il possesso, l‘accomodamento e
l‘identificazione con la dimensione del tempo. Solo accordandosi al tempo della natura,
al rincorrersi incessante delle stagioni e alla maturazione del momento propizio
l‘adepto può cogliere la propria opportunità. E, parimenti, perché l‘unione degli
opposti e la produzione della Pietra si realizzino è necessario l‘ausilio del tempo.
Nell‘altra mano la statua della Temperanza del sepolcro del Duca di Bretagna tiene in
mano una briglia. Segno questo che la cavalcatura, l‘istinto animale che fornisce il
substrato per il processo trasformativo, deve essere opportunamente domato,
raddrizzato, indirizzato, guidato. E‘ un opus contra naturam quella che egli è chiamato
a compiere, perché le forze istintive elementari che la natura ha destinato alla
riproduzione devono essere distolte dal loro fine naturale per essere ridestinate ad
altro scopo e sublimate mediante la procedura iniziatica.
Nel Tantra si dice che l‘essere umano ha una struttura polare, nei due sensi,
orizzontale e verticale. Nel primo piano gli opposti corrispondono a maschile e
femminile, destra e sinistra, luce e ombra, ragione e sentimento. Su un piano
neurofisiologico basta vedere l‘opposizione tra i due emisferi cerebrali, separati e uniti
dal corpo calloso. Ma sul piano orizzontale c‘è un‘altra opposizione: è quella tra i due
chakra inferiori, Muladhara e Svadhishthana, e il chakra superiore, Saharasrara. Nel
primo, in particolare, dorme arrotolata la kundalini, ovvero Shakti, la sposa del dio, il
principio vitale ed energetico. Ma una volta che essa sia risvegliata con le pratiche
dello yogin percorrerà il canale ascendente di Sushumna, vitalizzerà ed aprirà i chakra
al suo passaggio, e infine si porterà nella sede della coscienza, il settimo chakra ove si
unirà a Shiva, il principio coscienziale. Qui la diffusione dell‘energia vitale e l‘unione
dei due principi, l‘istintuale e il coscienziale, amplierà l‘esperienza dell‘adepto, e il Sé
individuale, l‘Atman, potrà trascendersi, dissolversi e ricongiungersi col Sé universale,
il Brahaman.
XXVIII
Omaggio ad AxisMundi
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Tantra rosso o via della mano sinistra, contrapposto al Tantra bianco o via della mano
destra. In esso l‘adepto deve compiere azioni dissacranti e paradossali, che sono la
negazione di un ordine esterno e di un‘appartenza, ma anche di un ordine interno e di
una identità. È il principio del solve applicato a se stesso: l‘adepto si dedica a
trasgressioni consapevoli, come bere vino, mangiare carne, pesce e un cereale
afrodisiaco, e praticare l‘unione sessuale indiscriminatamente. In altri rituali devono
compieri gesti ancora più fortemente profanativi, che infrangono il tabù della morte.
Per questo l‘apertura dei chakra procede di pari passo allo scorrere dell‘energia vitale.
Ed è essa stessa ad ogni stazione una complexio oppositorum, perché ogni chakra ha
una parte maschile e una femminile, perché il cammino si snoda da un principio
energetico vivificante inferiore ad uno coscienziale unificante superiore, perché sul
piano orizzontale gli opposti si fronteggiano e poi si combinano. La loro unione serve a
raggiungere sofferte sintesi ogni volta provvisorie, da cui si produce lo scorrere
dell‘energia universale e le vicissitudini della vita dei singoli esseri.
Il Genio della Temperanza è androgino, e come tale si collega alla vita collettiva non
individualizzata, all‘energia primordiale indifferenziata, che deve essere estratta da un
individuo singolo che ne è la manifestazione contingente e determinata, minerale o
vegetale o animale o umano che sia, come intero o come parte dell‘organismo. Perché il
Genio della Temperanza, nella sua funzione di bilanciamento universale, contribuisce
a mantenere la vita. Esso è alato, perché come Anima Mundi si libra sulla creazione
inanimata e le infonde la vita. Ma la sostanza fluida che esso maneggia è il principio
delle operazioni trasmutative, il grande agente magico, il solvente universale che rende
possibile i passaggi dell‘opus, l‘agente taumaturgico e la vis sanatrix naturae.
Nel quattordicesimo Arcano, l‘angelico coppiere del liquido vitale rianima un fiore che
si era appassito. E‘ la rugiada del mattino, il ros, il liquido impregnato delle influenze
cosmiche, che raccolto al momento e secondo le procedure predisposte dai saggi
condensa le forze vitali dell‘universo. Come nelle figure del Mutus Liber, l‘adepto deve
procurare il liquido che si deposita sulla vegetazione quando le congiunzioni del tempo
ciclico sono opportune, e così possederà l‘alkaest, l‘Umido radicale. Da qui il valore
sacro delle acque, e il carattere purificatorio delle acque lustrali, il rito del battesimo,
le purificazioni iniziatiche. Il catecumeno che si immerge nel fonte battesimale o
l‘iniziato che rinasce a nuova vita dopo il bagno delle acque lustrali ripetono in forma
ritualizzata una procedura che nell‘Alchimia è qualcosa di più di un simbolo, perché
intende somministrare all‘iniziato e alla Pietra quelle energie vitali che sono alla base
delle molteplici forme del manifestato.
XXIX
Omaggio ad AxisMundi
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un‘essenza pura, ma proprio per tale motivo una sostanza capace di guarire. Il fine
dell‘opera alchemica ripete quello della creazione, volendo assicurare all‘adepto la
salute, la longevità, l‘immortalità, renderlo signore del tempo e della vita. Il fluido che
l‘Angelo della Temperanza fa circolare nelle sue brocche è l‘elixir, la medicina
catholica, la panacea, capace di assicurare ai corpi imperfetti salute e immortalità, allo
stesso modo in cui la Pietra dei Filosofi monda i metalli da ogni lebbra e da ogni
imperfezione, e li rende prossimi alla forma più perfetta che esista in natura, quella
dell‘oro.
L’ira
XXX
Omaggio ad AxisMundi
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Nel mondo classico, l‘ira non è di per sé un disvalore: con l‘ira di Achille si inaugura
l‘Iliade, e in Omero l‘uomo collerico ha in sé i tratti dell‘eroismo e della nobiltà. Essa
XXXI
Omaggio ad AxisMundi
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Quindi in qualche modo lo spirito greco considera fondamentale per la gestione delle
passioni, tutte le passioni e non solo l‘ira, l‘equilibrio, il bilanciamento delle parti, la
giusta misura. Infatti in positivo l‘ira corrisponde a una forma di autoafferrmazione, o
almeno di reazione a un tentativo di prevaricazione; è al di fuori del tutto che la parte
diviene sbagliata e fuorviante. Seneca nel De ira riprende la tradizione stoica per cui
l‘ira è un‘inammissibile degradazione dell‘uomo, ―una forma di follia breve‖, nel corso
della quale l‘uomo è incapace di dominarsi, dimentica ogni decoro, trascura i legami
sociali, si agita, è sordo ai richiami della ragione, perde di vista la realtà, ignora i
pericoli, e si spinge ai gesti più efferati, come l‘assassinio dei congiunti e l‘oppressione
dei sudditi e dei sottoposti.
Ancora più evidente è il carattere positivo dell‘ira nel Vecchio Testamento dove essa è
prerogativa divina. Jahavè è un dio irascibile, geloso, vendicativo. La Cabala, nel
tentativo di temperare gli eccessi del monoteismo ufficiale, predica che ―non c‘è
Giustizia senza Misericordia e non c‘è Misericordia senza Giustizia‖. Giustizia e
Misericordia sono due Sephiroth appaiate e contrapposte, due aspetti complementari
del divino, il lato compassionevole e quello giusto, che però si completano a vicenda e
non possono esistere l‘uno senza l‘altro. Questo patrocinio dell‘ira è espresso nel
Salmo 4,5, ―Adiratevi, ma senza peccare‖.
XXXII
Omaggio ad AxisMundi
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midollo, e come tale non sa capacitarsi dell‘esito disastroso, dal punto di vista umano,
sociale e politico, della predicazione del messia, a meno che la catastrofe finale non sia
intenzionale e necessaria, un atto dovuto per placare le ire di un dio punitivo e
rivendicativo, appunto il dio del Vecchio Testamento, della cui legge Gesù Cristo
decreta la fine, ma a prezzo del suo sacrificio. Come decreta la sconfitta della morte
con la sua resurrezione, che passa però attraverso la propria morte come evento
trasfigurato, trionfale e trasformativo della condizione umana.
Come dice Hegel negli Scritti teologici giovanili (1794-1800), il sacrificio della morte di
Cristo dà luogo all‘opinione erronea che Dio sia un tiranno adirato che per essere
placato ha bisogno dell‘espiazione dei peccati dell‘umanità da parte del suo unico
figlio, il che è un assurdo, se non fosse che per il fatto che il sacrificio di Cristo ricalca
quello di Isacco da parte di Abramo, tramite il quale il popolo ebraico assurse alla
condizione di popolo eletto. Dunque, per far diventare popolo eletto tutta l‘umanità, è
necessario un sacrificio ancora più grande di quello dell‘unico figlio del patriarca, il
sacrificio di Cristo, figlio di Dio.
XXXIII
Omaggio ad AxisMundi
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animali, per l‘uomo l‘ira è contro natura, la sua presenza in quest‘ultimo è sintomo di
una deviazione dall‘ordine del creato, e la sua progressione scandisce le tappe di un
processo di degradazione a livello subumano che coinvolge corpo e anima e implica la
rinuncia alle prerogative specificamente umane della razionalità e della virtù. Tuttavia
nella Scolastica compare la distinzione tra un‘ira buona e un‘ira cattiva, già presente
in Gregorio. L‘ira è in primo luogo una passione, e l‘analisi dell‘ira come vizio richiede
la comprensione dell‘ira come passione. La natura neutra delle passioni consente di
individuare un elemento comune all‘ira-zelo e all‘ira-vizio, che è appunto un moto
passionale sottratto ad ogni valutazione morale. L‘ira è una reazione, che va dalla
ritorsione temporanea al desiderio di vendetta, e la vendetta è una parte della
giustizia. L‘ira dunque richiede una restaurazione della giustizia violata, e una
punizione del reo. La mancanza di misura dell‘ira è vista come segno di obnubilamento
della ragione: il ristabilimento della giustizia non passa attraverso la negazione del
corpo, ma attraverso il suo riequilibrio, e il ristabilimento della gerarchia naturale
dell‘anima ripresa da Platone tra parte razionale, concupiscibile ed irascibile o
passionale (la più inferiore).
La giustizia
Nella sua trattazione dell‘ascesa di kundalini lungo i chakra, la Silbrun (1983) parla di
un centro del ―bulbo‖:
A partire dal bulbo l‘energia vitale sale dritta e rigida. Qualche minuto dopo che il
sostegno radicale ha cominciato a vibrare, l‘energia raggiunge la ruota dell‘ombelico;
questo vibra a sua volta, e i due chakra vorticano insieme. Poi, non appena perforata,
la ruota del cuore prende a muoversi insieme alle altre e la ruota della gola a girare
alla stessa velocità delle precedenti, il tutto accompagnato da un grande calore. Il
movimento della kundalini termina nel centro tra le sopracciglia (1983, p. 106).
Nei cabalisti il male compare come una crescita eccessiva del potere della Sephira
Geburah, il Giudizio. Questa crescita disarmonica, non controbilanciata dal potere
opposto di Hesed (Clemenza) porta all‘emanazione della mano sinistra, il sitra ahra
(l‘altra parte). Il potere dell‘impurità attivo nella creazione si mantiene in quanto riceve
nuova forza da Geburah, corroborata anche dalle azioni peccaminose dell‘uomo. Esso
costituisce i primi mondi, tre emanazioni tenebrose, che furono distrutti proprio in
seguito a questo squilibrio tra il potere della Giustizia e quello della Clemenza, che li
rendeva incapaci di sostenersi; tuttavia i resti di questi mondi abortiti non
scomparvero completamente, e continuano ad aleggiare sinistramente tra noi. L‘elenco
biblico dei re di Edom è interpretato in base a questa dottrina, poiché Edom viene
attribuito a Geburah. Essi costituiscono i gusci, le cortecce (kelippoth) dell‘Albero della
XXXIV
Omaggio ad AxisMundi
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Vita. Secondo un‘altra concezione, il male deriva dal ―taglio dei germogli‖, con cui
Adamo separò l‘Albero della Vita con quello della Conoscenza, introducendo la
divisione nell‘unità divina. Anche in questa concezione, si tende a sottolineare il potere
del Giudizio contenuto nell‘Albero della Conoscenza come forza restrittiva e coercitiva,
contrapposta all‘amore e alla pietà, e la sua tendenza a diventare autonomo anche in
conseguenza delle azioni dell‘uomo.
XXXV
Omaggio ad AxisMundi
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La giustizia poggia sul principio della pari dignità tra gli uomini, che è la ragione della
loro uguaglianza pur nella diversità di razza, sesso, cultura ed estrazione sociale.
Disattendendo questo principio, l‘uguaglianza vige solo all‘interno di gruppi di
privilegiati, e quelli che rimangono fuori sono pura carne da macello. La giustizia
infatti ha un aspetto individuale, dato dal fatto che per raggiungere un soddisfacente
equilibrio bio-psico-sociale che sia qualcosa di più del semplice uomo-natura ognuno
ha bisogno di realizzare il domino della volontà sugli istinti e le passioni, ma anche
una vocazione sociale. Compito della giustizia è porre ordine nei rappporti col
prossimo, e la giustizia è una virtù di relazione. Giustizia è mettere a fuoco il proprio
bisogno e il bisogno dell‘altro, e la relazione tra i due. S. Tommaso spiega che la pace è
opera della giustizia indirettamente, in quanto quest‘ultima rimuove gli ostacoli che ad
essa si oppongono. Giustizia sognifica dare a ciascuno ciò che gli appartiene, o
secondo Spinoza ―La giustizia è la costante disposizione dell‘animo ad attribuire a
ciascuno ciò che gli compete per diritto civile‖ (Trattato teologico-politico, cap. XVI).
La giustizia è formulata nelle leggi, ma essa sta anche al di sopra delle leggi. Prima che
nelle leggi essa è scritta nella ragione e nella coscienza dell‘uomo. Il senso morale è
dato in parte dal Super-io, ovvero da quella struttura psichica che è secondo Freud ―il
precipitato degli investimenti abbandonati dell‘infanzia‖, ma non solo, vi è anche un
senso morale innato , che prescinde dalle relazioni significative della prima infanzia.
Attraverso il senso morale l‘uomo compie l‘unica valutazione che conta sulle azioni
della sua vita.
L‘ingiustizia è matrice di guerra in due modi. In primo luogo, chi ha di più tende a
perpetuare in qualsiasi modo il suo privilegio. Coloro che traggono profitto dalle guerre
si collocano tra coloro che più possiedono e più vogliono mantenere e incrementare i
loro privilegi. Glli altri, più o meno inconsapevolmente, alle guerre ci vanno o ci sono
mandati solo per morire. In secondo luogo, le guerre si fanno da parte di chi si sente
nel diritto di muoverle per la giustizia. Ovvero non è l‘intenzione ingiusta a muovere
guerra, ma l‘ingiustizia patita, la condizione ingiusta.
Il processo di globalizzazione ha posto in termini planetari il problema di un‘equa
ripartizione delle ricchezze tra i popoli del mondo e, al loro interno, tra le varie
componenti della scoietà. La base dell‘ingiustizia nel mondo moderno non è solo
l‘indigenza di coloro che non hanno il necessario. Lo è anche il desiderio di tutto ciò
che non possono avere. A cui aspirano, guardando il paese delle meraviglie del mondo
occidentale, ma a cui non possono accedere. E che scatena la loro ingordigia, e
abbuffate di consumismo non appena giunga alla loro portata. Per i popoli in via di
sviluppo l‘‖Occidente‖ è una provocazione: si guarda ma non si tocca. Ma lo è anche
per le fasce più miserevoli che vivono ai margini nella stessa scoietà occientale. Una
guerra che prende avvio da ragioni di giustizia degenera in forza di se stessa. Una
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Omaggio ad AxisMundi
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guerra, o una guerriglia urbana. Fatta per gli stessi fini. La guerra, legittimando l‘uso
della violenza, libera negli uomini la barbarie atavica e diventa difficile distinguere tra
giustizia e ingiustizia. Tutti rivendicano a se stessi giustizia, e uccidere diventa
―giustificato‖, e quindi normale.
Così il circolo si chiude. L‘aggressività richiede la giustizia per essere sanata. Ma una
giustizia che è pseudo-giustizia, perché ripropone gli stessi arbitri da un‘altra parte,
desidera l‘appropriazione degli altrui beni solo per capovolgere i rapporti di potere e
non affronta il male alla radice crea nuova violenza e aggressività. La questione della
guerra non può essere separata da quella della giustizia, e per fare arretrare le guerre
bisogna fare avanzare la giustizia. La giustizia regola con misura i rapporti di alterità,
ma non è facile instaurare rapporti di giustizia tra gli uomini. Frenarla è impossibile,
al massimo si può limitarla. E non basta l‘operato dei singoli. Il problema della
giustizia sociale poggia su qualcosa di intrinsecamente ingiusto all‘interno dell‘uomo.
Secondo Pascal, ―L‘Io è ingiusto in sé… in quanto si fa centro di tutto… E‘ molesto per
gli altri, in quanto li vuole asservire, giacché ogni io è il nemico e vorrebbe essere il
tiranno di tutti gli altri‖ (Pensieri, 597, 455). E‘ una questione di mentalità collettiva, di
civiltà. La pace non può essere assicurata solo dalle buone azioni dei singoli, che in
quanto tali non incidono. Per Natoli (1996) è una questione di ―contrizione‖ collettiva,
di generale pentimento per il disastro cui gli egoismi personali stanno portanto
l‘umanità e il pianeta. Bisogna rinunciare ai profitti e ai guadagni personali, in vista
del bene generale, che poi è il bene di tutta l‘umanità. Ma è molto difficile ragionare in
termini di coscienza planetaria. L‘Anima Mundi resta un patrimonio dei neoplatonici e
degli alchimisti, ma è sconosciuta all‘uomo moderno.
XXXVII
Omaggio ad AxisMundi
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Giustizia. Ma d‘altra parte l‘avvento del penale non si consuma in un tempo breve, e
l‘egemonia del potere punitivo pubblico impiegherà qualche secolo a divenire
(formalmente) monopolio della potestà punitiva degli Stati.
Se la necessità di governo del popolo allontana la virtù della giustizia dal suo rapporto
con l‘ordine cosmico, non per questo la sua alta ispirazione si perde
nell‘interpretazione esoterica. Nei Tarocchi di Wirth l‘Arcano VIII, la Giustizia, ricorda
nelle fattezze l‘Arcano III, l‘Imperatrice, ovvero il simbolo dell‘Idea Creatrice.La rigidità
ieratica temperata da una serenità sorridente che caratterizzano l‘Imperatrice
divengono tuttavia nella Giustizia una figura più indurita e severa, non più
eternamente giovane e altera; discesa nel campo dell‘azione, l‘Idea si appesantisce, è
soggetta al corso del tempo, e perde le ali, che la fanno librare nella sua funzione
creatrice al di sopra di tutte le cose, vera e propria Anima mundi. Però la Giustizia
siede su un trono massiccio e stabile come il cubo d‘oro dell‘Arcano IV, l‘Imperatore,
col quale è omologa, e quindi in stretta relazione di significato. L‘Imperatore, il IV, è la
personificazione del principio numerale generatore della vita, il III, che infatti sta per
l‘Idea Creatrice, l‘Imperatrice; mentre la Giustizia raddoppiando il IV ne concretizza
l‘autorità terrena.
Nella mano destra la dea della Giustizia stringe una spada, la spada della fatalità:
perché nessuna violazione della legge rimanga impunita. Non vi è vendetta, ma
l‘implacabile ristabilimento di ogni equilibrio infranto provoca prima o poi la reazione
ineluttabile della Giustizia. Questa è l‘idea del karma, che presuppone, oltre la
credenza nella reincarnazione, il principio di un equilibrio cosmico di azione e
reazione. E infatti la Giustizia reca nella mano sinistra la bilancia, lo strumento
riparatore degli errori commessi, le cui oscillazioni riportano l‘equilibrio. Ogni azione,
ogni pensiero, ogni sentimento influiscono sulla sua asta, producono delle
ripercussioni fatali, in bene o in male. Secondo il principio di conservazione, nulla si
perde, non solo la materia e l‘energia della fisica: nelle forme sottili che assume
XXXVIII
Omaggio ad AxisMundi
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L‘allegoria della Giustizia vuole dirci che i destini sono pesati, ed esiste un principio di
equità alla base di eventi apparentemente sperequati. A ciascuno viene chiesto ciò che
rientra nei suoi mezzi, i destini sono ponderati, le gioie e i dolori sono distribuiti
equamente, e proporzionati gli uni agli altri, perché gli esseri umani possono
apprezzare le cose solo attraverso i contrasti.
Ricordiamo infine il significato che la giustizia ricopre nella mistica di Meister Eckhart.
La giustizia è per il mistico tedesco la conseguenza del distacco, che si conquista
attraverso il non volere, il non sapere, il non avere, ovvero attraverso la rinuncia a tutti
i desideri, all‘arroganza del sapere, all‘attaccamento alle cose e a sé. La conseguenza è
un atteggiamento equanime in cui il mistico viene meno alla sua volontà e finisce per
l‘identificarla con la volontà di Dio. Ma ―Dio è giustizia‖, perché in lui scompare ogni
molteplicità e differenziazione, per dar luogo alla pace e alla gioia dell‘Uno, dell‘unica
realtà. In tal modo l‘uomo giusto può generare il Logos nel fondo dell‘anima, ovvero
può creare le condizioni perché in lui si manifesti la grazia di Dio, e la grazia di Dio è
l‘esperienza di essere Uno con Lui, che nasce dall‘essere Uno col Figlio, e con lo Spirito
Santo che dal Padre e dal Figlio procede. In tal modo attraverso l‘imitazione di Cristo
l‘uomo giusto consegue la condizione divina, che comporta verso le cose umane un
atteggiamento di giustizia. L‘atto giusto è l‘azione valida di per sé, a prescindere dalle
sue conseguenze ed esiti, l‘azione disinteressata, effettuata per se stessa. E‘
sorprendente come questa idea dell‘azione giusta coincida con l‘azione senza azione
della Bhagavad Gita; e del resto l‘idea sarà ripresa successivamente dall‘etica di Kant,
come la dialettica della generazione del Logos nell‘anima sarà riproposta dalla
dialettica hegeliana.
La gola
Il sistema della ricerca assiste non solo il bisogno della fame, ma quello della sete,
della termoregolazione con la ricerca di un riparo, e della riproduzione. Tuttavia il vizio
capitale ad esso legato, la gola, contempla solo la disregolazione nella ricerca del cibo,
tralasciando gli altri bisogni corporali.
XXXIX
Omaggio ad AxisMundi
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I riferimenti biblici sulla gola si sprecano. A cominciare dal passo del Genesi in cui
Eva, istigata dal serpente, offre la fatidica mela ad Adamo, che naturalmente non può
esimersi dall‘accettare un così seducente invito, firmando la condanna sua e di tutta
l‘umanità. Per la verità sull‘attribuire la causa della caduta dell‘umanità dalla
condizione di ignara beatitudine dei primordi al ―semplice‖ peccato della gola S.
Agostino solleva una fondata obiezione (De civitate Dei, 14, 12, p. 434), sostenendo
che non si trattò di essa, bensì di superbia, avendo la coppia dei progenitori peccato in
quanto pretese di essere autosufficiente e di avocare a se la conoscenza del bene e del
male. Ma pur proveniendo da una fonte così autorevole, tale tesi non è condivisa da
altri illustri commentatori delle Scritture, come Cassiano, Alano di Lilla, Peraldo,
Gerson. Forse perché la gola è un vizio legato più alla vita conventuale che al secolo.
Ne fa fede ad esempio la severità con cui Bernardo da Chiaravalle stigmatizza i
conventi al cui desco le portate sono sì di un unico piatto di carne, ma si raddoppiano
i grossi pesci, e le uova, cucinate nei più svariati modi. Contro la gola tuonano anche
S. Girolamo, Tommaso di Chobam, S. Gregorio Magno, S. Bonaventura, S Alberto
Magno, S. Tommaso, Pietro il Venerabile, papa Innocenzo III, Ugo di S. Vittore,
Guglielmo da Thierry.
Gli strali dei dottori della chiesa verso un vizio su cui invece il sommo poeta lascia
trasparire una certa indulgenza sono dovuti al fatto che esso era molto più diffuso tra
le mura claustrali che nel secolo. Dove esso doveva combattere contro la miseria
imperante, ed era quindi un vizio tipico delle classi abbienti. Questo fa della gola un
peccato sociale, che diviene tale quando si accompagna allo sperpero e alla
trascuratezza nei confronti di chi ha bisogno, come nella parabola del ricco Epulone. Il
cibo assolve la funzione di segnalare la superiorità di classe: mangiare molto,
mangiare bene e soprattutto mangiare carne. Sulla carne vi è un punto cruciale nella
Bibbia: l‘introduzione di essa nella dieta dopo il diluvio universale. Noè e i suoi figli,
scampati dalle acque, ricevono da Dio il permesso di uccidere ogni tipo di animali e di
cibarsi delle loro carni. Certo, resta il tabù del sangue, che fa sì che nelle prescrizini
ebraiche la carne debba essere tagliata kosher, senza spargimento di sangue, e che
XL
Omaggio ad AxisMundi
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evidenza come sulla carne venga proiettata una luce sinistra, legata alla morte e alla
consumazione di un essere morto.
E‘ paradossale che il luogo per eccellenza della regola, il chiostro, sia anche quello
dove il peccato della gola viene più smodatamente consumato. Il che spiega
l‘attenzione degli uomini di chiesa verso questo vizio. In realtà il convento, da luogo di
mortificazione del corpo, diviene il luogo dove il corpo stesso si prende le sue rivincite,
e ciò che non può fare esplicitamente con altri vizi, in particolare la lussuria, lo fa con
quelli che surrettiziamente sono tollerati, appunto la gola. Vi è tutto un atteggiamento
distorto verso la carne che giustifica il peccato della gola, che alla fine è un peccato di
non equilibrio, di eccesso, di trascuratezza verso se stessi. Ma che in ultimo nasce da
una percezione del corpo che è non solo individuale, ma collettiva. Nel Libro della
Sapienza, scritto da un ebreo ellenizzato del II secolo a.C., il corpo è definito ―tenda
d‘argilla‖. Vi sono state nella Chiesa tutta una serie di difficoltà a conciliare la natura
umana e quella divina in Gesù Cristo, fino a due eresie: il monofisismo, che sosteneva
esservi in Lui solo la natura umana, e il docetismo, dal greco docheo, che sostenva che
in Lui Dio aveva preso solo le apparenze della natura umana. In questa trascuratezza
del corpo diventa difficile percepire correttamente i suoi bisogni, e così è inaccessibile
l‘idea della sobrietà. Si cerca da un lato la mortificazione della carne, dall‘altro non si
riesce a distinguere tra necessità e sazietà.
Ciò che è difficile sul piano umano diventa impossibile sul piano collettivo. La gola è
stata qualificata come un peccato contro l‘umanità, perché lo spreco del singolo
Epulone toglie la possibilità di sfamarsi ai poveri che attendono le briciole ai margini
della sua mensa. Qui la cattiveria sta nel non vedere il limite della propria
soddisfazione, della sazietà appunto, e nel cercare il superfluo. La gola è appunto un
vizio collettivo, per soddisfare il quale gli opulenti paesi industralizzati tengono nella
fame e nell‘indigenza quelli in via di sviluppo. Ma non per guadagnare una
improponibile felicità, ma per ammalarsi a loro volta di altra patologia: l‘obesità, le
malattie cadiovascolari, l‘anoressia, la bulimia.
Eppure la gola, intesa quale appagamento disordinato del mangiare e del bere, è a
torto considerata un vizio più lieve di altri. Innanzitutto perché si considera solo il fine,
e si perde di vista il processo, che è un percorso di appropriazione e violenza, per
arrivare ad una disponibilità ―ingiusta‖ dei beni di prima necessità. Poi perché a
differenza di altri vizi essa nasce da una percezione distorta dal Sé e del corpo. La
radice della gola sta nel non sciogliere il nodo del rapporto tra bisogno e piacere. Nella
teoria dei sistemi motivazionali di Lichtenberg e in quella dei sistemi operativi-
emozionali di Panksepp si dice esplicitamente che quando un bisogno non trova la
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Omaggio ad AxisMundi
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La prudenza
Il sistema di ricerca è deputato all‘acquisizione delle risorse necessarie alla
sopravvivenza in un determinato ambiente. Esso è accompagnato ad un caratteristico
tono edonico, di attivazione e attesa anticipatrice della ricompensa, che sperimentiamo
come brividi di piacere o vissuti analoghi. Abbiamo visto come esso sia fondamentale
nell‘approvvigionamento delle risorse alimentari, e in tal caso come la sua
disregolazione scada nel vizio della gola; come però esso sia diretto anche
all‘acquisizione di risorse in generale, e duuque il vizio corrispondente sia l‘avidità;
come infine il sistema di ricerca si applichi sul piano cognitivo, come problem solving e
ricerca di significato, e in tal caso il suo alterato funzionamento è alla base di varie
sindromi psichiatriche.
Nella dottrina cattolica la prudenza è la prima delle quattro virtù cardinali, grazie alla
quale si distingue il giusto dall‘ingiusto, il bene dal male, e si trova la forza e il
coraggio di agire rettamente. Essa è la virtù che guida la ragione nell‘analisi della
situazione e dell‘ambiente e nella scelta dell‘azione giusta, condotta secondo le norme
etiche.
XLII
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Nella lingua greca antica il termine per designare la prudenza è phronesis, che deriva
da phren, mente, senno, e si può tradurre anche con saggezza. Nella filosofia platonica
la phronesis è una virtù dell‘anima razionale.
Aristotele parla delle virtù nel libro VI dell‘Etica a Nicomaco. Virtù (aretè) per i Greci
significa disposizione migliore, eccellente, perfetta, ed Aristotele distingue le virtù
dianoetiche, ovvero le virtù della ragione (dianoia), della parte razionale dell‘anima,
dalle virtù etiche, che sono le virtù del carattere (ethos), ovvero della parte dell‘anima
priva di ragione. Le virtù dianoetiche sono le ―disposizioni eccellenti‖ della parte
razionale dell‘anima, e sono la sapienza (sophia), che è la migliore delle scienze, perché
conosce i principi di tutte le cose, e la saggezza, o prudenza (phronesis), che non è una
scienza, ma un sapere pratico, perché ha come oggetto, e come fine, la prassi umana.
Aristotele definisce la prudenza come ―la capacità di deliberare bene su ciò che è
buono e vantaggioso non da un punto di vista parziale, come per esempio per la
salute, o per la forza, o per la ricchezza, ma su ciò che è buono e utile per una vita
felice in senso globale‖ (libro VI, cap. 5, trad. it. Milano 1979, p. 271). Per Aristotele la
felicità è un autentico bene, anche dal punto di vista morale, ma deve essere intesa,
appunto, in senso globale, cioè che abbraccia la vita intera, e perciò non può
coincidere con beni particolari, quali la salute, la forza e la ricchezza, che non sempre
sono un bene, perché talvolta possono essere causa anche di infelicità, cioè di male.
La prudenza, dunque, è veramente tale solo se ha per fine il bene, vale a dire la vera
felicità. Ciò serve a distinguerla subito dall‘abilità, o dall‘astuzia, che infatti Aristotele
indica ed illustra con un nome diverso, quello di deinotes (da deinos, abile, furbo,
astuto).
D‘altra parte la prudenza non solo non è una scienza, ma non è nemmeno una
tecnica, cioè un‘arte (in greco techne), perché l‘arte ha per oggetto la produzione
(poiesis), mentre la prudenza ha per oggetto l‘azione (praxis). La distinzione tra azione
e produzione è in questi termini: ―il fine della produzione è altro dalla produzione
stessa, mentre il fine dell‘azione no: l‘agire moralmente bene è un fine in se stesso‖.
Ciò significa che la produzione è un‘operazione che ha come fine un prodotto, cioè un
bene diverso da se stessa, mentre l‘azione, intesa in senso proprio, cioè morale, ha
come fine unicamente la bontà dell‘azione stessa, cioè è un‘azione fine a se stessa.Il
modello di quello che Aristotele considera l‘uomo prudente, ovvero saggio, non è un
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rimanda a Giano bifronte, figlio di Apollo e della ninfa Creusa, che aveva lo sguardo
aperto sul passato e sul futuro.
Così sotto il velo della Prudenza compare per Fulcanelli l‘immagine della vecchia
Alchimia. Il cui lavoro consiste in effetti in due caratteri riassunti da questa figura
allegorica, la prudenza appunto e la semplicità. Una delle tavole del Trattato dell‘Azoth
attribuito a Basilio Valentino (1624) rappresenta, ai piedi dell‘Atlante, che sorregge la
sfera del cosmo, un busto di Giano, immagine della prudenza, e un bambino che sta
sillabando l‘alfabeto, allegoria della semplicità. Mentre la semplicità appartiene alla
natura, all‘uomo compete la prudenza. In alcuni trattati alchemici si raccomanda di
unire un vegliardo sano e vigoroso con una vergine giovane e bella. Da queste nozze
chimiche deve nascere un bambino metallico androgino, che partecipa della natura
dello zolfo, suo padre, e di quella del mercurio, sua madre.
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Il serpente ai piedi della statua richiama il detto evangelico che riassume le doti della
prudenza: ―Ecco, io vi mando come pecore in mezzo a lupi: siate dunque prudenti
come i serpenti e semplici come le colombe‖ (Mt, 10, 16). Per Fulcanelli il serpente è
simbolo del mercurio comune, estratto dalla Prima Materia, puro e mondato, che non
è volatile: il mercurio volatile è espresso dal drago alato.
Il compasso fornisce le indicazioni legate alle proporzioni, che vanno stabilite in modo
preciso e rigoroso, ma richiama anche il perfetto tracciato geometrico della
circonferenza, immagine del ciclo ermetico e del compimento dell‘Opera. Sappiamo
tuttavia che uno è il peso della natura e uno è il peso dell‘arte, e che l‘armonia
risultante dalle proporzioni naturali è sempre stata misteriosa.
Nella serie degli Arcani Maggiori dei Tarocchi le virtù cardinali rappresentate sono in
apparenza solo tre, la Giustizia, la Forza e la Temperanza. Questo perché il posto della
Prudenza è tenuto dall‘Arcano IX, l‘Eremita, che infatti riprende l‘aspetto del vegliardo
della Prudenza di Michel Colombe. Nel terzo ternario della serie degli Arcani, il signore
del Carro (VII) è un giovane impaziente che vuol realizzare il progresso, ma che viene
ritardato dall‘opera della Giustizia (VIII), amica dell‘ordine e ostile ai sovvertimenti, e la
conciliazione dell‘antagonismo tra questi due elementi è data dall‘Eremita, che evita la
precipitazione da una parte e l‘immobilità dall‘altra. E‘ un vecchi esperto, che conosce
il passato e ad esso si ispira per preparare l‘avvenire; procede prudente, sondando il
terreno con una canna di bambù dai sette nodi mistici. Sulla sua strada compare il
serpente, anch‘esso simbolo della prudenza, ma anche delle energie istintuali che la
natura racchiude nel corpo di ciascuno. Col suo bastone, il vecchio incanta il serpente
perché si attorcigli intorno al suo bastone: la bacchetta del taumaturgo gli permette di
maneggiare le correnti vitali di segno opposto, che vi si avvolgono come i due serpenti
attorno al caduceo, o che come le nadi Ida e Pingala si svolgono dal chakra della base
fino al loto dai mille petali alla sommità del cranio.
L‘Eremita non tasta il terreno alla cieca, ma la sua avanzata è rischiarata dalla
lanterna che tiene nella destra, parzialmente coperta da un lembo del suo ampio
mantello, forse per ripararne gli occhi dallo splendore. Questa luce è in realtà
modesta, come lo è il suo sapere, che egli considera con lo sguardo disincantato di chi
non si fa illusioni, di chi si duole non di non essere conosciuto, ma di non conoscere.
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Fuggire la vicinanza degli uomini per vivere nell‘intimità del proprio pensiero significa
entrare in unione mistica con la Donna Ideale, quello che Jung chiama il principio
Anima, l‘archetipo dell‘Eterno Femminino. Essa è raffigurata nei Tarocchi dagli Arcani
III e VII, l‘Imperatrice e la Giustizia, di cui l‘Eremita diventa lo sposo.
Il vecchio eremita diventa così omologo a San Giuseppe, il carpentiere, cui i Veda
danno il nome di Twashtri. Egli è la perfezione della forza plastica diffusa nell‘universo
e manifestata negli esseri viventi, e quindi l‘artefice esteriore di quella struttura
invisibile senza la quale non sarebbe possibile realizzare una costruzione vitale. In
Yesod, la nona Sephirà, base immateriale degli esseri soggettivi, lungo il cammino
discendente dell‘emanazione, si sintetizzano le energie creatrici virtuali applicate a una
determinata attualizzazione, finché esse prendono corpo e sostanza in Malkuth, la
realizzazione. Prima di prendere corpo, tutto preesiste come concetto astratto, come
intenzione, come piano fissato, come immagine vivente animata del dinamismo
realizzatore, rappresentata dal numero nove, dall‘Eremita e da Yesod.
Yesod raccoglie le energie di tutte le Sephiroth dell‘Albero della Vita e le filtra in modo
che la Terra, rappresentata da Malkuth, possa recepirle. Per questo è detta ―il
Fondamento‖ e ―il ricettacolo di tutte le Emanazioni‖, che comunica direttamente la
forza e l‘energia divina alla Terra. Essa è una sostanza specifica, partecipe della
sostanza di cui è formata la mente e di quella di cui è formata la materia, chiamata
ora Etere del Saggio, ora Luce Astrale della terra e nostra, cioè la sostanza della nostra
natura psichica, quella che ci permette di prendere coscienza di altri piani e di arrivare
alla consapevolezza. E‘ il fondamento della nostra risalita.
Dal punto di vista microcosmico, considerando quindi la scala dal punto di vista
dell‘evoluzione, dal basso verso l‘alto, è il primo gradino dove si risveglia il desiderio di
verità, di luce, di consapevolezza, e dove riscontriamo il bisogno di conoscere la
divinità che pervade la creazione. In Malkuth, stanchi della vanità di una vita
meccanica e ripetitiva, tutta dedita ai valori materiali, rivolgiamo i nostri desideri verso
l‘alto, cercando dei modelli di comportamento e degli ideali diversi dai soliti, cui
affidarci per uscire dall‘oscurità. E‘ essenziale a questo punto trovare il giusto
maestro: il versetto dei Proverbi (10, 25) dice che ―il giusto è il fondamento del mondo‖.
I giusti (tzadiqim) sono gli uomini che aiutano la risalita di tutto il genere umano e
tengono in equilibrio l‘ago della bilancia tra il bene e il male.
La tradizione biblica è ben precisa nel definire la figura del giusto. Dice che due sono i
tipi dei maestri nella vita e afferma che lo Tzadiq (il giusto, il santo) è la persona fedele
nata e cresciuta nel tradizionale rispetto della vita religiosa, nell‘amore verso Dio e il
prossimo e che combatte e vince le sue battaglie, superando le varie tentazioni e
debolezze con la fede e sopportando umilmente il suo essere così diverso dalla maggior
parte dell‘umanità. L‘altro tipo è la figura del cosìddetto ―maestro del ritorno‖ (ba‘al
teshuvà). Egli è colui che ha esplorato in lungo e largo il dominio del peccato e delle
trasgressioni, è colui che con volontà e determinazione è sceso nei meandri
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dell‘immoralità e dell‘egoismo. Ma pur essendo arrivato al fondo stesso del male, egli si
è accorto in tempo di quanto tutto ciò non gli bastasse e ha rivolto verso l‘alto il suo
grido di sofferenza e di impotenza. Il maestro di ritorno è più meritevole del giusto,
perché essendo venuto in contatto con le scintille della luce divina prigioniere nei regni
inferiori, tramite il suo ritorno nel regno della luce riesce a portare con sé un numero
grandissimo di tali scintille.
Yesod governa l‘area degli organi sessuali ed è alla base della vita. Nello stabilire
questa corrispondenza la Cabala afferma la santità intrinseca dell‘energia sessuale,
sottolineando il bisogno di usarla nel modo più veritiero e corretto possibile. Gli organi
sessuali vengono dunque visti come il canale tramite il quale il seme divino arriva a
fecondare Malkuth, il recipiente femminile che lo accoglie. Il ―Maestro‖ è considerato
come il tramite grazie al quale il seme della vita e della coscienza divina viene piantato
nei cuori di coloro che lo desiderano. In Geremia (23,5) si legge: ―innalzerò per Davide
un germoglio giusto‖ e germoglio si dice, in ebraico, Tzemach che è anche uno dei
nomi del Messia. La qualità umana attribuita a Yesod è la ―Verità‖. Dato che Yesod nel
corpo fisico è la zona degli organi sessuali, il nostro rapporto sessuale deve essere
vissuto come un momento di suprema verità. Yesod è un canale di comunicazione
tramite il quale ci si offre gli uni agli altri, non si deve ostruirlo con menzogne. Le
menzogne sono la prima caratteristica di una persona coinvolta in una relazione
sbagliata, dietro alle quali essa cerca di nascondere il fallimento del suo Yesod, il crollo
del suo ―Fondamento‖. Quanto più sinceri e veritieri siamo con il partner e con gli
altri, tanto più la relazione è quella giusta. Così come la vita biologica viene
tramandata tramite l‘unione sessuale, anche quella spirituale può venire ampliata e
resa eterna suo tramite, se la sua espressione è pura e veritiera.
L‘Arcano IX e Yesod ricordano il mistero di una generazione reale e occulta, che segue
all‘unione di spirito e l‘anima; l‘Eremita è il Maestro Segreto che lavora al
perfezionamento del suo discepolo e alla costruzione in lui della materia psichica.
L’accidia
L‘accidia come vizio capitale nasce nella storia dei Padri del Deserto, che tra il III e il IV
secolo in Egitto e in Palestina scelsero questo luogo di solitudine estrema per vivere la
loro esperienza di separazione dal mondo. Il termine esisteva anche da prima, ma è
con Evagrio Pontico, uno dei principali esponenti di quel movimento religioso, che essa
assume una precisa caratterizzazione. Nel monachesimo eremitico della Chiesa
d‘Oriente l‘accidia diviene, da generico atteggiamento di incuria e apatia, vizio capitale
vero e proprio, debolezza dell‘anima che impedisce al monaco di fronteggiare le
tentazioni e lo distoglie dalla devozione assidua verso Dio e dalla contemplazione, fino
ad allontanarlo dalla cella.
C‘è fin dall‘inizio in questo vizio un duplice aspetto, quello che riguarda il corpo, e che
si manifesta come pigrizia, indolenza, torpore, inclinazione all‘ozio, e quello che
riguarda l‘anima, che si presenta come tristezza, inquietudine, irrequietezza, fastidio,
scontentezza, insoddisfazione.
A seconda di come questi due aspetti vengono volta per volta bilanciati, ne risulta un
quadro diverso dell‘accidia, sospesa tra i due estremi della pigrizia, che affligge il
corpo, e della tristezza, che attanaglia l‘anima. Ne derivano anche due diverse
interpretazioni dell‘origine di questa affezione, e conseguentemente diversi sono i
giudizi impartiti e i rimedi proposti.
Per Aristotele e per gli stoici la tristezza è una passione dell‘anima, e come tale è
moralmente indifferente, anche perché in alcuni casi le sue origini sono di natura
fisiologica, e derivano da uno squilibrio degli umori, in particolare da un eccesso di
bile nera, donde il nome di melancholia. Come passione è una delle principali e si
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suddivide in una serie di passioni secondarie, che per Giovanni Damasceno sono
quattro: l‘invidia, che è tristezza per il bene altrui; la misericordia, che è tristezza per il
male altrui; l‘achos, che è tristezza che comporta l‘incapacità di parola, e l‘accidia, che
è tristezza opprimente.
Dopo Evagrio, un altro Padre della Chiesa, Cassiano, estende l‘insidiosa influenza
dell‘accidia dall‘eremo al monastero. Con lui infatti l‘accidia è un vizio che colpisce
prevalentemente ma non esclusivamente solitari ed eremiti, che comporta un fastidio e
un‘ansia del cuore e che può indurre il monaco ad abbandonare la sua condizione.
Cassiano individua un nesso tra l‘accidia e la tristezza, nel senso che la tristezza
produce l‘accidia, e suggerisce congruentemente un rimedio, il lavoro manuale. Nel
passaggio dal deserto al cenobio le manifestazioni esteriori del vizio, che poi sono
quelle attinenti al corpo, vengono accentuate, sotto forma di oziosità, torpore e
sonnolenza, mentre quelle interiori sono depotenziate e rivelano un legame sempre più
stretto con la tristezza; esse sono ansia, disgusto, inquietudine, noia, mancanza di
concentrazione.
Nell‘oscillazione tra tristezza e pigrizia, Gregorio di Nissa elimina l‘accidia dalla lista
dei vizi capitali mantenendola solo come filiazione della tristezza. Tuttavia, nonostante
la sua autorevolezza, l‘accidia continua a essere considerata come vizio capitale, e la
sua sopravvivenza è sostenuta dall‘interessamento del corpo nel caratterizzarla, sotto
le manifestazioni della pigrizia, della stanchezza, dell‘indolenza, del torpore, della
sonnolenza, ma anche dell‘irrequietezza, dello sbandamento, del vagabondaggio.
La fenomenologia dell‘accidia tradisce la ribellione del corpo di fronte alle regole e alle
costrizioni imposte dalla vita monastica, la stanchezza che si ingenera di fronte ai
ritmi di vita forzati che essa impone, i limiti dell‘individuo nell‘assoggettarsi a una
condizione d‘esistenza troppo dura e rigida.
In Pier Damiani ad esempio essa è debolezza del corpo cui si deve rispondere
aumentando il peso e il numero delle coercizioni.
Come si vede si fanno strada sottili analisi psicologiche del fenomeno che precorrono
la successiva interpretazione degli psicoanalisti e le fini descrizioni dei fenomenologi, e
che comunque evidenziano in questa debolezza dell‘anima un‘interruzione del
cammino di perfezione intrapreso dal monaco, drammatica e inquietante, tanto da
poter delineare un‘inversione del percorso e un esito infausto nell‘aridità e nella
devastazione spirituale.
Nessuna pratica ascetica, per quanto dura e prolungata, è un rimedio sicuro contro
l‘accidia, e il monaco accidioso cade preda dell‘amarezza, del risentimento e della
sconfitta finale.
La debolezza dell‘uomo è scomponibile in fragilità dell‘anima, snervata, inaridita,
sconvolta, e fiacchezza del corpo, ozioso, pigro, intorpidito.
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Pier Lombardo, nelle sue Sentenze, stila una lista di sette vizi capitali nella quale al
quarto posto compare l’accidia vel tristitia. Tuttavia, mentre l‘accidia è sempre un
vizio, la tristezza talora è una virtù: esiste una ―tristezza del mondo‖, che conduce alla
morte, e una ―tristezza secondo Dio‖, che attraverso il pentimento conduce alla
salvezza, come in S. Paolo (II Cor., 7,10).
Pertanto la teologia scolastica cerca di arrivare alla definizione di questo vizio così
controverso. S. Tommaso parte dalla tristezza come passione dell‘anima di fronte a un
male presente per distinguere tra tristezza al cospetto di un male reale, nel qual caso è
lodevole, e tristezza suscitata da un male apparente, che in realtà è un bene: in tal
caso la tristezza è condannabile, è un vizio, opposta alla carità, che è amore.
La tristezza per il bene spirituale in sé, ovvero per il bene divino, è l‘accidia, e può
determinare un peccato mortale o veniale, a seconda che sia determinata dalla ragione
o dalla sensualità.
S. Tommaso non crede alla determinazione dell‘accidia da parte di uno squilibrio degli
umori. Altri, come Guglielmo d‘Alvernia, concedono che possa essere prodotta da
cause fisiologiche, e curata attraverso pratiche di ricreazione corporea; e, come Davide
di Augusta, concludono che è bene se ne occupino i medici anziché i religiosi e i
teologi, che ritengono ch‘essa sopravvenga in un‘anima divenuta con il peccato troppo
debole per poter conseguire il bene senza fatica.
Nell‘alternativa tra accidia del corpo intesa come pigrizia e accidia dell‘anima intesa
come tristezza, la Scolastica propende per la seconda: il corpo può essere causa,
comunque né decisiva né esclusiva, dell‘accidia, ed è protagonista di alcune
manifestazioni esteriori del vizio, come l‘indolenza, l‘oziosità, la sonnolenza,
l‘irrequietezza, ma queste sono solo fenomeniche esteriori di un vizio che colpisce
l‘anima e che come tale è essenzialmente tristezza. Quindi l‘accidia non è legata alla
debolezza di un corpo costretto alla fatica, all‘isolamento, alla costrizione, ma è una
forma generale e universale di disordine morale.
Secondo Guglielmo Peraldo, l‘operosità dell‘universo intero, del Sole, di Dio stesso
nella creazione, della Madonna, dei Santi e dei Patriarchi deve indurre a detestare
l‘accidia.
La condanna dell‘ozio e l‘apologia dell‘operosità sono tanto più congrui in una società,
come quella dell‘Occidente medioevale dopo il Mille, segnata dalla sforzo individuale e
collettivo per una rinascita economica.
LI
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Secondo Peraldo, la povertà è uno dei possibili disastrosi effetti ascrivibili all‘accidia,
intesa come pigrizia, imprevidenza, incapacità di provvedere con il lavoro alla propria
sussistenza. L‘accidia è una trasgressione della legge divina dell‘operosità che governa
il cosmo.
Quando alla fine del Medioevo la preoccupazione per l‘inoperosità mondana diviene
più acuta e si moltiplicano gli appelli all‘industriosità nel lavoro e all‘intraprendenza
negli affari, quello che era un peccato verso Dio diviene una colpa nei confronti della
società.
Allo stesso tempo essa si trasforma: da tristezza per il bene divino e mancanza di
fervore religioso diviene taedium vitae, languore, disgusto per la condizione umana,
affezione dello spirito, malattia da intellettuali (si vedano le descrizioni autobiografiche
di Francesco Petrarca).
Fin da quando, da bambino, come buona parte dei miei coetanei, bazzicavo l‘aria
polverosa e odorosa di ceri delle sacrestie mi veniva difficile raffigurarmi l‘accidia, certo
più degli altri vizi capitali. Come potevo dare un significato all‘indolenza, negligenza,
indifferenza nell‘esercizio della virtù e dell‘attività spirituale che tende alla
santificazione dell‘anima?
Bisognava conoscere la storia dei Padri del Deserto per capire, e in ogni caso non
sarebbe stato facile. Ma anche tenendo conto dell‘evoluzione storica del significato del
termine la sua comprensione non è immediata, ed è necessaria una
contestualizzazione, nel tempo – ed è ciò che abbiamo fatto finora – e nello spazio; nel
senso che questo vizio ha una dimensione individuale e una collettiva. Quella
individuale è la condizione del taedium vitae, del vuoto interiore, della noia
esistenziale, dell‘indifferenza, del senso di assurdità della vita, della vacuità, del
distacco non inteso nel senso virtuoso di ritiro dai desideri mondani ma come il fatto
che questi ultimi, anche quando soddisfatti, non risultano più appaganti. Accidia
come spleen degli inglesi o ennuì dei francesi, male universale, dunque, onnipresente
nella storia dell‘essere umano, ma forse oggi più pressante e palpabile
L‘accidia individuale sconfina nella depressione, e infatti secondo Evagrio Pontico essa
è una debolezza (atonia) dell‘anima, che differisce dalla tristezza che è invece un
abbattimento: ma poi l‘abbattimento genera debolezza, e così è evidente la filiazione
dalla tristezza. Qui è facile seguire la via indicata da Freud, che vede la depressione
come un lutto non elaborato, e quindi come una tristezza patologica, più complicata
rispetto alla tristezza fisiologica che accompagna ogni perdita.
LII
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Tale è la condizione della società di oggi dove la tecnica mette a disposizione una tale
quantità di mezzi che consentono di dare vita a qualunque cosa, dove l‘arte liberatasi
dalla figura sprigiona tutti i segni, dove la letteratura descrive tutte le vite, tutte le
epoche, tutte le coscienze. E tutte sono intercambiabili, sostituibili, accantonabili,
scartabili.
L‘accidia sembra essere la condizione di base degli individui che popolano la società
moderno-liquida descritta da Baumann (2003, 2005). Questa società è caratterizzata
da un‘inedita fluidità, fragilità e intrinseca transitorietà (la cosiddetta flessibilità) di
tutti i tipi di legame sociale, anche di quelli che fino a poche decine di anni fa si
coagulavano in una duratura, affidabile cornice entro la quale era possibile tessere
con sicurezza una rete di interazioni umane; dalla dissoluzione dei valori stabili e dalla
loro sostituzione con dei punti di riferimento continuamente transeunti, all‘insegna
della precarietà e dell‘incertezza, rapidamente accantonati perché altri e nuovi valori si
propongono, condannando quelli vecchi e ormai desueti allo scarto e al rifiuto.
Incertezza del futuro, fragilità della condizione sociale e insicurezza esistenziale
attanagliano l‘individuo e sono da lui proiettate nella costruzione e continua
decostruzione delle relazioni vitali. I valori sono equiparati ai beni di consumo, ai quali
d‘altra parte servono da veicolo di promozione. La vita liquida è una continua
successione di nuovi inizi, una eterna palingenesi, perché i vecchi prodotti devono
essere sostituiti dai nuovi che si affacciano sul mercato, e nuovi prodotti implicano
consumatori rinnovati. Individui simili amano creare, godere, muoversi, vivono un una
società incurante dell‘avvenire, egoista ed edonista, in loro prevale l‘accettazione del
nuovo come buona novella, della precarietà come valore, dell‘instabilità come
ricchezza.
Tutti costoro conoscono e praticano l‘arte della vita liquida, sopportano l‘assenza di
ogni orientamento, accettano la precarietà, amano l‘instabilità, non soffrono di
vertigini e sanno adattarsi alle situazioni confuse, alla mancanza di itinerari e di
direzione, e alla durata indefinita del tragitto. L‘ambito ove è più macroscopica questa
moderna forma di cinismo e noncuranza degli affetti è quello sentimentale, dove la
tolleranza nei confronti della frammentazione diviene riproposizione della
frammentazione stessa nel rapporto affettivo, e il prototipo sono le relazioni che
rapidamente si intrecciano e si concludono su Internet. I siti di appuntamenti su
Internet, diversamente dall‘irritante e talora estenuante negoziazione del reciproco
LIII
Omaggio ad AxisMundi
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Ecco perché l‘accidia è una condizione generalizzata, che nei casi più estremi sconfina
nella depressione ovvero nella patologia, ma di cui è intrisa ormai fisiologicamente la
funzionalità dell‘individuo certificato ―sano‖. Essa, per Natoli (1996), corrisponde
all‘incapacità di prendere sul serio le cose, di saper attendere a quel che si deve fare e
di portare a compimento le opere. L‘accidia è abulia, indolenza, è una sorta di torpore
che induce alla distrazione; più che dall‘inazione, l‘accidia è caratterizzata dall‘assenza
di concentrazione, e l‘accidioso è colui che non sa essere perseverante, che è svagato e
vive nella noncuranza. Per i monaci medioevali l‘accidia era pigrizia del corpo e
tristezza dell‘anima. Oggi, la pigrizia si è trasformata nel disimpegno e la tristezza in
una distratta subeuforia. L‘accidia non prende più il volto dell‘inerzia, ma quello del
lasciar fare, dell‘abbozzare, della compiacenza maligna. Questo modo di ragionare
evita costantemente di mettere in discussione la propria condotta, dove per condotta
di intende quella quotidiana fatta di omissioni più che di azioni. Da questo punto di
vista gli accidiosi possono sentirsi, se non perfettamente onesti, di certo corretti, e in
linea coi tempi.
La carità
Al quarto chakra, al sistema operativo-emozionale dell‘attaccamento, e al vizio
dell‘accidia, nella nostra struttura di corrispondenze sta di fronte la virtù della carità.
La carità è la prima delle virtù teologali. Mentre le virtù cardinali si chiamano così
perché sono il cardine della moralità cristiana, e riguardano il rapporto col prossimo e
con se stessi, le virtù teologali hanno a che fare col rapporto con l‘Assoluto.
L‘amore di Dio con tutto il cuore e del prossimo al pari di se stessi sintetizza tutti i
precetti della moralità cristiana.
A tal proposito così Gesù risponde a uno scriba che gli ha chiesto qual è il primo di
tutti i comandamenti:
Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore: amerai il Signore tuo
Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la
tua forza.
Il secondo è questo: amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c’è altro comandamento
più grande di questi (Mc., 29-31).
S. Paolo nella prima lettera ai Corinzi fa un elogio della carità, rendendola il fulcro di
tutte le virtù e collocandola al vertice della vita dell‘anima.
I doni spirituali, come la virtù di parlare le lingue, o la profezia, sono niente al cospetto
dalla carità, e anche lo svuotarsi dei propri beni non vale se non c‘è questa virtù che lo
anima:
LIV
Omaggio ad AxisMundi
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La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia
d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene
conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa,
tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (I Cor., 13, 4-6).
E più oltre:
Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma più grande di
tutte è la carità (I Cor., 13,13).
La carità è dunque la forma di tutte le virtù, quella linfa vitale che permette ad esse di
scorrere, o da un altro punto di vista quell‘atteggiamento mentale che condiziona il
comportamento etico.
E‘ una disposizione che si alimenta nell‘essenza stessa di Dio. Dio, infatti, nella sua
struttura trinitaria, è Amore: in Dio vi è il Padre, il Figlio del Suo amore, e la corrente
spirituale che li unisce; vi è l‘Io generante e il Tu generato, l‘uno di fronte all‘altro in
un rapporto di reciproca e totale donazione.
Quando la fede cristiana afferma che Dio è amore vuole riferirsi a questa relazione
d‘amore che viene eternamente scambiata nel cuore della Trinità.
Il Cristianesimo è centrato sulla carità perché questa è l‘essenza stessa di Dio.
Anche se l‘uomo non fosse mai esistito Dio sarebbe egualmente carità; e l‘uomo esiste
per un atto d‘amore eterno di Dio, amore che sempre si ripete e si rinnova (Fanzaga,
2003).
La carità ripropone quel processo di emanazione che secondo altre filosofie, e qui viene
in mente Plotino e la Cabala, è alla radice dell‘esistenza divina e del mondo.
La direzione del processo emanativo è discendente: non è l‘uomo che va alla ricerca di
Dio, ma è Dio che viene verso l‘uomo.
L‘uomo può ripercorrere in senso inverso la scala della creazione e tornare verso Dio,
nel suo percorso di evoluzione spirituale.
Nel Cristianesimo però questa discesa di Dio verso l‘uomo avviene attraverso una
rottura di livello, la croce.
La croce, dice S. Paolo, è una follia, come tutta la vicenda dell‘incarnazione. E‘ la follia
dell‘amore che spinge l‘Assoluto a entrare nelle angustie della dimensione umana.
E attraverso il ventre di Maria ―il Creator non disdegnò di farsi sua fattura‖, secondo il
paradosso di Dante.
E‘ proprio lo scandalo della croce che spinge il mistico all‘unione con Dio.
Nel sentire del mistico, Dio è veramente e pazzamente innamorato delle sue creature,
per le quali non ha esitato a salire sulla croce.
LV
Omaggio ad AxisMundi
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L‘amore per il prossimo, per tutte le creature e per Lui stesso che Dio ci chiede è una
risposta al Suo amore.
Cristo in croce, dall‘alto del Suo martirio, ci interpella su quanto noi siamo disposti ad
amare.
Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano,
benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti
percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare
neanche la tunica. Dà dunque a chi ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle
indietro (Lc., 6, 27-30).
Chi non ha carità, è troppo attaccato ai beni mondani per poter aspirare alla
conquista della condizione divina.
Aver avuto esperienze d‘amore soddisfacenti è condizione per poter restituire questo
amore in nuove relazioni amorose in cui siamo noi a dare.
LVI
Omaggio ad AxisMundi
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L‘amore è un darsi.
Perché la posta in gioco dell‘amore in ultimo è duplice: è il bene del prossimo che è
soccorso dal nostro gesto amorevole, ma è anche il bene di noi stessi, che così facendo
ci stacchiamo dal nostro attaccamento, dalla materialità, e dall‘illusione fuorviante che
il bene sta nei valori del mondo; è in ultimo la comprensione che le gratificazioni
mondane non sono mai soddisfacenti, perché non arrivano a esaurire il bisogno
d‘amore che è sempre bisogno d‘altro.
I beni materiali sono infatti un sostituto dell‘esperienza di calore e contatto umano che
solo la relazione può dare, l‘esperienza di essere riconosciuti e amati per quello che si
è.
In fondo l‘amore divino è la proiezione della forma più pura dell‘amore umano, l‘amore
materno della relazione d‘accudimento, che è un amore disinteressato, in cui si ama
l‘altro per quello che è.
Questo amore il Padre riversa sul Figlio, e di seguito il Figlio riversa sugli uomini:
Come il padre ha amato me, così io ho amato voi… Questo è il mio comandamento: che vi
amiate gli uni con gl’altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di
questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io comando.
Non vi chiamo più servi perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi ho
chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché portiate frutto e il
vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel nome mio ve lo
conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri (Gv., 15, 9 e 12-17).
Allora Gesù disse ai suoi discepoli: se qualcuno vuole venire dietro di me, rinneghi se
stesso, prenda la sua croce e mi segua.
Perché chi vuol salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per
causa mia la troverà.
Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero ma perderà la
propria vita?
O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?
Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, e allora renderà a
ciascuno secondo le sue azioni (Mt., 16, 24-27).
LVII
Omaggio ad AxisMundi
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con i nostri fratelli umani, il nostro prossimo, e in secondo luogo con l‘Assoluto e il
divino.
Il sociologo e filosofo Baumann (2008) osserva come l‘etica abbia cercato di ricondurre
la cura degli altri alla cura di sé, in quanto obbedire ai comandamenti morali è
nell‘interesse proprio, che i costi sono compensati dai profitti nella risposta degli altri,
e che dunque la cura degli altri rientra in ultima analisi nella cura di sé.
A fronte di questo, sta il dato di realtà che l‘egoismo, il cinismo e l‘insensibilità nella
nostra società premiamo, mentre altruismo, oblatività, spirito di abnegazione
rischiano di condurre chi li mette in pratica ad essere abbindolato, disapprovato,
compatito o ridicolizzato.
Una sorta di esperimento morale in vivo è stato l‘atteggiamento dei polacchi durante
l‘occupazione nazista, quando le leggi degli occupatori prevedevano la pena di morte
per chi avesse aiutato un ebreo a nascondersi. Molte persone preferirono sfidare la
morte e rischiare la vita anziché rendersi complici delle atrocità perpetrate contro
uomini, donne e bambini appartenenti alla ―razza sbagliata‖.
Altre persone, appellandosi alla razionalità e al buon senso, hanno deciso che la loro
vita era più degna di cura della vita di altri sfortunati sconosciuti, tuttavia avvertivano
in fondo a se stessi una dismetria, un intimo dissenso. Uno studio sociologico di
Nechama Tech (1987) ha cercato di individuare i fattori che hanno indotto a effettuare
una scelta collaborazionista-sicura oppure dissidente-rischiosa. Ebbene, non è emersa
nessuna correlazione tra propensione ad aiutare anche a costo di sacrificare se stessi
e i fattori che normalmente sono determinanti nel comportamento umano (classe
sociale, ricchezza, istruzione, e perfino credenze religiose e lealtà politica).
LVIII
Omaggio ad AxisMundi
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Ciascuno dei tedeschi che portavano gli ebrei dalla loro casa alle camere a gas nei
campi di concentramento faceva parte di una catena di azioni estremamente
parcellizzata, in virtù della quale ognuno eseguiva un compito ignorando il passo
successivo, e potendo quindi sentirsi sollevato dalla responsabilità dell‘evento
complessivo. Come ha dimostrato la filosofa della politica Hanna Harendt ne ―La
banalità del male‖ (1963), decine di migliaia di comuni cittadini tedeschi furono
complici dell‘Olocausto, ma molti di loro non poterono essere incolpati di crimini di
guerra perché svolgevano semplicemente il loro lavoro, eseguivano ordini o erano
preposti a un piccolo anello della catena. La catena funzionava pressappoco così:
Tedesco A: Avevo solo l‘elenco degli ebrei. Lo passai quando mi fu richiesto. Non feci
retate. Tedesco B: Andai a quegli indirizzi, arrestai quelle persone e le portai alla
stazione dei treni. Tedesco C: Aprii le porte dei treni Tedesco D: Feci salire i prigionieri
sui treni. Tedesco E: chiusi le porte dei treni, senza sapere dove erano diretti. Tedesco
F: Guidavo i treni Tedesco Z: Aprivo i rubinetti delle docce da cui veniva emesso il gas.
Lo stesso Eichmann era secondo la Harendt, per l‘idea che ella se ne fece al processo a
Gerusalemme, un uomo comune, né pazzo né diverso dagl‘altri.
Levinas (1982), altro filosofo morale contemporaneo, sostiene che l‘assenza di moralità
è cominciata con la domanda di Caino: ―Sono forse io il custode di mio fratello?‖, che
col suo porsi asseriva che il prendersi cura del fratello fosse un dovere, imposto da un
ordine superiore. Le raccomandabilità di un atto morale non possono essere dichiarate
in modo discorsivo, né essere dimostrate.
LIX
Omaggio ad AxisMundi
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La condotta perseguita avendo in mente il bene degli altri non è più morale se non è
disinteressata.
Un atto morale non serve ad uno scopo, e sicuramente non è dettato da un‘aspettativa
di qualsiasi vantaggio, comodità, riconoscimento, plauso pubblico, notorietà,
esaltazione dell‘ego, autopromozione.
Se delle azioni buone sono praticate in virtù di una ricompensa, non sono più morali,
al massimo possono essere moralistiche.
La domanda etica deve restare silenziosa. Essa non deve conformarsi ad un ordine
esterno, in essa non c‘è alcun ―devi‖, nessuna coercizione esterna.
L’invidia
LX
Omaggio ad AxisMundi
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L‘Invidia è raffigurata mediante il proverbio fiammingo che recita ―due cani con un osso
difficilmente raggiungono un accordo‖. L‘immagine mostra infatti due cani che non si
interessano alle ossa davanti a loro, ma aspirano all‘osso tenuto in alto; la coppia al di
sopra è paragonata ai cani stessi, in quanto essi guardano con invidia un elegante
nobile con il falco in mano, che fa lavorare gli altri per lui (l‘uomo che porta il pesante
sacco sulla schiena); aspirano a quello che non possono avere, mentre la loro figlia si
rivolge dalla finestra a un pretendente, del quale spicca soprattutto il grande
portafoglio.
Riprendiamo lo studio dei vizi, delle virtù e dei circuiti neurobiologici che li
determinano. Tratteremo ora l‘invidia, che del resto ha un ruolo essenziale nel
pantheon politeista di Tolkien.
LXI
Omaggio ad AxisMundi
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In esso, la creazione è opera di un Dio Supremo, Eru (l‘Uno, l‘Unico) o Iluvatar (Padre
del Tutto), e si attua nella dimensione del suono, a partire da una specie di dei
supremi, gli Ainur (Santi). Tra questi dei, Melkor, il maggiore, cerca d‘introdurre una
melodia sua propria, ma è rintuzzato da Iluvatar con altre melodie, che a sua volta
Melkor tenta di soverchiare, essendo però sopraffatto e neutralizzato dalla musica
degli Ainur fedeli, e alla fine è anche invidioso dei figli che Iluvatar ha introdotto con i
successivi temi musicali, Elfi ed Uomini, e cerca di assoggettarli alla propria volontà,
dominarli, corromperli, guastarli.
Nella Bibbia l‘invidia ha una parte assai grande. Secondo il Libro della Sapienza, ―per
l’invidia del diavolo la morte entrò nel mondo‖ (2,14). L‘invidia di Caino per Abele,
prediletto di Dio, fu causa del primo omicidio. L‘invidia di Esaù verso Giacobbe,
favorito nella successione, fu all‘origine di discordie in famiglia. Per invidia Giuseppe
fu venduto dai suoi fratelli; per invidia Davide fu perseguitato da Saul. All‘invidia di
Erode verso un re profetizzato come il più potente di tutti i re della terra si deve la
strage degli innocenti. Per invidia Gesù fu consegnato dagli ebrei a Pilato.
Ma anche nel mondo pagano non si contano i misfatti dell‘invidia. A causa sua Socrate
fu condannato a bere la cicuta, Cesare fu pugnalato dai suoi fedeli, Boezio fu
incarcerato, Ovidio esiliato, Virgilio mandato al confino, Seneca fu costretto a
uccidersi, Lucano fu ucciso, Giovenale mandato a morire in esilio, Prisciano
calunniato.
Nella Divina Commedia Dante stigmatizza vittima dell‘invidia Pier delle Vigne, servo
fedele di Federico II, che a causa delle calunnie di corte si tolse la vita; e per bocca di
Ciacco e di Brunetto Latini predice la rovina di Firenze per superbia, invidia e avarizia.
Invidia viene dal latino in-videre, guardare male, guardare di malocchio. L‘invidioso
guarda male e vede male, vive nell‘ombra, nelle tenebre, nell‘accecamento. Il suo
sguardo è avvelenato e accecato.
Nel Purgatorio di Dante, gli invidiosi avanzano lentamente, sorreggendosi l‘un l‘altro
come ciechi che chiedono l‘elemosina, perché i loro occhi, per contrappasso, sono
legati con fil di ferro come quelli dello sparviero che i cacciatori usano come richiamo.
Per questo mettiamo l‘invidia come pervertimento della motivazione di base del gioco,
che invece, stabilendo dei ruoli e delle gerarchie, costituisce una struttura sociale
ordinata.
Cominciamo la nostra rassegna con le fini distinzioni e analisi psicologiche dei Padri
della Chiesa.
LXII
Omaggio ad AxisMundi
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Per Agostino l‘invidia è qualcosa di innato, tanto che egli parla di un bambino
naturalmente invidioso: ―Io ho visto e conosciuto un bambino invidioso: non parlava
ancora e già guardava livido il fratello di latte” (Confessioni, I, 7, 1).
Per Crisostomo, l‘invidia è un vizio assurdo, perché non reca in sé piacere attivo,
come la lussuria, la gola, l‘avarizia, né passivo, come l‘accidia, né lo sfogo di un gesto
esecrabile ma in un certo senso liberatorio, come l‘ira; anzi, come puntualizza Peraldo,
essa è puro dolore, il dolore che nasce dal confronto con il bene altrui.
Ma in questo senso l‘invidia può essere una passione? Secondo Guglielmo d‘Auxerre
sì, poiché essa richiede un atto volontario, la displicentia visionis, che è governato
dall‘anima razionale, e poi la manifestazione del dolore nel vedere, che è opera
dell‘anima concupiscibile.
Secondo la Summa Theologiae di San Tommaso, l‘invidioso vede nel bene altrui un
male per se stesso. Questo perché egli avverte nel bene degli altri un pericolo e una
messa in discussione della sua eccellenza.
In ultima analisi quindi la radice dell‘invidia è una ferita all‘immagine di sé, alla
propria superiorità, vanagloria e preminenza.
Come sostiene Aristotele nella Retorica, l‘invidia riguarda persone tra loro vicine, di
pari livello, tra le quali è possibile stabilire un paragone; essa è possibile solo fra
soggetti che sono in condizione di aspirare allo stesso grado e tipo di eccellenza.
Bisogna però distinguere l‘invidia da condizioni affini, che non sono di necessità
peccaminose, e che fanno parte di una sana dinamica sociale, come l‘indignazione, lo
zelo e l‘emulazione, o di altre passioni, come l‘odio e la paura.
San Tommaso definisce l‘invidia ―dolore per il bene altrui in quanto impedimento della
propria gloria o eccellenza‖, e su questa base la distingue dall‘odio: mentre
quest‘ultimo si rattrista per ogni bene dell‘Altro, l‘invidia solo per ciò che lede la sua
eccellenza.
Allo stesso modo si ha paura, ma non invidia, quando ci si rattrista per il bene
dell‘Altro in quanto si teme che costituisca un danno per il soggetto. E di seguito non
vi è invidia se ci si rattrista perché persone ritenute indegne conseguono dei beni o
una posizione, ma indignazione, che è giusta e lodevole secondo Aristotele, un po‘
meno secondo Tommaso, che ammette la possibilità che Dio faciliti gli indegni per poi
correggerli o dannarli.
Lo zelo sorge quando ci si accorge di non possedere un bene o una posizione sociale
che altri hanno, e in questo senso è un bene, perché stimola al fare; invece l‘invidia è
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Omaggio ad AxisMundi
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una tristezza dovuta al fatto che gli altri, possedendo un bene che il soggetto non ha
costituiscono, un impedimento alla sua superiorità.
Secondo San Tommaso, però, oltre che degli arroganti è tipica dei pusillanimi, che
considerano ogni cosa troppo grande per loro e si vedono superati dagli altri
qualunque bene essi ottengano, a prescindere dalle differenze nei conseguimenti
individuali.
Quindi l‘invidia nasce dalla mancanza di misura dell‘amore per se stessi e dalla
dismetria tra amore di sé e amore dell‘Altro.
L‘invidia è un male sociale. Non a caso la inserisce nella serie dei vizi capitali San
Gregorio Palamas, nel momento in cui allarga il suo interesse dalla perfezione
spirituale dei monaci del cenobio alla vita del mondo presente al di là delle mura
conventuali. E‘ lì che l‘invidia miete le sue numerose vittime, laddove i legami sociali si
fanno sempre più complessi, nelle corti, nelle università, nelle fazioni politiche, e
vengono meno i vincoli di solidarietà più immediati e intuitivi.
Manifestandosi come livore dei piccoli nei confronti dei grandi e antagonismo degli
inferiori verso i superiori, l‘invidia si presenta come una contestazione e un
sovvertimento dell‘ordine sociale, una contravvenzione del comandamento dell‘amore
verso il prossimo come conseguenza dell‘amore verso Dio, che è il fondamento della
comunità cristiana.
San Gregorio ricorre alla metafora organicista per mostrare che per il buon
funzionamento del tutto ogni parte, intesa come organo od apparato, deve svolgere
ordinatamente la propria funzione, e non cercare di accaparrarsi la funzione di altre
parti perché ritenute più eminenti: in tal mondo comprometterebbe il benessere non
solo della parte lesa, ma del tutto.
Se si accetta che il bene di alcuni può essere il bene di tutti, allora l‘amore verso il
prossimo diventa una necessità, una forma compiuta di amore per se stessi. In un
clima di fiducia e di reciproco rispetto i risultati del lavoro altrui diventano del soggetto
senza che ciò comporti una ulteriore fatica.
Nel suo aspetto devastante, l‘invidia provoca una contrapposizione tra le diverse
componenti sociali che determina l‘autodistruzione violenta della comunità, come
stigmatizza efficacemente il filosofo ecclesiastico francese contemporaneo della
Scolastica Jean Gerson.
Tuttavia per San Tommaso l‘emulazione, ovvero lo sforzo di ottenere i beni temporali
di cui altri godono, può essere senza peccato, se esso sforzo non impedisca agli altri di
godere del bene che si desidera.
LXIV
Omaggio ad AxisMundi
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Il tal mondo si traccia una distinzione tra invidia, zelo ed emulazione, e si stabilisce
una compatibilità tra competizione sociale e carità cristiana, secondo l‘idea che il buon
funzionamento dell‘organismo sociale può ammettere accanto alla cooperazione forme
di antagonismo e competizione, e che anzi il confronto con l‘invidia contribuisca a
controllarle e regolamentarle.
Ma qui si entra nella prospettiva della speranza, che è una delle virtù cardinali.
Attualità dell’invidia
L‘invidia è dunque, secondo la definizione di Spinoza nell‘Etica (1676, parte III,
proposizione 24) , ―quella disposizione che induce l’uomo a godere del male altrui e a
rattristarsi, al contrario, dell’altrui bene‖.
Messa così, a differenza di altri vizi, essa non da piacere. Quale ne è dunque la
spiegazione? Innanzitutto per poter provare invidia si deve partire da una condizione
di pariteticità, di confronto. Nessuno ha mai sentito parlare di invidia verso Dio.
Semmai Satana provò invidia verso Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre, ma essi
erano difatti in una condizione inferiore alla sua. E questo vale per tutti gli esempi che
abbiamo fatto: invidia tra fratelli (Caino, Esaù), tra cugini (Duryodhana), tra compagni
d‘arme (Cassio e Bruto), tra cortigiani e letterati.
Secondo Natoli bisogna distinguere tra società basate sulla diseguaglianza e società
basate sull‘eguaglianza.
Ma ciò che non si poteva eguagliare lo si poteva venerare, come sottolinea Nietzsche,
che infatti attribuiva al mondo antico la capacità di venerare. Questa induce tutt‘altro
che passività e asservimento, ma semmai il desiderio di emulare, prendendo come
modello ciò che è grande, che diviene allora capace di dar forma alla realizzazione di sé
degli altri membri della comunità. Su questo si basa il senso di autorevolezza delle
personalità carismatiche. Per questo l‘avversario poteva essere combattuto e
ammirato, ucciso e amato insieme, all‘interno di relazioni sociali caratterizzate da forte
antagonismo e competizione ma senza invidia.
Invece nelle società medioevali basate sul cristianesimo e in quelle moderne fondate
sull‘illuminismo l‘eguaglianza è il punto di partenza. Non vi è carisma, o esso è
mediato dal potere della fede o della ragione. Pertanto, a chi eccelle si devono in un
certo senso richiedere le credenziali del suo successo, ribadendo l‘impersonalità del
diritto e quindi l‘uguaglianza.
Come dice Goethe nelle Affinità elettive, ―nessuno è più schiavo di chi si ritiene libero
senza esserlo‖. Lo stato moderno nasce all‘insegna del diritto all‘eguaglianza. Gli
uomini possono essere diversi in forza e ricchezza, ma sono da ritenersi eguali in
quanto appartenenti alla stesso corpo sociale. Nelle società socialiste si va ancora
oltre, nel senso che si riconosce oltre che una eguaglianza di diritti una eguaglianza di
opportunità, prodotta dalla redistribuzione della ricchezza.
LXV
Omaggio ad AxisMundi
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Nella logica dell‘uguaglianza viene spontaneo chiedersi di fronte a chi eccelle: quali
sono i suoi meriti perché egli ottenga quei benefici che io non possiedo? Nello stesso
tempo, la società contemporanea offre un numero così grande di alternative da
allargare la spazio della competizione, diluendo e attutendo le occasioni di confronto.
Questo da un lato consente agli individui di sfuggire alle situazioni in cui si accumula
un eccesso di frustrazioni, poiché la complessità del mondo ridefinisce costantemente
gli spazi di azione: pertanto, se non si può più venerare gli individui eccellenti, perché
la crisi dei valori e delle ideologie non lo consente, ci si può identificare con essi, e in
ultimo li si può ignorare, se non si può fare altrimenti.
La rete delle relazioni umane è stata invasa, conquistata e colonizzata da visioni del
mondo e schemi di comportamento ispirati al mercato dei beni di consumo e fatti a
loro misura.
Il senso dell‘appartenenza nella società dei consumatori è dato dal possesso dei beni di
consumo. Chi non li possiede, rientra nel novero degli scarti, dei marginali, degli
esclusi dal processo produttivo e fruitorio dei beni stessi.
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Omaggio ad AxisMundi
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Nelle società antiche il personaggio di riguardo era venerato; in quelle moderne solide
tradizionali ci si indentificava con lui; nella società liquida post-moderna ci si
identifica con i suoi averi, siano essi denaro, auto, immobili, donne.
Al posto dei totem subentrano figure emblematiche, e i loro segni visibili, che
suggeriscono codici di abbigliamento e/o di comportamento. I consumatori maturi non
fanno i pignoli quando si tratta di gettare i beni ormai superati – dall‘incessante
proposta di novità più desiderabili – nella spazzatura.
Allo stesso modo la società consumistica non nutre eccessivi scrupoli nel relegare gli
scarti umani – individui anziani, malati, in qualche modo difettosi, o comunque non
più all‘altezza del ciclo produttivo – nelle sacche dell‘emarginazione, nel carcere, nel
manicomio, nel capace contenitore della delinquenza.
Sono questi i consumatori falliti, individui improduttivi, vittime del venir meno della
solidarietà sociale sui luoghi di lavoro, e dell‘affievolirsi dell‘impulso familiare alla cura
e alla condivisione.
Ecco allora che l‘invidia nella società liquida consumistica postmoderna da vizio e
disvalore diviene valore e spinta propulsiva a compiere il proprio dovere consumistico.
Innanzitutto essa si modella sugli archetipi del successo e della bellezza proposti dai
media.
Poi essa, che è con la lussuria il più relazionale dei vizi, risolve in questa società il suo
apparente paradosso di essere un vizio che non procura godimento. Perché anche la
felicità nella società consumistica liquida postmoderna è sempre rimandata ad un
altrove, e la soddisfazione del desiderio è sempre posticipata.
Infatti l‘industria produce continuamente nuovi beni più aggiornati e perfezionati degli
attuali, ai quali è deferito l‘incarico di soddisfare il desiderio. Gli ambiti oggetti di
consumo di oggi sono gli scarti di domani. Per ognuno di essi c‘è una data di
scadenza. E quando scadono, si deprezzano, vengono venduti a saldo, in offerta
speciale, e se sono già stati acquistati, vengono scartati. Per far posto a nuovi,
luccicanti e up-to-date oggetti del desiderio. Il loro destino è naturalmente essere
soppiantati da nuovi oggetti, in un regressus ad infinitum…
Il desiderio non si sazia mai del bene che possiede, perché un nuovo e più allettante
oggetto lo supera nella scala delle preferenze. Quindi è dilazionato all‘infinito il
momento della gratificazione del desiderio, e questo rende l‘invidia accettabile e
sintonica.
Anche essa non si sazia di un oggetto, perché è nelle mani di un altro, e come è ricerca
che non si ferma mai il desiderio del consumatore della società liquida post-moderna,
così lo è il vizio dell‘invidia, ricerca di una gratificazione che non guarda all‘oggetto, ma
alla condizione di chi lo possiede.
LXVII
Omaggio ad AxisMundi
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Essa è una compatibile molla del comportamento, poiché spinge a sempre nuove
ricerche di beni agognando la felicità ostentata di altri, più belli e potenti, ed è essa
stessa è destinata a rinnovarsi all‘infinito, come i desideri da cui è fomentata.
Interpretazione dell’invidia
«Fu il sangue mio d’invidia sì riarso
LXVIII
Omaggio ad AxisMundi
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morso la attanaglia, di giorno come di notte. Per rendere lo stillicidio Ovidio sceglie
l‘immagine del ghiaccio che si scioglie a poco a poco sotto un sole tiepido, e della legna
verde che il fuoco non riesce a far divampare, ma pure consuma con lentezza. Il
diffondersi del gelo provoca un soffocamento occulto, il gelo avanza come un cancro
incurabile e segreto, come nascosta era l‘erosione stillicida del livore dentro il cuore di
Aglauro.
Come abbiamo visto, anche l‘inserimento dell‘invidia nella lista dei sette peccati
capitali non è stato sempre scontato: Evagrio e Cassiano infatti non la considerano
tale, mentre è Gregorio Magno a classificarla per primo come secondo vizio capitale,
dopo la superbia.
Non possiamo stupirci del fatto che l‘invidia e la lussuria, i più relazionali dei vizi,
sono quelli che hanno ricevuto più attenzioni da parte degli psicoanalisti. Freud
poggia la sua costruzione dell‘apparato psichico su uno dei sette vizi, la lussuria,
rappresentata scientificamente dalla libido, il desiderio sessuale. Ma l‘invidia ha un
posto essenziale nello sviluppo della sessualità femminile. Infatti la struttura della
personalità dell‘adulto è basata sul tabù dell‘incesto, e sul conseguente timore di una
sanzione del desiderio incestuoso; donde il complesso di Edipo (l‘amore e la seduttività
per il genitore di sesso opposto e l‘odio e la rivalità per quello dello stesso sesso),
l‘angoscia di castrazione, e la conseguente risoluzione del complesso con lo
spostamento del desiderio sessuale – originariamente rivolto verso la madre – verso
altre partner femminili non precluse dal tabù dell‘incesto; contemporaneamente nel
rapporto col padre il passaggio dalla rivalità all‘identificazione con lui. La vista del
genitale femminile, nel maschietto, che interpreta la mancanza di un apparato esterno
come l‘esito dell‘amputazione del suo prezioso segno distintivo di genere, il pene, è la
testimonianza della veridicità delle sue angosce di punizione ed evirazione. Ma nella
femmina? La psicologia di Freud è molto al maschile, e pertanto la considerazione
dello specifico femminile e della differenza sessuale in lui non esiste. Nella femmina,
come esito dell‘angoscia di castrazione, c‘è l‘invidia del pene, poiché in lei la
castrazione è data per avvenuta. La vista del genitale dell‘altro sesso sviluppa nella
LXIX
Omaggio ad AxisMundi
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bambina l‘invidia verso ciò che ella si accorge di non possedere. Allo stesso tempo ella
trasferisce il primitivo investimento libidico sulla madre, che l‘ha delusa per averla
creata senza un pene, verso la figura del padre, trionfante possessore dell‘organo, e
sviluppa quindi il complesso edipico al femminile. Quindi in lei è come se la punizione
per gli inevitabili desideri incestuosi verso il padre con annessa rivalità verso la madre
– il complesso di Edipo al femminile è stato chiamato complesso di Elettra – ci fosse
già stata, con l‘esito dell‘avvenuta castrazione. Di fronte a questa ferita, la bambina
erotizza dapprima il clitoride, corrispondente femminile del pene, per trasferire la sua
carica sessuale sulla vagina in un secondo momento.
Nell‘invidia si esprime il bisogno di essere quello che non si è e di avere quello che non
si ha. Perciò l‘invidia è paradossale: mentre nega il valore dell‘Io, perché lo vorrebbe
diverso da quello che è, esprime un livello estremo di attaccamento all‘Io, inferiore solo
a quello della superbia.
L‘invidia è il peccato del misconoscimento del desiderio, e con esso del Sé come essere
desiderante. Il soggetto chiede di essere riconosciuto come soggetto desiderante, e non
essendolo sviluppa un‘emozione distruttiva che conduce all‘annichilimento di Sé e
dell‘Altro.
LXX
Omaggio ad AxisMundi
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In ciò risiede il significato di un topos religioso, la povertà di spirito del discorso della
montagna. Secondo l‘esegesi di Meister Eckhart, il povero di spirito è colui che nulla
vuole, nulla ha, nulla sa: finché nel vuoto che egli produce dentro di sé è forzato a
scendere lo spirito di Dio.
E finché aspiriamo a ciò che non abbiamo e che appartiene a qualcun altro, non
possiamo avere la libertà interiore necessaria per scoprire chi siamo, e aspirare
all‘unione col divino.
Esiste anche un‘invidia aggressiva che si stabilizza nel tempo, diviene un sentimento
costante che limita e paralizza la crescita personale, evidenziando gli aspetti distruttivi
e anche autodistruttivi in essa contenuti.
La speranza
La comparsa della capacità di giocare nell‘infante segna un progresso evolutivo
nella comunicazione con la madre. Il gioco è apertura al futuro, coinvolgimento dì
nella realtà e allo stesso modo creazione di altre realtà, che possono essere realtà
virtuali, collocandosi all‘interfaccia tra mondo interno e mondo esterno.
Per questo facciamo corrispondere al sistema del gioco la virtù della speranza.
LXXI
Omaggio ad AxisMundi
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La speranza è una delle tre virtù teologali, definite tali da San Paolo nella Prima
Lettera ai Corinzi. E lo stato d‘animo di chi attende fiducioso che si realizzi, o si sia
realizzato, quanto desidera. Nell‘articolo 2090 del Catechismo della Chiesa Cattolica
la speranza è definita come ―l’attesa fiduciosa della benedizione divina e della beata
visione di Dio‖ e anche come “il timore di offendere l’amore di Dio e di provocare il
castigo‖. Nello stesso articolo sono definiti come ―peccati contro la speranza‖ la
disperazione (che equivale alla cessazione della fiducia nella onnipotenza di Dio) e la
presunzione (con la quale si presume di potersi salvare senza Dio, o, viceversa, senza
una personale conversione).
Per il cristiano la speranza equivale alla certezza della divina Misericordia che si
orienta verso il peccatore convertito. Nell‘escatologia cristiana, la speranza poggia sulla
fede in Gesù Cristo, e in conseguenza di essa vede nell‘avvento del Regno di Dio la
realizzazione della promessa di un riscatto dalle miserie, dalle restrizioni umane, dalle
ingiustizie e dalle persecuzioni. Nel cristianesimo dunque la speranza non può
prescindere dalla fede e ne presuppone il compimento, che consiste nel
trascendimento della condizione umana – nella sua attualità di povertà, privazioni e
limitazioni – e nella realizzazione della pienezza dell‘essere in Gesù Cristo.
Per questo la speranza è una virtù che presuppone una vita spirituale e un
abbandono al divino: non ha senso in una prospettiva materialista che vive solo nel e
del presente.
Forse per questo motivo nell‘età classica questa virtù è stata vissuta in maniera
ambivalente. Si prenda il mito di Elpis, appunto la speranza. Il termine elpis, come i
verbi elpo, elpizo con cui è collegato, deriva dalla radice vel, che con ampliamento del p
diviene in latino voluptas, desiderio, specialmente nel senso di desiderio sessuale e
sensuale, e piacere.
La speranza ha a che fare con la voglia, scaturisce dal piacere di esistere che è
proprio a ogni ente proprio per il fatto che esiste (Natoli).
Essa in senso pagano è una ricerca della felicità, è pienezza di vita, potenza
d‘esistere, affermazione gioiosa del proprio sé che dal presente si proietta nel futuro, e
ne supera le restrizioni.
LXXII
Omaggio ad AxisMundi
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Prometeo, che in greco significa ―colui che prevede‖, era un titano, figlio di
Giapeto e dell‘oceanina Asia oppure di Giapeto e dell‘oceanina Climene. Essendo
preveggente, non aveva preso parte alla Titanomachia, la guerra dei titani contro gli
dei olimpici, perché aveva capito che il Destino voleva la vittoria di Zeus. Era un titano
giusto e pietoso, e sentiva una grande compassione per gli uomini che a quel tempo
erano ancora selvaggi. Non avendo una grande ammirazione e fede in Zeus lo mise alla
prova: uccise un toro e imbandì un banchetto, dove nascose nella pelle del toro la
carne migliore, e fece un mucchio più grosso con le ossa, col grasso e con le interiora;
poi lasciò scegliere a Zeus che, come previsto, scelse il mucchio più grosso. Per
vendicarsi dell‘inganno Zeus ordinò ad Hefèsto ( Vulcano) di fabbricare una donna di
straordinaria bellezza e di infonderle vita mediante una scintilla di fuoco; alla fanciulla
tutti gli Dèi vollero fare un dono, e infatti fu chiamata Pandora, che in greco significa
appunto ―tutti i doni‖. Atena le regalò le attitudini ai lavori femminili, Afrodite le donò
la grazia, Hermes le diede la curiosità, il coraggio e l‘astuzia ammaliatrice; ai doni Zeus
ne aggiunse un ultimo, un vaso chiuso, un vaso che non si doveva mai aprire (pithos,
πίθος in greco antico).
Pandora fu mandata sulla terra per sposare Epimèteo, che in greco significa ―colui che
ha solo il senno del poi‖, il fratello più tardo di Prometeo. Epimèteo, che era
imprevidente e impulsivo, appena vide Pandora se ne innamorò e volle subito sposarla,
senza ascoltare le parole del fratello che gli aveva raccomandato di diffidare da tutto
ciò che proveniva da Zeus. Pandora appena sposa di Epimèteo si fece vincere dalla
curiosità femminile e volle aprire il vaso che Zeus le aveva regalato come dono di
nozze. Aprendo il vaso, ne fece uscire fuori tutti i mali del mondo che presto si
sparsero per tutta la Terra, e richiudendolo riuscì a trattenere soltanto l‘ingannevole
Speranza, che stava nel fondo.
La speranza ha un ruolo ambivalenze perché sta nel vaso dei mali, e nello
stesso tempo rende possibile sopportare questi mali.
LXXIII
Omaggio ad AxisMundi
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Essa scaturisce dalla voglia di esistere laddove il bene non è pieno, e la vita è
attraversata da lacerazioni e da mancanze.
Nel mondo pagano la speranza è più una passione che una virtù. Corrisponde
a un atteggiamento verso il reale, a una disposizione dell‘animo per la quale si ritiene
possibile lo scioglimento dei mali presenti o il raggiungimento di beni non attualmente
a disposizione.
LXXIV
Omaggio ad AxisMundi
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non vediamo, lo attendiamo con perseveranza (8, 24-25); e più oltre: Siate lieti nella
speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera (11, 12).
Come dice San Tommaso d‘Aquino, la speranza è radicata nella fede, perché la
presuppone e la manifesta. Si manifesta nella perseveranza, che vuol dire continuare a
sperare in un bene futuro in ogni momento del tempo, perché in realtà l‘evento atteso
si è già avverato, e la venuta del Cristo ha trasformato il tempo da tempo dell‘attesa (e
della speranza) a tempo della salvezza.
Il cristiano sa che quel che attende in realtà è già avvenuto perché crede, può
solo ancora bramare il compimento ultimo, la venuta finale del Cristo nel giorno del
Giudizio.
Il pagano spera, ma non si fida. Egli non ha la fede in colui che da un senso al
tempo perché supera il tempo, Gesù Cristo. Può solo essere fedele al presente e a se
stesso, perché non ha altro in cui sperare.
Nel senso che gli insegna innanzitutto il senso dei vincoli e della gerarchia
sociale, completando il lavoro del quarto chakra che preside al senso di appartenenza
e di indispensabilità della relazione affettiva con i propri simili.
Col sistema del gioco le relazioni con i simili si dispongono in un ordine di ruoli
e di valori, e nelle specie più complesse come quella umana, dove il linguaggio
istituisce la possibilità non solo di comunicare, ma di comunicare sulla
comunicazione, il gioco stabilisce la differenziazione tra fantasia e realtà.
LXXV
Omaggio ad AxisMundi
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espressione del volto della madre, che è accoppiata con essa. Vede riflesso il suo stato
nel volto della madre.
Tutto questo è prodotto dal reciproco ingranamento tra madre e bambino come
opera della messa in funzione in entrambi del sistema dell‘ossitocina e delle aree
cingolate e orbito-frontali del cervello destro.
Col sistema del gioco, la relazione passa dai fornitori di cure ai propri consimili
e coetanei, e si sperimentano tecniche più raffinate di relazionarsi.
Tra queste il far finta, il giocare con la realtà, delineando un confine e una
distinzione sempre più netta tra interno ed esterno.
La bugia è una conquista evolutiva, perché con essa il bambino capisce che
non è trasparente, che non gli si può leggere dentro. Mentre il sistema della cura ha a
che fare con un individuo totalmente immerso nella relazione duale con la madre – e il
sistema del dolore psichico esprime la sofferenza intollerabile per la perdita del
supporto empatico e il rimedio possibile nella consolazione da parte di altri oggetti
benevoli – il sistema del gioco proietta l‘individuo nella complessità della situazione
sociale, con tutte le differenziazioni di ruoli possibili, i livelli gerarchici da rispettare, le
sfide competitive, le cooperazioni con i simili.
Speculare all‘invidia, che vuol distruggere nell‘altro ciò che egli ha, e che non si
ha ma si ambisce avere. Però volendo potrebbe anche esistere una speranza
nell‘umano che non nega il divino, o viceversa nel divino che non nega l‘umano.
Perché il difetto del pensiero che abbiamo finora considerato è che il divino è
un oltre che è la proiezione dell‘umano, l‘amplificazione all‘infinito del marchio della
sua finitezza. E dunque in questo senso il divino è un‘illusione, e la speranza, con
Freud, l‘avvenire di un illusione.
LXXVI
Omaggio ad AxisMundi
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Ma se per artificio il divino viene sempre più a coincidere con l‘umano, il futuro
si restringe sempre più col presente. Allora, per paradosso, la speranza più vera è
quella che non ammette più speranza, perché il futuro, la Perfezione, l‘Unione, la
Fratellanza, l‘Esistenza degli Uguali sono già realizzate nel qui-e-ora.
Questo può essere un pensiero paradossale, ma d‘altra parte vivere nel futuro
ci sottrae il sapore del presente. Mentre se si crede realmente in un cammino di
perfezione, di realizzazione, di evoluzione, questo non ha bisogno di proiettarsi nel
futuro, ma inizia già nel presente. E‘ già nel presente. Anche se il suo compimento
richiede X anni o secoli, in realtà, esso è già posto in essere in quell‘attimo del tempo
in cui io decido di perfezionarmi realizzarmi e assimilarmi al divino.
E richiede per realizzarsi di proiettarsi in un Dio che non sia troppo al di fuori
di noi, pena l‘essere irraggiungibile. Quel Dio, se vuole darci una chance, deve essere
già un po‘ nell‘uomo, già un po‘ uomo.
Tutto ciò richiede di non essere eccessivamente implicati con le cose mondane,
e dunque un atteggiamento di distacco.
Per lo yoga, i due requisiti essenziali per il conseguimento dell‘unione col divino
sono il distacco e la pratica costante.
Nella Bhagavad Gita, Arjuna, dopo l‘insegnamento di Krishna, che verte sulla
pratica dell‘agire senza agire, dell‘azione affrancata dalla aspettativa e dal risulta,
affronta la battaglia da guerriero impeccabile quale egli è, senza curarsi del fatto che le
persone che andrà a uccidere sono parenti, compagni, amici.
LXXVII
Omaggio ad AxisMundi
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perché di essi è il regno dei cieli‖, che nel suo bellissimo sermone Meister Eckhart
interpreta secondo l‘idea che il povero di spirito è colui che non vuole, non sa, non
possiede, e pertanto crea in se stesso un vuoto in cui può discendere lo spirito di Dio.
Così il momento presente si trasfigura nell‘eternità. Perché noi già siamo ciò
che saremo. Anche se ora lo siamo in forma incompiuta, embrionale, mancamentata,
possiamo se non altro presagire, intuire, per quanto confusamente, ciò che diverremo.
Se non c‘è questa intuizione del possibile, la speranza non può esistere. A
meno che non sia una virtù di maniera, a comando, indotta da una frettolosa lettura
della precettistica.
Questa visione forse è una visione umana troppo umana. Perché ci spinge a
cercare esclusivamente in noi il principio di salvezza. E a confidare in noi.
Ma può anche essere una visione divina troppo divina perché postula
comunque in noi un principio divino. Forse la speranza arriva dove non arriva la
percezione. Perché il principio di salvezza, individuazione, evoluzione, umano o divino
che sia, nei momento più oscuri proprio non arriviamo a sentirlo.
E allora deve intervenire la fede perché possiamo credere che comunque esista,
e la speranza perché oltre a credere che esista confidiamo nella sua efficacia.
Oggi, certo, deriva dei valori, e il materialismo effimero della società liquida
post-moderna mina innanzitutto la speranza in un oltre la miserabile aspirazione nelle
fuggevoli gratificazioni consumistiche. O meglio, il consumismo piega ai suoi fini la
speranza e la laicizza. Per indurre il consumatore ad acquisire sempre nuovi e
irraggiungibili prodotti, il mercato deve differire all‘infinito la gratificazione del bisogno,
creando sempre nuovi e più perfezionati e aggiornati oggetti di consumo. Così alimenta
la speranza di una gratificazione e quindi di una seppur effimera felicità, la felicità
consistente nell‘agognato oggetto di consumo, anche se questo poi viene spodestato
nel fine del desiderio da un altro più seducente oggetto.
LXXVIII
Omaggio ad AxisMundi
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Questo ci dice quanto sia illusoria una speranza che si astragga dal qui-e-ora.
Certo, non ci può essere dato tutto e tutto insieme, perché i nostri sensi e i nostri
corpi non son pronti a riceverlo.
Ma comunque il Regno dei Cieli esiste, ed è già dentro di noi. L‘invito non
poteva non essere fatto proprio anche dal papa: ―Per favore non lasciatevi rubare la
speranza, quella che ci dà Gesù‖. È questa la sua raccomandazione, mentre parlava a
braccio nella omelia della messa della domenica delle Palme di fronte a circa 200mila
fedeli, dopo di che ha aggiunto che‖ il diavolo è pronto a inserirsi nei momenti di
scoraggiamento‖.
Si possono dire le stesse cose da vari punti di vista, in ogni caso senza una
tensione ideale non si può raggiungere né la Vita Eterna né il compimento di se stessi
in questa vita, e la speranza conferisce questa tensione ideale.
LXXIX
Omaggio ad AxisMundi
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Esponendo il cervello destro a uno stimolo sessuale di tipo visivo che compare
nell‘emicampo di sinistra l‘individuo ne è consapevole, ma non è in grado di
interpretarlo – perché per far ciò lo stimolo dovrebbe pervenire all‘emisfero sinistro,
sede delle funzioni narrativo-interpretative – anche se sorride imbarazzato.
L‘unità della coscienza negli individui col cervello scisso è dimostrata dal fatto
che essi non sono in grado di eseguire due compiti cognitivi simultaneamente. In
questi pazienti ciò che accade nell‘emisfero destro resta totalmente escluso dalla
consapevolezza del sinistro per tutti i processi percettivi, cognitivi, volitivi, per
l‘apprendimento e la memoria. Tuttavia questi pazienti presentano un‘unitarietà della
LXXX
Omaggio ad AxisMundi
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L‘area del cervello adibita alla regolazione dell‘omeostasi fisiologica genera nella
sua attività una ―mappa‖ del funzionamento viscerale, dello stato del milieu interno.
Questa mappa è contigua ad un‘altrettanto importante mappa, a sede nel grigio
periacqueduttale e nei collicoli mesencefalici, la mappa del sistema muscolo-
scheletrico, che risulta dell‘integrazione delle propriocezioni provenienti dai muscoli
scheletrici (il tono muscolare, la postura e il movimento), e che costituisce lo schema
corporeo. La contiguità di queste due mappe spiega perché le emozioni hanno un
accesso immediato alla generazione delle azioni. Secondo Solms e Turnbull (2002),
l‘homunculus del tegmento dorsale mesencefalico e del grigio periacqueduttale
fornisce una mappa sensorimotoria combinata del corpo, che genera quelle che sono le
nostre più arcaiche spinte all‘azione.
LXXXI
Omaggio ad AxisMundi
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Non dobbiamo soffermarci tanto sull'autore quanto sul contenuto esposto. Secondo la
concezione Tradizionale ha valore solo il Significato dell'Ispirazione, non l'individualità che lo
presenta."
LXXXII
Antico documento semi serio sui vizi e le Virtù
__________________________________________________
Il dazio sull’Imbecillità
ovvero
Nuovi Doveri per un affrancamento dagli
imbecilli
Secondo le normali regole del vivere civile, ogni documento, che venga
portato all’attenzione di qualcuno, deve cominciare con un bel Titolo,
possibilmente anticipatore del contenuto che verrà proposto.
Nel caso del presente scritto, non è proprio possibile finalizzare in un
Titolo le proposte paradossali portate come oggetto di meditazione. Se la
Confraternita dei Saggi lo facesse, verrebbe giustamente sommersa da un coro
di pernacchie, perché per proporre l’infallibile metodo del Ridicolo si sarebbe
ricorsi ad una sintesi troppo seriosa, decisamente interpretabile in chiave
irresistibilmente umoristica.
Se la Confraternita ha una ragione “seria” di esistere, lo devono
decidere, in piena libertà, solo coloro che avranno avuto l’ardire di leggere fino
alla fine le poche paginette che seguiranno. Allo scopo di introdurre meglio il
lettore nell’atmosfera paradossale, la Confraternita ha deciso di utilizzare, sulla
falsariga dell’Antica Tradizione, una forma di raggruppamento degli argomenti
che verranno trattati sotto il tradizionale nome di Titoli, ben sapendo di correre
i rischi di essere tacciati di blasfema dissacrazione.
Solo allo scopo di dare qualche chiarimento, la Confraternita fa notare
che troppe volte, fra gli uomini, si trattano argomenti sulla base di arbitrarie
forme logiche di interpretazione. Per fare un esempio, che si spera chiaro,
l’Imbecillità non ha un suo contrario speculare. Innanzi tutto si deve notare che
non esiste una parola che definisca da sola una “non Imbecillità”. Se si dovesse
trattare direttamente la “non Imbecillità” non si saprebbe proprio da che parte
incominciare, senza correre il rischio delle citate pernacchie.
Perciò, è molto più semplice trattare dell’Imbecillità, che trova sempre
un suo complemento non speculare nella “non Imbecillità”, che sfugge però ad
ogni Titolo di ben identificato caso di nuovo Dovere.
La Confraternita assume un Principio assiomatico di base, che non può
essere messo in discussione né tanto meno essere oggetto di pernacchie:
l’Esistenza dell’Ontologia.
Non è un dogma. E’ l’unica cosa “seria” che permea quello che segue.
I
Antico documento semi serio sui vizi e le Virtù
__________________________________________________
II
Antico documento semi serio sui vizi e le Virtù
__________________________________________________
I. Il Decreto dell’Ontologia
II. Raccomandazioni per i Volontari
III. Distinzione fra Stupidità ed Imbecillità
IV. I sette Vizi e l’Imbecillità
V. Le categorie degli imbecilli
VI. L’affiliazione dei Volontari
VII. Le pene e le ricompense degli imbecilli
III
Antico documento semi serio sui vizi e le Virtù
__________________________________________________
I.
Il decreto dell’Ontologia
ossia
La dichiarazione di guerra dell’Ontologia contro le
Imbecillità teleologiche
IV
Antico documento semi serio sui vizi e le Virtù
__________________________________________________
II.
Raccomandazioni per i Volontari
V
Antico documento semi serio sui vizi e le Virtù
__________________________________________________
III.
Distinzione fra stupidità ed imbecillità
Come primo atto, il Consiglio ha arbitrariamente deciso di tracciare una
distinzione chiarificatrice fra imbecillità e stupidità (o stoltezza che dir si
voglia).
La stupidità, secondo una tale interpretazione, è una mancanza a priori,
spesso non deliberata, nelle capacità di distinguere le insensatezze nelle
percezioni degli eventi.
Perciò essa, pur irradiando Ridicolo, non appare determinante nella
generazione di sconquassi universali.
In genere, nella maggior parte dei casi, la stupidità elide sé stessa.
L’Imbecillità, invece, è legata a deliberate scelte di interpretazioni degli
eventi stessi, e perciò genera onde non del tutto casuali, che possono portare a
sconquassi a danno di tutti, imbecilli inclusi.
L’imbecillità si abbarbica negli uomini fin nel profondo ed è assai
difficile da sradicare.
Pur essendo molto discutibile, il confine di separazione, che è stato
tracciato, consente di assegnare valori di responsabilità sia alla Stupidità che
all’Imbecillità.
La Stupidità, essendo il più delle volte un fatto naturale, appare essere
casualmente nociva ma non deliberatamente pericolosa. Le Tariffe della
Stoltezza di Mateo Alemán sono ancora del tutto valide in materia di stupidità
e, perciò, non si ritiene che debbano essere sostanzialmente variate.
L’Imbecillità, invece, appare dipendere in larga misura dall’educazione
interiore e dalle esperienze accumulate.
Perciò, si può affermare che l’Imbecillità implica sempre una scelta
deliberata da parte di un uomo.
Che, poi, in definitiva, la scelta effettuata sia superficiale o profonda,
irresponsabile o a ragion veduta, consapevole o semi consapevole, il concetto
generale di scelta deliberata non resta inficiato.
Il Consiglio di Confraternita deve constatare che dal tempo delle Tariffe
delle Stoltezze il livello di educazione degli Uomini si è effettivamente
accresciuto.
Purtroppo deve anche constatare che è cresciuto in corrispondenza il
livello di Imbecillità e dato che un simile fatto non sembrerebbe logico, sia
secondo Ragione che secondo Ontologia, il Consiglio ritiene indispensabile
VI
Antico documento semi serio sui vizi e le Virtù
__________________________________________________
VII
Antico documento semi serio sui vizi e le Virtù
__________________________________________________
IV.
I sette Vizi e l’Imbecillità
Superbia/Fede
Un imbecille è sempre esposto alla Superbia, perché la Fede che nutre
nei suoi propri confronti tende ad essere illimitata. Il motto del superbo è : io
ho il potere, perciò posso.
La Superbia sarebbe già sufficientemente insopportabile di per sé, ma
l’imbecille, che si sente al sicuro, spesso diventa anche arrogante e
vanaglorioso, per via del potere che pensa di essere in grado di esercitare e
gestire.
E’ particolarmente difficile combattere un superbo, anche per il fatto
che è circondato da schiere di osannanti sottoimbecilli.
Forte di questo fatto, il superbo riesce perfettamente a superare la
difficile prova di guardarsi in uno specchio, anche per il fatto che per lui lo
specchio non esiste proprio.
Dato, però, che la provvida Ontologia esiste perennemente al di sopra
dei superbi, risulta molto più facile combattere un superbo attraverso gli altri
Vizi che di solito lo accompagnano, per esempio la Lussuria, che raramente
sfugge all’inesorabile avanzare dell’età.
La progressiva attenuazione dell’attrazione dei Vizi collaterali viene di
solito vissuta dal superbo come un’intollerabile offesa esistenziale nei suoi
confronti. Il superbo non sa scendere dal cavallo sul quale ha voluto salire. Ivi il
superbo è attaccabile.
Per i Volontari risulta estremamente difficile combattere un superbo
permanendo nella Leggerezza dell’Essere, senza farsi coinvolgere da legittimi
sdegni. Tuttavia, anche se non molto di frequente, nell’Esistenza si presentano
clamorosi esempi di cadute da cavallo, che mostrano tutto il Ridicolo della
sostanziale imbecillità del potere.
VIII
Antico documento semi serio sui vizi e le Virtù
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Avarizia/Speranza
Al contrario della Superbia, che ha sempre una forte componente
estroversa, quasi solare, l’Avarizia ha a che vedere con aspetti introversi e
lunari e per questo fatto l’imbecillità di un avaro ha sempre un aspetto triste e
patetico che nei casi limite raggiunge le vette negative della sordidezza, e così si
deve arrivare a pensare che l’Avarizia sia simile alla stupidità, essendo in
qualche maniera spontanea ed indipendente dalle forme educative che vengono
impartite durante l’esistenza. Il motto di un avaro è : il potere è secondario
rispetto alla sicurezza che deriva dalla coscienza di avere.
I Volontari dovrebbero chiedersi per quale aborto di significato si
uniscono nella medesima persona dell’avaro due Forze così abissalmente
diverse : da un lato la profonda insicurezza di chi non riesce ad affidarsi alla
Speranza e dall’altro la presunzione di costruire torri di difesa, che non possano
mai essere espugnate dagli eventi, perché fondate sulla solidità del possesso.
L’avaro non ha la sicurezza per riuscire a superare la dura prova dello
specchio ed è allora che la sua imbecillità lo aiuta ad acquisire il titolo di baro,
anzi di superbaro verso sé stesso.
Il Ridicolo nasce al momento dell’inizio del confronto fra l’avaro e
l’immagine riflessa dallo specchio.
Ai Volontari non è concesso il privilegio di assistere in diretta a tale
confronto, ma è immaginabile la varietà dei salti mortali che un avaro è
costretto ad inventarsi, perché appare indubbio che un particolare salto mortale
IX
Antico documento semi serio sui vizi e le Virtù
__________________________________________________
non può diventare un repertorio fisso e perenne per superare tutte le prove
dello specchio.
Lo specchio richiede sempre nuovi repertori e . perciò, il Ridicolo della
recitazione di un avaro davanti allo specchio appare tanto più evidente quanto
più si pensa agli sforzi ai quali viene sottoposta la sua stessa inventiva .
L’Ontologia, come sempre clemente e molto misericordiosa, consente
all’avaro di evadere dalla sua prigione, con l’aiuto di un lampo di Luce, che
distrugge la torre, sua dimora difensiva, che notoriamente si trova nel quartiere
chiamato Avere. Rispetto al superbo, l’avaro deve avere solo il coraggio di
pisciare su sé stesso e sul suo architetto di fiducia, che è una penitenza molto
lieve se paragonata a quella, senza appello, che alla fine riceve il povero
superbo.
Perciò è del tutto lecito ed altruistico che i Volontari contribuiscano
attivamente, sempre che siano in Leggerezza di Essere, ad accrescere il Ridicolo
che aleggia intorno all’avaro, soprattutto per il fatto che il Ridicolo opera
attivamente in favore della sua stessa catarsi.
Un avaro che accettasse di ridere su sé stesso, mentre procede nella
pisciata purificatrice, potrebbe essere sulla strada di diventare un prodigo.
Invidia/Carità
L’invidia è un orribile vizio, che trascina gli invidiosi negli aridi deserti
della solitudine, dove è difficile trovare vie di uscita. Il motto dell’invidioso è :
la Fortuna è maligna con me, mentre è ingiustamente benigna con altri, perciò,
per ristabilire l’equilibrio, è giusto volere loro in po’ di male.
L’imbecillità degli invidiosi ha quasi sempre connotati che sono parenti
stretti di quelli che si trovano nell’infantilismo. I Volontari riescono ad
osservare con facilità la nascita dell’Invidia e la sua crescita.
Il Ridicolo, del tutto paradossale, di una simile crescita sta nel fatto che
un invidioso è come uno che pretende di guarire il livido, che inavvertitamente,
con una incauta martellata sul proprio dito è stato lui stesso a generare,
continuando nell’opera di martellamento sul medesimo dito.
Sembra che esista una specie di voluttà, da parte dell’invidioso, nel
procurarsi un aumento della propria povertà interiore spacciandola per una
ricchezza, giustificandola come un dono di una superiore imparzialità di
giudizio.
Ai Volontari appare evidente la somiglianza dell’Invidia ai capricci di
un bambino viziato. Perciò è lecito ridere di cuore di fronte alle manifestazioni
di improvvide invidie.
X
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Gola/Temperanza
La Gola si esprime in una strana forma di imbecillità che tende ad
estendersi, senza fine, all’infinito. Se la Gola potesse estinguersi una volta che si
sia esaudito un desiderio, allora non sarebbe più un Vizio, ma al contrario un
indispensabile strumento per il proprio miglioramento. Invece non è così,
poiché la Gola è strettamente legata alla fantasia : ad ogni esaurimento di un
desiderio, immediatamente, provvede ad abbellire i gioielli che ornavano il
desiderio, generando una specie di perpetua fata morgana. Essa sembra
sempre di poter essere raggiunta definitivamente dall’imbecille che perpetua le
fantasie, mentre, in realtà mantiene una distanza inviolabile.
Il motto del goloso è : ho deciso di dissetarmi con la sete del desiderio.
La fata morgana viene anche chiamata più nobilmente l’angelo della finestra di
occidente, che notoriamente non riesce mai a scaldare i cuori.
Talvolta, l’imbecillità si spinge a tal limite da rivestire con veste sacrale
l’aspetto dell’angelo, per dargli una forma assolutamente meritoria, tipica di
ogni genere di adorazione. I Volontari sanno benissimo che una sana pisciata
del primo tipo, quella cioè sui simboli della falsa sacralità, può aiutare a guarire
un goloso, ma purtroppo è un fatto accertato che un goloso appartiene alla
schiatta dei creduloni, che sembrano essere molto restii ad abbandonare i sogni
ad occhi aperti.
Stranamente, la Gola fa più male ai singoli imbecilli che non alla
schiera globale dei golosi. La Gola è un vizio solitario.
Il Ridicolo non ha una presa diretta sul singolo, ma piuttosto potrebbe
induce a ripensamenti salutari qualora il goloso, applicandolo ad altri golosi
con i quali viene in contatto, alla fine riesca ad intendere che egli stesso si trova
nelle medesime vane condizioni.
Ogni Volontario dovrebbe meditare sul fatto strano che nessun goloso
prova Invidia per la Gola degli altri.
XI
Antico documento semi serio sui vizi e le Virtù
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Lussuria/Giustizia
La Lussuria è un Vizio pericoloso perché, essendo risonante, tende ad
espandersi, trovando, alleati in altri lussuriosi convinti e temporanei.
Il lussurioso è un apprendista stregone, che crede di poter manifestare
sé stesso in qualsiasi direzione gli venga in mente. Il suo motto è : io sono, io
sono libero, io sono bravo, perciò posso essere molto di più di quello che sono.
Il lussurioso è una specie di avventuriero che si addentra nelle lande
dell’imbecillità, che si aprono invitanti a tutti coloro che come lui sono
maldestri autodidatti nella propedeutica alla Superbia .
Il lussurioso non si domanda mai se sarà all’altezza dei compiti.
L’imbecillità dei lussuriosi nasce e si accresce per via di meccanismi che
sono poco chiari, soprattutto a loro stessi, proprio perché sono imbecilli. Un
evento esterno non provocato è quasi sempre una sorgente di tentazioni, che il
lussurioso imbecille provvede ad accrescere con opportune risonanze frutto
della propria mente.
Il lussurioso esegue uno strano Solve, aggiungendo invece che
sottraendo e così procede. In paragone alla Gola, che spinge ad agire su oggetti
da raggiungere, la Lussuria agisce sui soggetti, cercando di fare aumentare le
loro spinte verso la manifestazione.
Se in tale opera si aggiungono risonanze esterne di lussuriosi alleati ,
avviene un fatto quanto mai strano, poiché il lussurioso aggiunge alla propria
risonanza una sua interpretazione arbitraria della Lussuria degli altri.
Altrettanto avviene ai lussuriosi che sono stati indotti a cooperare, ma pochi si
rendono conto che si tratta in genere di risonanze effimere ed incongrue, che si
accrescono in modi fra loro indipendenti, ma che spesso terminano senza
preavviso.
L’imbecillità della Lussuria tende a dare l’illusione che si può generare
una falsa operatività, anche collettiva, che i poveri imbecilli lussuriosi
desiderano di godere senza avere la capacità di controllarla.
Il Ridicolo di tutte queste vicende sta nel fatto che i lussuriosi credono
di accrescere la propria Potenza e invece la diminuiscono. Un lussurioso si
avvia nella sua opera con un iniziale sapore dolce in bocca che alla fine
degenera in amaro.
La condivisione delle risonanze, come opera attiva di Lussuria, è di
natura instabile e tende al disordine. E’ come nel caso di uno speculatore che
investe in qualcosa, sperando in un aumento finale del capitale collettivo, che
alla fine delle operazioni si ritrova in mano carta straccia.
XII
Antico documento semi serio sui vizi e le Virtù
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Ira/Prudenza
L’imbecillità causata dall’Ira è assolutamente cieca. Colui che è in preda
all’Ira non riesce a comprendere che alla base dei suoi scatti si cela una
inconfessabile onnipotenza, che non viene presa nella dovuta considerazione
dagli eventi e da coloro che vi partecipano. Il motto dell’iracondo è : voi non
sapete chi sono io, perciò mi si arreca un grande affronto.
La cosa sommamente ridicola è che il primo a non sapere chi sia è
proprio lui, l’iracondo. L’Ontologia clemente e misericordiosa viene spesso in
aiuto agli iracondi, riproponendosi sotto altre spoglie, cioè la Pazienza e la
Prudenza che sono le chiavi per venire fuori dai circoli viziosi dell’Ira. In tal
modo offre la possibilità di non far degenerare l’Ira in Rancore, che rappresenta
una recidività oltremodo dannosa se diventasse sistematica.
I Volontari possono avere un ruolo determinante se usando insieme la
Saggezza e il Ridicolo, una volta che l’Ira sia sbollita, riescono a rappresentare
artisticamente, alla mente dell’iracondo, l’esilarante situazione di un imbecille
che si gonfia della propria importanza. Se l’iracondo riesce a pisciare su sé
stesso ridendo, allora è fuori pericolo.
Accidia/Fortezza
L’imbecillità da circolo vizioso è quello che viene garantita dall’Accidia.
Purtroppo il Ridicolo associato all’Accidia è di natura un po’ astratta e
difficilmente si riesce a dare un aspetto ridicolo all’accidioso, anzi, al contrario,
l’accidioso tende a destare negli osservatori un senso di pena ma anche di
grande irritazione. Il vero ridicolo è nel meccanismo : come si rende possibile
un circolo vizioso fatto di mancanze di ispirazioni e di volontà ad agire da un
lato, mentre dall’altro permane un profondo stato di disagio e di assenza di
individualità nell’incapacità di agire ?
Perciò, i Volontari sono impegnati in una dura battaglia contro una
imbecillità che deriva da un’assenza di stimoli, incluso il Ridicolo, perché
l’Accidia è il vizio meno ridicolo.
Ma forse, proprio per un tale motivo, l’Ontologia è un po’ meno
clemente e misericordiosa con gli accidiosi. Di solito le pisciate sono meno
efficaci.
XIII
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XIV
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V.
La Categorie degli imbecilli
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Gli inquisitori
Le autorità costituite
I partecipanti alla vita pubblica
I predicatori
I predicatori, salvo rarissime eccezioni, sono insopportabilmente noiosi,
cosa che convalida la fondamentale intuizione della strettissima correlazione
che esiste fra noiosi ed imbecilli.
Guai agli sprovveduti che imprudentemente si abbandonano alle seduzioni
delle prediche, che iniziano spesso benissimo, ma che alla fine invariabilmente
terminano nei moti di Brown della noia più assoluta. I predicatori,
salomonicamente, possono essere ripartiti in arbitrarie sotto categorie.
- Gli informatori che imperversano attraverso i “media”
- I conferenzieri e gli intervistati
- I profeti di sventura
Gli uomini che si occupano di “media” sono una delle piaghe, quasi
bibliche, dei tempi moderni, dato che il loro apporto alla diffusioni di inutili
imbecillità, con la scusa della funzione sacra ed insopprimibile delle
informazioni, sta aumentando in misura esponenziale. Anche una non
informazione è un’informazione, ma così procedendo dilaga anche l’incoerenza,
e questo fatto mette in ridicolo ogni funzione sacra. L’Imbecillità, in questo caso,
si misura osservando quanto grande sia la differenza fra l’apparente serietà del
lavoro degli informatori svolto in primo piano, con una consumata abilità da
guitti e la realtà degli sfondi degli scenari, dove non c’è molto spazio per le
mistificazioni. I giornalisti rappresentano le truppe di assalto degli informatori.
I conferenzieri spesso sono imbecilli vanitosi e ancora di più lo sono
coloro che desiderano essere intervistati, che colgono l’occasione per dire cose
che dopo una settimana nessuno riesce a ricordare, perché non interessano più
nessuno.
Infine i profeti di sventura : fin dall’Apocalisse, ma in realtà da sempre, si
possono trovare indegni imbecilli che si compiacciono di spaventare altri
imbecilli più sempliciotti di loro. Una delle fonti più feconde di risate consiste
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Gli inquisitori
Sono una orribile sottocategoria di imbecilli, ma spesso hanno la
medesima inconsistenza dei “guardiani della soglia”, spaventosi mostri che,
affrontati, svaniscono nel nulla.
La loro imbecillità si palesa nell’intransigenza più assoluta. Il
Volontario, affrontandoli, non si fa incantare dalla loro estrema e apparente
cattiveria, ma si sofferma piuttosto sullo squallore della loro concezione del
ruolo dei carismi, in particolare i loro.
Paragonando la differenza di potenziale fra le loro pretese di ruolo
sacrale e la realtà della loro meschinità esistenziale, compare una forma tutta
particolare di Ridicolo, che può rappresentare una vera salvaguardia verso una
solare libertà.
La domanda che ognuno dovrebbe porsi, con grande onestà interiore, è
: come si diventa inquisitore ?
La risposta dovrebbe essere sufficiente a disgustare chiunque, nel
proprio sdegno, avesse vaneggiato su nobili ruoli degli inquisitori.
I fustigatori di costumi sono una insopportabile sotto schiera degli
inquisitori, che di solito si dedicano a tale mestiere per via di qualche effimero
successo pubblico, che li incoraggia ad allargare l’orizzonte delle possibili
fustigazioni.
Non possiedono il talento degli inquisitori. Dopo una breve carriera da
falsi esperti, raggiungono l’assurda convinzione di poter fustigare ogni cosa,
avendo ormai raggiunta per sempre la statura morale di chi sa tutto. Purtroppo
per loro, sono in tal modo costretti a distribuire i loro ridicoli sforzi su aree
sempre più ampie ed alla fine sono ridotti a fustigare il niente, pur di fustigare
qualcosa.
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Le autorità costituite
L’Imbecillità da autorità costituita ha una genesi del tutto particolare. In
un vano tentativo di sostituirsi alla Gerarchia, che nvece è una cosa seria ed
anche sacrale, l’Imbecillità da autorità costituita si forma di pari passo con il
successo in una qualsiasi carriera di natura profana. Più si procede nella
carriera, maggiormente si afferma una stupida fede nei giusti diritti che
spettano ad ogni autorità, soprattutto quella propria.
Spesso basta guardare con attenzione l’espressione di simili imbecilli
per essere assaliti da una irresistibile ilarità. L’Ontologia, clemente e come
sempre misericordiosa, ci ha concesso, insieme alle piaghe da informazione
anche il sollievo delle risate che nascono dall’osservazione di fisionomie ridicole
nella loro pseudoautorità quando esercitano le loro funzioni.
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XIX
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VI.
L’affiliazione dei Volontari
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XXI
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VII.
Le pene e le ricompense degli imbecilli
L’argomento è paradossale, come tutto quanto è contenuto in questi
Nuovi Doveri.
Il paradosso nasce dal punto di vista di come si considerano le pene e le
ricompense. Dal punto di vista della clemenza e della misericordia, che cerca
sempre di ricuperare i singoli imbecilli, le penitenze dovrebbero essere le
medesime che i Volontari si auto infliggono quando, avendo compreso i loro
peccati da imbecilli, si redimono pisciando secondo la gravità delle loro colpe, o
almeno lo cercano. Perciò non sono affatto pene, ma piuttosto benefici, che
naturalmente non vengono considerati tali dagli imbecilli.
Se, invece, gli imbecilli non si redimono, scatta l’aggravante, e allora,
sempre dal punto di vista della clemenza e della misericordia, si ritiene
opportuno comminare strane forma di benefici, che consistono in taciti
incoraggiamenti nel far proseguire sulla strada dell’imbecillità. Ossia è come se
si volesse guarire un ladro incoraggiandolo a rubare, cercando in tal modo di
poter sconfiggere l’ottusità degli imbecilli inducendoli ad atti di più profonda
Imbecillità. Il vero beneficio, però, è diretto a coloro che partecipano
indirettamente alla Grande Farsa, seduti nel teatro, che aspettano a Gloria il
momento di scoppiare a ridere di fronte al talento degli attori che, non sapendo
di recitare davanti ad un attento pubblico, ce la mettono proprio tutta in una
realistica interpretazione dell’Imbecillità. Se la recita è fatta secondo i canoni del
Ridicolo, allora si rivela il grande beneficio accordato a coloro che per una
ragione o per un’altra non si sono ancora cimentati sul palcoscenico.
Il bello della Grande Farsa è che va avanti senza registi, sebbene gli
imbecilli ritengano che il copione sia stato scritto a ragion veduta, anche se
nessuno sa da parte di chi. Gli spettatori, presi dalle trame, la cui logica appare
incomprensibile, talvolta sono indotti a sospettare l’esistenza di un grande
burattinaio con arcani obiettivi da raggiungere.
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XXIII
Contributi
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