Dispense PDF
Dispense PDF
Università di Brescia
ECONOMIA POLITICA
!2
PROGRAMMA DEL CORSO
Requisiti indispensabili
Obiettivi
!3
Indicazioni bibliografiche
• La dispensa che stai leggendo raccoglie il materiale discusso in aula. Essa sintetizza e
commenta i seguenti testi (cui si rimanda per chiarimenti ed approfondimenti):
1. John Sloman, Elementi di economia, Il Mulino. [Esclusa la terza parte].
2. Mario Cassetti, Concorrenza, valore e crescita: modelli di economia classica,
Franco Angeli. [Esclusi i paragrafi contrassegnati con l’asterisco].
3. Alessandro Roncaglia, Lineamenti di economia politica, Laterza [Solo i paragrafi
1-11].
4. Olivier Blanchard, Macroeconomia, Il Mulino. [Solo appendici 2 e 3 e glossario].
Metodo didattico
• Lezioni in aula
• Seminari
• Assistenza individuale dopo le lezioni e nell’orario di ricevimento
• NB: Tutti i servizi didattici sono aperti anche ai non iscritti.
Valutazione
• La valutazione si basa su una prova finale scritta. L’eventuale uso di libri o appunti
durante l’esame sarà deciso all’inizio del corso di comune accordo con gli studenti. È
comunque facoltà di ogni studente richiedere una prova integrativa orale.
Docente
!4
INDICE
II. MICROECONOMIA
1. L’impostazione neoclassica
2. Domanda individuale e domanda di mercato
3. Elasticità e aggiustamento dei mercati
4. Offerta dell’impresa e offerta di mercato
5. Forme di mercato
III. MACROECONOMIA
1. Problematiche macroeconomiche
2. La determinazione del reddito nazionale e la politica fiscale
3. Moneta e politica monetaria
4. Il modello IS-LM
!5
INTRODUZIONE E INQUADRAMENTO STORICO
• L’economia politica studia i rapporti economici del capitalismo. Si tratta dunque di una
scienza relativamente giovane. Ma si tratta anche di una scienza particolarmente viva,
in cui si sono rapidamente sviluppate concezioni diverse, a volte come processo
cumulativo di crescita scientifica a partire da premesse comuni, altre volte come
confronto critico tra teorie alternative, incompatibili tra loro.
• Non esiste una definizione unanimemente condivisa di cosa sia il capitalismo. Spesso, è
definito semplicemente come un sistema economico fondato sul mercato. Si tratta
tuttavia di una definizione imprecisa poiché la presenza del mercato caratterizza sistemi
economici assai diversi tra loro.
• Iniziamo dunque la nostra indagine con una breve ricognizione storica sullo sviluppo
dell’economia politica e consideriamo poi i tratti distintivi del capitalismo e il processo
di estensione e generalizzazione dei rapporti di mercato che ha accompagnato il
tramonto del modo di produzione feudale.
• Il termine “economia politica” viene dal greco: oîkos = casa, nómos = legge, pólis sono
le città stato dell’antica Grecia.
• La nascita dell’economia politica come scienza autonoma si deve, secondo alcuni
storici del pensiero economico, a William Petty, nel XVII secolo: il suo obiettivo è di
descrivere, non di giudicare, il funzionamento della società, misurando i fenomeni
economici e individuando “leggi economiche”, cioè relazioni sistematiche tra i diversi
aspetti della realtà economica che operano indipendentemente dalla volontà dei soggetti
economici. Petty usa i termini di aritmetica politica o anatomia politica.
• Molti storici individuano nello scozzese Adam Smith (XVIII secolo), più che in Petty, la
nascita dell’economia politica classica. Nella rappresentazione di Smith, la società è
divisa in tre classi sociali: capitalisti, proprietari terrieri e lavoratori. Il reddito
nazionale, cioè il valore di quello che viene prodotto in un anno nell’economia, si
distribuisce tra le tre classi sociali sotto forma di profitti, rendite e salari. Secondo
Smith, i rapporti tra classi sociali non sono conflittuali, ma armonici. Il mercato è lo
strumento che permette di conciliare il perseguimento dell’interesse personale con la
desiderabilità sociale.
• Secondo l’economista inglese David Ricardo (tra il XVIII e il XIX secolo) il compito
principale dell’economia politica è lo studio delle leggi che regolano la distribuzione
del reddito tra le classi sociali. A differenza di Smith, Ricardo considera i rapporti tra
classi sociali come necessariamente conflittuali e, nello scontro tra capitalisti e
proprietari terrieri — che poi riflette il conflitto tra la nobiltà ormai decadente e la
borghesia in rapida ascesa economica e sociale — prende posizione in difesa dei
capitalisti.
!6
• Marx (XIX secolo) sviluppa la visione conflittuale della società, schierandosi
apertamente dal lato dei lavoratori. La sua critica riguarda non solo il capitalismo, ma
anche la rappresentazione che ne fornisce l’economia politica borghese. Oltre a cercare
di spiegare i meccanismi di funzionamento del sistema economico, Marx cerca di
spiegare le ragioni per cui gli economisti tendono a rappresentarlo sposando il punto di
vista delle classi dominanti.
• In generale, secondo la definizione degli economisti classici, l’economia politica è una
scienza sociale che studia le caratteristiche di un sistema sociale dal punto di vista della
produzione, distribuzione e impiego del reddito.
• Nel 1870, compaiono tre testi di autori di diverse nazionalità, Léon Walras, Stanley
William Jevons (francese il primo, britannico il secondo, fondatori della scuola
neoclassica) e Carl Menger (fondatore della scuola austriaca) che diventano
rapidamente i nuovi riferimenti teorici in materia economica, soppiantando gli approcci
ricardiano e marxiano, allora assai diffusi.
• Il cambiamento radicale a livello teorico e metodologico rispetto all’approccio classico
e marxiano porta a definire questa svolta teorica come una rivoluzione scientifica: la
“rivoluzione marginalista”.
• Il termine “marginalista” fa riferimento all’uso del calcolo differenziale come metodo
universale di analisi delle questioni economiche. Secondo un importante economista e
storico del pensiero economico, Joseph Schumpeter, ciò che accomuna la scuola
neoclassica e quella austriaca è il rifiuto dell’approccio classico e marxiano basato sulla
teoria oggettiva del valore e la proposta di una teoria del valore di tipo soggettivo. L’uso
del calcolo differenziale è invece sviluppato unicamente dalla scuola neoclassica, dato
che la scuola austriaca mantiene una posizione critica nei confronti del formalismo
matematico. Da questo punto di vista sarebbe più corretto parlare di “rivoluzione
soggettivista”, piuttosto che “marginalista”.
• L’approccio marginalista-soggettivista si basa su due aspetti fondamentali: (1) l’utilità
soggettiva come fondamento della teoria del valore; (2) l’ipotesi che i soli soggetti
economici rilevanti siano gli individui, il che significa che tutte le proposizioni
economiche devono essere costruite a partire da postulati riguardanti le regole di
comportamento individuali (non c’è posto per soggetti aggregati quali le classi sociali,
centrali nell’impostazione classica).
• Rispetto all’impostazione classica, basata sul concetto di classi sociali (e, in particolare
nelle teorie di Ricardo e di Marx in cui tale rapporto è di natura conflittuale), la scuola
marginalista implica un cambiamento radicale di prospettiva in cui apparentemente non
esiste alcun conflitto di interessi, ma un comune interesse allo scambio da parte di tutti
gli individui. L’obiettivo economico per eccellenza diventa la soddisfazione del
consumatore (dato il suo potere d’acquisto). L’individuo conta quindi innanzi tutto in
quanto consumatore e non, come ad esempio nella teoria marxista, in quanto lavoratore.
Secondo questa impostazione, un sistema economico che funziona bene è un sistema in
cui gli individui che hanno soldi per comprare trovano sul mercato i beni che essi
desiderano. Il fatto che altri individui possono non avere mezzi per esprimere sul
!7
mercato i propri bisogni non incide sulla valutazione del buon funzionamento del
sistema.
• Le ragioni dell’affermazione dell’approccio marginalista-soggettivista possono essere
ricondotte, da una parte, al dibattito accademico tra approcci alternativi e, dall’altra, alle
implicazioni politiche della teoria ricardiana e della critica marxiana, le quali
evidenziano gli aspetti conflittuali dei rapporti economici e politici del capitalismo, con
importanti implicazioni rivoluzionarie nel caso del contributo di Marx.
• Di fatto nel decennio 1870-80 diversi paesi europei (Francia, Gran Bretagna, Germania,
Italia) e gli Stati Uniti sono attraversati da moti rivoluzionari, seguiti da violente
repressioni. In questo clima, gli ambienti accademici e borghesi accettano con favore la
nuova impostazione basata su un rifiuto netto della teoria oggettiva del valore e i
concetti ad essa legati di sfruttamento, e lotta di classe. Come nota Maurice Dobb, dei
tre economisti protagonisti della “rivoluzione soggettivista”, Jevons è quello
maggiormente consapevole della portata politica del nuovo approccio.
• Secondo una celebre definizione della scuola marginalista, l’economia è la scienza che
studia la condotta umana come relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili ad usi
alternativi (Lionel Robbins). Mentre i desideri umani sono illimitati, le risorse
disponibili per soddisfare tali desideri sono limitate. Tutti i problemi economici sono
problemi di scarsità. L’economia si occupa di stabilire il modo migliore per ottenere un
certo scopo utilizzando le risorse scarse a disposizione.
• Con questa definizione, l’economia perde il suo carattere di scienza essenzialmente
storica (nel senso che le diverse forme di organizzazione economica nei diversi contesti
storici funzionano secondo principi e meccanismi diversi) per diventare, o almeno
pretendere di diventare, una scienza universale valida, al pari delle scienze esatte quali
la matematica o la fisica.
• Un tipico esempio di questo approccio economico è il problema del consumatore che
dispone di un certo reddito e deve decidere come impiegarlo per soddisfare al meglio i
suoi bisogni e le sue preferenze. Un altro esempio è il problema del produttore che deve
decidere cosa e quanto produrre, che tecnica produttiva utilizzare nella ricerca del
massimo profitto, utilizzando un certo capitale iniziale.
• Dal 1870 agli anni ’20, il dibattito economico vede il consolidarsi della teoria
neoclassica come scuola di pensiero dominante.
• Fuori delle università, il clima politico è tuttavia carico di tensione. In particolare, dopo
la Rivoluzione d’Ottobre e la nascita dell’Unione sovietica, esplicitamente ispirata alla
teoria di Marx, il peso del marxismo rivoluzionario diventa un problema urgente per le
classi dominanti.
• Da una parte, la teoria di Marx è duramente attaccata dai più eminenti esponenti della
scuola neoclassica e austriaca, i quali tentano di mostrarne l’inconsistenza teorica;
dall’altra, il dibattito accademico si orienta verso il buon governo dell’economia
capitalista, come rimedio contro le tentazioni rivoluzionarie.
• In questo clima politico, i problemi economici degli anni ’20 — la deflazione, la caduta
salariale, la disoccupazione e la crisi economica, accentuatasi tra il 1929 e il 1932 —
!8
producono forti polemiche teoriche in seno all’economia borghese che portano
all’affermazione della teoria di John Maynard Keynes.
• Dal punto di vista teorico, la rivoluzione keynesiana non può essere posta sullo stesso
piano di quella marginalista. Essa infatti non si basa su un cambiamento profondo della
struttura concettuale della teoria dominante, quanto piuttosto sulla proposta di un
diverso modo di gestire i problemi economici del tempo. La teoria di Keynes non si
oppone alla teoria del valore e della distribuzione allora in vigore (quella neoclassica-
marginalista); anzi si muove al suo interno, contestandone tuttavia un aspetto
fondamentale: l’assunto del pieno impiego delle risorse produttive (in particolare, del
pieno impiego della forza lavoro disponibile).
• NB: nel linguaggio dell’economia ortodossa (non marxiana), la forza lavoro è l’offerta
di lavoro, cioè la popolazione in età lavorativa occupata o in cerca di occupazione.
• Sebbene la teoria neoclassica riconosca la possibilità di attriti che impediscano il
raggiungimento dell’equilibrio di pieno impiego, si suppone comunque che il sistema
tenda verso di esso. L’implicazione di politica economica è che periodi prolungati di
disoccupazione non possono che dipendere da un livello troppo alto dei salari rispetto al
livello d’equilibrio di piena occupazione.
• Keynes contesta questa proposizione sostenendo che non esistono tendenze necessarie a
muovere il sistema dei prezzi verso l’equilibrio di piena occupazione e che l’equilibrio
può invece fissarsi a qualsiasi livello di produzione e di occupazione.
• Rispetto all’approccio neoclassico basato sull’analisi del comportamento dei singoli
soggetti economici come premessa indispensabile per discutere tutti i fenomeni
economici, Keynes sposta l’accento sull’analisi di variabili aggregate quali il consumo,
l’occupazione e il reddito nazionale. In questo senso la teoria keynesiana costituisce il
fondamento di quella che in termini moderni si chiama macroeconomia,
contrapponendosi alla teoria neoclassica che mantiene un approccio di tipo
microeconomico.
• La teoria keynesiana si afferma soprattutto negli anni successivi alla seconda guerra
mondiale, con politiche di forte intervento pubblico nella maggior parte dei paesi
occidentali. Anche a livello accademico, si delinea così una separazione tra due filoni di
ricerca: la microeconomia e la macroeconomia. In realtà la distinzione indica
soprattutto che ci troviamo di fronte a due approcci diversi alla scienza economica,
l’approccio marginalista e quello keynesiano. I moderni libri di testo li presentano come
complementari, ma in realtà essi nascono e si sviluppano, in gran parte, come
antagonistici.
• È semmai nei loro rapporti con l’economia politica classica e marxiana che la
microeconomia e la macroeconomia rivelano i loro principali tratti comuni, rigettando
entrambe in blocco la teoria del valore-lavoro e la centralità delle classi sociali come
fondamento delle costruzioni teoriche.
!9
reddito, la quale, come abbiamo visto, è il grande tema degli economisti classici, né
delle questioni di sfruttamento e alienazione, care a Marx.
• Il problema economico fondamentale è la scarsità e tutte le questioni economiche sono
presentate in termini di equilibrio tra domanda e offerta. Nella microeconomia i concetti
di domanda e di offerta sono riferiti ai singoli individui, nella macroeconomia la
domanda e l’offerta sono invece concetti aggregati, che si riferiscono cioè ad aggregati
di individui.
• Microeconomia. La microeconomia studia il comportamento dei singoli soggetti
(consumatori, imprese) e da esso deriva le leggi di funzionamento della società nel suo
complesso. Ogni società, implicitamente o esplicitamente, effettua tre tipi di scelte:
quali beni produrre, come produrli, per chi produrli. La microeconomia risponde a
queste domande prendendo come punto di partenza le scelte individuali e valutandole
dal punto di vista individualistico.
• Macroeconomia. La macroeconomia studia invece direttamente il comportamento di
aggregati, come il reddito nazionale, gli investimenti, i consumi e i problemi che si
affrontano sono quelli dell’inflazione, della crescita della produzione, della
disoccupazione, dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti.
!10
4. Lo stesso commercio a lunga distanza non era affatto basato sul mercato e lo
scambio di equivalenti, bensì sulla rapina, l’espropriazione violenta, il colonialismo.
In altri casi, gli scambi avvenivano senza alcun meccanismo di “do ut des”, ma
semplicemente in forma di dono.
5. L’ipotesi che il movente dell’attività economica sia il guadagno personale è
anch’essa storicamente falsa e può essere considerata valida soltanto all’interno
dell’interazione sociale di tipo capitalistico.
!11
teoriche), le convinzioni e i valori del teorico, i quali non possono considerarsi al di
sopra delle parti.
• Le categorie analitiche di qualsiasi teoria positiva riflettono necessariamente una
particolare visione del mondo. Non è possibile immaginare una teoria economica che
sia indipendente da una particolare visione del mondo poiché l’economista è egli stesso
parte della società che studia e la posizione che egli ricopre nella società influisce
necessariamente sul suo modo di vedere le cose, di individuare i problemi economici e
di definire le priorità della ricerca teorica.
• L’oggettività nella ricerca sociale non può mai essere assoluta e universale poiché
necessariamente riflette, se non altro nella definizione del problema da analizzare e
nella scelta degli strumenti d’analisi (ma a volte anche nelle conclusioni teoriche), le
convinzioni e i valori del teorico, i quali, in un mondo fatto di interessi contrastanti, non
possono in alcun modo considerarsi al di sopra delle parti.
• Spesso, tuttavia, la visione (di parte) delle teorie economiche è presentata dai loro
sostenitori come se fosse invece super partes, cioè come se si trattasse di un punto di
vista neutrale, tecnico, unanimemente condivisibile, ispirato al semplice perseguimento
del bene comune. Il problema è che, il bene comune, ammesso che esista in una società
fatta di interessi contrastanti quale è il capitalismo, non è facilmente identificabile.
• Da un punto di vista marxista, la teoria economica borghese non è affatto neutrale ma
riflette semplicemente la visione, le aspirazioni e le preoccupazioni della classe
dominante del capitalismo: la borghesia. Il motivo per cui le proposizioni della teoria
borghese appaiono neutrali sul piano dei valori è che implicitamente la teoria prende per
dato il sistema capitalista e sposa il punto di vista della sua classe dominante.
• Secondo Marx ed Engels la storia dei rapporti economici è storia di lotta di classe e,
così come la società evolve secondo gli interessi contrastanti delle diverse classi sociali,
la morale stessa è sempre una morale di classe. Chiaramente, secondo l’approccio
marxista, è la classe dominante che ha interesse a presentare la propria morale come
eterna e universale ed è sempre la classe dominante che ha interesse a rivendicare la
neutralità della propria visione dei rapporti economici sostenendo che la (propria) teoria
si fonda sul principio del bene comune.
• Il mercato esiste da molto tempo ed è presente in società con modelli organizzativi assai
diversi, come la Grecia antica, l’impero romano e le società feudali. Ma rispetto a
queste diverse epoche il ruolo del mercato nella società è profondamente cambiato.
Nella società capitalista, che è l’oggetto principale del nostro studio, il mercato svolge
un ruolo primario nei processi di produzione e distribuzione delle risorse. La transizione
a questo nuovo modello organizzativo è in effetti strettamente legata allo sviluppo dei
rapporti di mercato, il quale ha trasformato le relazioni sociali sia da un punto di vista
quantitativo, sia qualitativo.
• Per iniziare a comprendere il ruolo del mercato nelle diverse forme sociali, analizziamo,
seppure in termini molto generali, l’organizzazione della società feudale — ossia il
!12
modo di produzione che precede il capitalismo — e il ruolo che in essa svolgeva il
mercato.
• Tre classi sociali: nobiltà, clero e servi della gleba. I nobili detengono il potere politico.
I servi della gleba sono obbligati a fornire le corvées, ossia devono dedicare parte del
loro tempo di lavoro ai nobili, ai quali va tutto il prodotto delle terre padronali (fondi
dominici). I servi della gleba pagano inoltre le decime al clero, che sono una forma di
tassa pari a circa un decimo del prodotto. Quello che rimane è utilizzato dal servo della
gleba e la sua famiglia per il sostentamento. L’attività economica è tutta organizzata
attorno al nobile e il suo castello dal quale domina le terre circostanti. Le famiglie
nobiliari costituiscono in gran parte unità produttive autosufficienti.
• Il mercato riguarda solo una parte minima degli scambi che avvengono nella società e
riguarda quasi esclusivamente scambi che non sono strettamente necessari alla
sopravvivenza delle singole unità produttive e alla riproduzione del sistema. I servi
della gleba consumano direttamente il prodotto delle terre servili e non hanno modo di
entrare in possesso di denaro. Le decime sono pagate in natura. I nobili ottengono il
prodotto delle terre padronali in natura e solo una parte di questo viene scambiato sul
mercato per lo più in cambio di prodotti manufatti provenienti da artigiani che vivono
nelle vicinanze del castello, nel dominio del nobile; un’altra parte viene invece da
lontano (pietre preziose, spezie, tessuti).
• In questa società, anche la concorrenza, come modo di interazione sociale, è
praticamente assente. I rapporti interni alle classi e quelli tra le classi sono infatti
regolati da principi diversi, quali la tradizione e il potere politico.
La transizione al capitalismo
• La transizione al capitalismo è avvenuta con tempi diversi nei diversi paesi. Prima in
Olanda e in Inghilterra intorno al XVII secolo, più lentamente in altri paesi.
• Fattori che hanno inciso sul processo di transizione:
1. Prima rivoluzione agricola (inizio XVIII secolo). Si diffonde l’allevamento del
bestiame e del pascolo. Diminuisce il numero di lavoratori agricoli allontanando i
servi della gleba dalle terre che fino ad allora avevano coltivato. Le terre vengono
recintate permettendo ai nobili di ottenere maggiori redditi grazie alle nuove
tecnologie agricole. Nasce così la proprietà privata della terra (il dominio politico
del nobile sulla regione si trasforma in un diritto esclusivo allo sfruttamento
economico della terra) e quello che Marx chiamerà l’esercito industriale di riserva
(esercito di potenziali lavoratori disponibili per quei mercanti che decidono di
sviluppare una propria attività manifatturiera). Si instaura così il rapporto di lavoro
salariato e la separazione tra lavoratore e proprietà dei mezzi di produzione.
2. Crescita degli scambi, crescita delle città (in cui si sviluppa l’artigianato e in cui si
riversano i servi della gleba ormai sovrabbondanti nelle campagne).
3. Sviluppo dei commerci a lunga distanza (che aumenta i desideri dei nobili, i beni
oggetto di scambio sul mercato e lo sfruttamento dei servi della gleba, dando luogo
a rivolte e fughe di massa dalle campagne).
4. Nascita del putting out system (sistema di lavoro a domicilio in cui il mercante porta
ai suoi lavoranti le materie prime e poi ritira il prodotto pagando in forma di denaro
un salario al livello di sussistenza).
!13
• I cambiamenti non sono solo quantitativi, ma anche qualitativi: i fenomeni descritti
modificano infatti le istituzioni stesse che regolano l’interazione sociale, portando alla
scomparsa delle istituzioni feudali e all’instaurarsi di istituzioni capitalistiche.
• Il capitalismo si regge sul rapporto di lavoro salariato. L’estendersi dei rapporti di
mercato supera gradualmente gli scambi occasionali di particolari beni e il mercato
tende a diventare la principale istituzione che regola i rapporti tra i cittadini. Al mercato
non vanno più soltanto le eccedenze rispetto alle capacità di autoconsumo, come nel
feudalesimo. La vendita sul mercato diventa invece l’obiettivo stesso della produzione.
Il progressivo estendersi dei mercati tende ad abbracciare sempre nuovi aspetti dei
rapporti sociali.
• Ma il vero salto qualitativo si ha con l’emergere del mercato del lavoro, in cui è
possibile comprare e vendere le prestazioni lavorative, e con l’affermarsi della
compravendita della forza lavoro come principale modo di produzione delle merci.
Questa trasformazione modifica sostanzialmente i rapporti sociali facendo dipendere
l’esistenza di ampi strati della popolazione –i lavoratori– dai rapporti di mercato.
!14
proprietari terrieri è diminuito notevolmente nel corso della storia del capitalismo e la
struttura interna della classe capitalista è diventata più articolata, con la separazione più
o meno netta tra capitale industriale e capitale finanziario. La divisione in classi sociali
rimane comunque il tratto distintivo del modo di produzione capitalistico che è
l’oggetto del nostro corso.
!15
I
• L’interazione tra individui egoisti che perseguono il proprio interesse personale produce
risultati economici socialmente desiderabili, che vanno al di là delle intenzioni
individuali, a patto che non ci siano barriere economiche o restrizioni istituzionali al
perseguimento delle attività economiche e all’operare della concorrenza.
• Anche se molto citata, la metafora della mano invisibile è utilizzata da Smith una sola
volta nella Ricchezza delle nazioni. In tale opera, nel difendere la produzione nazionale
contro le importazioni, Smith afferma: “Quando [un individuo] preferisce il sostegno
!16
all’attività produttiva del suo paese [...] egli mira solo al suo proprio guadagno ed è
condotto da una mano invisibile, in questo come in molti altri casi, a perseguire un fine
che non rientra nelle sue intenzioni”.
• Benché il principio della mano invisibile sia oggi evocato dai sostenitori dello
smantellamento dello stato, il liberismo smithiano suggerisce ampi spazi per
l’intervento statale nel campo della difesa, dell’amministrazione della giustizia, delle
infrastrutture, delle comunicazioni e dell’istruzione.
Il concetto di sovrappiù
a⊕l→b
Indichiamo con w il salario per unità di lavoro espresso in termini di grano, o saggio di
salario (reale) e assumiamo che esso sia un dato del problema e che sia fissato al livello
di sussistenza del lavoratore.
S = b – (a + wl)
S é il sovrappiù, cioè la parte del prodotto che eccede la necessità di sussistenza dei
lavoratori e la ricostituzione dei mezzi di produzione. Il sovrappiù può essere
consumato dai capitalisti e dai proprietari terrieri o può essere reinvestito. In
quest’ultimo caso si ha un sistema in espansione in cui la produzione aumenta di anno
in anno (produzione su scala allargata).
• La capacità di produrre un sovrappiù deriva dal lavoro, non dalla terra come ritenevano
i fisiocrati. Il lavoro è la fonte della ricchezza.
• L’estendersi della divisione del lavoro è la principale causa dell’aumento della
produttività del lavoro.
• Il sovrappiù si forma in tutti i settori e la sua dimensione dipende dal grado di sviluppo
dalla divisione del lavoro. In un sistema in cui si producono beni di diversa natura si
pone un problema nella misurazione del sovrappiù: i beni prodotti (output) e i beni
utilizzati come mezzi di produzione (input) possono essere diversi il che rende
problematico determinare il sovrappiù in termini fisici e rapportarlo ai mezzi di
produzione per ottenere una misura del saggio di profitto. (NB: anche in presenza di
input e output comprendenti lo stesso insieme di beni, è sufficiente che la composizione
dell’output e quella dell’input siano diverse a impedire una misurazione del saggio di
profitto in termini fisici).
!17
• Esprimendo i diversi input e output in termini di valore è possibile misurare il sovrappiù
e calcolare il saggio di profitto.
• Problema del valore: da cosa dipende il prezzo delle merci? Perché merci di importanza
vitale, come l’acqua, hanno un prezzo relativamente basso rispetto a merci non
essenziali come i diamanti?
• Valore d’uso e valore di scambio: il valore d’uso è la proprietà di un bene di soddisfare
un dato bisogno (l’acqua si può bere e serve per lavarsi, i diamanti servono a farci belli
e tagliare il vetro); il valore di scambio è il rapporto con cui una quantità di un bene si
scambia sul mercato con quantità di altri beni (prezzo relativo).
Il lavoro contenuto
• Smith: “In ogni tempo e luogo è caro ciò che costa molto lavoro, è a buon mercato ciò
che si può avere con pochissimo lavoro”. Secondo Smith e, più in generale, secondo gli
economisti classici, il valore di una merce è quindi determinato dalle ore di lavoro
necessarie a produrla o, per dirla in altri termini, dal lavoro che contiene.
• Consideriamo un modello grano standardizzato (in cui cioè i parametri siano definiti in
modo tale che l’output sia pari ad un’unità):
a⊕l→1
[a, l] → 1
[a, l] → 1
[a2, al] → a
[a3, a2l] → a2
…
[a , a l] → an-1
n n-1
si tratta di una serie geometrica di ragione a, la quale è pari a l/(1 – a), se, come nel
nostro caso, a < 1:
!18
λ = l + al + a2l + a3l + … + an-1l + … = l/(1 – a)
Come si vede il lavoro contenuto (λ) è maggiore del semplice lavoro diretto (l), il che è
ovvio poiché, oltre al lavoro immesso nel periodo corrente, si deve considerare il lavoro
contenuto nel grano utilizzato come semente.
• Secondo Smith il concetto di lavoro contenuto tiene conto solo dei redditi da lavoro, ma
non tiene conto del profitto e della rendita, i quali sono centrali nel capitalismo. Se
infatti tutto il valore prodotto dal lavoro andasse al lavoratore in forma di salario, non ci
sarebbe spazio per il profitto e la rendita. Affinché possano esistere altre categorie di
reddito accanto al salario, il prezzo del bene non può essere pari ai salari pagati per
produrre il bene stesso. NB: nella teoria classica per profitto non si intende la
remunerazione del capitalista per la sua attività di direzione e coordinamento del
processo produttivo, bensì si intende la quota di reddito di cui il capitalista si appropria
in virtù dell’aver anticipato il capitale. È per questo che nel definire il saggio di profitto
si rapporta il profitto al capitale anticipato.
• Per porre rimedio a questo problema, Smith elabora il concetto di lavoro comandato.
Il lavoro comandato
• Il valore di una merce è determinato dal lavoro che essa può acquistare (non dal lavoro
che è occorso per produrla): λcom = p/w.
• w è il saggio di salario monetario: quantità di moneta per unità di lavoro (w = wp).
• Smith si riferisce allo scambio di merci contro lavoro, lo scambio capitalistico per
eccellenza, quello tra capitalisti e lavoratori.
• Che relazione esiste tra λ e λcom ? Come vediamo in un attimo, λ < λcom. Il lavoro che si
può acquistare vendendo una merce è maggiore del lavoro occorso per produrla. La
ragione è che il prezzo della merce può scomporsi in tre componenti: la parte che
remunera il lavoro (salario), quella che remunera il capitale (profitto) e quella che
remunera la terra (rendita). Solo nel caso in cui tutto il reddito ricavato dalla vendita del
prodotto andasse interamente al lavoro, il lavoro comandato sarebbe uguale al lavoro
contenuto: la quantità di lavoro che si può acquistare con il denaro ottenuto dalla
vendita della merce coinciderebbe in tal caso con la quantità di lavoro necessario a
produrre la merce stessa. Qualora invece esistano parti del valore prodotto che sono
attribuite al capitalista (il profitto) o al proprietario terriero (la rendita), il reddito del
lavoratore (il salario) non può che diminuire. In questo modo, il capitalista che vende al
prezzo p una merce che contiene λ ore di lavoro, riceve una quantità di denaro superiore
rispetto a quella necessaria a remunerare il lavoro. Questo significa che la quantità di
lavoro che il capitalista comanda (λcom) è superiore al lavoro contenuto nella merce (λ).
• Consideriamo la relazione tra λ e λcom in termini analitici.
Tralasciando per semplicità la rendita, il prezzo può essere espresso come somma dei
costi sostenuti per produrre la merce, più un profitto di cui si appropria il capitalista
(avendo egli anticipato i mezzi di produzione).
!19
Ricavi ≡ costi + profitti
Per avere una misura del guadagno del capitalista, il profitto viene riferito alla quantità
di capitale anticipato. Si definisce allora il saggio del profitto (r):
p = (pa + wl)(1 + r)
dove: (pa + wl) è il costo unitario e r(pa + wl) è il profitto unitario [NB: nel testo di
Cassetti c’è un errore di battitura a pag. 22. Non è (pa + wλ) il costo unitario e r(pa +
wλ) il profitto unitario].
Per confrontare λ e λcom conviene riscrivere l’equazione del prezzo come segue:
p = (pa + wl)(1 + r)
= pa(1 + r) + wl(1 + r)
!20
• Questa distinzione non è chiara in Smith, il quale invece propone di utilizzare il lavoro
comandato anche come teoria del valore di scambio delle merci, in alternativa al lavoro
contenuto. A tale scopo Smith elabora una teoria additiva del valore secondo cui le tre
componenti del prezzo (salario unitario, profitto unitario e rendita unitaria) gravitano
attorno ai loro livelli naturali.
Il prezzo naturale
• Il prezzo che consente di pagare i salari, i profitti e le rendite ai loro saggi naturali
prende il nome di prezzo naturale, che si distingue dal prezzo di mercato il quale è il
prezzo effettivo prevalente sul mercato. Il prezzo naturale forma l’oggetto dell’analisi di
Smith poiché è verso di esso che il sistema gravita continuamente. Lo scopo è quindi
quello di distillare le forze dominanti e persistenti che muovono il sistema economico,
astraendo dai fattori secondari e contingenti che influiscono giorno per giorno sui prezzi
di mercato.
• Il salario naturale è determinato dal livello di sussistenza dei lavoratori. Quando il
salario reale differisce dal salario naturale entrano in gioco due tipi di meccanismi:
fattori istituzionali (diverse capacità di coalizzarsi e di condurre un conflitto da parte dei
lavoratori e dei capitalisti) e fattori demografici (nel breve periodo i salari sono
stimolati dalla domanda, il che fa aumentare la popolazione riportando il salario verso il
livello di sussistenza). Il salario naturale è perciò quel livello del salario che consente
alla domanda e all’offerta di lavoro di crescere allo stesso tasso. La teoria del salario di
Smith, per molti versi, anticipa la teoria della popolazione di Malthus.
• Per effetto della concorrenza tra i capitalisti, se esiste libertà nel trasferire i capitali da
un ramo produttivo all’altro, il tasso di profitto tenderà ad uguagliarsi in tutti i settori.
Tale tasso di profitto dipende, secondo Smith, da fattori istituzionali.
• Non esiste in Smith una vera e propria teoria del livello naturale della rendita.
• La concorrenza tra acquirenti e tra venditori assicura che il prezzo di mercato graviti
attorno al prezzo naturale. La possibilità che il prezzo effettivo si mantenga ad un
livello superiore rispetto al prezzo naturale dipende dall’esistenza di asimmetrie
informative (segreti che impediscano ai capitalisti di conoscere i saggi di profitto in tutti
i settori, impedendo il processo di convergenza ad un saggio di profitto uniforme) e
regolamentazioni dei mercati (che creino barriere all’entrata, istituzionalizzino il
monopolio o comunque restringano la concorrenza ad un numero limitato di
partecipanti).
• La libera circolazione del lavoro e del capitale spinge i salari e i profitti verso i loro
saggi naturali e fa tendere il prezzo di mercato verso il prezzo naturale. Il mercato tende
quindi ad autoregolarsi. La ricerca del guadagno personale è il fattore trainante del
sistema.
• In ogni caso, dal punto di vista della determinazione del valore di una merce, il
problema della teoria dei prezzi naturali è che salario, profitto e rendita sono essi stessi
dei valori. Questa teoria non riesce quindi a rispondere alla domanda scientifica che si
era posta riguardante l’origine del valore.
• I problemi sollevati e le vie percorse per tentare di risolverli formano comunque la
guida per gli sviluppi successivi dell’economia politica classica e per la critica di Marx.
!21
2. David Ricardo e la questione distributiva
Il contesto storico
• Approvazione delle leggi sul grano nel 1816: tariffe doganali che impediscono di fatto
l’importazione di derrate alimentari più a buon mercato all’estero. Questo tiene alta la
rendita a scapito dei profitti (essendo i salari già al livello di sussistenza).
• Abolizione delle leggi sul grano nel 1846: egemonia politica della borghesia.
Il problema economico
Il modello grano
• Esistono terre con diversi gradi di fertilità: A è la terra più fertile (più produttiva), segue
B, poi C e infine D è la meno fertile. La produttività in termini di grano si misura sulle
ordinate, mentre sulle ascisse si misura la quantità di lavoro utilizzata su ciascuna terra:
a partire dall’origine e spostandosi verso destra, si rappresentano dunque i lavoratori
impiegati nelle terre A, B, C e D.
ΠA ΠB ΠC ΠD
WA WB WC WD
LA L1 LB L2 LC L3 LD L4 L
Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002
!22
LA = L1 è il numero di lavoratori sulla terra A.
LB = L2 – L1 è il numero di lavoratori sulla terra B.
…
WA = LA ⋅ w
WB = LB ⋅ w
…
• Monte profitti (Πi): ammontare dei profitti ottenuti sulla terra i (i = A, B, C, D).
Se non ci fossero rendite:
ΠA = (GA – w) LA
ΠB = (GB – w) LB
…
r A = r B = r C = r D.
• La rendita fondiaria sarà perciò maggiore sulle terre più fertili e poi via via minore, fino
ad essere nulla sulla terra marginale.
!23
MODELLO GRANO
G
RA RB RC
ΠA ΠB ΠC ΠD
WA WB WC WD
L1 L2 L3 L4 L
Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002
• Grazie all’ipotesi che la produzione di grano richiede come input solo grano e lavoro (e
non anche altre merci) è possibile calcolare il sovrappiù agricolo in termini fisici e
rapportarlo al grano usato come input, ottenendo così il saggio di profitto. In questo
modo, il saggio di profitto agricolo non dipende da quanto accade negli altri settori
dell’economia.
• Una volta determinato il saggio di profitto nel settore agricolo (in termini fisici, senza
conoscere i prezzi delle merci), la concorrenza tra capitalisti porterà questo saggio di
profitto ad estendersi anche all’industria, determinando il prezzo relativo tra grano e
prodotti industriali. In altri termini il valore di scambio tra grano e prodotti industriali
sarà fissato al livello che garantisce l’uniformità del saggio di profitto nei diversi settori.
!24
TENDENZA VERSO LO STATO STAZIONARIO
G
RA RB RC RD
ΠA ΠB ΠC ΠD ΠE
w
WA WB WC WD WE
L1 L2 L3 L4 L5 L
Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002
[ai, li] → 1 i = A, B, C.
rA = 100 % rB = 66 % rC = 43 %.
• La concorrenza tuttavia impone l’uniformità dei saggi di profitto pari a quello sulla terra
marginale (la terra C):
!25
rA = rB = rC = 43 %.
• Supponiamo ora che accanto al settore agricolo che produce grano esista un settore
industriale che produce ferro. Supponiamo anche che il grano sia utilizzato come mezzo
di produzione del ferro, mentre il ferro non sia utilizzato nella produzione del grano.
Possiamo allora rappresentare il sistema economico con due espressioni relative al
processo di produzione di grano (sulla terra marginale) e al processo di produzione di
ferro:
dove a11 e a12 sono rispettivamente le quantità di grano necessarie a produrre un’unità di
grano e un’unità di ferro.
Il sistema dei prezzi è allora il seguente:
p1 = (p1a11 + wl1)(1 + r)
p2 = (p1a12 + wl2)(1 + r)
Il sistema contiene tre incognite (p1, p2 e r, mentre w è dato). Fissiamo il prezzo del
grano pari a 1.
1 = (a11 + wl1)(1 + r)
p2 = (a12 + wl2)(1 + r)
• Come si vede, con la coltivazione di terre meno fertili, scende il saggio di profitto nel
settore agricolo (r) e, per l’ipotesi di uniformità del saggio di profitto nell’economia,
scende il prezzo del ferro (p2).
!26
La generalizzazione di Piero Sraffa
!27
• La libertà giuridica di disporre di se stessi si affianca così alla necessità economica di
vendere se stessi. L’altra faccia della medaglia di questa libertà è l’obbligo di cercarsi
un padrone a cui vendere liberamente la propria forza lavoro. Questi sono i due aspetti
contraddittori della libertà economica nei rapporti capitalistici.
• Nella concezione marxiana, la libertà personale e l’uguaglianza giuridica, in presenza di
un’asimmetria economica (il monopolio di classe della proprietà dei mezzi di
produzione) sono i presupposti stessi dello sfruttamento capitalistico.
• Anzi, storicamente, è proprio la condizione di libertà giuridica, associata alla privazione
del lavoratore della proprietà dei mezzi di produzione, che consente (giuridicamente) e
impone (economicamente) ai lavoratori di vendere la propria forza lavoro come
condizione di sopravvivenza.
• Nel capitalismo, l'uguaglianza nei rapporti giuridici offusca l'asimmetria di classe nei
rapporti economici.
• Quello stesso rapporto di sfruttamento che nel sistema feudale era palese è ora offuscato
dal mercato e dalla concorrenza ma non per questo cessa di esistere.
• Scopo dell'indagine scientifica è allora spiegare le condizioni storiche di origine e di
sviluppo del capitalismo e svelare l'essenza economica dei rapporti di sfruttamento, che
si nascondono dietro l'apparenza del libero scambio.
!28
Teoria del valore-lavoro
• Marx utilizza il concetto di lavoro contenuto come fondamento del valore di scambio,
risolvendo i problemi teorici in cui era caduto Smith e la contraddizione tra lavoro
contenuto e lavoro comandato.
• A differenza degli economisti che lo precedono, Marx distingue tra forza lavoro e
lavoro. La forza lavoro è l’insieme di capacità fisiche ed intellettuali impiegate dai
lavoratori nel processo produttivo, il quale si distingue dal lavoro effettivamente
erogato.
• Quello che il capitalista acquista dal lavoratore è la forza lavoro, non il lavoro. La forza
lavoro è la sola merce da cui è possibile estrarre lavoro ed è perciò la sola merce che ha
il potere di creare valore.
• Come per ogni altra merce utilizzata come input nella produzione, l’obiettivo del
capitalista è quello di sfruttarne al meglio (in termini qualitativi) e al massimo (in
termini quantitativi) il suo utilizzo nel processo produttivo.
• L’estrazione della massima quantità di lavoro dalla forza lavoro è uno degli obiettivi del
capitalista esattamente come è suo obiettivo estrarre la massima quantità di ferro da una
miniera di ferro.
• Il valore d’uso della forza lavoro, ossia il valore che si ottiene dall'uso della forza
lavoro, è il lavoro incorporato nei beni prodotti dal lavoratore. Tuttavia il suo valore di
scambio (il salario) è fissato, in base alla concorrenza tra i lavoratori, al livello di
sussistenza.
!29
• La differenza tra il valore d’uso della forza lavoro e il suo valore di scambio definisce il
plusvalore.
Plusvalore e sfruttamento
• Il plusvalore si crea perché il lavoratore lavora per un numero di ore maggiore rispetto
alle ore di lavoro necessarie a produrre i beni salario che riceve come remunerazione
del suo lavoro. Tale lavoro addizionale prende il nome di pluslavoro.
• L’esistenza di un pluslavoro descrive la condizione di sfruttamento del lavoratore.
• Nella produzione capitalistica, il pluslavoro viene appropriato dal capitalista in forma di
profitto. Mentre il pluslavoro è comune a tutte le società divise in classi, il plusvalore
(cioè il pluslavoro trasformato in valore di scambio attraverso il mercato) è tipico della
società capitalista.
• Il valore aggiuntivo di cui si appropria il capitalista dipende dalla peculiarità della forza
lavoro rispetto a tutte le altre merci: la forza lavoro è la sola merce capace di creare
valore.
• Lo sfruttamento capitalistico non è affatto una violazione della legge generale del
valore (il valore-lavoro). All’operaio non è affatto pagato meno di quello che gli spetti
secondo la teoria del valore. Al contrario, è proprio il fatto che il capitalista acquista la
forza lavoro pagandola al suo valore che gli consente di ottenere un profitto, mettendola
a lavoro per un periodo superiore a quello necessario a reintegrare i mezzi di sussistenza
che formano il salario reale.
M=C+l
M = C + V+ S
• C = capitale costante o lavoro morto (lavoro indiretto contenuto nel bene). Il capitale
costante è dato dall’insieme dei mezzi di produzione prodotti in un tempo precedente a
quello del processo produttivo in esame. Il suo valore è quindi quello che si incorpora in
tali mezzi di produzione e viene trasferito nel valore della merce prodotta.
• l = V + S = lavoro diretto o lavoro vivo. Il lavoro diretto si suddivide in lavoro
necessario, o capitale variabile (V), e plusvalore (S).
• Il capitale variabile (V) è dato dai beni salario che remunerano la forza lavoro del
lavoratore. Il suo valore è quindi quello che si incorpora nei beni che il lavoratore riceve
in forma di salario. Questa parte del capitale è chiamata “variabile” perché il valore che
produce supera il proprio valore: tralasciando per un momento il capitale costante, C, il
capitalista anticipa il capitale variabile V, il quale produce un valore pari a V + S).
Questo accade perché il lavoratore lavora per un tempo superiore a quello strettamente
necessario a riprodurre i beni che formano il suo salario.
!30
• Il plusvalore (S) è definito dalla differenza tra il valore prodotto dal lavoro diretto (l) e il
lavoro necessario (V). Tale differenza (S = l – V) è l’espressione in valore del pluslavoro
effettuato dal lavoratore.
• Il rapporto tra plusvalore (S) e capitale variabile (V) definisce il saggio di plusvalore o
saggio di sfruttamento:
σ=S/V
• Marx definisce inoltre la composizione organica del capitale come il rapporto tra
capitale costante (valore dei mezzi di produzione) e capitale variabile (valore dei salari
dei lavoratori):
COC = C / V
• Quando i capitali costante e variabile sono esaminati nei loro aspetti materiali (invece
che in termini di valore) tale rapporto prende il nome di composizione tecnica del
capitale.
• Il saggio di profitto è dato dal rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo
anticipato:
r = S / (C + V)
!31
Plusvalore, profitto e sfruttamento
r = S / (C + V)
r = (S/V) / (C/V + V/V)
r = σ / (COC + 1)
!32
La soluzione marxiana
• Il dibattito sul problema della trasformazione svolge un ruolo cruciale nel confronto tra
approccio marxista e approcci alternativi. Secondo i critici più radicali della teoria
marxista, il problema della trasformazione è sufficiente a far cadere l’intero edificio
teorico marxiano.
• Una posizione meno radicale e più coerente — ammesso che si dia validità alla critica
del ragionamento di Marx — consiste nel lasciar cadere le implicazioni dell’impianto
marxiano basate sulla teoria del valore-lavoro conservando tutte le altri parti della teoria
marxiana e marxista che non dipendono da tale teoria (alienazione, lotta di classe, crisi,
contraddizioni del capitalismo, materialismo storico, imperialismo, …).
!33
• Una terza linea, quella della “trasformazione corretta”, consiste nel modificare l’analisi
marxiana dello sfruttamento sulla base della trasformazione di Von Bortkievicz e di
Sraffa, evidenziando comunque la contrapposizione di interessi tra la classe sociale dei
lavoratori e quella dei capitalisti. Ricordiamo infatti che, se si segue
quest’impostazione, valgono i risultati di Sraffa secondo cui esiste una relazione inversa
tra saggio di salario e saggio di profitto.
• Contro queste posizioni, alcuni economisti marxisti sostengono che la trasformazione
marxiana non incorpori alcuna incoerenza logica e che, al contrario, il vizio logico stia
in chi la critica senza capirne la logica. La soluzione di Von Bortkievicz – Sraffa
risponde in effetti ad una domanda diversa da quella posta da Marx. Secondo questo
filone teorico, la trasformazione può dunque essere risolta in modo coerente
mantenendo la centralità della teoria del valore-lavoro.
• La teoria marxiana del salario è basata sull’esercito industriale di riserva. Nei periodi di
espansione della domanda e della produzione, la concorrenza tra i capitalisti per
accaparrarsi i lavoratori fa crescere i salari. L’aumento del prezzo della forza lavoro,
facendo diminuire il tasso di profitto, rallenta l’accumulazione del capitale. Il ciclo si
inverte e si ha la crisi, la quale non deriva da sproporzioni nella crescita dei diversi
settori, ma dal fatto che la produzione realizzata non riesce ad essere venduta ai prezzi
che i capitalisti si attendevano. Con la crisi, diminuisce la domanda di lavoro e si
riforma l’esercito industriale di riserva, ponendo le basi per una nuova fase di
accumulazione.
• Nel corso di questi cicli si modificano i rapporti tra le classi sociali: la formazione di
associazioni dei lavoratori e dei padroni modifica i rapporti di forza esistenti e può
allontanare il salario dal livello di sussistenza; inoltre il progresso tecnico, in periodi di
crescita salariale, tende a risparmiare lavoro.
• La spiegazione marxiana della crisi è radicalmente diversa dalle spiegazioni ortodosse
che si basano sul presupposto che tutto il reddito percepito dagli agenti del sistema
economico sia speso. Secondo quest’ultima spiegazione, infatti, una caduta della
domanda in un settore deve necessariamente accompagnarsi ad una crescita della
domanda in altri settori (dato che si esclude la possibilità che il denaro possa essere
tesaurizzato nel periodo corrente per essere speso in periodi futuri), cosicché la crisi non
sarebbe mai generale, ma solo settoriale.
• Nella critica del capitalismo, accanto al problema dello sfruttamento, Marx si sofferma
sull'alienazione derivante dal processo di mercificazione.
• Il processo produttivo ha due aspetti: processo lavorativo e processo di valorizzazione.
• Nel processo lavorativo, il lavoratore utilizza i mezzi di produzione (materie prime,
macchine, eccetera) per produrre valori d’uso, ossia beni utili a soddisfare determinati
bisogni.
!34
• Nel processo di valorizzazione, lo scopo della produzione è la produzione di valori di
scambio. Qui non è l’operaio che utilizza i mezzi di produzione, ma sono questi ultimi
che utilizzano l’operaio.
• Primo tipo di alienazione: i mezzi di produzione sono di proprietà altrui. Nel sistema
capitalista, il lavoratore produce beni che non gli appartengono; la sua vita dipende così
da fattori esterni, che il lavoratore non controlla e che, attraverso il meccanismo
concorrenziale (che schiaccia il salario vero la sussistenza), si ritorcono contro il
lavoratore stesso.
• Secondo tipo di alienazione: il lavoratore non usa gli strumenti per i propri fini, ma è
esso stesso strumento di valorizzazione dei mezzi di produzione. La finalità ultima del
sistema diventa la produzione di valori di scambio e la valorizzazione del capitale (la
ricerca del profitto); il lavoro è solo il mezzo attraverso cui questo fine viene realizzato.
!35
II
MICROECONOMIA
1. L’impostazione neoclassica
!36
conviene diminuire la quantità consumata. Solo quando costo marginale e beneficio
marginale sono uguali, si determina la quantità ottima da consumare.
Domanda e offerta
• Il meccanismo dei prezzi: il prezzo (dei beni finali e dei fattori di produzione) tende ad
aumentare quando, al prezzo corrente, la quantità domandata supera la quantità offerta,
e diminuisce in caso contrario. Il meccanismo dei prezzi opera come sistema di segnali
(un aumento del prezzo indica che si è verificato un aumento della domanda e/o una
diminuzione dell’offerta) e di incentivi (gli aumenti del prezzo incentivano le imprese
ad espandere la produzione e i consumatori a ridurre i consumi riportando il sistema
verso l’equilibrio tra domanda e offerta).
• Interdipendenza dei mercati dei beni e dei fattori: le variazioni della domanda di beni
producono effetti sulla produzione e si riversano così sul mercato dei fattori di
produzione.
• Interdipendenza e interesse pubblico: la mano invisibile.
• La concorrenza perfetta: nella definizione ortodossa si tratta semplicemente di una
forma di mercato in cui le imprese devono prendere il prezzo per dato (se provassero ad
alzare il prezzo perderebbero tutti i clienti). Si tratta di un’astrazione che non ha un
riscontro reale e che viene presentata come modello ideale. Ma: ideale per chi? Perché
si dà tanta importanza ad un modello irrealista? Vedremo che la risposta sta nelle
implicazioni normative che si cerca di trarre dalla concorrenza perfetta, le quali
permettono di capire per chi è effettivamente ideale vivere in un mondo interamente
regolato da mercati perfettamente concorrenziali.
• La domanda: relazione tra quantità domandata e prezzo. Si rappresenta come una curva
di domanda. La curva è costruita tenendo ferme le altre determinanti della domanda
(gusti, beni sostituti e complementari, reddito e sua distribuzione, aspettative). Quando
varia il prezzo, rimanendo invariate le altre variabili, si ha un movimento lungo la
curva. Quando varia una delle altre componenti si ha uno spostamento dell’intera curva.
• L’offerta: relazione tra quantità offerta e prezzo. Si rappresenta come una curva di
offerta. La curva è costruita tenendo ferme le altre determinanti dell’offerta (costi di
produzione, redditività dei beni alternativi, redditività dei beni in produzione congiunta,
aspettative). Quando varia il prezzo, rimanendo invariate le altre variabili, si ha un
movimento lungo la curva. Quando varia una delle altre componenti si ha uno
spostamento dell’intera curva.
• L’equilibrio: quantità e prezzo d’equilibrio come intersezione delle curve di domanda e
di offerta (l’equilibrio è una situazione in cui nessuno ha incentivo a cambiare
strategia).
• Spostamento verso un nuovo equilibrio a seguito di uno spostamento della curva di
domanda (ad esempio un aumento): al prezzo corrente si ha un eccesso di domanda, il
prezzo tende ad aumentare (movimento lungo la curva d’offerta).
• Se invece si sposta la curva d’offerta (ad esempio aumenta), al prezzo corrente si ha un
eccesso d’offerta, il prezzo tende a diminuire (movimento lungo la curva di domanda).
!37
Economia di mercato e economia pianificata
!38
superiori a quelli di interi paesi e realizzano profitti secondo quelli che sono
considerati i più alti criteri di efficienza economica. I moderni sistemi capitalisti non
sono basati su scambi tra agenti isolati, come i modelli della teoria neoclassica
suppongono, bensì su imprese ad alta concentrazione del capitale che pianificano
tutto: produzione, vendita, commercializzazione, trasporto, variabili finanziarie,
assistenza alla clientela, carriere interne, rapporti con le altre imprese, rapporti con
lo stato. Il confronto tra capitalismo e socialismo non ha niente a che vedere col
confronto tra modello centralizzato e modello decentralizzato. Quello che
differenzia i due sistemi è che le imprese capitalistiche (e i loro profitti) sono private
mentre le imprese socialiste (i loro mezzi di produzione e i loro prodotti) sono
pubbliche.
2. Le moderne tecniche di pianificazione forniscono un sistema di indicatori di scarsità
(chiamati anche “prezzi ombra”) che possono essere utilizzati per risolvere i
problemi di efficienza nell’uso delle risorse, fornendo la stessa informazione in
merito alle scarsità delle varie risorse fornita dai prezzi di mercato nel sistema
capitalista.
3. Se si sostiene che l’impresa socialista è meno produttiva di quella capitalista per via
dei minori incentivi legati alla performance, questo equivale ad ammettere che
l’impresa capitalista sfrutta maggiormente i lavoratori, ossia che i maggiori livelli di
produttività sono ottenuti tramite maggiori sforzi da parte dei lavoratori, cioè
tramite un aumento dell’input “lavoro”, il che non ha niente a che vedere con
l’efficienza, la quale presuppone che il massimo dell’output sia ottenuto a parità di
input.
4. Nel capitalismo, la vera asimmetria è tra capitalista e lavoratore: il capitalista
sceglie se lavorare o meno, il lavoratore sceglie invece solo per chi lavorare, ma è
comunque obbligato a trovarsi qualcuno per cui lavorare. Nel socialismo questa
asimmetria non esiste. Per quanto riguarda la libertà di scelta nel consumo, non è
affatto detto che nel sistema pianificato i consumatori non possano conservare dei
gradi di libertà nella scelta dei beni da consumare. La priorità tuttavia è nella
soddisfazione dei bisogni primari di tutta la popolazione (alimentazione, abitazione,
salute) e poi di quelli via via superiori (istruzione, trasporti, cultura, sport, arte);
solo, una volta assicurata la soddisfazione dei bisogni, si pone il problema delle
preferenze individuali per i diversi beni di consumo. Nel capitalismo invece è il
diverso potere d’acquisto dei cittadini che determina i gradi di libertà di ciascuno
nelle scelte di consumo, senza alcuna garanzia che i bisogni di tutti siano
effettivamente soddisfatti.
Le cause del crollo dei sistemi socialisti vanno ricercate nell’insostenibilità dei costi
della guerra fredda, nell’iperespansione dell’Unione Sovietica ben oltre i confini della
propria capacità economica e nelle specifiche strategie di sviluppo dell’Unione
Sovietica e dei suoi satelliti. Questi problemi devono essere analizzati in ottica storica e
non possono essere banalizzati nel confronto astratto tra modello centralizzato e
modello decentralizzato.
• NB: il linguaggio economico della teoria dominante è carico di valenze ideologiche e di
mistificazioni. Parlare di “libere scelte individuali”, “libera economia di mercato” e
“libero mercato” è privo di senso. Al contrario, (1) le scelte individuali non sono affatto
libere, bensì vincolate: come abbiamo visto, nei problemi di scelta individuale, si
!39
suppone che, dati gli obiettivi del decisore, gli strumenti a sua disposizione siano
limitati, il che significa che la scelta avviene necessariamente all’interno di una serie di
vincoli e non è perciò mai libera (e, come vedremo, i vincoli economici dei diversi
soggetti che interagiscono nel mercato sono molto diversi fra loro). (2) Associare
l’economia di mercato alla libertà individuale è un falso storico: al contrario gli esempi
passati e presenti di economie di mercato non democratiche o addirittura dittatoriali
sono numerosi. (3) Cosa significhi, infine, l’espressione “libero mercato” è tutt’altro
che chiaro: la libertà può essere delle persone, non delle istituzioni che regolano le loro
interazioni e, come abbiamo visto, le scelte individuali non sono mai completamente
libere. Se invece per “libero mercato” si intende il principio che il meccanismo di
mercato è lasciato libero di operare, allora non si capisce che senso abbia farne una
questione normativa, visto che esistono meccanismi che se lasciati liberi di operare non
portano alla libertà individuale, bensì al suo opposto (il meccanismo nazista di relazioni
razziali, se fosse stato lasciato libero di operare, avrebbe portato allo sterminio
completo degli ebrei). In definitiva, l’associazione dell’idea di libertà all’interazione di
mercato è solo il frutto dell’ideologia liberista da cui trae ispirazione la teoria
neoclassica.
• Vantaggi delle economie di mercato secondo gli economisti liberisti:
1. Non c’è bisogno di tanta burocrazia.
2. Se i mercati sono concorrenziali nessuno ha tanto potere di mercato.
3. Le imprese più efficienti vengono meglio remunerate e permettono la migliore
soddisfazione del consumatore.
• Svantaggi delle economie di mercato secondo i critici del liberismo:
1. La concorrenza è spesso limitata.
2. La produzione che massimizza il profitto può avere effetti collaterali indesiderabili
(ad esempio l’inquinamento o gli incidenti sul lavoro).
3. Instabilità macroeconomica (con ricorrenti periodi di crisi) dovuta alla mancanza di
un coordinamento centralizzato nella produzione.
4. Incoraggiando il perseguimento dell’interesse individuale, l’interazione di mercato
incentiva comportamenti egoistici e sviluppa l’individualismo, il che, secondo
alcuni, può essere condannato su un piano morale.
!40
• Secondo un’interpretazione di tipo normativo (o prescrittivo), la teoria neoclassica delle
decisioni fornisce i criteri che un decisore razionale dovrebbe seguire per massimizzare
la realizzazione dei propri obiettivi.
• La microeconomia si sviluppa secondo l’interpretazione positiva della teoria delle
decisioni. Questo significa che la teoria assume un potere esplicativo della realtà solo
nella misura in cui si possa verosimilmente ritenere che gli agenti si comportino
secondo criteri di scelta ottimizzanti (o, almeno, secondo comportamenti che possano
essere approssimati da criteri ottimizzanti). Viceversa, tutti gli sviluppi in senso
descrittivo della teoria neoclassica cadono non appena si prendano in considerazione
agenti con comportamenti ispirati a criteri di razionalità diversi dalla pura
ottimizzazione.
• Le due principali applicazioni microeconomiche della teoria ottimizzante delle decisioni
si hanno nel campo della teoria del consumo e della teoria della produzione. Nei due
casi, si tratta dunque di esplicitare l’insieme delle alternative economiche possibili e gli
obiettivi del decisore.
!41
determinano attraverso l’interazione economica. Nell’analisi della scelta del
consumatore l’unico vincolo che prenderemo in esame è di natura economica ed è il
vincolo di bilancio.
• Vincolo di bilancio. Si tratta delle limitazioni al consumo imposte dal potere d’acquisto
di un dato reddito monetario. Supponiamo che il prezzo di mercato di un libro sia di 1 €
e quello del latte di 2 € al litro e supponiamo anche che il consumatore non possa
influire in nessun modo su tali prezzi (il che, come vedremo, equivale a supporre che il
mercato sia perfettamente concorrenziale dal lato della domanda). Con un reddito
monetario di 10 €, se il consumatore volesse consumare solo libri, potrebbe consumarne
al massimo 10, se volesse consumare solo latte, potrebbe consumarne 5 litri, altrimenti
potrebbe consumare una combinazione di libri e latte. Indicando i due beni con x1 e x2, e
i loro prezzi con p1 e p2, le diverse combinazioni dei due beni che il consumatore può
acquistare con il reddito monetario m sono determinate dalla seguente disequazione:
x1 p1 + x2 p2 ≤ m
x1 p1 + x2 p2 = m
Dal punto di vista grafico, si tratta di una retta nel piano (x2, x1), la cui equazione
esplicita rispetto a x1 è la seguente:
x1 = m / p1 – (p2 / p1) x2
x2 = m / p2 ottenuta ponendo x1 = 0
x1 = m / p1 ottenuta ponendo x2 = 0
!42
RETTA DI BILANCIO
x1
m / p1
- p2 / p1
x2
m / p2
x1
B: Se il consumatore spende tutto il
suo reddito (S = m), la sua scelta
si situa sulla retta di bilancio C
!43
VARIAZIONE DEL REDDITO NOMINALE
x1
m2 < m0 < m1
m1/p1
m0/p1
m2/p1
VARIAZIONE DI p1
x1
p21 < p01 < p11
m/p21
m/p01
m/p11
m/p2 x2
!44
VARIAZIONE DI p2
x1
p22 < p02 < p12
m/p1
• Economicamente, il fatto che la retta di bilancio ruota verso l’interno quando aumenta
uno dei due prezzi significa che il vincolo di bilancio diventa più stringente: l’aumento
di uno dei due prezzi riduce infatti le possibilità complessive d’acquisto del
consumatore.
• Una volta individuato l’insieme delle alternative possibili (determinato dal vincolo di
bilancio) si devono specificare i criteri scelta all’interno di quest’insieme.
• L’ipotesi di fondo è che il consumatore tragga un’utilità dal consumo dei beni. La
funzione obiettivo del consumatore è dunque la sua funzione d’utilità, che egli cercherà
di massimizzare compatibilmente con le proprie risorse monetarie. La scelta di
consumo ottima all’interno dell’insieme delle scelte possibili è quella che massimizza la
funzione d’utilità del consumatore.
• La funzione d’utilità è una funzione che fa corrispondere ad ogni paniere di beni un
numero reale indicante appunto l’utilità che il consumatore ricava dal consumo di quel
particolare paniere di beni.
• Dal punto di vista matematico, se i beni esistenti sono in numero di n, la funzione
d’utilità è semplicemente una funzione di n variabili.
• Negli sviluppi analitici, per semplicità, restringeremo l’analisi a due soli beni di
consumo.
U = U (x1, x2)
!45
Su questa funzione d’utilità è possibile definire i concetti di utilità marginale (UMG) e
di utilità media (UME) rispetto a ciascuno dei due beni. L’utilità marginale rispetto a x1
(o a x2) è la derivata parziale della funzione rispetto a x1 (o a x2); l’utilità media rispetto
a x1 (o x2) è il rapporto tra l’utilità totale e la quantità consumata di x1 (o di x2)
UMG1 = ∂U / ∂x1
UMG2 = ∂U / ∂x2
UME1 = U / x1
UME2 = U / x2
U = 7x1 + 2x2
U = x1 + 10x2
La prima funzione d’utilità implica che se il consumo del bene x1 aumenta di un’unità,
l’utilità complessiva del consumatore aumenta di 7 punti, mentre un aumento del
consumo di un’unità del bene x2 comporta un aumento dell’utilità complessiva di soli 2
punti; questo significa che il consumatore assegna un’importanza maggiore ad un’unità
di x1 rispetto ad un’unità di x2, ossia il consumatore preferisce un’unità di x1 rispetto x2.
Nella seconda funzione d’utilità, invece, il consumatore preferisce x2 a x1: un aumento
del consumo di un’unità del bene x1 comporta un aumento dell’utilità complessiva di 1
punto, mentre un aumento del consumo di un’unità del bene x2 comporta un aumento
dell’utilità complessiva di 10 punti. In generale, con funzioni di utilità più complesse
dal punto di vista matematico, la preferenza relativa per un bene o per l’altro non può
essere stabilita in via assoluta, bensì dipende anche dalle quantità che si consumano dei
due beni. In genere, assumiamo che l’utilità di un’unità del bene sia alta quando
disponiamo di poche unità del bene stesso e vada diminuendo a mano a mano che la
disponibilità del bene stesso aumenta: se disponiamo di tre mele e ce ne offrono una
quarta, l’utilità aumenta notevolmente; se viceversa disponiamo di trenta chili di mele e
ce ne offrono un’altra ancora l’utilità aumenta solo di poco.
• Secondo un approccio largamente diffuso, piuttosto che sviluppare l’analisi a partire
dalle proprietà della funzione d’utilità, è possibile analizzare il comportamento del
consumatore a partire da particolari ipotesi sulle sue preferenze. Più precisamente,
secondo l’approccio assiomatico alla teoria del consumatore, si definiscono una serie di
assiomi sulla struttura delle preferenze del consumatore, i quali costituiscono i principi
fondamentali che regolano le sue scelte di consumo.
• Relazioni di preferenze. Ipotizziamo innanzi tutto che il consumatore sia in grado di
ordinare le diverse alternative di consumo possibili (i diversi panieri cui può accedere).
!46
Dati due panieri A e B, se il consumatore preferisce strettamente A a B, scriviamo A >
B; se il consumatore è indifferente tra A e B, scriviamo A ∼ B; infine, se il consumatore
preferisce debolmente A a B (se cioè egli ritiene che A è almeno tanto buono quanto B),
scriviamo A ≥ B.
• Imponiamo inoltre i seguenti assiomi sulle preferenze del consumatore.
1. Completezza. Assumiamo che il consumatore sia in grado di ordinare tutte le
alternative a sua disposizione: presi due panieri qualsiasi, A e B, il consumatore è
sempre in grado di stabilire (1) se A ≥ B, (2) se B ≥ A, o (3) se entrambe le
precedenti condizioni sono vere, se cioè A ∼ B.
2. Transitività. Assumiamo anche che se il consumatore preferisce debolmente il
paniere A al paniere B (A ≥ B), e il paniere B al paniere C (B ≥ C), allora egli
preferisce anche il paniere A al paniere C (A ≥ C).
3. Monotonicità. Assumiamo che tra due panieri A e B identici tra loro in tutto meno
che per il fatto che il paniere A contiene una quantità maggiore di uno o più beni
rispetto al paniere B, il consumatore preferisce A a B (A ≥ B). In altri termini il
consumatore preferisce sempre avere a disposizione una maggiore quantità di
ciascun bene.
4. Convessità. Dati due panieri A e B indifferenti fra loro, assumiamo che tutti i panieri
ottenuti come combinazione lineare dei due panieri A e B siano preferiti ai due
panieri in questione. NB (definizione di combinazione lineare): un punto C è una
combinazione lineare di A e B se può essere ottenuto come C = α A + (1 – α) B [con
α ∈ (0, 1)]. Ad esempio se un consumatore è indifferente tra un piatto di riso e un
piatto di pasta (e le sue preferenze rispettano l’assioma di convessità), piuttosto che
un piatto intero dell’uno o dell’altro, egli dovrebbe preferire un piatto con un po’
dell’uno e un po’ dell’altro (ad esempio metà e metà, o un terzo di pasta e due terzi
di riso). La logica di tale assioma è la seguente: quando il consumatore possiede x1
in abbondanza, egli è disposto ad accettare una grande riduzione del consumo di x1
pur di ottenere un aumento unitario del consumo di x2; viceversa, quando la
disponibilità di x1 è scarsa (cioè quando x1 è relativamente prezioso per il
consumatore), egli sarà disposto a cedere solo una piccola quantità di x1 in cambio
di un’unità di x2.
L’assioma di completezza e quello di transitività sono assolutamente necessari alla
costruzione dell’intera teoria del consumatore. Gli assiomi di monotonicità e di
convessità possono invece in alcuni casi essere attenuati senza che ciò comporti la
caduta dell’intera costruzione analitica.
• Gli assiomi introdotti hanno delle precise implicazioni grafiche. In particolare, gli
assiomi di completezza, monotonicità e convessità sono di immediata interpretazione.
1. Completezza. Presi due punti qualsiasi A e B del piano, il consumatore è in grado di
confrontarli e stabilire se A ≥ B, B ≥ A, o A ∼ B.
2. Monotonicità. Considerando il punto del piano A, il consumatore preferisce tutti i
punti che si trovano a nord-est, mentre preferisce A a tutti i punti che si trovano a
sud-ovest. La monotonicità implica infatti che il consumatore preferisce ad A tutti i
panieri che contengono la stessa quantità di un bene e una quantità maggiore
dell’altro bene, mentre preferisce A a tutti i panieri che contengono la stessa quantità
di un bene e una quantità minore dell’altro bene.
!47
3. Convessità. Presi due punti A e B indifferenti tra loro, tutti i punti sul segmento che
unisce A e B sono preferiti sia ad A che a B. NB: dal punto di vista grafico, tutte le
combinazioni lineari di due punti qualsiasi sono rappresentate dal segmento che
unisce i due punti.
• Curve di indifferenza. Una curva di indifferenza è definita come il luogo dei punti del
piano cartesiano A, B, C, … rispetto ai quali il consumatore è indifferente (A ∼ B ∼ C
…). In pratica, una curva di indifferenza si ottiene unendo tutti i punti (tutti i panieri di
beni) che forniscono al consumatore uno stesso livello di utilità.
CURVA DI INDIFFERENZA
x1
x2
• Ovviamente non esiste un’unica curva di indifferenza, ma ne esistono tante: una per
ogni diverso livello di utilità del consumatore.
!48
MAPPA DI INDIFFERENZA
x1
I3
I2
I1
x2
• Gli assiomi sulle preferenze conferiscono alle curve d’indifferenza le seguenti proprietà.
1. Completezza. Ciascun punto del piano appartiene ad una curva d’indifferenza.
2. Monotonicità [in senso stretto]. Le curve di indifferenza sono decrescenti. Il fatto
che, preso il punto A, il consumatore preferisce [in senso forte] tutti i punti che si
trovano a nord-est impedisce che la curva di indifferenza passante per il punto A
possa passare anche per punti a nord-est di A (cioè impedisce che sia crescente o,
più precisamente, impedisce che sia non decrescente). Al contrario, se aumenta la
disponibilità di un bene, affinché il consumatore rimanga indifferente, deve
necessariamente diminuire la disponibilità dell’altro bene. Questo significa anche
tutti i punti al di sopra di una curva di indifferenza sono preferiti ai punti della curva
di indifferenza, mentre i punti sulla curva sono preferiti a quelli al di sotto della
curva.
!49
CARATTERISTICHE DELLE CURVE DI
INDIFFERENZA (1)
x1 A>B>C
Per l’assioma di
A monotonicità, i panieri sulle
curve di indifferenza più
B
lontane dall’origine sono
C
preferiti a quelli più vicini
all’origine
x2
Per assurdo:
B C
se A ~ C
eB~C
=> A ~ B (transitività)
Il che contraddice A > B x2
(monotonicità)
!50
d’utilità U = U (x1, x2) e si fissi un certo livello di utilità U = U. L’equazione U = U (x1,
x2) definisce il luogo di punti che forniscono l’utilità U. I valori di x1 e x2 che
soddisfano l’equazione determinano quindi i punti della curva di indifferenza di livello
U.
• Saggio marginale di sostituzione. Se, a partire da un particolare paniere di coordinate
(x2, x1), si aumenta di un’unità il consumo del bene x2, affinché l’utilità del consumatore
rimanga invariata, è necessario ridurre di un certo ammontare il consumo del bene x1. Il
“saggio marginale di sostituzione” (SMS) indica la quantità del bene x1 cui si deve
rinunciare per compensare esattamente un aumento infinitesimale del consumo del bene
x2 (in modo tale cioè che l’utilità del consumatore resti invariata). Supponiamo, ad
esempio, che le quantità x1 e x2 forniscano il livello di utilità U. Immaginiamo ora di
aumentare di una quantità Δx1 la quantità del bene x1; questo comporterà un aumento
del livello di utilità. Diminuendo di un’opportuna quantità il bene x2 sarà comunque
possibile riportare l’utilità al livello iniziale U. Questo significa che il nuovo punto (x1 +
Δx1, x2 – Δx2) appartiene alla stessa curva di indifferenza del punto (x1, x2) e il rapporto
(– Δx2 / Δx1) misura la sostituzione tra i due beni che lascia invariato il livello di utilità.
x1
Δx21
Δx21
x2
dU = (∂U / ∂x1) dx1 + (∂U / ∂x2) dx2 = UMG1 dx1 + UMG2 dx2
!51
dU = UMG1 dx1 + UMG2 dx2 = 0
dx1 / dx2 = – (UMG2 / UMG1)
Dal punto di vista analitico, si tratta della derivata della curva di indifferenza. Dal punto
di vista grafico, esso è rappresentato dalla tangente alla curva di indifferenza.
È opportuno notare che il saggio marginale di sostituzione è una misura puntuale della
sostituibilità tra i beni. In generale infatti l’inclinazione della curva di indifferenza può
variare lungo la curva stessa.
• In generale, assumeremo che le curve di indifferenza siano convesse, il che significa
che il saggio marginale di sostituzione varia al variare della disponibilità relativa dei
due beni.
• Consideriamo tuttavia due eccezioni.
1. Beni sostituti. Se le curve di indifferenza sono lineari, i beni sono “perfettamente
sostituti”. La quantità del bene x1 cui si deve rinunciare per compensare l’aumento
del consumo del bene x2 è la stessa indipendentemente dal fatto che si disponga di
una grande quantità o di una piccola quantità del bene x2.
Il saggio marginale di sostituzione in tal caso è lo stesso in ogni punto della curva di
indifferenza (si noti che non è rispettato l’assioma di convessità).
Supponiamo, ad esempio, che io –che possiedo un chilo di fragole e una sola
ciliegia– sia pronto a rinunciare a due fragole per ottenere una ciliegia aggiuntiva.
Allora, se per me fragole e ciliegie sono perfette sostitute, io considererò due fragole
come equivalenti a una ciliegia, anche quando possiedo due sole fragole e tre chili
di ciliegie. Per molti consumatori, esempi di beni sostituti, anche se non perfetti,
sono il caffè e il tè, la pasta e il riso, le fragole e le ciliegie. Da quanto detto, un
consumatore che consideri due beni come perfettamente sostituti ha preferenze che
non rispettano l’assioma di convessità.
!52
BENI PERFETTI SOSTITUTI
x1
Il SMS è costante
x2
2. Beni complementi. Due beni sono “perfetti complementi” quando l’utilità del
consumatore aumenta solo se la disponibilità dei due beni aumenta
simultaneamente; se invece aumenta la disponibilità di uno solo dei due beni,
l’utilità resta invariata. Un esempio di beni di questo tipo sono gli sci e gli attacchi:
se, invece di avere un paio di sci e un paio di attacchi, si ha un paio di sci e due paia
di attacchi, l’utilità non cambia (stiamo escludendo il fatto che, siccome gli attacchi
possono rompersi, può essere comunque meglio averne un paio in più). L’utilità
invece aumenta se aumentano simultaneamente sia gli sci che gli attacchi. In questo
caso si ha una violazione dell’assioma di monotonicità stretta e le curve di
indifferenza sono a forma di L (cioè non sono decrescenti). Esempi di beni
complementi, anche se non perfetti, possono essere il caffè e lo zucchero, il tabacco
e le cartine.
!53
BENI PERFETTI COMPLEMENTI
x1
Curve di indifferenza con un punto
angoloso
!54
L’OTTIMO DEL CONSUMATORE
x1
• per l’assioma di
monotonicità l’ottimo sta
sulla retta di bilancio B
• l’ottimo sta sulla curva di A
x*1
indifferenza più lontana
dall’origine
C
x*2 x2
• Dal punto di vista analitico, il punto di ottimo è determinato dalla seguente condizione:
UMG2 / UMG1 = p2 / p1
Per chiarire il significato di questa condizione, supponiamo che i due beni abbiano lo
stesso prezzo (p2 = p1). Allora, se con un dato paniere di consumo, l’utilità che il
consumatore trae da un’unità aggiuntiva del bene x2 fosse maggiore dell’utilità che egli
trae da un’unità aggiuntiva del bene x1 (UMG2 > UMG1), egli potrebbe comprare
un’unità del bene x2 e vendere un’unità del bene x1 aumentando così la propria utilità
(continuando comunque a rispettare il proprio vincolo di bilancio, dato che i due beni
hanno, per ipotesi, lo stesso prezzo). Se, viceversa, si avesse UMG2 < UMG1, allora il
consumatore potrebbe aumentare la propria utilità vendendo x2 e comprando x1. Nel
punto di ottimo si suppone che tutte le possibilità di aumentare l’utilità attraverso
operazioni di questo tipo siano state sfruttate e che quindi debba essere UMG2 = UMG1.
• La condizione di ottimo SMS = – (p2 / p1) può essere utilizzata nella maggior parte dei
problemi di massimizzazione dell’utilità del consumatore. Esistono tuttavia diversi casi
in cui la determinazione del paniere ottimo non può ottenersi sfruttando la suddetta
condizione. Qui ne consideriamo due:
!55
1. Soluzioni d’angolo: se lungo tutte le curve di indifferenza il SMS è sempre maggiore
o sempre minore del rapporto dei prezzi, la massimizzazione dell’utilità si ottiene
consumando solo il bene x1 o solo il bene x2.
x1
Il saggio marginale di
sostituzione è sempre
maggiore del prezzo relativo
Il consumatore ha una
predilezione talmente forte
per il bene x1 che non è
disposto a scambiarlo al
prezzo di mercato esistente x2
x1
Beni perfetti sostituti
Il consumatore
consuma solo il bene
per cui è maggiore il
rapporto tra prezzo e
grado di soddisfazione
x2
!56
SOLUZIONI D’ANGOLO (3)
x1
NB: nei casi in cui la soluzione ottima non può essere calcolata sfruttando la condizione
SMS = – (p2 / p1), questo non significa che l’ottimo non esiste o che non può essere
determinato. La regola generale rimane quella della determinazione del punto sulla retta
di bilancio che appartiene alla curva di indifferenza più a nord-est possibile.
• Riassumendo, il problema di ottimo del consumatore si basa su due dati: la retta di
bilancio e le preferenze. La retta di bilancio a sua volta dipende da due fattori: il reddito
e i prezzi relativi. Le variazioni del reddito e dei prezzi relativi producono spostamenti
della retta di bilancio e quindi, se le preferenze del consumatore si suppongono date, del
paniere ottimo scelto dal consumatore.
• Si noti che il problema di ottimo del consumatore può essere impostato anche in modo
simmetrico rispetto al procedimento seguito. Si può cioè definire l’insieme delle
alternative possibili come l’insieme di punti appartenente ad una certa curva di
indifferenza e la funzione obiettivo come la retta di bilancio. In tal caso piuttosto che
cercare di massimizzare l’utilità dato un vincolo di spesa, il problema del consumatore
consiste nel minimizzare la spesa dato il vincolo di raggiungere un determinato livello
di utilità. Questo secondo modo di analizzare la scelta ottima del consumatore prende il
nome di “problema duale”, mentre il problema che abbiamo sviluppato è chiamato
“problema primale”. Dal punto di vista grafico, invece di ricercare il punto di una data
retta di bilancio che appartiene alla curva di indifferenza più a nord-est possibile
(problema primale), si dovrà cercare il punto di una data curva di indifferenza che
appartiene alla retta di bilancio più a sud-ovest possibile (problema duale). Le
condizioni analitiche di ottimo rimangono le stesse. In caso di convessità, ad esempio,
si verifica facilmente che l’ottimo è raggiunto nel punto di tangenza tra la retta di
bilancio e la curva di indifferenza.
!57
Gli effetti delle variazioni di reddito
• Come abbiamo visto, al variare del reddito monetario m, a prezzi costanti, la retta di
bilancio si sposta mantenendo invariato il coefficiente angolare. Questo porta alla
determinazione di un nuovo punto di ottimo del consumatore.
x2
!58
GLI EFFETTI DI UN AUMENTO DEL REDDITO
(BENI INFERIORI)
x1
aumenta x*1
diminuisce x*2 → il bene x2 è un
bene inferiore
x2
• Si noti che, in un sistema in cui sono presenti solo due beni, non è possibile che
ambedue siano inferiori. Infatti la riduzione del consumo del bene inferiore si spiega
soltanto ipotizzando che esso sia sostituito con altri beni, il che significa che il consumo
dell’altro bene deve necessariamente aumentare (e in misura considerevole)
all’aumentare del reddito. In generale se nel sistema ci sono n beni, al massimo n–1 di
essi possono essere inferiori e almeno uno deve essere normale.
• Unendo tutti i punti di ottimo che si ottengono facendo variare il reddito monetario m, si
ottiene il “sentiero di espansione del reddito” (SER) [gli assi cartesiani riportano i due
beni x1 e x2]. Il SER ha inclinazione positiva se i due beni sono entrambi normali. Se il
bene x1 è inferiore esso avrà un tratto a pendenza negativa. Se è il bene x2 ad essere
inferiore, il SER avrà un tratto “in cui ritorna indietro”.
!59
SENTIERO DI ESPANSIONE DEL REDDITO
(SER)
x1 SER
Luogo dei punti di ottimo al
variare del reddito
x2
• La “curva di Engel” rappresenta il consumo ottimo di un bene al variare del reddito [gli
assi cartesiani riportano il bene x1 e il reddito monetario m]. La curva di Engel è
crescente per i beni normali e decrescente per i beni inferiori.
CURVA DI ENGEL
• Come abbiamo visto, al variare del prezzo p1, rimanendo costante il prezzo p2 e il
reddito monetario m, la retta di bilancio si sposta facendo perno sul punto di
!60
intersezione con l’asse x2. Questo porta alla determinazione di un nuovo punto di ottimo
del consumatore con nuovi livelli di consumo di x1 e x2.
• Effetto sostituzione e effetto reddito. L’effetto dell’aumento del prezzo p1 può essere
scomposto in due componenti: (1) l’aumento del prezzo p1, a parità di reddito
monetario, produce una riduzione del reddito reale, il che diminuisce le possibilità
complessive di consumo (l’insieme delle alternative di consumo possibili si restringe)
[“effetto reddito”]; (2) l’aumento del prezzo p1, a parità del prezzo p2, fa aumentare il
prezzo relativo p1/p2, il che rende il bene x2 più a buon mercato rispetto al bene x1 e
porta a diminuire il consumo di x1 a vantaggio di quello di x2 [“effetto sostituzione”].
L’effetto reddito e l’effetto sostituzione possono essere quantificati secondo due criteri
diversi. Sia E1 il punto di equilibrio prima della variazione del prezzo (ottenuto come
tangenza della curva di indifferenza I1 e della retta di bilancio R1) e E2 il punto di
equilibrio dopo la variazione del prezzo (ottenuto come tangenza della curva di
indifferenza I2 e della retta di bilancio R2).
1. Compensazione di Hicks. Si tracci una retta di bilancio teorica, R3, con la stessa
inclinazione della R2 e tangente alla I1. Si indichi con E3 tale punto di tangenza. La
differenza tra il punto E3 e il punto E1 misura l’effetto sostituzione, cioè quella
variazione del consumo di x1 (lungo la curva di indifferenza I1) dovuta al solo fatto
che è cambiato il prezzo relativo (indipendente cioè dal fatto che la variazione del
prezzo p1, facendo variare il reddito reale, permette in realtà di spostarsi su una
nuova curva di indifferenza). La differenza tra il punto E2 e il punto E3 isola invece
l’effetto reddito: dati i prezzi relativi (quelli vigenti dopo l’aumento di p1), la
variazione del consumo di x1 dal punto E2 al punto E3 è imputabile solo ad una
variazione del reddito.
COMPENSAZIONE DI HICKS
x1
E3
I2
I1
R1 R3 R2 x2
EFFETTO DI EFFETTO DI
SOSTITUZIONE REDDITO
2. Compensazione di Slutsky. Si tracci una retta di bilancio teorica, R3, con la stessa
inclinazione della R2 e passante per il punto E1. Si indichi con E3 il punto teorico di
ottimo che si avrebbe con questa nuova retta di bilancio R3 e si indichi con I3 la
!61
nuova curva di indifferenza tangente a tale retta. La differenza tra il punto E3 e il
punto E1 misura l’effetto sostituzione, cioè quella variazione del consumo di x1
(lungo la retta di bilancio teorica R3 che mantiene invariato il reddito reale che si
aveva in E1) dovuta al solo fatto che è cambiato il prezzo relativo. La differenza tra
il punto E2 e il punto E3 isola invece l’effetto reddito: dati i prezzi relativi (quelli
vigenti dopo l’aumento di p1), la variazione del consumo di x1 dal punto E2 al punto
E3 è imputabile solo ad una variazione del reddito.
COMPENSAZIONE DI SLUTSKY
x1
Confronto a potere E1 E2
d’acquisto costante
E3
I2
I3
I1
R1 R3 R2 x2
EFFETTO DI EFFETTO DI
SOSTITUZIONE REDDITO
Nei due casi, la variazione del consumo di x1 causata da una variazione del prezzo p1
(E2 – E1) viene scomposta in due componenti: l’effetto reddito (E2 – E3) e l’effetto
sostituzione (E3 – E1):
• In generale, all’aumentare del prezzo p1, il consumo del bene x1 diminuisce. Infatti, (1)
l’effetto sostituzione necessariamente implica una diminuzione del consumo di x1 a
vantaggio di x2; (2) l’effetto reddito anche, in generale, tende a ridurre il consumo di x1.
Tuttavia fa eccezione il caso in cui x1 sia un bene inferiore. In tal caso, infatti, la
diminuzione del reddito fa aumentare il consumo di x1. Questo significa che, nel caso di
un bene inferiore, se l’aumento del consumo causato dall’effetto reddito è maggiore
della diminuzione del consumo causata dall’effetto sostituzione, il consumo
complessivo di x1 potrebbe anche aumentare all’aumentare del prezzo p1.
• I beni il cui consumo varia nella stessa direzione delle variazioni del loro prezzo si
dicono “beni di Giffen”.
• Si noti, che affinché un bene sia di Giffen esso deve essere necessariamente un bene
inferiore (altrimenti, l’effetto reddito rinforzerebbe l’effetto sostituzione). Tuttavia non
tutti i beni inferiori sono anche beni di Giffen (infatti, non solo è necessario che l’effetto
!62
reddito vada in senso opposto rispetto all’effetto sostituzione, ma esso deve anche
essere più forte del secondo).
• Unendo tutti i punti di ottimo che si ottengono facendo variare il prezzo p1, si ottiene il
“sentiero di espansione del prezzo p1” (SEP1) [gli assi cartesiani riportano i due beni x1
e x2]. Ripetendo lo stesso esercizio per il prezzo p2 si ottiene il “sentiero di espansione
del prezzo p2” (SEP2).
SEP
x2
!63
FUNZIONE DI DOMANDA INDIVIDUALE
x1
p1
• La curva di domanda indica, per ogni livello del prezzo, la quantità del bene che un
consumatore desidera consumare. Se, per ogni livello del prezzo, si sommano le
quantità del bene che ciascun consumatore desidera consumare si ottiene la curva di
domanda di mercato. Essa indica, per ogni livello del prezzo, la quantità totale del bene
che i consumatori desiderano consumare. Dal punto di vista grafico, essa è la somma
orizzontale delle curve di domanda individuali.
• Dal punto di vista matematico, la curva di domanda è una funzione che mette in
relazione prezzo e quantità. Più precisamente, per ogni prezzo, essa determina la
quantità domandata. È allora possibile considerare la “funzione di domanda inversa”
come relazione tra quantità e prezzo: per ogni quantità, essa determina il prezzo al quale
il consumatore è disposto ad acquistare quella quantità. Dal punto di vista matematico,
la funzione di domanda inversa si ottiene semplicemente esplicitando il prezzo in
funzione delle quantità.
!64
FUNZIONE DI DOMANDA INVERSA
p1
!65
IL SURPLUS DEL CONSUMATORE
p
• Per un consumatore:
differenza tra prezzo di
riserva e prezzo di
mercato (p)
p
• Per il mercato: somma del
surplus di tutti i
consumatori (area
compresa tra la funzione X
di domanda inversa e il
prezzo di mercato)
Significato matematico
• Data una qualsiasi funzione Y = f (X), l’elasticità si definisce nel modo seguente:
e = (dY / Y) / (dX / X)
Significato economico
e = (dQ / Q) / (dp / p)
!66
• Tale definizione si applica tanto alla funzione di domanda (nel qual caso la indichiamo
con ε) quanto alla funzione d’offerta (e in questo caso la indichiamo con η). Nel caso
della domanda, essendo la curva inclinata negativamente (a parte il caso di beni di
Giffen), come convenzione, l’elasticità si definisce col segno invertito (in modo tale che
il suo valore sia sempre positivo):
• Sia per la domanda che per l’offerta, il valore dell’elasticità dipende dai seguenti fattori:
1. pendenza bassa ⇒ e alta (in risposta ad una variazione data del prezzo si ha una
forte variazione della quantità).
2. punto vicino all’asse p ⇒ e alta (sull’asse p: e = ∞).
3. punto vicino all’asse Q ⇒ e bassa (sull’asse Q: e = 0).
p p1 → p2 :
l’aumento della quantità è
maggiore sulla curva D2 (meno
inclinata e più elastica) che
sulla curva D1
p1
p2
D2
D1
Q
Q1 Q2 Q3
!67
ELASTICITÀ DELL’OFFERTA
(INCLINAZIONE DELLA CURVA)
p S1
p1 → p2 :
La diminuzione delle
S2 quantità è maggiore sulla
curva S2 (meno inclinata e più
p1 elastica) che sulla curva S1
p2
Q
Q2 Q3 Q1
p S
ε=∞
ε=0
η=∞ D
!68
• Nel caso della domanda, il punto in cui ε = 1 è particolarmente significativo dal punto
di vista della spesa complessiva del consumatore. Considerando un bene x normale (non
di Giffen), con una curva di domanda decrescente, spostandosi dal punto A al punto B, a
destra di A, aumenta la quantità e diminuisce il prezzo. L’aumento della quantità
domandata tende a far aumentare la spesa complessiva del consumatore per il bene x;
tuttavia, la diminuzione del prezzo tende a far diminuire la spesa del consumatore. Dire
che l’elasticità è alta (superiore a uno) significa dire che la variazione percentuale della
quantità è forte (cioè è superiore alla variazione percentuale del prezzo), il che fa
aumentare la spesa del consumatore di più di quanto non la faccia diminuire il fatto che
il prezzo è diminuito:
!69
SPESA TOTALE DEI CONSUMATORI
E RICAVI TOTALI DELLE IMPRESE
S = pQ = RT
SPESA DEI
CONSUMATORI
RICAVI DELLE
IMPRESE
Q
Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 cap. 3/8
!
Q
Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 cap. 3/11
!
!70
CURVA DI DOMANDA ELASTICA
Di fronte ad una
variazione di p la
risposta di Q è più che p
proporzionale
Esempi
Q1 Q2 Q
Q
p
Q
! Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002 cap. 3/12
!71
• Funzione d’offerta lineare. Si hanno due casi a seconda che l’intercetta sia positiva o
negativa (nel caso della domanda, l’intercetta è sempre positiva):
1. Intercetta positiva. All’intersezione con l’asse p, η = ∞ ; andando verso destra,
l’elasticità decresce e tende a 1 quando Q → ∞ (quindi η > 1 sempre)
2. Intercetta negativa. All’intersezione con l’asse Q, η = 0; andando verso destra,
l’elasticità cresce e tende a 1 quando Q → ∞ (quindi η < 1 sempre)
p S1
ε=∞ S2
ε=1
η=∞
ε=0
D
ε=0
Altre elasticità
• Elasticità della domanda al reddito. Dal punto di vista matematico, si definisce come
segue:
Essa esprime di quanto varia in termini percentuali la domanda del bene x1 a fronte di
una variazione dell’uno per cento del prezzo del bene x2.
!72
Determinanti delle elasticità
Prezzi controllati
!73
PREZZI CONTROLLATI
p p
ECCESSO
DI OFFERTA
S S
pmin
pe
pe
pmax
D
D ECCESSO
DI DOMANDA
QD QS Q QS QD Q
!74
• Per mantenere il prezzo ad un livello inferiore a quello di mercato, il governo ha diversi
strumenti:
1. Incoraggiare l’offerta attraverso trasferimenti o sgravi fiscali
2. Ridurre la domanda favorendo beni alternativi o controllando i redditi.
!75
Costi, ricavi e profitti medi indicano rispettivamente il costo, il ricavo e il profitto per
unità di prodotto che si ottengono quando si produce una quantità pari a q. Costi, ricavi
e profitti marginali indicano invece l’aumento del costo, del ricavo e del profitto quando
la quantità prodotta aumenta di un’unità (dal livello q passa al livello q+1).
Matematicamente, si tratta della derivata delle funzioni del costo, del ricavo e del
profitto totali.
Costi
• Si suppone che esistano due soli input, lavoro (L) e capitale (K). I costi totali (CT) sono
allora determinati dalla spesa che l’impresa sostiene per l’acquisto di questi due input.
CT = wL + rK
dove w e r sono i prezzi del lavoro e del capitale rispettivamente. Assumiamo che i
mercati dei fattori di produzione (L e K) siano caratterizzati da concorrenza perfetta dal
lato della domanda e che, quindi, l’impresa non possa in nessun modo influire sui prezzi
w e r. Tale ipotesi, anche se poco realistica, non sarà abbandonata mai.
• Per poter di analizzare come variano i costi dell’impresa al variare delle quantità
prodotta, dobbiamo innanzi tutto determinare come varia la quantità prodotta al variare
delle quantità di input utilizzate. A tale scopo definiamo il concetto di funzione di
produzione.
• Combinando opportunamente i due input si ottiene l’output (q), secondo la seguente
funzione di produzione:
q = q (L, K)
La produttività media del lavoro (o del capitale) indica la quantità di prodotto per unità
di lavoro (o di capitale). Le produttività marginali indicano di quanto aumenta il
prodotto quando l’uso di uno dei due fattori viene aumentato di un’unità.
• In generale, i fattori di produzione possono essere distinti in “fattori fissi” e “fattori
variabili”. I primi sono quelli che non possono essere variati in un certo arco di tempo
preso come riferimento (nel nostro caso semplificato a due soli fattori, il capitale); i
secondi possono invece essere utilizzati in quantità variabili anche nell’arco di tempo
considerato (il lavoro). Definiamo allora “breve periodo” l’arco di tempo in cui possono
essere variati solo i fattori variabili e “lungo periodo” un arco di tempo sufficientemente
lungo in cui può essere variata la quantità di tutti i fattori di produzione.
!76
Costi di breve periodo
q = q (L)
• In questo caso il problema della minimizzazione dei costi è banale poiché l’impresa non
ha alcun margine di manovra sul modo di ottenere un certo livello di produzione q.
Come vedremo, tale problema è invece complesso nel lungo periodo poiché in quel
caso uno stesso livello di produzione q può essere ottenuto con combinazioni diverse di
L e K, il che solleva la questione di determinare la particolare combinazione (L, K) più
economica per l’impresa.
• Secondo un’ipotesi comunemente accettata, quando si combinano quantità crescenti di
un fattore variabile con una quantità costante del fattore fisso, l’output cresce in misura
sempre minore. Tale ipotesi prende il nome di “legge della produttività marginale
decrescente”.
• Dal punto di vista grafico, questa ipotesi implica che la curva della produttività
marginale del lavoro, PMGL, abbia un tratto decrescente. Più in particolare, supporremo
che la PMGL sia prima crescente (per bassi livelli di output, incrementi nella quantità di
L danno luogo ad incrementi crescenti di q poiché, ad esempio, dato un impianto di una
certa dimensione, K, l’impiego di quantità molto piccole di L non permette di utilizzarlo
al meglio) e poi decrescente (per la legge della produttività marginale decrescente).
• In termini della funzione di produzione questo equivale a dire che essa sia prima
convessa e poi concava (nella figura, il cambio di concavità si ha nel punto di flesso:
A). In generale si suppone che la funzione di produzione sia sempre crescente, ossia che
all’aumentare delle quantità di input l’output aumenti (seppure in misura via via
decrescente). Sloman, tuttavia, ipotizza che oltre un certo limite (punto C), non solo
dosi aggiuntive di un input smettono di avere effetti positivi sulla produzione, ma
finiscono addirittura per diminuirla. In tal caso, la produttività marginale diventa
negativa.
• La curva della produttività media si suppone anch’essa prima crescente e poi
decrescente. Graficamente, la produttività media è rappresentata dall’inclinazione del
segmento che unisce l’origine ai vari punti della funzione di produzione. Tale
inclinazione aumenta inizialmente, raggiunge un massimo in B e poi diminuisce.
!77
PRODUTTIVITÀ MEDIA
q B
PMEL
L
Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002
• Dal punto di vista matematico, vale la seguente regola generale: se una curva media è
prima crescente e poi decrescente (o, viceversa, prima decrescente e poi crescente), la
corrispondente curva marginale è anch’essa prima crescente e poi decrescente (o,
viceversa, prima decrescente e poi crescente). Inoltre la curva marginale interseca
sempre la curva media nel punto di massimo (o di minimo) di quest’ultima.
FUNZIONE DI PRODUZIONE E
PRODUTTIVITÀ MEDIA E MARGINALE
C
q B
• Una volta determinata la quantità di L che deve essere utilizzata per ottenere una certa
quantità di q (ricordiamo che nel breve periodo la quantità di K è data e non può essere
modificata), è possibile analizzare come variano i costi totali al variare della quantità da
produrre (q).
!78
• Abbiamo visto che il costo totale può essere espresso dalla seguente relazione:
CT = wL + rK
NB: il fatto che la quantità di K sia data nel breve periodo non toglie che essa deve
essere comunque pagata al prezzo r.
• Più in generale il costo totale (CT) è determinato dalla somma dei costi variabili (CV) e
dei costi fissi (CF).
CT = CV + CF
NB: dato che tutti i tipi di costi variano in generale al variare della quantità prodotta,
sarebbe più corretto scrivere CT(q), CV(q) e CF(q). Per brevità, d’ora in avanti, non
esplicitiamo la variabile indipendente (che è sempre la q).
NB: in base alle ipotesi semplificatrici introdotte secondo cui esistono due soli input,
valgono le due seguenti relazioni:
CV = wL
CF = rK
• Come per i costi totali, è possibile definire anche i costi variabili medi e i costi fissi
medi.
• Una volta noti CV e CF, le formule presentate consentono di ricavare tutti gli altri tipi
di costi: CT, CME, CMG, CFME, CVME.
• Le curve dei costi presentano diversi andamenti al variare di q.
1. CF. Retta orizzontale.
2. CV. Curva crescente, prima concava (si ipotizza che a livelli bassi di output il
fattore fisso non possa essere utilizzato al meglio), poi convessa (per la legge della
produttività marginale decrescente).
3. CT. Curva con lo stesso andamento della CV, ma traslata verso l’alto di un
ammontare pari a CF.
4. CME. Andamento a U: a livelli bassi di output il fattore fisso non viene utilizzato al
meglio ed è perciò possibile risparmiare sul costo unitario aumentando la
produzione; oltre un certo livello di produzione entra tuttavia in gioco la legge della
produttività marginale decrescente.
5. CMG. Andamento a U per gli stessi motivi della CME. Come abbiamo già visto, dal
punto di vista matematico, si tratta di una legge generale: se una curva media ha
!79
andamento a U, la corrispondente curva marginale è anch’essa a U. Inoltre la curva
marginale interseca sempre la curva media nel punto di minimo di quest’ultima.
6. CFME. Curva decrescente perché i costi fissi vengono ripartiti su un numero
crescente di prodotti.
7. CVME. Andamento a U per gli stessi motivi della CME.
CT
CT
CV
A CV
CF
• CMG: decrescente fino ad A A
(punto di flesso della CT e CF
della CV); crescente in
seguito. Interseca la CVME e q
la CME nei loro punti di CME CMG
minimo (punti B e C). CMG
• CFME: sempre decrescente CME
C CVME
B
A CFME
q
Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002
• Nel lungo periodo, per definizione, tutti i fattori sono variabili. La distinzione tra CF e
CV dunque non si pone e ci concentriamo unicamente sul costo medio di lungo periodo
(CMELP) e il costo marginale di lungo periodo (CMGLP). Come vedremo, secondo la
teoria neoclassica, entrambe queste curve dei costi hanno un andamento a U. Prima di
analizzare i costi, dobbiamo però discutere le ipotesi riguardanti la tecnologia.
• A differenza del breve periodo la quantità q dipende ora sia dalla quantità di L sia da
quella di K.
q = q (L, K)
• Ora che ambedue gli input possono essere variati, è probabile che al variare della
quantità da produrre si renda conveniente variare le proporzioni di capitale e lavoro
utilizzate.
• Il procedimento che seguiamo per determinare la combinazione ottima di L e K è
analogo a quello seguito nell’analisi della scelta del consumatore. Ricordiamo che il
problema del consumatore poteva essere definito come consistente nel determinare la
combinazione ottima di x1 e x2 che consentiva di massimizzare l’utilità, dato un certo
vincolo di spesa. Il procedimento per la soluzione di tale problema portava a
determinare la retta di bilancio e le curve di indifferenza. Nel caso del produttore, il
problema consiste nel determinare la combinazione ottima di L e K che consente di
!80
minimizzare i costi per ottenere un certo livello di produzione. Tale procedimento porta
a determinare la retta di isocosto e gli isoquanti.
• NB: Ricordiamo che nell’analisi del problema del consumatore era possibile definire
due impostazioni simmetriche: massimizzare l’utilità dato un vincolo di spesa
(problema primale) oppure minimizzare la spesa per ottenere un certo livello di utilità
(problema duale). Nell’analisi del problema del produttore sviluppiamo l’impostazione
duale, cioè cerchiamo di minimizzare i costi dato il vincolo di ottenimento di un certo
livello di produzione. Anche in questo caso è comunque possibile definire un problema
simmetrico consistente nella massimizzazione del livello di produzione dato un vincolo
di spesa per l’acquisto degli input. Come nel caso del consumatore, la soluzione ottima
non cambia.
ISOQUANTI
• Ovviamente non esiste un unico isoquanto, ma ne esistono tanti: uno per ogni diverso
livello di produzione.
!81
MAPPA DI ISOQUANTI
!82
valori di L e K che soddisfano l’equazione determinano quindi i punti dell’isoquanto di
livello q.
• Saggio tecnico (marginale) di sostituzione. Se, a partire da un particolare punto di
coordinate (L, K), si aumenta di un’unità l’impiego di L, affinché la produzione rimanga
invariata, è necessario ridurre di un certo ammontare l’impiego di K. Il “saggio tecnico
(marginale) di sostituzione” (STS) indica di quanto si deve diminuire la quantità del
fattore K per compensare esattamente un aumento infinitesimale dell’impiego di L (in
modo tale cioè che il livello di produzione resti invariato). In termini analitici, si tratta
di calcolare il differenziale totale della funzione di produzione (che indica la variazione
totale della produzione quando L e K aumentano simultaneamente di quantità
infinitesime) e porre che esso sia pari a zero (imporre cioè che le variazioni di L e K
siano tali da compensarsi esattamente dal punto di vista della produzione). Il
differenziale totale è dato dalla seguente espressione:
dq = PMGL dL + PMGK dK = 0
dK / dL = – (PMGL / PMGK)
Dal punto di vista analitico, si tratta della derivata dell’isoquanto. Dal punto di vista
grafico, esso è rappresentato dalla tangente all’isoquanto.
Come per le curve di indifferenza, notiamo che il saggio tecnico (marginale) di
sostituzione è una misura puntuale della sostituibilità tra i fattori. In generale infatti
l’inclinazione dell’isoquanto varia lungo l’isoquanto stesso.
CT = wL + rK
Per l’ipotesi di concorrenza perfetta sul mercato dei fattori di produzione, w e r sono dei
parametri (dati sui quali l’impresa non ha alcun controllo). Fissato un certo livello del
costo totale, CT, è allora possibile determinare tutte le diverse combinazioni di L e K
che, acquistate ai prezzi (w, r), comportano un costo totale pari a CT. Tali combinazioni
sono quelle che soddisfano la seguente equazione:
!83
CT = wL + rK
Dal punto di vista grafico, si tratta di una retta nel piano (L, K), la cui equazione
esplicita rispetto a K è la seguente:
K = – (w/r)L + CT/r
L = CT / w ottenuta ponendo K = 0
K = CT / r ottenuta ponendo L = 0
ISOCOSTI
CT0/r
– w/r
CT0/w L
!84
MAPPA DI ISOCOSTI
• Se aumenta il costo totale CT, a prezzi dei fattori costanti, la retta di isocosto si sposta
verso l’alto.
• Se aumenta r (il prezzo del fattore K), a parità di w e di costo totale CT, la retta di
isocosto ruota verso l’interno facendo perno sul punto di intersezione con l’asse L.
• Se aumenta w (il prezzo del fattore L), a parità di r e di costo totale CT, la retta di
isocosto ruota verso l’interno facendo perno sul punto di intersezione con l’asse K.
!85
LA COMBINAZIONE OTTIMA DEGLI INPUT
Dato il livello di K
produzione q*, la
combinazione dei fattori
più economica è (L*, K*),
cui corrisponde un costo
totale pari a CT*
E
K*
q*
Dato il costo totale CT*, CT*
il livello di produzione
L* L
massimo che si può
ottenere è q*
Dal punto di vista analitico, il punto di ottimo è determinato dalla seguente condizione
(che esprime appunto la tangenza tra l’isoquanto, di inclinazione dK / dL, e la retta di
isocosto, di coefficiente angolare – (w / r)):
STS = – (w / r)
Ricordando la definizione del STS, tale condizione può scriversi anche nella seguente
forma (uguaglianza delle produttività marginali ponderate):
(PMGL / w) = (PMGK / r)
!86
• Mentre il concetto di rendimenti di scala si riferisce strettamente alla struttura
tecnologica, il concetto di economie di scala coinvolge anche i costi degli input, i quali
potrebbero variare anch’essi al variare della quantità prodotta. Ad esempio una grande
impresa potrebbe riuscire ad approvvigionarsi a costi inferiori rispetto ad una piccola
impresa e questo potrebbe essere sufficiente a ridurre i costi per unità di prodotto anche
in presenza di una tecnologia a rendimenti di scala costanti (semplicemente la grande
impresa paga di meno gli input).
• Ragioni dell’insorgenza di economie di scala: specializzazione e divisione del lavoro,
indivisibilità, “principio del contenitore”, maggiore efficienza dei macchinari grandi,
prodotti congiunti, produzione a stadi successivi, economie di organizzazione,
economie finanziarie.
• Ragioni dell’insorgenza di diseconomie di scala: problemi di coordinamento, difficoltà
di controllo dei lavoratori sul posto di lavoro, maggiori capacità dei lavoratori di
organizzarsi in difesa dei propri diritti, aumento del conflitto nelle relazioni tra le parti
sociali.
• Accanto alle economie e diseconomie di scala, che riguardano la singola impresa, si
parla di “economie” e “diseconomie esterne” quando i costi medi per le imprese che
producono uno stesso bene all’interno di un certo settore (di un’industria) diminuiscono
o aumentano al crescere delle dimensioni dell’industria.
• Ragioni dell’insorgenza di economie esterne: maggiori disponibilità di lavoratori
specializzati, crescita dei servizi (finanziari, di commercializzazione, eccetera) di
supporto all’industria, infrastrutture.
• Ragioni dell’insorgenza di diseconomie esterne: determinati fattori di produzione
potrebbero diventare scarsi ed aumentare di prezzo.
• Le curve dei costi di lungo periodo presentano andamenti a U al variare di q. In
particolare, si ipotizza che i prezzi dei fattori siano dati (cioè che il mercato dei fattori
sia perfettamente concorrenziale), che lo stato della tecnologia sia anch’esso dato e che
l’impresa scelga sempre la combinazione ottima dei fattori per ogni livello di
produzione.
1. CMELP. Si ipotizza che per bassi livelli di q prevalgano le economie di scala e che
oltre un certo livello di produzione prevalgano le diseconomie di scala.
!87
IL COSTO MEDIO DI LUNGO PERIODO
• Fino al livello di
Costo
produzione q1 prevalgono
le economie di scala
• Nel tratto compreso tra q1 e
q2 si hanno costi medi
ECONOMIE DISECONOMIE
costanti
DI SCALA DI SCALA
• A partire dal livello di COSTI
produzione q2 prevalgono COSTANTI
le diseconomie di scala
q1 q2 q
La CMELP può essere vista anche come l’inviluppo dell’insieme delle CME.
CMEBP).
Per ogni livello di produzione, CMELP
l’impresa sceglie l’impianto migliore
e la sua intensità ottima di utilizzo
q
!88
COSTI MEDI E MARGINALI DI LUNGO
PERIODO
CMGLP
Costi
Costi
Costi
CMGLP
Costi
CMELP = CMGLP
CMELP
CMELP
CMGLP CMELP
q q q q
Ricavi
• Il ricavo totale dell’impresa è determinato dal prodotto tra prezzo di vendita (p) e
quantità venduta (q). Il prezzo di vendita dipende dalla forma del mercato in cui opera
l’impresa. In generale, infatti, variando la quantità offerta, l’impresa potrebbe incidere
sul prezzo di vendita. Il prezzo è quindi una funzione della quantità offerta.
RT = p(q) q
• La misura in cui un’impresa può incidere sul prezzo di vendita definisce il suo potere di
mercato. Tale potere di mercato è determinato dall’elasticità della domanda che
l’impresa ha di fronte.
• NB: si potrebbe avere potere di mercato anche dal lato della domanda. Se, ad esempio,
la domanda fosse caratterizzata da condizioni di monopsonio (un solo consumatore)
questi, variando la quantità domandata, potrebbe incidere sul prezzo d’acquisto. In tutta
l’analisi supporremmo tuttavia che la domanda sia caratterizzata da condizioni di
concorrenza perfetta.
• La curva di domanda dell’intero mercato si suppone sempre decrescente. Essa risulta
dall’aggregazione delle domande individuali (cap. 2). NB: per ipotesi stiamo
escludendo il caso di beni di Giffen.
• La curva di domanda di mercato coincide con la curva di domanda della singola
impresa solo nel caso di monopolio (caso in cui sul mercato opera una sola impresa e,
quindi, tutta la domanda del mercato si rivolge alla sola impresa esistente). In generale,
per conoscere la curva di domanda dell’impresa si deve conoscere la forma di mercato
in cui l’impresa opera.
• Una volta nota la curva di domanda che una singola impresa ha di fronte, è possibile
conoscere le sue curve dei ricavi. La curva di domanda della singola impresa coincide
!89
infatti con i suoi ricavi medi: per ogni livello del prezzo, tutte le unità che i consumatori
domandano all’impresa sono, dal punto di vista dell’impresa, unità vendute.
D = RME
• Quindi, una volta nota la curva di domanda dell’impresa, è nota anche la curva del suo
ricavo medio e a partire da questa è possibile derivare anche il ricavo totale e il ricavo
marginale.
RT = RME q
RMG = ∂RT / ∂q
Profitti
• Per determinare il livello ottimo di produzione, q*, si possono utilizzare le curve dei
ricavi e dei costi marginali. Dato un qualsiasi livello di produzione q’, se RMG(q’) >
CMG(q’), allora conviene aumentare la quantità prodotta: il ricavo aggiuntivo che si
ottiene producendo un’unità aggiuntiva è infatti maggiore del suo costo (il che significa
che il livello di produzione q’ non è ottimale). Se, viceversa, RMG(q’) < CMG(q’),
allora conviene ridurre la quantità prodotta: il ricavo aggiuntivo che si ottiene
producendo un’unità aggiuntiva è minore del suo costo (il che significa, di nuovo, che il
livello di produzione q’ non è ottimale). Il livello di produzione ottimo è perciò, il
valore di q* tale che:
RMG(q*) = CMG(q*)
Tale differenza può essere espressa anche in termini delle curve dei ricavi e dei costi
medi:
• NB: in realtà, il profitto normale dell’impresa (inteso come il profitto che il capitalista
potrebbe ottenere investendo il proprio capitale in un’altra attività, cioè il costo-
opportunità dell’investimento) è incluso nella curva dei costi. Quello che fin qui
abbiamo chiamato profitto (il rettangolo appena determinato) è perciò in realtà un
“extra-profitto”, ossia un profitto aggiuntivo rispetto al profitto normale. Si deve anche
!90
notare che, nel breve periodo, l’impresa può trovare conveniente produrre anche in
perdita (cioè ad un livello di produzione tale che RME < CME) a patto che sia in grado
di recuperare almeno i costi variabili (RME ≥ CVME): i costi fissi ormai sono stati
sostenuti e producendo ad un livello tale che il ricavo medio è superiore al costo
variabile medio almeno si minimizzano le perdite. Nel lungo periodo invece l’impresa
esce dal mercato se non recupera interamente i costi medi (RME ≥ CMELP).
5. Forme di mercato
Grado di concorrenza
• Sulla base (1) del numero di imprese presenti nel mercato, (2) delle barriere all’entrata e
(3) della natura del prodotto è possibile distinguere quattro forme di mercato dal lato
dell’offerta: concorrenza perfetta, concorrenza monopolistica, oligopolio e monopolio.
In tutto il capitolo supporremo invece che dal lato della domanda ci sia concorrenza
perfetta tra i consumatori. Ricordiamo inoltre che, nel determinare i costi dell’impresa,
abbiamo supposto che questa sia in concorrenza perfetta con le altre imprese
nell’acquisto dei fattori di produzione e che non abbia perciò alcun potere di influire sui
prezzi dei fattori.
• Le quattro forme di mercato hanno implicazioni diverse in termini della curva di
domanda cui fanno fronte le imprese, il che porta le imprese ad avere comportamenti
diversi a seconda della struttura di mercato. A sua volta, la diversa condotta delle
imprese produce diversi risultati economici, innanzi tutto in termini di profitti. La logica
è quindi la seguente:
Concorrenza perfetta
RME = D = p
RT = RME q = pq
RMG = ∂RT / ∂q = p
!91
Il ricavo totale è una retta crescente di coefficiente angolare p e intercetta nulla. Il
ricavo marginale è una retta orizzontale al livello p coincidente con la retta del ricavo
medio (e con la curva di domanda).
• Ricordando che la condizione per la massimizzazione dei profitti è CMG = RMG,
l’impresa massimizza il profitto producendo la quantità, q* tale che p = CMG.
• Al livello di produzione ottimo, è possibile che l’impresa realizzi extraprofitti (se p >
CME) o che sia in perdita (se CVME < p < CME). Tale situazione costituisce un
equilibrio di breve periodo. Essa tuttavia non è sostenibile anche nel lungo periodo.
EQUILIBRIO DELL’IMPRESA
CONCORRENZIALE NEL BREVE PERIODO
p
• Curva di domanda
CMG
dell’impresa orizzontale
al livello pe.
• Profitto massimo nel CME
punto RMG = p = CMG pe RME = RMG = pe
• In corrispondenza di qe
l’impresa consegue un
extra-profitto (area qe q
tratteggiata)
!92
EQUILIBRIO CONCORRENZIALE
DELL’INDUSTRIA NEL BREVE PERIODO
p
S
Il prezzo di equilibrio
(pe) è dato pe
dall’intersezione tra le
curve di domanda e di D
offerta del mercato
Qe Q
• Nel breve periodo, la curva di offerta dell’impresa (cioè la relazione che esprime per
ogni livello del prezzo, la quantità offerta dall’impresa) coincide con la curva del costo
marginale nel tratto in cui questa giace al di sopra della curva del costo medio. Infatti,
per ogni livello di p, la quantità ottima da produrre si ottiene proprio imponendo la
condizione p = CMG.
p CMG
S p s
p3 CVME
p2
p1 D3
D2
D1
Q q
• Nel lungo periodo, se l’impresa realizza extraprofitti, nuove imprese entrano nel
mercato, la quantità totale prodotta aumenta, il prezzo si riduce e gli extraprofitti
scompaiono. Simmetricamente, se le imprese sono in perdita, escono dal mercato, la
quantità si riduce e il prezzo sale fino al livello sufficiente a coprire i costi medi. Nel
!93
lungo periodo quindi oltre alla condizione CMG = RMG, si stabilisce la condizione
CME = RME la quale indica l’assenza di extraprofitti.
L’EQUILIBRIO DELL’IMPRESA
CONCORRENZIALE NEL LUNGO PERIODO
p S1
p
SL CMELP
RME’
p1
pL RME”
D
Q qL q
Industria Impresa
Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002
• Inoltre, si ha anche RMG = RME (poiché entrambe sono uguali a p) e, quindi, CMG =
CME. Allora, dato che una curva marginale interseca sempre la sua curva media nel
punto di minimo di quest’ultima, l’uguaglianza CMG = CME implica che il livello di
produzione ottimo di lungo periodo è quello per il quale il costo medio è minimo.
• Le posizioni di equilibrio di breve e di lungo periodo sono dunque caratterizzate dalle
seguenti eguaglianze:
Potere di mercato
RME = p(q)
!94
• Anche nella funzione del ricavo totale, quindi, il prezzo non è più un parametro, ma è
funzione della quantità prodotta:
RT = p(q) q
La curva del ricavo totale è crescente nei tratti in cui l’elasticità della domanda è
maggiore di uno. Se la curva di domanda che ha di fronte l’impresa ha un tratto in cui
l’elasticità è minore di uno la RT diventa decrescente (all’aumentare della quantità, il
ricavo diminuisce).
RME
RMG ε>1
• Ricavo medio: coincide con
il prezzo (curva di domanda) RMG A (ε=1)
ε<1
• Ricavo marginale: è positivo
se la domanda è elastica; è p = RME
negativo se la domanda è
anelastica; è nullo se q
l’elasticità è pari a 1.
RT
• Ricavo totale: crescente
RT
finché RMG>0; decrescente
quando RMG<0
q
Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002
Ricordando la formula dell’elasticità della domanda, ε = – (∂q / ∂ p)(p / q), la RMG può
essere espressa in funzione dell’elasticità della domanda:
RMG = p [1 – (1/ε)]
!95
MASSIMIZZAZIONE DEI PROFITTI
(COSTI E RICAVI TOTALI)
π
RT
π = RT − CT CT
CT
RT
RMG
CMG
CMG
q* q
RMG
Una volta trovata la quantità ottima da produrre, q*, l’ammontare totale dei profitti è
dato dall’area del rettangolo avente per base la quantità q* e per altezza il profitto
medio (cioè la differenza tra la RME e la CME).
!96
PROFITTO MASSIMO
(COSTI E RICAVI MEDI)
Ricavi, costi
CMG = RMG => q*
CME
RME
Profitto massimo (area del
q
rettangolo tratteggiato): q*
RMG
[RME(q*) – CME(q*)]q*
Monopolio
• Definizione: mercato in cui è presente una sola impresa grazie all’esistenza di barriere
all’entrata. La curva di domanda dell’industria coincide allora con la curva di domanda
dell’impresa monopolistica. Essa è quindi decrescente.
• Le barriere all’entrata possono essere determinate da diversi fattori:
1. Economie di scala (“monopolio naturale”). Le curve dei costi medi e marginali sono
decrescenti.
2. Differenziazione del prodotto e fedeltà al marchio.
3. Superiorità tecnologica (che presuppone informazione imperfetta).
4. Proprietà e controllo di importanti fattori di produzione o delle reti di vendita.
5. Protezione legale.
• Dato che la curva di domanda dell’industria coincide con quella dell’impresa, essa
coincide anche con la curva dei ricavi medi dell’impresa (RME). Se assumiamo che la
curva di domanda è lineare, la RMG è anch’essa lineare e sta sotto la RME.
• Nel breve periodo, come nel lungo periodo, l’impresa massimizza il profitto
producendo la quantità, q* tale che: CMG = RMG. A tale livello di produzione,
l’impresa monopolista percepisce extraprofitti, i quali sono duraturi poiché esistono, per
ipotesi, barriere all’entrata che impediscono alle altre imprese di espandere la
produzione.
!97
EQUILIBRIO DI MONOPOLIO NEL BREVE E
NEL LUNGO PERIODO
p
CMG
CME
pm
La curva di domanda
dell’impresa coincide con la
domanda di mercato Qm
RMG
D = RME
Qm Q
p
1. nel breve periodo, la
CMG
concorrenza perfetta
produce una quantità M
pm
maggiore a un prezzo pc C
inferiore
2. nel lungo periodo, i prezzi
RMG
di concorrenza perfetta D
sono al livello minimo
possibile Qm Qc Q
!98
effettiva, con l’entrata di nuove imprese sul mercato). L’ipotesi di perfetta
contendibilità, come quella di perfetta concorrenza è spesso poco plausibile.
Concorrenza monopolistica
• Definizione: mercato in cui non ci sono barriere all’entrata, ma il prodotto delle imprese
presenti è differenziato. Queste ipotesi implicano che la curva di domanda che ha di
fronte la singola impresa è decrescente pur essendo piuttosto elastica (l’impresa ha un
certo potere di mercato, ma se aumenta troppo il prezzo i propri clienti si rivolgono alle
imprese concorrenti).
• Nel breve periodo, come sempre, l’impresa massimizza il profitto producendo la
quantità, q* tale che RMG = CMG. A tale livello di produzione, l’impresa può ottenere
extraprofitti (se p > CME).
EQUILIBRIO DI CONCORRENZA
MONOPOLISTICA NEL BREVE PERIODO
p
CMG
qB Q
• Nel lungo periodo, tuttavia, se l’impresa realizza extraprofitti, nuove imprese entrano
nel mercato, la curva di domanda della singola impresa si sposta verso sinistra e gli
extraprofitti scompaiono. L’incentivo all’entrata di nuove imprese cessa quando la
curva di domanda diventa tangente alla CMELP (il che implica assenza di extraprofitti).
Nel lungo periodo si hanno dunque le seguenti eguaglianze:
p = CMELP
RMG = CMGLP
!99
EQUILIBRIO DI CONCORRENZA
MONOPOLISTICA NEL LUNGO PERIODO
CMGLP
p CMELP
Gli extra-profitti di breve
periodo incoraggiano l’entrata
pB
di nuove imprese nell’industria
→ la domanda delle imprese
già operanti si riduce → pL
spariscono gli extra-profitti
(tangenza tra la domanda e il RMG
costo medio)
QL Q
CMELP
1. La concorrenza
CM
monopolistica produce una p2
C
pc L
quantità minore a un
prezzo superiore
2. non viene minimizzato il
CMELP pcmL
q2 q1 Q
• Rispetto al monopolio, se i costi sono gli stessi, il prezzo di lungo periodo è più basso e
la quantità venduta maggiore. Tuttavia, se il monopolio nasce dalla presenza di
economie di scala, esso riesce a produrre a costi minori (il che potrebbe portare ad un
prezzo più basso).
!100
Oligopolio
CMGcartello
Le imprese del cartello
determinano q* e p* come in p*
monopolio e poi si spartiscono
il mercato tramite
RMGindustria
l’assegnazione di quote Dindustria
q* q
• In alcuni casi, i cartelli sono vietati dalla normativa anti-trust. In tal caso sono possibili
“collusioni tacite”. Un esempio diffuso è la leadership di prezzo dell’impresa
dominante: l’impresa leader fissa il prezzo ad un livello tale da garantire extraprofitti e
le altre imprese si adeguano (senza tentare di guadagnare quote di mercato attraverso
politiche ribassiste che genererebbero ritorsioni e diminuzioni dei profitti di tutte le
imprese del settore). Un altro esempio di collusione tacita è la prassi di fissare il prezzo
sulla base del costo medio (più un certo margine di profitto) evitando così la
concorrenza di prezzo. In generale, costituiscono una collusione tacita tutte le regole di
comportamento implicite volte a proteggere gli interessi generali delle imprese del
settore.
!101
• La stabilità di un accordo collusivo dipende dai vantaggi che possono avere le imprese a
rompere l’accordo.
• L’oligopolio non collusivo è spesso studiato attraverso la teoria dei giochi. Per ogni
strategia di un giocatore (per ogni scelta possibile), il guadagno (o, nei termini della
teoria dei giochi, il pay-off) dipende dalla strategia degli altri giocatori. La teoria dei
giochi considera allora gli effetti di possibili strategie.
1. Strategia del “maximin”. Per ogni strategia a propria disposizione, il giocatore
calcola il pay-off minimo (quello corrispondente all’ipotesi più pessimistica in
merito alla risposta dell’altro giocatore) e sceglie la strategia che garantisce quello
più grande.
2. Strategia del “maximax”. Per ogni strategia a propria disposizione, il giocatore
calcola il pay-off massimo (quello corrispondente all’ipotesi più ottimistica in
merito alla risposta dell’altro giocatore) e sceglie la strategia che garantisce quello
più grande.
• Si definisce strategia dominante una strategia che garantisce il pay-off massimo
indipendentemente dalla strategia del rivale. Una situazione in cui ambedue i giocatori
giocano una strategia dominante definisce un equilibrio di Nash. In altri termini un
equilibrio di Nash è una situazione in cui a nessun giocatore conviene cambiare
strategia unilateralmente.
• Nel caso della curva di domanda a gomito, ciascun oligopolista utilizza la strategia del
maximin: di fronte alla possibilità di abbassare il prezzo, l’oligopolista suppone che
anche i rivali faranno lo stesso, il che implicherà un modesto aumento della quantità
venduta (secondo l’inclinazione della curva di domanda dell’industria); nel caso invece
di un aumento del prezzo, egli suppone che gli altri non lo seguiranno, il che implicherà
una forte caduta della quantità venduta a vantaggio dei rivali. Secondo questa teoria,
dunque, i prezzi tendono a rimanere stabili nei mercati oligopolistici.
• Se un oligopolista abbassa il p
prezzo, i rivali lo seguono: le
quote di mercato restano
invariate (curva piatta)
p1
• Se invece alza il prezzo, i
rivali non lo seguono e perde
molti clienti (curva inclinata) D
q1 q
!102
• L’equilibrio di Nash non coincide necessariamente con la situazione ottimale per i due
giocatori. In alcuni casi, infatti, se i giocatori potessero accordarsi e determinare una
strategia comune (come negli accordi collusivi), essi potrebbero migliorare entrambi il
proprio pay-off rispetto all’equilibrio di Nash. Un esempio di questo tipo sono le
situazioni tipo “dilemma del prigioniero”.
• Il prezzo di oligopolio è in generale più alto del prezzo di concorrenza e più basso del
prezzo di monopolio.
• Discriminazione di prezzo. Si ha discriminazione del prezzo quando l’impresa riesce a
praticare prezzi diversi ai diversi consumatori. Ovviamente la possibilità di
discriminazione del prezzo è un vantaggio per le imprese (infatti, alla peggio, l’impresa
potrebbe sempre fissare un prezzo unico).
• Si ha “discriminazione di primo grado” (discriminazione perfetta) quando l’impresa
riesce a vendere ogni unità del bene al prezzo massimo che ciascun consumatore è
disposto a pagare.
• Si ha “discriminazione di secondo grado” quando l’impresa applica prezzi diversi ai
clienti in base alla quantità acquistata da questi ultimi.
• Si ha “discriminazione di terzo grado” quando i consumatori possono essere
raggruppati in diversi segmenti (maschi e femmine, consumatori privati e imprese,
giovani e anziani) a ciascuno dei quali viene praticato un prezzo diverso.
• Il caso ideale (per l’impresa), è ovviamente quello di discriminazione di primo grado.
• Nel caso di discriminazione del terzo grado, dal punto di vista dei consumatori, alcuni
potrebbero trarne un vantaggio (quelli che hanno una bassa disponibilità a pagare e che,
con il prezzo unico, rimarrebbero esclusi dal consumo); altri tuttavia saranno
svantaggiati (quelli con un alta disponibilità a pagare, che finiscono per pagare un
prezzo più alto di quello che prevarrebbe con il prezzo unico). A livello globale, quello
che è certo è che si ha una diminuzione del surplus globale dei consumatori e un
aumento dei profitti delle imprese.
!103
III
MACROECONOMIA
1. Problematiche macroeconomiche
Yd = C + I + G + X
• Attraverso gli strumenti di politica economica a disposizione del governo e della banca
centrale è possibile influenzare queste quattro variabili ed influire così sugli obiettivi di
politica economica.
!104
• Concentriamoci sui flussi di moneta. Riconsideriamo innanzi tutto il flusso diretto tra
imprese e famiglie:
1. Famiglie → Imprese: le famiglie domandano beni e servizi (di consumo) alle
imprese (la moneta passa dalle famiglie alle imprese);
2. Imprese → Famiglie: le imprese domandano l’uso dei fattori di produzione alle
famiglie (la moneta passa dalle imprese alle famiglie in forma di salari, rendite,
dividendi e interessi).
• Introduciamo ora i flussi indiretti tra famiglie e imprese mediati dal settore bancario (S,
I), il settore pubblico (T, G) e il settore estero (M, X).
• Rispetto ai redditi ricevuti dalle famiglie, solo una parte ritorna alle imprese (nazionali)
sotto forma di spesa in consumi (C). Il resto esce dal flusso diretto secondo tre modalità
di prelievo: risparmio (S), tassazione (T) e importazioni (M).
1. Risparmio netto (S). Il risparmio delle famiglie viene depositato presso le banche.
Esistono ovviamente anche flussi dalle banche verso le famiglie (prestiti alle
famiglie). Per risparmio netto si intende il flusso netto dalle famiglie alle banche.
2. Imposte nette (T). Le famiglie e le imprese pagano le imposte al governo. Esistono
comunque anche flussi dallo stato alle famiglie e alle imprese: i trasferimenti. Per
imposte nette si intende il flusso netto pagato dalle famiglie e dalle imprese.
3. Importazioni (M). Parte dei beni di consumo acquistati proviene da imprese
residenti all’estero. Inoltre parte dei beni prodotti all’interno contengono
componenti importate.
• D’altra parte, oltre ai consumi delle famiglie, la domanda che si rivolge ai beni prodotti
dalle imprese nazionali deriva anche da fonti esterne al flusso ristretto del reddito. Le
immissioni nel flusso ristretto sono di tre tipi:
1. Investimenti (I). Gli investimenti delle imprese comprendono gli acquisti in
macchinari e impianti e le scorte di prodotti finiti, fattori produttivi e semilavorati.
2. Spesa pubblica (G). Lo stato oltre a effettuare trasferimenti alle famiglie e alle
imprese (che rientrano nella voce imposte nette) acquista beni e servizi dalle
imprese per costruire scuole, strade, ospedali, eccetera.
3. Esportazioni (X). Parte della produzione delle imprese nazionali è acquistata da
soggetti residenti all’estero.
!105
IL FLUSSO CIRCOLARE DEL REDDITO
IMMISSIONI
X
G
IMPRESE
I
Consumo di beni
Pagamento FLUSSO e servizi prodotti Banche Settore Estero
dei fattori RISTRETTO internamente ecc. pubblico
S
T
FAMIGLIE
M
PRELIEVI
S+T+M=I+G+X
(S = I) (T = G) (M = X)
!106
regime di cambi fissi, l’inflazione interna rende i prodotti nazionali meno
competitivi facendo diminuire le esportazioni).
• Processo d’aggiustamento. Se le immissioni ex ante (I, G, X) superano i prelievi ex ante
(S, T, M) si è in disequilibrio: questo porta ad un aumento del reddito nazionale, al
quale si accompagna non solo un aumento della spesa in consumi (C) delle famiglie, ma
anche un aumento dei risparmi (S), delle tasse (T) e delle importazioni (M), che tenderà
a riportare in equilibrio l’economia.
Contabilità nazionale
PNL = PIL + redditi dei fattori nazionali situati all’estero – redditi dei fattori esteri
situati nel paese
• Per passare dal prodotto lordo al prodotto netto (PIN o PNN), si deve sottrarre dal primo
l’ammortamento del capitale (o consumo di capitale fisso). Ad esempio a partire dal
PNL, si ottiene il PNN secondo la seguente relazione:
• Il reddito nazionale è definito come il reddito che origina dalla produzione di beni e
servizi da parte dei residenti di un dato paese. Esso si ottiene sottraendo le imposte
indirette dal PNN e aggiungendo i trasferimenti ricevuti dalle imprese. La relazione che
lega reddito nazionale e PNN è la seguente:
• Considerando il flusso circolare del reddito, il reddito nazionale corrisponde anche alla
somma di tutti i redditi percepiti dai soggetti residenti in un dato paese: redditi da
lavoro (in gran parte salari e stipendi), redditi da lavoro autonomo (redditi delle persone
!107
che svolgono un lavoro indipendente), profitti di impresa (differenza tra ricavi e costi),
interessi pagati dalle imprese, e rendite (redditi da proprietà immobiliari).
• Il calcolo del PIL (e di tutti gli altri aggregati) può essere fatto a prezzi correnti (PIL
nominale) o a prezzi costanti (PIL reale). Nel primo caso si applicano alle quantità
prodotte i prezzi di mercato dell’anno corrente, nel secondo caso si considerano i prezzi
esistenti in un anno base preso come riferimento. Nel confronto tra il PIL in due periodi
diversi, il metodo a prezzi costanti consente di isolare le variazioni delle quantità
prodotte, astraendo dalle variazioni dei prezzi.
• Sempre in riferimento al flusso circolare del reddito, come abbiamo visto, il PIL può
essere analizzato dal punto di vista della domanda: domanda di beni di consumo, di
beni di investimento, spesa pubblica e domanda estera netta (esportazioni –
importazioni).
k=K/Y
Allora sarà costante e pari a k anche il suo rapporto incrementale (ΔK / ΔY):
!108
k = (ΔK / ΔY)
i = I / Y = ΔK / Y
s=S/Y
S=I
• Si definiscono disoccupate le persone in età lavorativa che sono senza lavoro ma che
vorrebbero lavorare alle condizioni di mercato esistenti (nelle definizioni statistiche più
importanti si aggiunge anche la condizione che le persone siano alla ricerca attiva di un
!109
lavoro). Come abbiamo visto, si definisce forza lavoro l’insieme delle persone occupate
e delle persone disoccupate. Il tasso di disoccupazione è il rapporto tra disoccupati e
forza lavoro.
• Misure della disoccupazione.
1. In Italia la definizione ufficiale di disoccupazione è quella dell’ISTAT (Istituto
nazionale di statistica): è disoccupato chi ha più di 15 anni e dichiara di non aver
lavorato neanche un’ora in un dato periodo, ma di essere comunque in cerca di
lavoro e di essere disposto ad accettare un lavoro se gliene viene offerta la
possibilità.
2. Disoccupazione di diritto: numero di persone che ricevono sussidi di
disoccupazione (nei paesi in cui esiste quest'istituto).
3. Tasso di disoccupazione standardizzato. Indice statistico calcolato dall’ILO
(International Labour Office) e dall’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e
lo Sviluppo Economico). Si dice standardizzato perché applica la stessa definizione
ai diversi paesi per i quali è calcolato.
• Offerta di lavoro (SL): per ogni livello del salario reale (w), indica il numero di
lavoratori (l) disposti ad accettare un lavoro (curva crescente).
• Domanda di lavoro (DL): per ogni livello del salario reale (w), indica il numero di
lavoratori (l) che le imprese sono disposte ad impiegare (curva decrescente).
• Equilibrio: l’incontro tra le due curve determina il livello di occupazione (le) e il salario
d’equilibrio (we).
SL
numero di lavoratori disposti ad
accettare un lavoro per un dato
salario reale
EQUILIBRIO SUL
• Domanda di lavoro (DL) MERCATO DEL
numero di lavoratori che le we LAVORO
imprese sono disposte ad assumere
a un dato salario reale DL
le N. di lavoratori
!110
sindacato di scegliere un particolare punto della curva di domanda di lavoro: se il
sindacato fissa w ad un livello superiore a we (sulla curva di domanda di lavoro) si
ha disoccupazione (l < le).
DL
l1 le N. di lavoratori
NB: simmetricamente, anche se nella maggior parte dei manuali (tra i quali lo
Sloman) non si dice, si può avere disoccupazione anche se i salari sono troppo bassi
a causa del potere di mercato delle associazioni padronali. Graficamente, il
monopolio nella domanda di lavoro permette alle associazioni padronali di scegliere
un particolare punto della curva di offerta di lavoro: se Confindustria fissa w ad un
livello inferiore a we (sulla curva d’offerta di lavoro) si ha un livello di occupazione
inferiore a quello d’equilibrio (l < le).
!111
SOTTO-OCCUPAZIONE DA SALARIO REALE
TROPPO BASSO
w1
DL
l1 le N. di lavoratori
!112
DISOCCUPAZIONE DI EQUILIBRIO
La disoccupazione di equilibrio DL
è pari alla differenza tra forza
lavoro totale (N) e offerta di le N. di lavoratori
lavoro
Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002
INFLAZIONE DA DOMANDA
Yo
Quanto più è inclinata la curva
d’offerta aggregata, tanto più p2
aumenti della domanda si riflettono p1
in aumenti dei prezzi, con un Yd2
impatto modesto sulla produzione
Yd1
Y1 Y2 Y
!113
2. Inflazione da costi. La causa sono aumenti continui dei costi di produzione, i quali
si traducono in parte in aumenti dei prezzi e in parte in diminuzioni della quantità
d’equilibrio (secondo l’inclinazione della curva di domanda). Graficamente:
spostamento verso sinistra della curva di offerta aggregata (la stessa quantità deve
ora essere venduta ad un prezzo più alto per recuperare i maggiori costi) e
conseguente movimento lungo la curva di domanda aggregata.
INFLAZIONE DA COSTI
p
Yo2
Yo1
Quanto più è inclinata la curva di
domanda aggregata, tanto più gli
p2
spostamenti della curva d’offerta si
p1
scaricano sui prezzi, con un impatto
modesto sulla produzione
Yd
Y2 Y1 Y
!114
Considerando l’inflazione attesa invece di quella effettiva si ottiene l’equazione di
Fisher:
tasso di interesse reale atteso = tasso di interesse nominale – tasso atteso di inflazione
• La scuola keynesiana nasce negli anni trenta nel contesto della riflessione sulle cause
della grande depressione. Keynes, in aperta polemica con la teoria allora (e tuttora)
dominante secondo cui le cause della disoccupazione erano da individuarsi in un livello
eccessivamente alto del salario reale, ritiene che le cause della depressione siano nella
carenza della domanda aggregata.
• Secondo Keynes, l’economia si era avvolta in un circolo vizioso: la domanda aggregata
era bassa perché era basso il livello del reddito; il reddito era basso perché i salari e
l’occupazione erano bassi; salari e occupazione erano bassi perché era basso il livello
della produzione; la produzione era bassa perché erano bassi i consumi e la domanda in
generale.
• La soluzione proposta da Keynes consiste nell’interrompere tale circolo vizioso
attraverso interventi volti ad aumentare la domanda aggregata ad esempio aumentando
la spesa pubblica o riducendo le tasse (politiche fiscali espansive).
• I liberisti della scuola austriaca e neoclassica insistevano sulla validità della cosiddetta
“legge di Say”.
• La legge di Say afferma che l’offerta crea da sé la propria domanda. L’idea prende
forma considerando un’economia di baratto. In un’economia di baratto, lo scambio del
bene X avviene direttamente con il bene Y. Dire che ad un dato livello del prezzo
relativo tra i due beni pX / pY vi è un eccesso di offerta per il bene X è lo stesso che dire
che, a quel livello del prezzo, vi è un eccesso di domanda del bene Y (in altri termini, al
prezzo corrente, pX / pY, ci sono più persone che hanno il bene X e che vorrebbero
scambiarlo col bene Y di quante non siano le persone che hanno il bene Y e vorrebbero
scambiarlo col bene X). L’eccesso di offerta di un bene è necessariamente un eccesso di
domanda per un altro bene.
• La legge di Say implica che non ci può essere disoccupazione involontaria poiché una
carenza di domanda in un settore si accompagna sempre ad un’abbondanza di domanda
in un altro settore, di conseguenza, i lavoratori espulsi dal settore in contrazione
possono essere occupati nel settore in espansione.
• In un’economia monetaria, i beni non si scambiano direttamente tra loro, ma con
moneta. In tal caso la legge di Say vale soltanto se gli individui che vendono il bene X
spendono tutta la moneta che ricevono per acquistare il bene Y. Se viceversa la moneta
viene risparmiata (in vista di spese future), l’eccesso di offerta del bene X può non
comportare alcun eccesso di domanda per il bene Y (semplicemente perché quelli che
hanno venduto il bene X, invece di comprare il bene Y, preferiscono tenersi i soldi in
!115
forma liquida). A livello aggregato viene quindi meno la condizione che garantisce che
l’offerta aggregata e la domanda aggregata si uguaglino. La legge di Say vale dunque
solo nel caso particolare in cui non c’è tesaurizzazione della moneta.
• In un sistema in cui la moneta svolge un ruolo essenziale come riserva di valore, la tesi
di Say non è valida ed è possibile che si verifichino crisi da insufficienza della domanda
aggregata.
• Say è un economista francese di fine Settecento fortemente criticato da Marx.
Quest’ultimo evidenzia che, in un’economia monetaria, l’uguaglianza tra domanda
aggregata e offerta aggregata non è affatto garantita proprio per via della possibilità di
tesaurizzazione della moneta (teoria marxiana della crisi).
• Keynes sviluppa la critica attraverso il principio della domanda effettiva. Secondo tale
principio il livello del prodotto (e quindi dell’occupazione) dipende dal livello della
domanda aggregata. Non è la domanda che si adegua all’offerta come sostenuto da Say,
bensì l’offerta che si adegua alla domanda.
• Le ipotesi di fondo su cui si basa il principio della domanda effettiva sono due:
1. il mercato dei beni non è caratterizzato da concorrenza perfetta;
2. le imprese tendono a tenere i prezzi fissi (adeguando piuttosto la produzione alle
variazioni della domanda).
• Con queste ipotesi la curva d’offerta risulta orizzontale (p = p) e variazioni della
domanda aggregata (Yd) si scaricano interamente sulle quantità d’equilibrio della
produzione (Yo) e non sui prezzi.
Y* Y** Yd, Yo
!116
quantità offerta si adegui alla quantità domandata ma non che la domanda sia ad un
livello sufficiente ad occupare tutte le risorse disponibili.
• Secondo Keynes la principale variabile da cui dipende il livello di consumo (C) delle
famiglie è il reddito corrente:
C = C(Yo)
b
a
Yo
a: consumo di sussistenza
b: propensione marginale al consumo
Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002
PMGC = dC / dYo = b
PMEC = C / Y = a / Y + b
!117
S = Yo – C = Yo – a – bYo = – a + (1 – b)Yo
(1–b) Yo
–a
PMGS = dS / dYo = 1 – b
PMES = S / Y = –a / Y + (1 – b)
Il moltiplicatore
• Il modello del moltiplicatore, nella sua formulazione generale, si basa su tre principi
teorici:
!118
Il modello del moltiplicatore è allora il seguente:
Yo = Yd = Y
Yd = C + I + G
C = a + bYo
Sostituendo:
Y = a + bY + I + G
Y* = [1 / (1 – b)](a + I + G)
m = 1 / (1 – b)
A=a+I+G
Y* = mA 1 < m < +∞
Il principio del moltiplicatore può essere enunciato come segue: un aumento esogeno
della domanda aggregata produce un aumento proporzionalmente maggiore nel reddito
d’equilibrio (m > 1).
ΔY* = mΔA
• Dal punto di vista economico, si immagini un aumento della domanda esogena A pari a
1 euro volto alla costruzione di un ponte (il discorso è lo stesso sia se la domanda
aumenta a causa di un aumento esogeno della spesa pubblica G, sia se aumenta a causa
di un aumento esogeno degli investimenti privati I): ΔA = 1. Quest’aumento della
domanda di 1 euro si traduce in un aumento del reddito dei lavoratori assunti per la
costruzione del ponte e di tutti quanti vendano allo stato o all’impresa privata le risorse
necessarie per la costruzione del ponte. Complessivamente, il reddito delle famiglie
aumenta dunque anch’esso di 1 euro.
Secondo la funzione del consumo, una parte di quest’aumento di reddito delle famiglie,
pari a un euro, sarà consumata (b), mentre la restante parte sarà risparmiata (1 – b). La
parte b spesa in consumo a sua volta produrrà un aumento della produzione di b euro (e
ritornerà alle famiglie sotto forma di reddito aggiuntivo). Si ha dunque un ulteriore
aumento del reddito pari a b euro (essendo b < 1, questo nuovo aumento di reddito è
inferiore ad un euro). E il processo continua.
Una parte (b) di quest’ulteriore aumento di reddito delle famiglie, di b euro, sarà
consumata (b2 euro), mentre la restante parte sarà risparmiata ((1 – b)b euro). I b2 euro
spesi in consumo a loro volta produrranno un aumento della produzione di b2 euro (e
!119
ritorneranno alle famiglie sotto forma di reddito aggiuntivo). Si ha dunque un ulteriore
aumento del reddito pari a b2 euro (essendo b < 1, quest’ulteriore aumento di reddito è
inferiore al precedente: b2 < b).
Il processo continua producendo un aumento totale del reddito pari a:
ΔY = 1 + b + b2 + b3 + … + bn + …
Si tratta di una serie geometria di ragione b, la quale è pari a 1/(1 – b) se, come nel
nostro caso, b < 1.
ΔY = 1 + b + b2 + b3 + … + bn + … = 1/(1 – b)
• Dal punto di vista grafico, il modello del moltiplicatore può essere rappresentato
riportando sugli assi cartesiani l’offerta (asse orizzontale) e la domanda (asse verticale)
aggregate. La bisettrice del primo quadrante (retta a 45°) indica il luogo dei punti in cui
vale l’equilibrio D = O. La funzione di domanda aggregata è rappresentata dalla retta di
intercetta pari ad A e coefficiente angolare pari a b. L’intersezione tra la retta di
domanda aggregata e la retta a 45° determina il reddito d’equilibrio.
Yd
Yd=Yo
Yd
Y* Yo
Una variazione (verticale) della domanda esogena (A) produce una variazione
(orizzontale) più che proporzionale nel reddito d’equilibrio.
!120
IL PRINCIPIO DEL MOLTIPLICATORE
(RETTA A 45°)
Yd
Yd=Yo
ΔY* = mΔA 1 < m < +∞
Y* Y** Yo
Yo = Yd = C + I + G
Yo – C = I + G
S=I+G
–a + (1–b)Yo = I + G
• Dal punto di vista grafico, questo diverso modo di guardare al moltiplicatore può essere
rappresentato tramite la funzione del risparmio e le funzioni esogene degli investimenti
e della spesa pubblica:
!121
DERIVAZIONE GRAFICA DELL’EQUILIBRIO
(S=I)
S
I+G
I+G
–a Y* Yo
S
I+G
S
I1 + G1
I0 + G0
–a Y* Y** Yo
La politica fiscale
!122
può immaginare che la spesa pubblica aggiuntiva sia finanziata stampando moneta e
che questo non abbia alcun impatto sul livello dei prezzi (i quali sono per ipotesi fissi
nel modello), né sulle variabili finanziarie (come ad esempio il tasso d’interesse) le
quali potrebbero avere effetti di ritorno sulle variabili contemplate esplicitamente nel
modello.
• Un aumento delle imposte (ΔT) fa diminuire il reddito d’equilibrio. In presenza di tasse,
il consumo dipende dal reddito disponibile (Yd), cioè dal reddito al netto del prelievo
fiscale. Il reddito disponibile si definisce come segue:
Yd = Y – T
C = a + bYd
C = a + b(Y – T)
• Esistono diverse forme di tassazione. La forma più semplice (dal punto di vista del
modello teorico) è quella in somma fissa, secondo la quale si suppone il livello di
tassazione (T) sia fissato esogenamente dallo stato in modo del tutto indipendente dalle
altre variabili del modello (come ad esempio il reddito): T = T. Forme di tassazione più
realistiche sono quella proporzionale e progressiva rispetto al reddito. Nel primo caso il
livello della tassazione aumenta proporzionalmente al reddito: T = tY; nel secondo caso
aumenta più che proporzionalmente: se t1, t2, …, tn sono le aliquote di imposta sui
diversi scaglioni di reddito ordinati in senso crescente, la tassazione progressiva è tale
che t1 < t2 < … < tn.
• Nel nostro modello, per semplicità, assumiamo una tassazione in somma fissa (T = T).
La funzione del consumo è allora:
C = a + b(Y – T)
• Introduciamo ora questa funzione del consumo, in cui abbiamo esplicitato le tasse T, nel
modello del moltiplicatore:
Y = a + b(Y – T) + I + G
Y* = [1 / (1 – b)](a + I + G – bT)
L’impatto sul reddito d’equilibrio di una variazione della spesa pubblica [1 / (1 – b)] è
maggiore dell’impatto di una variazione del prelievo fiscale [–b / (1 – b)].
Consideriamo due interventi espansivi di uguale portata, uno aumentando la spesa
pubblica, l’altro diminuendo le tasse.
Sia ΔG = 1 (la spesa pubblica aumenta di 1 euro). Si ha allora un effetto diretto sulla
domanda aggregata pari a 1 euro, cui seguono gli effetti moltiplicativi indiretti (b + b2 +
!123
b3 + …) causati dall’aumento del reddito delle famiglie (i quali, sommati all’effetto
diretto, producono alla fine un aumento del reddito di 1 / (1 – b) euro).
Sia ora ΔT = –1 (le tasse si riducono di 1 euro). Qui non si ha alcun effetto diretto sulla
domanda aggregata; si hanno solo gli effetti indiretti (b + b2 + b3 + …) generati
dall’aumento del reddito disponibile (producendo alla fine un aumento del reddito pari a
b / (1 – b) euro). Rispetto al caso in cui aumenta la spesa pubblica, viene ora meno
l’aumento diretto della domanda aggregata di 1 euro.
L’effetto sul reddito di un aumento della spesa pubblica di 1 unità, 1 / (1 – b), è quindi
superiore a quello della riduzione dell’imposizione fiscale di 1 unità, b / (1 – b):
1 / (1 – b) > b / (1 – b)
• Dal punto di vista del bilancio dello stato una politica espansiva (aumento della spesa
pubblica e/o riduzione delle imposte) implica un peggioramento del saldo di bilancio (G
– T). L’ammontare del disavanzo determina il fabbisogno finanziario del settore
pubblico (cioè l’ammontare di risorse necessarie a finanziare il disavanzo). Per
finanziare il disavanzo di bilancio lo stato deve emettere titoli del debito pubblico che
possono essere acquistati dalla banca centrale (in questo caso, la banca centrale emette
moneta) o dai privati. In questo secondo caso, lo stato negli anni successivi dovrà
pagare gli interessi sul debito accumulato. Il saldo di bilancio può allora essere espresso
dalla seguente relazione:
BS = T – G – rB
Dove r è il tasso di interesse sul debito, B è lo stock di titoli del debito pubblico in
circolazione e (T – G) è l’avanzo primario.
• Consideriamo ora, come caso particolare del modello del moltiplicatore, l’ipotesi in cui
il bilancio dello stato rimane in pareggio (G = T).
Sostituendo nell’equazione della domanda aggregata (G = T):
Y = a + b(Y – G) + I + G
Y* = [1 / (1 – b)](a + I) + G
!124
d’equilibrio (gli ulteriori effetti moltiplicativi sulla domanda sono annullati
dall’aumento dell’imposizione fiscale).
NB: Il reddito aumenta senza alcun impatto sul bilancio dello stato. Questo significa
che la politica fiscale può aumentare il reddito e l’occupazione senza produrre alcun
deficit di bilancio pubblico: se lo stato vuole aumentare il reddito di 100 euro, deve
aumentare simultaneamente tasse e spesa pubblica di 100 euro. La diminuzione delle
tasse, invece, perde i suoi effetti espansivi in un contesto in cui lo stato non possa
andare in deficit: in tale contesto, la riduzione delle tasse dovrà infatti essere
accompagnata da una riduzione anche della spesa pubblica, con un effetto complessivo
restrittivo sul reddito e sull’occupazione.
• In generale, piuttosto che ipotizzare una curva d’offerta ad angolo, si può supporre che
questa sia inclinata positivamente (e che l’inclinazione aumenti all’aumentare della
produzione) e che, quindi, le variazioni della domanda producano variazioni sia nella
quantità prodotta, sia nei prezzi.
!125
LA CURVA DI OFFERTA AGGREGATA
• Quando la produzione è
lontana dalla piena p
occupazione, incrementi di
domanda provocano forti
aumenti della produzione e
aumenti contenuti dei prezzi.
• Avvicinandosi al pieno
impiego i prezzi aumentano
sempre di più
Ypo Y
• In tal caso, il moltiplicatore è minore rispetto al modello a prezzi fissi poiché gli
aumenti della domanda aggregata si traducono solo in parte in aumenti della produzione
(l’altra parte si traduce in aumenti dei prezzi).
p
p
Yo
Yo
Yd Yd1 Yd Yd1
Y* Y** Yd, Yo
Y* Y** Yd, Yo
La curva di Phillips
• Relazione empirica (inversa) tra tasso di aumento dei salari e tasso di disoccupazione.
Dato che nel periodo considerato da Phillips (1861–1957 per l’Inghilterra) il tasso di
crescita dei salari rimase mediamente superiore di circa il 2% al tasso di crescita dei
prezzi, è possibile individuare una relazione inversa anche tra tasso di inflazione e tasso
!126
di disoccupazione (rispetto alla curva con il tasso di aumento dei salari, la curva con il
tasso d’inflazione sta più in basso).
LA CURVA DI PHILLIPS
Tasso di inflazione
salari e tasso di disoccupazione
Curva di Phillips (sui prezzi):
Relazione inversa tra tasso di Curva di Phillips (salari)
inflazione e tasso di
disoccupazione Curva di Phillips (prezzi)
Disoccupazione
• NB: la produttività del lavoro aumenta continuamente nel tempo per effetto del
progresso tecnico, di conseguenza aumenti dei salari superiori agli aumenti dei prezzi
non intaccano necessariamente la crescita dei profitti. Ad esempio, con una crescita
annua della produttività del 10%, se i salari crescono del 7% e i prezzi del 5%, i profitti
crescono dell’8%: i ricavi aumentano infatti del 15% (a parità di quantità di lavoro
utilizzata, l’output cresce del 10%, e viene inoltre venduto ad un prezzo più alto del 5%)
mentre i costi aumentano del 7%; quindi i profitti aumentano dell’8%. In generale,
quindi, in presenza di progresso tecnico, affinché la distribuzione tra salari e profitti
rimanga invariata, i salari devono crescere ad un tasso superiore al tasso d’inflazione,
beneficiando così, assieme a profitti, degli aumenti di produttività.
• Dal punto di vista dello schema domanda aggregata – offerta aggregata, la curva di
Phillips può essere interpretata come la conseguenza di spostamenti della curva di
domanda in presenza di una curva d’offerta crescente: quando aumenta la domanda,
diminuisce la disoccupazione e aumenta l’inflazione; il contrario accade quando la
domanda diminuisce (spostamenti lungo la curva di Phillips). Gli spostamenti della
curva sarebbero invece legati ai fattori esogeni dello schema domanda aggregata –
offerta aggregata: disoccupazione frizionale e strutturale, inflazione da costi da costi e
strutturale, aspettative.
• L’ipotesi che esistesse una curva di Phillips relativamente stabile nella realtà ha
suggerito che esistesse un ventaglio di combinazioni inflazione – disoccupazione
nell’ambito del quale i governi potessero scegliere, attraverso opportune politiche
economiche, la combinazione ritenuta ideale. Tale ipotesi si è dimostrata infondata alla
luce dell’aumento congiunto dei tassi d’inflazione e di disoccupazione nella maggior
parte dei paesi capitalisti occidentali negli anni ’80 (l’aumento contemporaneo
dell’inflazione e della disoccupazione prende il nome di “stagflazione”, dall’inglese
!127
“stagflation”). Una possibile spiegazione è che la curva di Phillips si sia spostata nel
tempo.
L’acceleratore
• Nella teoria del moltiplicatore le variazioni del reddito sono ricondotte a variazioni
della domanda. In particolare le variazioni esogene degli investimenti (legate alle
aspettative dei capitalisti) sono una delle principali cause dell’alternarsi di periodi di
espansione e recessione.
• Accanto alle variazioni della domanda è possibile introdurre anche i cambiamenti nelle
condizioni dell’offerta per spiegare la dinamica della produzione. La teoria
dell’acceleratore spiega il livello dei nuovi investimenti facendolo dipendere dal tasso
di crescita della produzione: gli investimenti (lasciando da parte quelli necessari a
rimpiazzare il capitale che diventa obsoleto) aumentano la capacità produttiva. A fronte
di un aumento della domanda (che gli investitori considerano duraturo) si avrà dunque
un aumento degli investimenti e della capacità produttiva.
• Mentre il livello della produzione varia lentamente nel tempo, il suo tasso di crescita (da
cui secondo questo modello dipendono le variazioni degli investimenti) varia in misura
molto maggiore. Questo spiega l’alta volatilità degli investimenti. La teoria
dell’acceleratore può allora essere enunciata affermando che le variazioni degli
investimenti sono molto più accentuate di quelle del reddito nazionale.
• Facendo interagire il principio del moltiplicatore e quello dell’acceleratore si producono
effetti cumulati sul ciclo economico:
1. Le variazioni del reddito producono effetti accentuati sugli investimenti
(acceleratore);
2. Le variazioni degli investimenti producono aumenti proporzionalmente maggiori
nel reddito (moltiplicatore).
3. Le risultanti variazioni del reddito si riflettono nuovamente sugli investimenti
attraverso l’acceleratore, e così via.
Il ciclo economico
• Le scorte variano in senso anticiclico rispetto alla dinamica della produzione. Di fronte
ad aumenti della domanda, le imprese rispondono innanzi tutto utilizzando le scorte di
magazzino accumulate. Solo quando l’aumento di domanda dovesse confermarsi
duraturo (cioè quando il livello delle scorte desiderato dovesse scendere troppo) esse
saranno disposte ad aumentare la capacità produttiva.
• NB: dal punto di vista contabile, le scorte sono considerate come una componente degli
investimenti, per cui l’aumento delle scorte nelle fasi recessive del ciclo appare in
contabilità come un investimento.
• Fattori che incidono sul persistere delle fasi espansive e recessive:
1. Il processo d’aggiustamento nel flusso circolare del reddito prende tempo;
2. L’interazione tra moltiplicatore e acceleratore produce effetti cumulati.
• Fattori che incidono sull’inversione del ciclo:
!128
1. Nelle fasi espansive, il raggiungimento del pieno utilizzo della capacità produttiva
impedisce, nel breve periodo, ulteriori aumenti della produzione (è necessario
investire per ampliare ulteriormente la capacità produttiva, il che richiede tempo).
2. Nelle fasi recessive, il consumo di sussistenza delle famiglie garantisce un livello
minimo di domanda al di sotto del quale il consumo non scende ulteriormente.
3. Secondo il principio dell’acceleratore, gli aumenti degli investimenti devono essere
sostenuti da una crescita sempre maggiore del consumo. Se la crescita del consumo
rallenta, gli investimenti diminuiranno e il ciclo tenderà ad invertirsi.
4. Nel corso del ciclo, la politica economica interviene spesso in senso anticlico
comprimendo la domanda nelle fasi espansive (per impedire effetti inflazionistici)
ed espandendola nelle fasi recessive (per impedire una caduta della domanda e un
aumento della disoccupazione). Le politiche di stabilizzazione dell’andamento della
produzione attorno al suo trend prendono il nome di politiche di “fine tuning”.
• Accanto alle politiche di fine tuning, l’attenuazione del ciclo dipende dall’esistenza di
“stabilizzatori automatici”:
1. Una tassazione dipendente dal reddito (invece di quella completamente esogena
ipotizzata nel nostro modello semplificato) implica un aumento del gettito fiscale
nelle fasi espansive (poiché aumenta il reddito) e una diminuzione nelle fasi
recessive. Questo riduce le variazione del reddito disponibile (da cui dipendono i
consumi) rispetto alle variazioni del reddito e attenua gli effetti moltiplicativi.
2. Un altro stabilizzatore automatico è costituito dai sussidi di disoccupazione i quali
sostengono la domanda nelle fasi recessive del ciclo.
• Mezzo di scambio: strumento accettato per convenzione o per forza legale come mezzo
di pagamento.
• Unità di conto: unità di misura dei prezzi di beni, servizi e attività finanziarie.
• Riserva di valore: strumento per trasferire nel tempo potere d’acquisto.
Il sistema finanziario
• Le banche
1. Banche commerciali: si rivolgono ad un pubblico indistinto;
2. Banche d’affari (o di investimento): forniscono linee di credito alle imprese.
• Passività bancarie (debiti delle banche nei confronti di quanti abbiano depositato i
propri risparmi).
1. Depositi a vista: depositi che possono essere prelevati senza penale (per esempio
depositi in conto corrente).
2. Depositi vincolati: depositi che possono essere prelevati solo con un preavviso e/o
pagando una penale (per esempio libretti di risparmio).
3. Certificati di deposito: prodotti finanziari emessi e gestiti dalle banche sui quali
esiste un mercato secondario nel quale possono essere scambiati.
!129
4. Pronti contro termine: contratto di compravendita di titoli con cui una parte vende
(a pronti) un certo prodotto finanziario (per esempio titoli del debito pubblico) e lo
ricompra ad una scadenza fissata (a termine).
• Attività bancarie (crediti delle banche nei confronti di terzi).
1. Circolante: contante tenuto per soddisfare le richieste quotidiane dei clienti.
2. Conto corrente presso la banca centrale: conto utilizzato per le operazioni sul
mercato interbancario.
3. Prestiti a breve termine: prestiti monetari concessi principalmente ad altre
istituzioni finanziarie; nel caso dei pronti contro termine, titoli acquisiti in cambio
del prestito a pronti che saranno restituiti allo scadere del prestito (tali titoli sono
denominati “repo”).
4. Prestiti a lungo termine: prestiti alle famiglie e alle imprese a scadenza fissa,
scoperti e mutui; titoli acquistati come investimento (ad esempio del debito
pubblico).
• Redditività e liquidità: La redditività misura la capacità di fare profitti (lucrando sul
differenziale tra il tasso di interesse ricevuto sui prestiti e quello pagato sui depositi) e
viene generalmente rapportata al denaro raccolto o al valore dell’attivo. La liquidità
misura la facilità e i costi con cui un’attività può essere convertita in moneta; il tasso di
liquidità è il rapporto tra attività liquide e attività totali. In genere le attività più
redditizie sono anche le meno liquide.
• La banca centrale
1. Vigilanza sul sistema bancario: la banca centrale controlla che le banche e le
istituzioni finanziarie operino in modo efficiente (con un adeguato tasso di liquidità)
e nel rispetto della normativa bancaria. Inoltre ha compiti di ispezione e stabilisce la
percentuale di riserve obbligatorie che le banche devono tenere come garanzia di
liquidità. Infine svolge la funzione di prestatore di ultima istanza per garantire
un’adeguata offerta di moneta da parte delle banche. Nel Sistema Europeo delle
Banche Centrali (SEBC), tali compiti sono svolti dalle banche centrali dei singoli
paesi.
2. Offerta di moneta e politica monetaria. In molti paesi la banca centrale operava in
stretta collaborazione col governo (il che permetteva un coordinamento stretto tra
politica fiscale e monetaria); recentemente è venutosi affermandosi il principio
dell’indipendenza della banca centrale (principio cui si ispira anche la Banca
Centrale Europea), secondo il quale la politica monetaria è competenza solo della
banca centrale (la quale non è sottoposta ad alcun controllo politico popolare).
Come strumenti di attuazione della politica monetaria, la banca centrale ha il
monopolio nell’emissione di banconote, agisce come banca per il governo
(organizza le emissioni di titoli del debito pubblico emessi dal Tesoro e decide in
che misura finanziare i deficit pubblici emettendo moneta) e per le banche (le quali
tengono dei conti per le compensazioni sul mercato interbancario). Attraverso il
controllo dei tassi d’interesse ufficiali (il tasso di sconto innanzi tutto) e la gestione
dell’emissione e dell’acquisto dei titoli del debito pubblico e di altri strumenti
finanziari influisce sui tassi d’interesse di mercato e sulla quantità di moneta.
Attraverso il controllo delle riserve valutarie influisce sui tassi di cambio.
!130
L’offerta di moneta
Si tratta di una serie geometria di ragione (1 – l), la quale è pari a 1/l se, come nel nostro
caso, (1 – l) < 1. Il moltiplicatore dei depositi (1/l) è dunque pari all’inverso del tasso di
liquidità (l).
Le ipotesi su cui si basa tale calcolo sono (1) che il tasso di liquidità desiderato dalle
banche rimanga invariato nel tempo, (2) che i clienti delle banche prendano a prestito
tutto l’ammontare che le banche desiderano dare in prestito senza alcun impatto sul
tasso d’interesse, (3) che tutti i fondi presi a prestito tornino al sistema bancario in
forma di depositi.
• Le determinanti dell’offerta di moneta.
1. Tasso di liquidità delle banche: le riduzioni nel tempo del tasso di liquidità (a
seguito dello sviluppo di pagamenti con assegni, bancomat, eccetera) aumentano il
moltiplicatore della moneta.
2. Flussi dall’estero: un surplus di bilancia dei pagamenti produce un afflusso di
capitali che vanno ad aumentare l’offerta di moneta.
3. Disavanzi del settore pubblico: quando lo stato registra un disavanzo deve
finanziarsi emettendo titoli del debito pubblico. Se i titoli sono acquistati dalla
banca centrale si ha un aumento nella quantità di moneta (la banca centrale apre un
credito allo stato per il valore dei titoli emessi; quando lo stato spende questa
somma, si ha un aumento della moneta, il quale genera ulteriori aumenti attraverso
il processo di moltiplicazione dei depositi). Se sono invece acquistati dal settore
privato l’offerta di moneta non varia poiché l’aumento della moneta nelle mani del
settore pubblico è compensata da una diminuzione di pari entità di quella nelle mani
del settore privato.
4. Tasso d’interesse: nella misura in cui la banca centrale sia in grado di controllare
completamente l’offerta di moneta, la curva d’offerta di moneta è verticale.
!131
OFFERTA DI MONETA ESOGENA
Tasso di interesse
Mo
L’offerta di moneta non
dipende dal tasso di interesse
Offerta di moneta
Mo
L’offerta di moneta cresce al
crescere del tasso d’interesse
Offerta di moneta
Negli sviluppi futuri, tuttavia, per semplicità assumeremo che l’offerta di moneta sia
completamente esogena e che non dipenda dal tasso d’interesse. Essa sarà quindi
espressa dalla seguente funzione:
Mo = M
!132
La domanda di moneta
!133
LA PREFERENZA PER LA LIQUIDITÀ
r
• Decrescente rispetto a r
• Una variazione del tasso di
Y1>Y0
interesse provoca un
movimento lungo la curva
• Una variazione del reddito
Md1
provoca uno spostamento
della curva Md0
Domanda di moneta
Se, per semplicità, assumiamo una funzione lineare, la curva di domanda di moneta può
essere espressa dalla seguente retta nel piano (r, Y):
Md = fY – gr f > 0, g > 0
r = (VN – q) / q
!134
Questo significa che quanto maggiore è il prezzo del titolo, tanto minore è il tasso
d’interesse effettivo pagato dal titolo stesso.
Alla luce di questa relazione inversa tra prezzo del titolo e tasso d’interesse, se gli
operatori ritengono che esista un valore normale cui la quotazione dell’obbligazione
tende, essi venderanno obbligazioni (cioè domanderanno moneta) quando il loro prezzo
è alto (più alto del prezzo normale), e cioè quando il tasso d’interesse è basso (più basso
del tasso d’interesse normale), e viceversa.
L’equilibrio
• L’equilibrio sul mercato della moneta si ha quando l’offerta uguaglia la domanda (Mo =
Md):
M = fY – gr
r
Mo
re
Md
Me M
!135
IL PROCESSO D’AGGIUSTAMENTO
r1
Il prezzo delle obbligazioni aumenta re
e il tasso di interesse diminuisce
Md
Me M
• Gli spostamenti delle curve di offerta e/o di domanda di moneta determinano nuove
quantità di moneta e tassi d’interesse d’equilibrio.
• Mercato delle valute. L’uguaglianza tra domanda e offerta di una valuta rispetto alle
altre valute determina il tasso di cambio. Quando la domanda di una valuta supera la
sua offerta si ha un apprezzamento del suo tasso di cambio e viceversa.
• Relazione tra tasso d’interesse e tasso di cambio. Se a partire da una situazione
d’equilibrio sul mercato delle valute, il tasso d’interesse interno sale [scende] rispetto a
quello estero, i titoli interni diventano relativamente più [meno] profittevoli di quelli
esteri; questo provoca un aumento di domanda per la valuta nazionale [estera], un
afflusso [deflusso] di capitali e un apprezzamento [deprezzamento] del tasso di cambio.
La politica monetaria
• Gli obiettivi e le strategie della politica monetaria sono notevolmente cambiati nel corso
del tempo. Nel periodo che va dal dopoguerra agli anni ’70 predominava l’impostazione
keynesiana, secondo cui la politica fiscale era il principale strumento di politica
economica, mentre la politica monetaria doveva accomodare le scelte di politica fiscale,
mantenendo stabili i tassi di interesse. A partire dagli anni ’70 e, con maggior forza
negli anni di Reagan e Thatcher negli Stati Uniti e in Gran Bretagna rispettivamente
(anni ‘80), si afferma l’impostazione liberista, secondo la quale il contenimento
dell’inflazione è l’obiettivo primario della politica monetaria. A livello istituzionale, tale
principio trova la sua espressione più forte nel Trattato dell’Unione Europea, firmato a
Maastricht nel 1992, che, tra le altre cose, istituisce la BCE, assegnandole come
obiettivo prioritario la stabilità dei prezzi (definita come aumento dell’indice dei prezzi
al consumo per l’area dell’euro inferiore al 2%); tutti gli altri obiettivi della BCE sono
definiti in termini vaghi e possono essere perseguiti solo se compatibili con l’obiettivo
della stabilità dei prezzi.
!136
• Tre categorie di intervento attraverso cui la banca centrale determina la politica
monetaria
1. Controllo dell’offerta di moneta. La banca centrale può controllare la base
monetaria agendo sul credito concesso alle banche. Questo può essere fatto
attraverso tre canali principali. (1) Le “operazioni di mercato aperto” sono vendite o
acquisti di titoli del debito pubblico da parte della banca centrale sul mercato:
quando la banca centrale vende titoli, gli acquirenti pagano tali titoli con moneta
riducendo così la quantità di moneta in circolazione nel sistema. Attraverso
operazioni di mercato aperto, la banca centrale può anche cambiare la struttura dei
titoli del debito pubblico detenuti (ad esempio vendendo quelli a breve e
acquistando quelli a lunga), influendo così sul grado di liquidità dei titoli in
circolazione presso il settore privato. (2) Il coefficiente di “riserva obbligatoria” è
un deposito che le banche sono obbligate a tenere presso la banca centrale e che le
banche non possono utilizzare senza il consenso della banca centrale (tale deposito è
quindi illiquido): variando il coefficiente di riserva obbligatoria la banca centrale
influisce sul moltiplicatore della moneta e sulla capacità delle banche di concedere
prestiti. (3) La banca centrale può fornire prestiti alle banche commerciali a tassi di
interesse inferiori a quelli di mercato: variando lo stock di moneta disponibile per
tali prestiti la banca centrale può quindi modificare l’offerta di moneta.
2. Controllo dei tassi d’interesse. Il controllo dei tassi d’interesse avviene (1)
attraverso la definizione dei tassi di riferimento (il tasso di sconto o altri tassi di
rifinanziamento delle banche presso la banca centrale) e (2) attraverso interventi
diretti sul mercato monetario, in particolare mediante operazioni di pronti contro
termine. Va notato che nella realtà esistono diversi tassi d’interesse a seconda della
scadenza temporale (i quali producono effetti diversi sulle variabili
macroeconomiche reali, in particolare sugli investimenti di breve e di lungo
periodo). Quindi, attraverso operazioni di mercato aperto, la banca centrale può
influire anche sulla struttura temporale dei tassi d’interesse: ad esempio, vendendo
titoli a breve e acquistando titoli a lunga, la banca centrale può ridurre i tassi
d’interesse a lungo termine facendo salire quelli a breve termine.
3. Razionamento del credito. La banca centrale può razionare il credito e influire così
sul moltiplicatore della moneta (1) imponendo alle banche di limitare i prestiti (per
esempio limitandoli a quelli meno rischiosi), (2) fissando un ammontare minimo dei
depositi, o (3) fissando dei tempi massimi di restituzione dei prestiti. Nella realtà,
spesso la banca centrale attua la propria politica nei confronti delle banche
attraverso strumenti di pressione piuttosto che di coercizione.
• L’efficacia della politica monetaria dipende (1) dagli strumenti di controllo sui tentativi
delle banche di eludere (o evadere) eventuali forme di razionamento del credito, (2)
dalla sensibilità della domanda di moneta alle variazioni dei tassi d’interesse, (3) dalle
aspettative degli operatori (in particolare, di fronte ad aspettative pessimistiche degli
investitori, la riduzione dei tassi potrebbe non essere sufficiente ad aumentare il livello
degli investimenti).
!137
4. Il modello IS-LM
• Il modello IS-LM non è altro che un’analisi congiunta del mercato dei beni e del
mercato della moneta.
• Rispetto all’analisi dei due mercati considerati separatamente, dobbiamo innanzi tutto
estendere l’analisi del mercato dei beni esplicitando le variabili da cui dipendono gli
investimenti (per semplicità nel capitolo 8 avevamo supposto che essi fossero
completamente esogeni). Dopodiché è possibile considerare congiuntamente i due
mercati per determinare le condizioni dell’equilibrio macroeconomico.
• In tutto il modello, per semplicità continueremo a supporre che i prezzi siano fissi
(inflazione pari a zero).
• Si suppone che gli investimenti dipendano negativamente dal tasso d’interesse. Tale
ipotesi è giustificata dal fatto che il tasso d’interesse è un costo per le imprese che
prendono a prestito i fondi per finanziare gli investimenti (per le imprese che finanziano
gli investimenti con fondi propri il tasso d’interesse rappresenta comunque un costo-
opportunità). Una seconda determinate degli investimenti è data dalle aspettative degli
investitori (gli animal spirits nel linguaggio di Keynes). Considerando la forma
funzionale lineare, la funzione degli investimenti può allora essere espressa dalla
seguente:
I = I – dr d>0
• La curva IS rappresenta il luogo di punti nel piano (Y, i) tale che il mercato dei beni è in
equilibrio. Rispetto all’analisi svolta nel capitolo 8, dobbiamo ora completare l’analisi
del mercato dei beni introducendo esplicitamente la funzione degli investimenti. Il
modello è dunque il seguente:
Yo = Yd = Y
Yd = C + I + G
C = a + bYo
I = I – dr
Sostituendo:
Y = a + bY + I – dr + G
Y* = [1 / (1 – b)](a + I + G) – [d / (1 – b)]r
!138
Come si vede, a differenza della formula ottenuta nel capitolo 3 (in cui non si teneva
conto del tasso d’interesse), il reddito d’equilibrio dipende ora anche dal tasso
d’interesse: per ogni valore di r esiste un unico valore di Y che garantisce l’equilibrio
sul mercato dei beni.
Y
Al tasso d’interesse r1
corrispondono gli
r investimenti I1 e il
reddito Y1
E2
r2
Al tasso d’interesse r2
r1 E1
(r2>r1) corrispondono gli
IS
investimenti I2 (I2<I1) e il
reddito Y2 (Y2<Y1)
Y2 Y1 Y
Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002
r* = (a + I + G) / d – [(1 – b) / d]Y
ponendo r = 0: Y = [1 / (1 – b)](a + I + G)
ponendo Y = 0: r = (a + I + G) / d
!139
LA CURVA IS
(a + I + G) / d
IS
–(1 – b) / d
[1 / (1 – b)](a + I + G) Y
Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002
• L’inclinazione della IS. L’inclinazione negativa dipende dal fatto che un aumento del
tasso d’interesse implica una diminuzione degli investimenti: per mantenere
l’equilibrio, alla diminuzione della domanda si deve accompagnare una diminuzione
dell’offerta e del reddito.
La IS è tanto più piatta, quanto maggiori sono i parametri d e b.
1. Dal punto di vista economico, una forte sensibilità degli investimenti alle variazioni
del tasso d’interesse (un valore di d elevato) significa che un aumento unitario del
tasso d’interesse produce una forte caduta degli investimenti (cioè della domanda) e,
quindi (per l’ipotesi d’equilibrio), dell’offerta e del reddito.
2. Nel caso del parametro b, una forte sensibilità del consumo alle variazioni del
reddito (un valore di b elevato) implica un forte effetto moltiplicativo. Un aumento
unitario del tasso d’interesse produce una certa diminuzione degli investimenti
(determinato dal parametro d) e, se l’effetto moltiplicativo è alto (se cioè il valore di
b è elevato), l’impatto sulla domanda e sul reddito è forte.
• Punti di disequilibrio. I punti sopra la curva IS indicano combinazioni (Y, r) con valori
di r superiori a r*. Ad un simile livello del tasso d’interesse (più alto del livello
d’equilibrio), la domanda di beni d’investimento è minore di quella che garantirebbe
l’equilibrio sul mercato dei beni. Si ha dunque un eccesso d’offerta. Simmetricamente
nei punti al di sotto della curva IS si ha un eccesso di domanda di beni.
!140
DISEQUILIBRIO SUL MERCATO DEI BENI
• Spostamenti della curva IS. Se aumenta [diminuisce] una delle componenti esogene
della domanda la curva IS si sposta verso destra [sinistra]: per ogni livello del tasso
d’interesse, un aumento della componente esogena della domanda (ad esempio di G)
produce un aumento del reddito d’equilibrio pari al moltiplicatore keynesiano:
ΔY = 1/(1 – b) ΔΑ
• Un aumento della
componente esogena della r
domanda (ad esempio di G)
provoca uno spostamento
della curva IS verso destra
ΔG>0
pari a [1/(1 – b)] ΔG
!141
L’equilibrio sul mercato della moneta: la curva LM
• Come abbiamo visto, se si suppone che l’unica alternativa al detenere moneta in forma
liquida è acquistare obbligazioni, l’equilibrio sul mercato della moneta implica
l’equilibrio sul mercato delle obbligazioni e viceversa. Questo risultato può essere visto
come una conseguenza della “legge di Walras”, secondo la quale “in un sistema
composto da n mercati, se n–1 mercati sono in equilibrio, è in equilibrio anche
l’ennesimo mercato”. NB: nel testo (Sloman) la legge di Walras viene richiamata a
sproposito, sostenendo che se due dei tre mercati (moneta, obbligazioni e beni) sono in
equilibrio, lo è anche il terzo. Questo non è vero: se il mercato della moneta è in
equilibrio, come si è detto, lo è anche il mercato delle obbligazioni; ma questo non
significa che lo sia anche il mercato dei beni.
• La curva LM rappresenta il luogo di punti nel piano (Y, i) tale che il mercato della
moneta (e, quindi, quello delle obbligazioni) è in equilibrio. Come abbiamo visto nel
capitolo 9, la condizione d’equilibrio sul mercato della moneta (e delle obbligazioni) è
la seguente:
M = fY – gr
Y* = M / f + (g / f)r
Per ogni valore di r esiste un unico valore di Y che garantisce l’equilibrio sul mercato
della moneta.
Mo
r r
Md 2 LM
E2
r2 Md 1
E2
r1
E1 E1
M Y1 Y2 Y
!142
intercetta [–(M / g)] e coefficiente angolare [f / g]. Infatti, esplicitando il tasso
d’interesse r si ottiene:
r* = –(M / g) + (f / g)Y
ponendo r = 0: Y=M/f
ponendo Y = 0: r = –(M / g)
LA CURVA LM
LM
f/g
M/f Y
– (M / g)
Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002
• L’inclinazione della LM. L’inclinazione positiva dipende dal fatto che un aumento del
tasso d’interesse implica una diminuzione della domanda di moneta a scopo speculativo
(perché aumenta la domanda di obbligazioni); dato che l’offerta di moneta è per ipotesi
fissa (poiché esogena), per mantenere l’equilibrio sul mercato della moneta è necessario
che aumenti la domanda di moneta a scopo transazionale e precauzionale, cioè è
necessario che aumenti il reddito d’equilibrio.
La LM è tanto più piatta, quanto maggiore è il parametro g e quanto minore è il
parametro f.
1. Dal punto di vista economico, una forte sensibilità della domanda di moneta alle
variazioni del tasso d’interesse (un valore di g elevato) significa che un aumento
unitario del tasso d’interesse produce una forte caduta della domanda di moneta a
scopo speculativo, la quale per essere compensata da un aumento di pari entità della
domanda di moneta a scopo transazionale e precauzionale richiede un forte aumento
del reddito.
2. Simmetricamente, una forte sensibilità della domanda di moneta (a scopo
transazionale e precauzionale) alle variazioni del reddito (un valore di f elevato)
significa che, di fronte ad un aumento unitario del tasso d’interesse (che produce
!143
una certa diminuzione della domanda di moneta a scopo speculativo), è sufficiente
un piccolo aumento del reddito a compensare la diminuzione della domanda di
moneta a scopo speculativo.
Trappola della liquidità. Un caso particolare importante si ha quando la LM (o, un suo
tratto) è orizzontale. In questo caso, le variazioni della quantità di moneta non
producono alcuna variazione nel tasso d’interesse d’equilibrio: al tasso d’interesse
d’equilibrio corrispondono infiniti livelli di reddito d’equilibrio.
r
Il reddito è così basso che
tutti sono disponibili a
detenere una qualsiasi LM
quantità di moneta offerta
in forma liquida rmin
Y0 Y
• Punti di disequilibrio. I punti sopra la curva LM indicano combinazioni (Y, r) con valori
di r superiori a r*. Ad un simile livello del tasso d’interesse (più alto del livello
d’equilibrio), la domanda di moneta è minore di quella che garantirebbe l’equilibrio sul
mercato della moneta (perché la domanda di moneta a scopo speculativo è troppo
bassa). Si ha dunque un eccesso d’offerta di moneta. Simmetricamente nei punti al di
sotto della curva LM si ha un eccesso di domanda di moneta.
!144
DISEQUILIBRIO SUL MERCATO DELLA
MONETA
• Spostamenti della curva LM. Se aumenta [diminuisce] l’offerta di moneta, M, (la sola
variabile esogena nel mercato della moneta) la curva LM si sposta verso destra
[sinistra]: per ogni livello del tasso d’interesse (cioè per ogni livello della domanda di
moneta a scopo speculativo), un aumento di M, produce un eccesso di offerta di moneta,
al livello del reddito corrente; affinché si ristabilisca l’equilibrio sul mercato della
moneta si deve avere un aumento anche nella domanda di moneta (a scopo
transazionale e precauzionale), il che significa che deve aumentare il reddito
d’equilibrio.
ΔY = (1/ f) ΔΜ
!145
SPOSTAMENTI DELLA CURVA LM
• Un aumento dell’offerta di r
moneta provoca uno LM2
spostamento della curva LM
LM verso destra pari a
LM1
ΔY = (1/ f) ΔM
ΔM<0
• Una diminuzione provoca ΔM>0
uno spostamento verso
sinistra dello stesso
ammontare Y
IS: Y = a + bY + I – dr + G
LM: M = fY – gr
dove: A = a + I + G
!146
DERIVAZIONE GRAFICA DELL’EQUILIBRIO
r
LM
L’equilibrio si trova in
corrispondenza dell’intersezione
tra le curve IS e LM.
E
Nel punto E, sia il mercato dei r*
beni, sia quello della moneta sono IS
in equilibrio
Y* Y
• Gli effetti della politica fiscale e monetaria sul reddito e sul tasso d’interesse sono
descritti dalle condizioni d’equilibrio del modello IS-LM. Riconsideriamo l’equazione
del reddito d’equilibrio nella seguente forma:
!147
STABILITÀ DELL’EQUILIBRIO
LA POLITICA FISCALE
r
LM
E3
• Un aumento di G sposta la r3
E1 E2
IS verso destra: IS1 → IS2 r1
• Y aumenta IS2
• r aumenta IS1
Ye1 Ye3 Y2 Y
!148
LA POLITICA MONETARIA
LM1 LM2
• Un aumento di M sposta la
E1
LM verso destra: LM1 → LM2 r1 E2
• Y aumenta r2
• r si riduce
IS
Ye1 Ye 2 Y
!149
POLITICA FISCALE E SPIAZZAMENTO
• A seguito di un aumento di G,
secondo il modello del r
moltiplicatore (in cui si ipotizza la LM
costanza di r), Y dovrebbe E3
aumentare da Ye1 a Y2 r3
E1 E2
• Sul mercato della moneta, però, r1
l’aumento di Y fa aumentare r. IS2
Sul mercato dei beni, questo IS1
comprime I e riduce in parte
l’effetto espansivo su Y. Il Ye1 Ye3 Y2 Y
sistema si porta in Ye3
Nei casi limite in cui la LM è verticale (la domanda di moneta a scopo speculativo non
varia al variare del tasso d’interesse [g = 0], oppure la domanda di moneta a scopo
transazionale e precauzionale è infinitamente sensibile alle variazioni del reddito [f =
∝], caso quest’ultimo scarsamente significativo sul piano economico) o la IS è
orizzontale (gli investimenti sono infinitamente sensibili alle variazioni del tasso
d’interesse [d = ∝], oppure tutto il reddito è consumato [b = 1]), lo spiazzamento è
totale: un aumento della spesa pubblica riduce di un pari ammontare gli investimenti
privati lasciando invariato il reddito d’equilibrio.
In generale, l’effetto spiazzamento degli investimenti privati è forte quando maggiore è
l’inclinazione della LM è quanto minore è l’inclinazione della IS.
!150
LA DIMENSIONE DELLO SPIAZZAMENTO
(L’INCLINAZIONE DELLA LM)
r
r LM
E2
LM
E1
IS2
IS2
IS1
IS1
Ye1Ye2 Y
Ye1 Ye2 Y
r LM
E2
r
LM
E2
E1 E1
IS2
IS2
IS1
IS1
Ye1 Ye2 Y£ Y
Ye1 Ye2 Y£ Y
[1/(1 – b)] Δ G
[1/(1 – b)] Δ G
– Δ I: Spiazzamento
– Δ I: Spiazzamento
Sloman, Elementi di economia, Il Mulino, 2002
!151
vista economico, nel momento in cui l’aumento del reddito provocato dalla politica
fiscale espansiva fa salire la domanda di moneta, la banca centrale soddisfa tale
incremento aumentando l’offerta di moneta e impedendo quindi che il tasso d’interesse
aumenti (il fatto che la banca centrale adegui l’offerta di moneta alle variazioni della
domanda di moneta porta a definire una simile politica monetaria “accomodante”).
• ΔG>0, ΔM>0 r
La politica fiscale espansiva
è accompagnata da una LM1
politica monetaria espansiva
LM2
E1 E2
r1
!152
VISIONE KEYNESIANA E TRAPPOLA DELLA
LIQUIDITÀ
Se la LM è orizzontale, la LM
politica monetaria è
LM1
inefficace e l’unico
strumento efficace è la rmin
politica fiscale IS1
IS
Y* Y*1 Y
LA VISIONE MONETARISTA
r LM
LM1
Se la LM è verticale, la r*1
politica fiscale è r*
inefficace e l’unico IS1
r*2
strumento efficace è la
IS
politica monetaria
Y* Y*1 Y
!
•
!153