Libro 2
Libro 2
La mente modulare si sposa alla perfezione con la metafora del coltellino svizzero
(Tooby, Cosmides, 1992): non esiste un risolutore generale di problemi perché non
esistono problemi generali da risolvere. Reticenza nei confronti del darwinismo risiede
nel fondamento cartesiano di C e F, ossia l’idea che il linguaggio rsppesenti una capacità
in grado di distinguere qualitativamente gli umani da altri animali. Oltre a questo c’è
l’idea che il linguaggio sia un’entità straordinariamente complessa. Il tema della
complessità ha sempre creato preblemi alla teoria dell’evoluzione. Argomenti degli
organi incipienti usato da MIvart (1871) ai tempi di Darwin: se un’ala allo stato iniziale
non permette di volare, che tipo di vantaggio può assicurare a un organismo? Il discorso
vale per il linguaggio: quale vantaggio comunicativo può rappresentare possedere uno
spezzone iniziale di GU? La conclusione di C. è che la GU è un dispositivo tutto-o- nulla
difficilmente conciliabile con la selezione naturale. Ma non tutti i fautori della GU sono
d’accordo. Pinker e Bloom (1990) aderiscono a una prospettiva compatibilista. I due
autori utilizzano l’argomento della complessità adattativa: poiché il linguaggio è un
sistema complesso e visto che l’unico modo di spiegare la complessità in natura (che non
sia il creazionismo) è il riferimento alla selezione naturale.
Dire che un sistema è innato e specializzato significa dire che è un adattamento dovuto
alla selezione naturale. Allora avviene una revisione di alcuni assunti di fondo della GU.
Nell’ultima fase del suo pensiero (minimlismo) C. sostiene la necessità di distinguere tra
una facoltà in senso ampio (FLB) e facoltà in senso stretto (FLN). Mentre la FLN
include soltanto il sistema astratto di computazione (governato dalla ricorsività
sintattica) che opera in modo autonomo rispetto agli altri sistemi cognitivi, la FLB è un
sistema più ampio che include il sistema senso-motorio e quello concettuale-
intenzionale. L’idea di fondo del programma minimalista è che il nucleo essenziale del
linguaggio si riferisce alla FLN. La recursion-only hypotesis ha l’effetto di disinnescare
l’argomento della complessità adattativa aprendo la strada all’idea che il linguaggio
possa essere spiegato senza fare appello al gradualismo: se il linguaggio è un dispositivo
semplice allora non è necessario chiamare in causa la selezione naturale per spiegarne
l’origine. Pinker e Jackendoff (2005) però sostengono ce le caratteristiche che rendono
unico il linguaggio coinvolgono anche il piano della FLB riportando alla ribalta il tema
della complessità.
1.3 Unicità
Alla base dell’argomento di Chomsky è la credenza che il linguaggio sia uno strumento
del pensiero prima che della comunicazione. Sostenendo una tesi di questo tipo C.
accorda alla “funzione cognitiva” (l’idea che il linguggio abbia un ruolo costitutivo nei
pensieri) un netto primato rispetto alla “funzione comunicativa” (l’idea che il linguaggio
sia uno strumento di espressione dei pensieri). Tuttavia, Pinker e Jackendoff (2005)
sostengono che la mossa di
escludere la funzione comunicativa del linguaggio dal nucleo dei suoi tratti caratteristici
mette in serio pericolo l’intero impianto del minimlismo (vedi cit. pag 35). Inoltre, a
conferma della tesi che la GU sia intrinsecamente legata alla funzione espressiva del
linguaggio è il fatto che essa incarna il modello classico della comunicazione: il
“modello del codice”. Secondo tale modello il pensiero (messaggio) viene codificato dal
parlante in una successione di suoni che l’ascoltatore decodifica al fine di poter
condividere il pensiero (messaggio) che il parlante ha inteso comunicargli.
1.4 Conclusioni
Secondo Clark (1997) l’impalcatura esterna per eccellenza di cui si servono gli umani è
il linguaggio. Considerare le capacità verbali umane un artefatto culturale prodotto dalle
pratiche comunicative dei gruppi sociali è un modo per mettere in discussione l’idea del
linguaggio come un componente innato e specializzato della mente umana. Esaltare
l’idea del linguaggio come costituente esterno significa considerare il codice espressivo
(le lingue storico-naturali) la struttura essenziale del linguaggio. Se la capacità
comunicativa umana è possibile senza chiamare in causa dispositivi interni (innati e
specializzati) di elaborazione, allora il linguaggio è possibile senza una facoltà di
linguaggio (sotto la superficie non c’è alcuna struttura profonda da indagare).
La rivendicazione del ruolo costitutivo del linguaggio sul pensiero messa in atto dai
fautori della mente estesa ha alle proprie spalle una lunga tradizione di pensiero: il
determinismo linguistico.
Il punto di vista più radicale del relativismo linguistico è quello sostenuto da Whorf
(1956) attorno alla metà del Novecento. La cosiddetta ipotesi Sapir-Whorf trova
fondamento nello stretto legame e nella profonda interdipendenza tra due assunti teorici:
il “determinismo linguistico” (secondo cui i pensieri degli individui sono determinati
dalle categorie della propria lingua) e il “relativismo linguistico” (per il quale diverse
lingue determinano pensieri diversi). Deteminismo e relativismo linguistici radicalizzano
l’idea che il linguaggio abbia un ruolo nella costituzione del pensiero. Le difficoltà
maggiori dell’ipotesi di Sapir-Whorf riguardano una concezione della mente (simile alla
tabula rasa) che è del tutto inconsistente sul piano empirico e che è incapace di dare
conto di ciò che per i neoculturalisti rappresenta il nodo essenziale della natura della
comunicazione umana: la variabilità linguistica in una prospettiva sintetica del
linguaggio.
Abbandonata l’ipotesi del ruolo costitutivo del linguaggio nel pensiero, la tesi oggi
prevalente è che il linguaggio abbia un ruolo nella formazione del pensiero. (Levinson lo
chiama «effetto Whorf»). Anche Everett prende parte alla revisione del whorfismo
sostenendo che «le lingue possono influenzare (non determinare) il modo in cui
pensiamo». L’idea che il linguaggio abbia un ruolo nella costituzione del pensiero
dev’essere di nuovo posta al centro del dibattito sulla comunicazione umana: la
questione da risolvere ai fini dell’analisi della facoltà di linguaggio è il problema di
come il relativismo e la diversità dei codici espressivi incidano sulla questione
dell’innatismo e degli universali. Per quanto riguarda gli argomenti più specifici, la tesi
dei neoculturalisti è che la variabilità che caratterizza i codici espressivi chiami in causa
sistemi cognitivi estremamente flessibili. Ora poiché i sistemi modulari hanno un
carattere di forte rigidità (rispondono allo stimolo in modo obbligato e determinato), la
conclusione dei neoculturalisti è che la variabilità linguistica debba essere pensata in
riferimento ad architetture cognitive povere di determinazioni interne (sistemi di
elaborazione non modulari). Ma allo stato attuale della ricerca non è più possibile
formulare ipotesi sulla natura umana senza tenere conto dei risultati teorici e
sperimentali della scienza cognitiva applicata allo studio della mente. Il punto che ci
preme sottolineare, indipendentemente dalla prospettiva adottata, è che la variabilità
delle lingue rappresenta un problema in più da risolvere e non la soluzione.
Sostenere che i tratti essenziali del linguaggio sono incarnati nei codici espressivi
significa considerare la verbalizzazione umana un artefatto culturale più che il prodotto
dell’evoluzione biologica. Evans e Levinson sostengono che nessuna proprietà del
linguaggio può essere interpretata in termini di universali. Secondo i due autori persino
la ricorsività sintattica è un fatto culturale che varia da lingua a lingua. Secondo queste
considerazioni la struttura profonda non rappresenta il costituente essenziale del
linguaggio umano. Ai fini del nostro discorso è importante capire se le critiche dei
neoculturalisti comportino la rinuncia all’idea della facoltà di linguaggio intesa come un
sistema innato e specifico di elaborazione o se le critiche dei neoculturalisti comportino
l’esclusione dal linguaggio di qualsiasi riferimento a dispositivi innati e specifici di
elaborazione.
Dal punto di vista dello sviluppo cognitivo, l’evoluzione della mente umana può essere
interpretata nei termini di un graduale incremento delle possibilità di “sganciamento” dal
qui e ora guadagnato attraverso proiezioni in spazi e tempi diversi da quello attuale. Con
il pensiero simbolico (condizione alla base della capacità ipotetico-deduttiva umana) la
nostra specie raggiunge il grado più elevato di distacco dalla situazione stimolo
ambientale. La capacità di sganciamento dal qui e ora non è una capacità che si
guadagna in un colpo solo: in uno dei libri più rappresentativi degli approcci
evoluzionistici allo studio della mente, Donald (1991) sostiene due cose importanti: 1) la
cultura è l’espressione diretta dei sistemi di rappresentazione mentale; 2) l’evoluzione
dei sistemi di rappresentazione nel processo di ominazione è caratterizzata da un
incremento progressivo delle capacità di proiezione. Le considerazioni fatte nel
paragrafo precedente in riferimento alla rappresentazione spaziale presentano profonde
affinità con il caso del tempo. L’idea che la rappresentzione del tempo debba essere
interpretata come un fatto eminentemente culturale è fortememte sostenuta nel dibattito
contemporaneo. Il caso più noto è quello dei Pirahã, la popolazione indigena studiata da
Everett (2005 e 2012). Essa è l’unica lingua senza numeri, numerali o concetti relativi al
contare. Manca di termini relativi alla quantificazione come “tutto” o “ciascuno”. È
l’unica lingua senza termini di colore…(vedi cit. pag 65). La spiegazione proposta da
Everett è che tutte le specificità riscontrate nella lingua pirahã dipendano dal fatto che la
cultura pirahã evita di racccontare ciò che non è riferibile all’esperienza personale
immediata. Secondo Everett i Pirahã sono individui legati al qui e ora della situazione
contestuale. Per Everett è la cultura e non la lingua a costituire le menti degli individui.
La maggior parte della ricerca è oggi impegnata nel progetto di una visione sintetica e
integrata della natura umana. Un errore speculare rispetto a quello culturalista è quello
messo in atto dai fautori della sociobiologia a partire dagli anni settanta del Novecento:
un modello interpretativo fondato sulla riduzione del comportamento alla genetica degli
individui (Wilson, 1975). Secondo la teoria del «gene egoista» (Dawkins, 1976) il
comportamento individuale è il prodotto diretto delle attività dei geni e le condotte
sociali sono il prodotto diretto delle attività individuali. Per il suo carattere
unidirezionale la sociobiologia sembra inadatta a garantire una prospettiva sintetica della
natura umana. In effetti, la sociobiologia incorre in una forma di dualismo: nel libro sul
gene egoista Dawkins sostiene che, poiché la trasmissione culturale deve fare
riferimento ai «memi», un tipo di replicatore completamente diverso dai geni,
l’evoluzione culturale non ha nulla a che fare
con quella biologica. Per Dawkins la cultura segna quindi una cesura netta tra gli umani
e gli altri animali. Un’altra considerazione da fare è che la sociobiologia ha una
concezione completamente inadeguata del mentale: la cognizione, infatti, sembra essere
ridotta la funzionamento dei circuiti cerebrali. La nostra idea è che per dar corpo a una
prospettiva non dualistica dei rapporti tra biologia e cultura sia necessario riflettere sul
ruolo giocato dai sistemi e dai processi cognitivi coinvolti nei rapporti tra pensiero e
linguaggio. La difficoltà dei neoculturalisti a realizzare un reale progetto di unificazione
tra biologia e cultura sono legate alla questione della plausibilità cognitiva dei loro
modelli concettuali. Per superare queste difficoltà sono necessarie due mosse 1) le
critiche alla GU non bastano a garantire una prospettiva sintetica del linguaggio umano:
assumere la diversità delle lingue come un fattore fondamentale significa impegnarsi
anche sul tipo di architettura cognitiva in grado di gestire sistemi espressivi, come le
lingue storico-naturali; 2) chiamare in causa la tesi della coevoluzione tra linguaggio e
cervello (plausibilità evouzionistica)
2.7 Conclusioni
L’argomento della diversità delle lingue non consente di escludere la possibilità che il
linguaggio pur non essendo un modulo specifico, abbia bisogno di sistemi modulari per
funzionare. La generalizzazione indebita fatta dai neoculturalisti trova alimento nell’idea
del linguaggio come artefatto culturale: la critica agli universali linguistici non serve
solo per mettere in discussione l’ipotesi del linguaggio come un modulo, ma anche per
criticare l’idea che il linguaggio possa essere considerato un adattamento biologico
dovuto alla selezione naturale.