Banks Iain M - Criptosfera
Banks Iain M - Criptosfera
Banks
Criptosfera
PARTE PRIMA
1
Fu come se tutto venisse estirpato: le sensazioni, la memoria,
l'identità, persino l'esperienza dell'esistere su cui poggia la real-
tà. Sembrò che tutto fosse scomparso, e tale scomparsa fu ac-
compagnata da nulla più che una consapevolezza fugace, la
quale subito cessò. Per un attimo infinito e indefinito vi fu sol-
tanto la vaga percezione di un nucleo di vita che non aveva
mente, né scopo, né pensiero, tranne l'intuizione del proprio es-
sere.
In seguito iniziò la ricostruzione, con un affiorare attraverso
strati di pensiero e di evoluzione, imparando e formandosi, fin-
ché qualcosa che era, un essere dotato d'individualità e di for-
ma, nonché della capacità di assumere un nome, si destò.
Si destò.
- Al...
/ Si trovò nella nursery della fortezza del clan, a Seattle.
Mentre lui vagiva, la bambinaia curva su di lui conficcò il pu-
gnale.
E una voce interiore strillò: Sette!
* (raggio luminoso)
SPOSTATEVI /
ORA FATEVI INDIETRO /
GRAZIE /
L'AMORE È DIO / SIAMO TUTTI CONSACRATI / * AB-
BIAMO NOTATO / CHE AVETE TENTATO / DI COMUNI-
CARE CON / NOI IN PASSATO / TUTTAVIA I SISTEMI /
DI EMERGENZA ALLORA FUNZIONANTI / NON ERANO
IN GRADO DI / RISPONDERE O NON ERANO PRO-
GRAMMATI / PER INIZIARE / LA NOSTRA RIATTIVA-
ZIONE / CIO' È ORA / ACCADUTO A CAUSA DELL' / AV-
VICINAMENTO AL SISTEMA SOLARE / DI UNA NUBE
DI / POLVERE INTERSTELLARE / CHE VOI DEFINITE /
INVASIONE / QUESTO RIGUARDA NOI TUTTI / LE VA-
LUTAZIONI ATTUALI / CIRCA LE CONSEGUENZE PER
LA TERRA / GIUSTIFICANO / L'ALLARME / NON AB-
BIAMO / RICEVUTO NE' / CREDIAMO CHE ABBIATE /
RICEVUTO ALCUNA / COMUNICAZIONE DALL' /
ESTERNO DEL PIANETA / PERCIÒ' DOBBIAMO AGIRE /
DA SOLI PER SALVARE / NOI STESSI / LE POSSIBILITÀ'
D'AZIONE / INCLUDONO L'ATTUALE / TENTATIVO AI
LIVELLI INFERIORI / DI COSTRUIRE ASTRONAVI PER /
L'EVACUAZIONE CHE È / QUASI CERTAMENTE / DE-
STINATO A FALLIRE / È NOTO / CHE FAZIONI DEI LI-
VELLI / INFERIORI SI COMBATTONO / PER LE TECNO-
LOGIE / DELLO SPAZIO SUSSIDIARIO / MA È IMPRO-
BABILE / CHE ANCHE QUESTO / TENTATIVO RIESCA /
ABBIAMO NOTATO ANCHE / LAVORI PERICOLOSI /
NEL SOLARIO L5SO / * CONSACRATO SIA / IL CENTRO
L' / ASSENZA CHE / INFONDE FORZA / INFONDE SIGNI-
FICATO / * CHE MINACCIANO DI PROVOCARE / GRA-
VE PERDITA DI COESIONE DELLA MATERIA / LA RI-
SPOSTA CORRETTA DEV'ESSERE / TROVATA NELLA
CRIPTOSFERA / O IN UN SOTTOSISTEMA / CONNESSO
MA / COMUNICATIVAMENTE REMOTO / CREDIAMO
COME / SUPPONIAMO CREDIATE ANCHE VOI / CHE
ESISTANO TECNICHE / IN GRADO DI SALVARCI TUTTI
/ MA LA POSSIBILITÀ DI /SCOPRIRE QUESTE / TECNI-
CHE CI SFUGGE / E SIAMO / INCAPACI DI CONTATTA-
RE / DIRETTAMENTE LA CRIPTOSFERA / A CAUSA
DELL'ATTUALE / CONDIZIONE DI CONTAGIO CAOTI-
CO / DELLA MEDESIMA / POICHÉ' PARE / CHE ESISTA-
NO / METAPROTOCOLLI D'EMERGENZA / VI SUGGE-
RIAMO / DI RIMANERE / ALL'ERTA COME NOI / PER
L'AVVENTO/DI UN MESSAGGERO ESTERNO O/UN
EMISSARIO DI SISTEMA (ASURA) / VI PREGHIAMO
INOLTRE DI CONSIDERARE / CHE CREDIAMO CHE LE
FAZIONI / GOVERNATIVE O I LIVELLI / INFERIORI
SAPPIANO CHE I LORO / APPARENTI TENTATIVI / DI
FUGA SONO DESTINATI / A FALLIRE / VI CHIEDIAMO /
PERCHE' CIO' AVVIENE / RISPONDETE ESCLUSIVA-
MENTE / MEDIANTE ELIOGRAFO / OPPURE / LAMPA-
DA DI SEGNALAZIONE / * L'AMORE È FEDE / È IGNA-
RO / CHE TUTTI SIANO CONSACRATI / AGLI OCCHI
DEL / NULLA / PACE / FINE*
Be, son proprjo bravi, dissi fra me* & me*, gwardando fwori
dal finestrino & tcerkando diñorare le votci stonate & g£i aliti
fetidi di birra. Fwori era ormai il krepuskolo & il tcielo era
zgardgiante di kolori & nel vagone della funikolare le luci era-
no attcese.
- Ah, sei qui - disse Pieter Velteseri, salendo dalla scala che
conduceva ai ponti inferiori. Divise le code della giacca e se-
dette accanto ad Asura, posandosi il puntale d'argento del ba-
stone fra i piedi. Guardò la ragazza.
Per alcuni secondi, Asura batté rapidamente le palpebre, poi
scosse la testa, come se si fosse appena svegliata.
Intanto, Pieter osservò la donna di mezz'età che continuava a
parlare, in piedi al centro del ponte: - Ah - sorrise - la nostra re-
gressiva ha ritrovato la voce, vero? Non pensavo che sarebbe
rimasta in silenzio per molto. - Posò il mento sulle mani unite
sul manico del bastone.
- È... Regrisiva? - Asura lanciò un'occhiata a Pieter, poi, nel-
lo sforzo di ritrovare il filo del discorso della donna, si accigliò.
- È una regressiva - spiegò Pieter a bassa voce. - È una di
quelle persone che regrediscono. In un certo senso lo siamo tut-
ti, o almeno suppongo che lo fossero i nostri antenati. Ma quel-
la donna appartiene a una setta convinta che dobbiamo regredi-
re ulteriormente.
- Nessuno l'ascolta - sussurrò Asura, guardando i passeggeri
presenti sul ponte, tutti intenti a chiacchierare fra loro, o ad am-
mirare il panorama, o seduti o sdraiati con gli occhi chiusi per-
ché sonnecchiavano o perché erano interiormente altrove.
- Senza dubbio hanno già sentito questo discorso molte altre
volte - rispose pacatamente Pieter. - Non proprio parola per pa-
rola, ma...
- Siamo colpevoli - stava dicendo la regressiva. - Abbiamo
coltivato le comodità e la vanità offrendo rifugio alle belve del
caos che infestano la cripta, talché ora la regione che appartie-
ne all'umanità è a malapena un centesimo di essa, ed è devasta-
ta, dedita all'adorazione del sé, della superbia, del dominio su
ciò a cui pretendiamo di avere rinunciato...
- È tutto vero quello che dice? - mormorò Asura.
- Ah - sorrise Pieter - questa è una domanda interessante...
Diciamo che è tutto basato sulla verità, ma che i fatti sono su-
scettibili di altre interpretazioni.
- Il re non è un re, e tutti lo sanno. C'è il bene, ma nulla di ciò
che sembra essere il nostro bene opera per il bene: è soltanto
una maschera per il volto della nostra folle ignoranza e della
nostra inadeguatezza.
- Il re? - chiese Asura, perplessa.
- Colui che ci governa - spiegò Pieter. - Ho sempre pensato
che un titolo più adatto sarebbe "dalai lama", anche se il re ha
più potere e meno... santità. Comunque, si preferisce appunto il
termine "re". È tutto piuttosto complicato.
- Perché la regressiva è incantenata? - domandò Asura.
- È un simbolo - disse Pieter, con espressione maliziosa. Poi,
vedendo Asura annuire gravemente, sorrise.
- Sembra molto sincera.
- Questa parola ha strane connotazioni positive - annuì Pie-
ter. - Secondo la mia esperienza, coloro che più sono sinceri
sono anche i più sospetti dal punto di vista morale, oltre ad es-
sere privi d'umorismo, e incapaci di apprezzarlo.
- Quel che accade, accade - continuava intanto la regressiva -
e non può essere cancellato. Noi siamo l'equazione: non possia-
mo negare l'algebra dell'universo o il risultato che ci offre. Mo-
rire nella tranquillità o nel terrore, nella fede o nella disperazio-
ne, non ha alcuna importanza. Essere consapevoli o inconsape-
voli, non importa. Pochissime cose hanno importanza, e quasi
nessuna ne ha molta. Pace.
- Io stesso trovo che quest'ultima affermazione sia abbastan-
za affascinante - confessò Pieter, mentre la regressiva sedeva.
A breve distanza, alcune persone avevano scherzato e riso
fra loro mentre la regressiva parlava. Una donna molto elegante
che faceva parte di tale gruppetto si alzò e si recò a lasciar ca-
dere alcuni dolciumi nella semplice ciotola di legno che la re-
gressiva teneva accanto a sé. Costei la ringraziò, prima di co-
minciare a mangiare, muovendosi goffamente a causa dei polsi
incatenati. Mentre la donna elegante tornava dagli amici, riden-
do, con andatura noncurante, la regressiva fece un sorrisino ad
Asura.
- Vieni, mia cara - invitò Pieter, prendendo gentilmente la ra-
gazza per un braccio. - Perché non andiamo a prendere aria sul
ponte panoramico inferiore?
Insieme, Asura e Pieter si alzarono. Nel passare accanto alla
regressiva, il vecchio salutò con un cenno della testa: - Signo-
ra...
- Non si preoccupi - le disse Asura, mentre Pieter la condu-
ceva verso la scala. - Andrà tutto bene. - E le strizzò l'occhio.
Per un attimo, la regressiva parve alquanto sconcertata, poi,
scuotendo la testa, continuò a mangiare, sempre goffamente.
Nello scendere al ponte inferiore, Asura si accigliò di nuovo:
- Mangia - osservò, guardando brevemente indietro. - Ma come
farà a lavarsi dopo essere andata in bagno?
- Sai una cosa? - rise lievemente Pieter. - Non me lo ero mai
domandato. Tutte le alternative sono piuttosto spiacevoli, vero?
Dal ponte panoramico, osservarono le colline ammantate di
foreste che si stendevano tutt'intorno. Seduti in una delle file di
sedili nel piano inferiore della prua arrotondata e trasparente,
avvistarono il profilo vago delle torri e delle mura di Serehfa.
Allora Asura applaudì.
Quella mattina, a colazione, quando Asura aveva parlato dei
propri sogni, Pieter si era mostrato dapprima allarmato, quindi
era parso rassegnato. La ragazza non aveva raccontato detta-
gliatamente i sogni: aveva detto soltanto di aver visto la galle-
ria di luce e di avere attraversato la pianura polverosa a bordo
di una carrozza incantata verso il grande castello oltre le colli-
ne.
- Sei fortunata - aveva commentato Lucia Chimbers. - Quasi
tutti devono concentrarsi molto per fare sogni tanto interessan-
ti.
- Sembra che abbia gli innesti, dopotutto - aveva osservato
Gil, servendosi altro succo di frutta.
- Non credo. - Pieter aveva scosso la testa. - E vorrei che si
smettesse di chiamarli "innesti" - aveva aggiunto, accigliando-
si. - Non lo sono, visto che li si ha dalla nascita e fanno parte
del corredo genetico, reversibile o meno.
Con abituale indulgenza, Gil e Lucia gli avevano sorriso.
Il vecchio si era tamponato le labbra col tovagliolo e si era
addossato allo schienale, osservando la giovane ospite, che se-
deva molto eretta, con le mani in grembo e gli occhi sfavillanti:
- Se ho ben capito, dunque, vuoi lasciarci, giovane signora?
- La prego, mi chiami Asura - aveva risposto la ragazza. Poi
aveva annuito vigorosamente: - Credo che andrò al castello.
- Andarsene tanto presto è un po' da turista - aveva osservato
Lucia, attirandosi un'occhiata stanca di Pieter.
- Tutti dovrebbero vedere Serehfa - aveva detto Gil, prima di
bere rumorosamente.
- Vuoi partire oggi stesso? - aveva domandato Pieter.
- Al più presto possibile, per favore.
- Be', suppongo che uno di noi dovrebbe accompagnarti...
Subito Lucia aveva detto: - Non guardare me...
- Mi stavo soltanto chiedendo se potremmo convincerti a
prestare alla giovane signora...
- Asura! - aveva corretto allegramente la ragazza.
-... Prestare ad Asura - aveva ripreso Pieter, con un sospiro -
i tuoi abiti per un periodo più lungo...
- Che li tenga pure - aveva gesticolato Lucia, prima di pren-
dere fra le proprie una mano di Gil.
- Vorrei rientrare in giornata - aveva spiegato Pieter ad Asu-
ra. - Ammesso che si riesca a trovare un volo in tempo, dovrò
probabilmente lasciarti alla porta del castello...
- Al più presto possibile, per favore - aveva ripetuto Asura.
- Trovale una sistemazione da qualche parte - aveva suggeri-
to Gil - oppure chiedi a un membro del clan di occuparsi di lei.
- Potrei fare entrambe le cose... - Pieter si era addossato allo
schienale e aveva chiuso gli occhi. - Scusatemi - aveva mormo-
rato.
Mentre Lucia e Gil si versavano altro caffè, Asura aveva
scrutato il vecchio, il quale, dopo un poco, aveva riaperto gli
occhi: - Sono riuscito a prenotare un volo che parte a mezzo-
giorno. Io potrò essere di ritorno poco dopo mezzanotte. A
quanto pare, non ci sono più posti liberi sulla navetta, perciò
dovremo andare in stazione con l'automobile. Ho avvertito la
cugina Ucubulaire, che abita a Serehfa. Quanto a voi, oso sup-
porre che riuscirete a trovare qualcosa da fare anche senza di
me, vero? - aveva detto a Gil e a Lucia, i quali avevano sorriso.
So* ke* diventero* matto kwi*, & inoltre so ke* prima o poi
dovro* vizitare di nwovo la kripta, per trovare Ergates & per
skoprire ke* kosa sta suttcedendo, pertcio* kwando mi zveg£io
nel tardo pomeriddgio mi spruttso un po dakkwa in fattcia, fatt-
cio una pi∫iata & appena 'o detciso ke* mi sento zveg£io & rin-
freskato, ritorno subito laddgiu*, sulla baze del fatto ke* non
tce* un momento piu* adatto dellattuale.
Tcerko di skattciare dalla mente tutte le kose da bradipo (non
rjesko ad immaddginare njente di meno utile da portare nella
kripta di kwalunkwe sembiantsa di bradipita*) & mi tuffo a ka-
pofitto.
Kredo di avere imparato un pajo di kose in tutto il tempo ke*
'o traskorso nella kripta kome uttcello pertcio* torno proprjo in
kwella direttsjone soltanto ke* kwesta volta non perdo tempo
kon i passerotti kjakkjeroni ne* kon i falki o roba del dgenere;
divento un uttcellattcio bastardo; un simurg. Kwesti uttcelli
sono kosi* grandi ke* i loro tcervelli possono kompetere kon le
menti umane sentsa tanti problemi, tcio* ke* siñifika ke* non
devo sprekare kwazi tutto il mio tempo a rikordare ke* kosa
sono o a dissimulare in forma danello il mio koditce di
rizveg£io. E* un po ambittsjoso ma talvolta e* kwesto luniko
modo per ottenere kwalkosa.
Kjudo gli okki.
/ Innantsitutto esploro i dintorni; non tce* nulla fwori dellor-
dinarjo nel kriptospattsjo tcirkostante. Osservo larkitettura del-
la torre tanto per printcipio, visto ke* la vekkja torre e* abba-
stantsa interessante, poi gwardo un po piu* lontano. Il traffiko
intorno al monastero dei Fratellini Maddgiori e* tornato piu* o
meno alla normalita* ma non mi tci avvitcino per skoprire
kwalkosa di piu*.
Kon una zu:mata entro nellornitospattsjo.
/ & sono un uttcello dgigantesko & selvaddgjo ke* veleddgia
sulle korrenti del vento mutevole, fluttuando pigramente kon le
ali spjegate nellarja ke* kanta. Tciaskuna delle punte delle mie
remiganti primarje e* grande kwanto una mano; le mie penne
palpitano kome il kwore di un anello kwando la mia ombra lo-
skura. Le mie tsampe 'anno artig£i daccjajo tag£ienti kome ra-
zoj. I mjei okki sono ankora piu* akuti di una lama aguttsa. Il
mio bekko e* piu* duro dellosso, piu* affilato di un vetro ap-
pena spettsato. La mia karena e* un koltello enorme naskosto
nella karne ke* fende la breddza doltce; le mie kostole sono
molle ∫intillanti, i mjei muskoli sono fa∫i di fluida potentsa, il
mio kwore e* una kamera kolma di twoni lenti & trankwilli;
una diga immane ke* kontjene fjumi & kateratte di sangwe &
la∫ia filtrare la possantsa.
Ebbene, SI*! Kosi* va molto meg£io! Perke* mai mi sono
preso la briga di inkarnarmi in un falko? Perke* sono stato tan-
to maledettamente modesto? Mi sento ferotce, possente.
Osservo tcio* ke* mi tcirkonda. Arja ovunkwe. Nubi. Njente
swolo.
Altri uttcelli volano in grandi formattsjoni a delta, salendo a
grandi kolonne nellarja, radunandosi in nuvole foske, roteando
& kjamandosi. Kredo ke* siano diretti ai nidi.
/ & sono fra loro; alberi sferitci ke* fluttuano nelladdzurro
sentsa terra kome pjaneti skuri di ramo∫elli in un universo dar-
ja, tcirkondati da unatmosfera skjamattsante duttcelli ke* van-
no & vengono.
Il parlamento dei korvi, kredo.
/ & sono la*, nellarja pundgente fra strati di nubi bianke
kome paesaddgi riflessi dalla neve; g£i alberi invernali grandi
& foski sono tanto fitti da sembrare mura nere ke* si stag£iano
sullo sfondo delle nuvole gjattciate simili a pilastri. Il parla-
mento dei korvi e* sullalbero piu* alto & piu* grande, i kui
rami bruni sembrano dita ossute & fuliddginose di mani ke* af-
ferrano il volto freddo & vakwo del tcielo. I korvi interrompo-
no il raduno kwando mi vedono & mi attakkano grakkjando &
stridendo.
Io batto le ali, spindgendo larja in basso, innaltsandomi al di
sopra di kweg£i uttcellattci fastidjosi, tcerkandone uno ke* sta*
in disparte a dare ordini.
I korvi mi ∫iamano attorno. Alkune perkosse mi kolpiskono
alla testa ma sentsa farmi male. Rido & protendo il kollo, rwo-
tando la testa & fatcendo pretcipitare alkuni di kweg£i uttcelli
pikkoli kome dgiokattoli. Li skaravento via; il sangwe skittsa
rosso, bjanke ossa polveriddzate eruttano fra le penne nere
kome il karbone & alkuni korvi precipitano strattsjati verso le
nubi kandide kome la neve. G£i altri strillano, si ritirano per un
momento zvolattsando poi tornano allassalto. Avantso loro in-
kontro. Larja skjokka turbinando sotto le mie ali, travoldgendo
gli uttcelli insegwitori & fatcendoli rotolare nellarja kome sassi
sotto una kaskata.
Vedo la mia preda. E* un grande uttcello gridgionero appol-
lajato sul ramo∫ello piu* alto del ramo piu* alto dellalbero del
parlamento & si e* appena reso konto di kwello ke* sta suttce-
dendo. Sinvola, grakkjando & skjamattsando nellarja. ∫iokko;
se si fosse tuffato fra i rami avrebe potuto avere una
possibilita* di riu∫ire a skappare.
Tenta kwalke akrobatsia ma e* troppo vekkjo & impattciato
& io lo afferro kon una fatcilita* ke* e* kwazi deludente.
Snap! & e* perfettamente rinkjuso nella gabbja formata dag£i
artig£i di una delle mie tsampe, battendo le ali & strillando &
perdendo penne & bekkandomi le dita kol pikkolo bekko nero
& farcendomi soltanto i solletiko. Fattoio pretcipitare altri due
suoi kompari, spardgendo il loro sangwe kome un artista ke*
stenda il kolore su una tela bjanka, poi penso nido.
I & sono solo kol mio amiketto korvo al di sopra di una pja-
nura fulva di sabbja & rottcia, sto volando verso una rupe da
kui spunta un pinnakolo simile a un dito nodoso, in tcima al
kwale si skordge un nido dgigantesko di tronki sbjaditi dal sole
& ossa di kwadrupedi & duttcelli spettsate & stinte.
Skriik! Skrawk! Awrk!
O tatci, diko al korvo, & il peso immane della mia votce lo
ridutce ad un silentsjo stordito. Mi appoddgio su kwella tsam-
pa, skjattciando il korvo intrappolato & passo attraverso le
zbarre dei mjei artig£i kon un artig£io dellaltra tsampa, per
stuttsikare la gola ansimante delluttcello gridgionero.
& adesso mio pikkolo amiko, diko, & la mia votce e* kome
atcido su una lama tag£iente, pjombo fuso versato in una gola
spalankata, tci sono alkune domande ke* mi piatcerebbe porti.
PARTE SESTA
1
Dalla terrazza della torre dell'aeroscalo, Asura guardava ad
occidente.
La cinta era alta duemila metri, coperta di vegetazione e mu-
nita di torri di fiancheggiamento. Seguiva le ondulazioni lievi
del suolo, rimpicciolendo fino a scomparire nella bruma in lon-
tananza, e racchiudeva il vasto parco cosparso di colli boscosi,
di laghi scintillanti, di prati, di villaggi dominati da torri e cam-
panili. Più oltre, velato di azzurra foschia, il castello stesso s'in-
nalzava nel cielo a perdita d'occhio.
Asura rimase a bocca aperta.
Serehfa era come una turbolenza raggelata di edifici più che
monumentali: mura simili a strapiombi che s'innalzavano fra le
nubi, traforate da finestre buie e grandi come caverne, coronate
di boschi; tetti scoscesi verdi di foreste sotto il sole estivo caldo
e splendente; bastioni simili a promontori; merlature che si
snodavano pigramente come catene di monti angolose; archi e
contrafforti turbinosamente dipinti a colori sgargianti, che si
ammassavano gli uni sugli altri fino alle altezze prodigiose
dove il candore della neve e del ghiaccio diffondeva riflessi ab-
bacinanti.
Ovunque, dal castello immenso, s'innalzavano torri gigante-
sche come montagne, a trafiggere e a far sembrare più piccole
le poche nubi vaganti, che gettavano ombre oblique sulle mura,
a loro volta ombreggiate dalle torri: era un crescendo di forme
e di colori che occupava tutto l'orizzonte, culminando nella co-
lonna splendente della torre d'ormeggio, la quale attirava lo
sguardo verso il cielo come una luna ancorata.
- Be', eccolo in tutta la sua gloria - commentò Pieter Veltese-
ri, accennando col bastone da passeggio al castello, dopo esser-
si avvicinato alla balaustra.
Con gli occhi sgranati, Asura si girò a guardarlo: - È
grande...
Sorridendo, Pieter guardò il castello: - Davvero... È la co-
struzione più grande che sia mai stata realizzata sulla Terra: la
capitale del mondo, suppongo. E anche l'ultima città, in un cer-
to senso.
La ragazza si accigliò: - Non esistono altre città?
- Be', sì, sopravvivono quasi tutte. Ma chi provenisse dall'E-
poca delle Città, le considererebbe soltanto poco più che villag-
gi, dal punto di vista della popolazione.
In silenzio, Asura si volse di nuovo a guardare il castello.
- Non sai ancora perché devi andare là? - chiese gentilmente
Pieter.
Lentamente, Asura scosse la testa, con lo sguardo fìsso al ca-
stello.
- Be', oso dire che quando sarà necessario lo rammenterai. -
Pieter estrasse un orologio dal taschino del panciotto. Acciglia-
to, chiuse un occhio per un momento, quindi ripose l'orologio.
Con un sospiro, si volse a guardare il terrazzo, dove i tendoni e
gli ombrelloni sventolavano sui tavolini dei caffè. In alto, l'ae-
ronave ancorata era immobile nella brezza. Alcuni gruppetti di
castellani indugiavano a salutare i passeggeri sbarcati da poco,
ma quasi tutti erano in procinto d'imbarcarsi o stavano già
scambiandosi i saluti. - La cugina Ucubulaire riferisce che sta
arrivando. - Con un cenno della testa, Pieter accennò al parco. -
È laggiù, da qualche parte, a bordo di un lento intratreno.
- Intratreno... - ripetè Asura.
- Mia cara, credo che tu debba tenere questa... - Pieter si tol-
se di tasca una tessera su cui erano impresse alcune parole e al-
cune cifre, contenuta in un piccolo portafoglio, e la porse ad
Asura, che la scrutò. - Ti rende membro onorario del nostro
clan. Ucubulaire si occuperà di te, ma nel caso che tu senta la
necessità di lasciare Serehfa, questa tessera ti eviterà di dover
ricorrere agli alberghi e ai locali pubblici per il vitto e per l'al-
loggio. Non vogliamo che tu sia costretta a viaggiare clandesti-
namente sulle aeronavi e sui treni, vero?
La ragazza lo fissò, senza capire.
- Ah, be'... - Pieter le fece chiudere le mani intorno al porta-
foglio, percuotendole lievemente, amichevolmente, in segno
d'incoraggiamento. - Probabilmente non sarà necessario, ma se
qualcuno ti chiederà a quale clan appartieni, non dovrai fare al-
tro che mostrare questa.
- Fremilagisti e Incliometricisti - annuì Asura.
- Non è uno dei clan più attivi, senza dubbio, ma è antico e
onorevole. Ti siamo stati di qualche aiuto, spero.
- Mi avete accolta, ospitata e accompagnata qui - sorrise
Asura. - Grazie.
Con un cenno della testa, Pieter indicò una panchina di legno
alle loro spalle: - Perché non ci sediamo un po'?
Così, per qualche tempo, rimasero seduti in silenzio a con-
templare il castello.
Quando il corno dell'aeronave suonò, Asura trasalì. Pieter
guardò di nuovo l'orologio: - Be', devo andare. La cugina Ucu-
bulaire dovrebbe arrivare fra poco. Non ti dispiace rimanere
qui ad aspettare?
- No, va benissimo, grazie.
Mentre Asura si alzava, Pieter le prese una mano e la baciò.
Quando la ragazza ricambiò il saluto allo stesso modo, il
vecchio rise gentilmente: - Non so che cosa tu debba fare qui,
mia cara, o che cosa ti riservi il futuro, ma spero che tornerai a
farci visita, quando avrai scoperto di che cosa si tratta. - Poi
esitò. Un'ombra di preoccupazione gli passò rapidamente sul
viso, infine scosse la testa. - Sono certo che tutto si risolverà fe-
licemente. In ogni modo, torna a trovarci.
- Lo farò.
- Ne sono felice. Addio, Asura.
- Addio, Pieter Velteseri.
Il vecchio tornò all'aeronave. Poco dopo, apparve sul ponte
panoramico e salutò con la mano. Asura gli rispose allo stesso
modo, mostrando il portafoglio, prima d'infilarlo accuratamente
in una tasca. I motori si accesero con un ronzio. L'aeronave
s'innalzò, si girò controvento, e si avviò verso oriente, al di so-
pra delle colline di Stremadur.
Dopo avere osservato a lungo l'aeronave che rimpiccioliva
lentamente nel cielo, Asura si girò di nuovo ad ammirare insa-
ziabilmente il castello.
-Ehm... Asura?
La ragazza alzò lo sguardo.
Accanto alla panchina stava una donna pallida, di alta statu-
ra, la quale indossava abiti azzurri, dello stesso colore dei suoi
occhi.
- Sì, sono Asura. Tu sei Ucubulaire?
- Sì. - La donna offrì la mano. - Sì, sono io. - La sua stretta
era ruvida, perché indossava guanti di rete, sottili ma scabri. -
Sono lieta di conoscerti. - Accennò poi a un uomo alto e pos-
sente, con gli occhi infossati e le spalle ampie, che stava in di-
sparte, a breve distanza. - Questi è un mio amico, Lunce.
L'uomo salutò con un cenno della testa. Al sorriso di Asura,
rispose sorridendo brevemente.
- Vogliamo andare? - chiese la donna.
- Al castello, vero?
La donna fece un vago sorriso: - Sì, certo. Allora Asura si
alzò per seguire i due sconosciuti.
2
Il membro del Concistorio Quolier Oncaterius VI remava,
col respiro affannoso, assicurato al sedile scorrevole di una ca-
noa da ghiaccio triangolare monoposto con telaio al carbonio,
tanto leggera che un bambino avrebbe potuto sollevarla con
una mano. Con i suoi tre pattini dalle lame sottili come capelli,
scivolava sul ghiaccio con un sibilo cupo e nervoso, mentre i
ramponi dei remi mordevano la superficie liscia e scintillante.
Ben protetto dalla tuta, Oncaterius sentiva il vento freddo
soltanto sul viso. Tirava, scivolava, spingeva, tirava, scivolava,
spingeva, tirava, scivolava, spingeva, cuore, polmoni e muscoli
in sintonia col ritmo della remata.
Nel canottaggio su ghiaccio, tutto dipendeva dall'imprimere
ogni colpo di remo con la massima precisione di forza e di an-
golazione, equilibrando i movimenti verticali e orizzontali in
modo da ottenere la massima spinta col minimo sforzo. La pre-
sa dei ramponi sul ghiaccio non doveva essere né troppo pro-
fonda né troppo superficiale. Quando i remi si staccavano dal
ghiaccio, anche i pattini erano sempre sul punto di perdere la
presa. Per raggiungere e mantenere questo doppio equilibrio
occorrevano grande allenamento e concentrazione estrema.
Sotto molti aspetti, la vita politica, la vita di un uomo di go-
verno, esigeva proprio una simile armonia tra forze contrappo-
ste. Anche per questo Oncaterius era fiero della propria abilità
nel canottaggio su ghiaccio.
Il ronzio dei pattini e dei propulsori degli ultraleggeri, che
tracciavano archi pigri nell'aria sottile, echeggiava nel Glacia-
sterio del quinto livello. Sulla superficie ghiacciata del lago,
ampia alcuni chilometri, pochi sportivi si dedicavano al patti-
naggio e al windsurf su ghiaccio. Non mancavano alcuni panfi-
li da ghiaccio.
Inconsapevole di tutto ciò che lo circondava, tranne che della
linea mediana della pista impressa in nero nel ghiaccio, Onca-
terius continuò a remare, finché, preceduto da un avviso menta-
le, un pannello visualizzatore gli si sovrappose alla vista, infor-
mandolo sul tempo che aveva impiegato a percorrere un chilo-
metro.
Ritirati i remi, si addossò allo schienale, ansimando, mentre
la canoa continuava a scivolare rapida sul ghiaccio. Alzò lo
sguardo sugli ultraleggeri che volteggiavano intorno alla gigan-
tesca stalattite scolpita che pendeva dal centro della volta.
Fra non molto, pensò, forse fra non più di un secolo, tutto
ciò sarà scomparso: il Glaciasterio, Serehfa, la Terra stessa.
Perfino il sole sarà cambiato per sempre.
Questa consapevolezza destava in lui una sorta di mestizia
deliziosa: un'estasi malinconica che gli rendeva più dolce il go-
dimento della vita. Fare tesoro di ogni istante, assaporare ogni
esperienza, trascegliere dalla moltitudine ogni singola sensa-
zione, con la consapevolezza radicata che gli eventi si stavano
affrettando verso la conclusione estrema, e che non esisteva più
un'apparente infinità di tempo estesa nel futuro... Tutto questo
era vivere veramente.
Nel corso dei millenni che si erano succeduti con monotonia
dopo la Diaspora, l'umanità non aveva conosciuto altro che una
sorta di morte elegante e una squisita simulazione della vita,
paragonabile a un automa che imitasse una persona: l'apparen-
za senza la sostanza. Ebbene, tutto ciò era in procinto di finire
per sempre. Il tragitto dell'umanità, della vera umanità, che
aveva scelto di rimanere fedele al passato e al suo significato,
stava finalmente per perdersi nell'oscurità, dopo essersi snodato
per lunghe epoche tormentate nella fastidiosa luce del giorno.
Fruizione... Consumazione... Eliminazione... Conclusione.
Con uguale piacere, Oncaterius degustò i significati, le asso-
ciazioni e le riflessioni che tali parole suscitavano, e respirò l'a-
ria fredda e pungente del Glaciasterio, sterile eppure vivifican-
te, specie per chi sapeva di non essere necessariamente condan-
nato a condividere il destino dei propri simili e del proprio
mondo.
Intanto, la canoa continuò a scivolare sul ghiaccio coperto da
una patina d'acqua, rallentando sempre più.
Con la nuca sostenuta dal poggiatesta sottile del sedile, On-
caterius entrò per un momento nella cripta.
La Sicurezza stava ancora cercando Sessine, che dopo tanto
tempo era ancora in libertà, probabilmente nascosto.
La notizia ufficiosa, lasciata trapelare dalla Sicurezza, che
qualsiasi asura avrebbe dovuto essere considerato come un
agente dei livelli caotici della cripta incaricato d'infettare la
criptosfera, stava suscitando reazioni contrastanti. Tuttavia,
sembrava che vi credesse un tale numero di persone e di entità,
da suscitare in almeno alcune regioni del data corpus un suffi-
ciente livello di paranoia.
Il re stesso aveva riferito della perdita di un soldato al cantie-
re: restava da verificare sino a che punto ciò avesse messo a re-
pentaglio l'impresa. Per il momento, la delegazione diplomatica
del Santuario non aveva reagito, anche se si poteva presumere
che fosse stata informata mediante il canale di sicurezza di cui
disponeva nel Palazzo.
Rimaneva la preoccupazione dovuta ad alcune configurazio-
ni insolite che si erano formate negli strati inferiori della cripta:
sembrava che certi uccelli chimerici avessero sviluppato com-
portamenti che ne travalicavano la condizione, e che fossero
dunque sospettati di essere agenti del caos. Non appena fosse
stato possibile, sarebbero stati rastrellati. A tutto ciò era forse
connesso il comportamento di un giovane narratore, che stava
provocando noie a non finire e sembrava pensare in un modo
insolito, che lo rendeva sospetto. Anche costui, come Sessine,
era fuggito e si era nascosto.
Nell'apprendere questa notizia, Oncaterius maledisse i mil-
lenni di pace e di prosperità che avevano reso la Sicurezza tan-
to maldestra nell'affrontare i problemi davvero gravi. Comun-
que, la sorveglianza continuava: prima o poi il ragazzo sarebbe
stato scovato.
Infine, Oncaterius seppe che gli altri membri del Concistoro
avevano finalmente raggiunto un accordo sulla necessità di agi-
re per sventare la cospirazione di cui si conosceva l'esistenza da
almeno cinque anni.
A tale proposito si stava già... provvedendo in maniera sod-
disfacente.
Il ricercatore capo Gadfium e i suoi collaboratori lasciarono
l'ufficio dell'alto divinatore senza avere risolto il problema del-
le interferenze provenienti dalla cripta. Il giorno successivo,
tornati all'Aula Grande, salirono a Palazzo Lanterna, affinché
Gadfium potesse partecipare alla riunione settimanale di ag-
giornamento. Lo scopo di tali riunioni avrebbe dovuto essere
quello di fornire gli strumenti per facilitare provvedimenti utili
ad affrontare l'emergenza, ma Gadfium le trovava esasperanti,
perché in realtà si risolvevano in chiacchiere interminabili, il
cui unico effetto era quello di lusingare la superbia dei parteci-
panti: la discussione si sostituiva all'azione, anziché condurre
ad essa.
Nondimeno, con la sensazione ormai abituale di sprecare fia-
to in questioni che avrebbero potuto essere affrontate più facil-
mente, e molto più rapidamente, mediante il data corpus, Gad-
fium riassunse le opinioni che si era formata sulle questioni di
cui si era occupata nei sette giorni precedenti, inclusi la costru-
zione della fabbrica d'ossigeno, la strana configurazione forma-
tasi nella Pianura dei Massi Sdrucciolanti, e le preoccupanti in-
terferenze che si manifestavano nella criptosfera, rendendo
inaffidabili le previsioni del divinatore.
Alla riunione, che si teneva in quella che era una riproduzio-
ne notevolmente accurata della Sala degli Specchi dell'antica
Versailles, partecipavano di persona tutti gli invitati, inclusi il
re e Pol Cserse, per i Crittografi. Mancava soltanto Heln Au-
stermise, secondo membro del Concistorio, la quale si trovava
a Ogooué-Maritime per assistere al collaudo di alcuni razzi, e
dunque era rappresentata dal suo addetto di corte, tramite cui
parlava: un uomo smilzo, di mezz'età, in aderente uniforme
cortigiana. Gadfium pensò che Rasfline, il quale sedeva in quel
momento dietro di lei assieme a Goscil, sarebbe stato molto so-
migliante all'addetto della Austermise, quando avesse avuto la
stessa età.
- Nondimeno, ricercatore capo, i collaudi relativi alla portan-
za diretta e ai veicoli a profilo aerodinamico stanno procedendo
come previsto - dichiarò l'addetto. Si capiva che non stava
esprimendo i propri pensieri soltanto perché sedeva in un'im-
mobilità assoluta, senza gesticolare, senza cambiare posizione,
come invece fanno normalmente le persone.
Comunque, Gadfium aveva cessato da molto tempo di trova-
re strana la conversazione con qualcuno che era assente, trami-
te qualcuno che a sua volta, in un certo senso, non era presente:
- Non ne dubito, signora. Ma non sono la sola ad essere piutto-
sto preoccupata del fatto che molti dati non vengono forniti.
L'importanza del progetto...
- Sono certa - interruppe Heln Austermise, tramite l'addetto -
che il ricercatore capo comprende l'importanza della distanza
profilattica dal caos della criptosfera che abbiamo avuto la for-
tuna di conseguire.
Prima di rispondere, Gadfium tacque per un poco, osservan-
do gli altri partecipanti alla riunione.
Intorno al lungo tavolo sedevano, oltre al re, a Pol Cserse, e
all'addetto della Austermise, i rappresentanti di alcuni clan in-
fluenti, nonché alcuni funzionari, tecnici e scienziati civili.
Adijine, sobriamente vestito con una giacca nera, una camicia
bianca e calzebrache nere, si annoiava con la grazia e l'elegan-
za che lo contraddistinguevano.
Probabilmente è nella cripta e sta assistendo a qualcosa di
più interessante, pensò Gadfium, prima di replicare, con un so-
spiro: - In verità, signora, non sono affatto certa di comprende-
re. - Stava cominciando a perdere la pazienza. - Inviarci dati
non può certo minacciare...
- Al contrario - interruppe di nuovo l'addetto. - Se il ricerca-
tore capo consulterà il concistoriale Cserse, rammenterà forse
che, stando ad alcune recenti ricerche criptografiche, la tra-
smissione dei virus caotici può avvenire mediante allacciamen-
ti d'interfaccia e programmi di verifica degli errori. Persino la
connessione tramite la quale le sto parlando adesso non può es-
sere considerata assolutamente impermeabile alla contamina-
zione.
- Pensavo che esistessero programmi relativamente semplici
e del tutto matematicamente dimostrabili, in grado di...
- Credo che la signora ricercatore capo...
- La prego gentilmente di permettermi di concludere una fra-
se, signora! - gridò Gadfium, attirando l'attenzione di Adijine e
mettendo evidentemente a disagio gli altri, mentre l'addetto re-
stava invece immobile e impassibile. - Credevo che questo pro-
blema fosse stato risolto - aggiunse, con voce gelida.
Allora Adijine raddrizzò un poco la schiena, e ciò bastò ad
attirare lo sguardo di ognuno: - Forse la signora ricercatore
capo vorrebbe spiegare dettagliatamente il motivo della sua
preoccupazione a proposito della mancata trasmissione dati -
disse a Gadfium, sorridendo.
Suo malgrado, Gadfium arrossì, come le accadeva spesso
quando veniva interpellata dal re: - Sono certa, maestà, che il
personale di Ogooué-Maritime opera con una dedizione e con
uno scrupolo esemplari. Tuttavia ho l'impressione che una veri-
fica autonoma dei risultati delle sue ricerche potrebbe garantire
che il progetto, il quale è potenzialmente d'importanza vitale,
ciò su cui sono certa che concordiamo - così dicendo guardò at-
torno, suscitando alcuni cenni di assenso - è impeccabile dal
punto di vista della metodologia, e dunque dell'affidabilità dei
risultati.
Curvo innanzi, tormentandosi il labbro inferiore con due
dita, Adijine sembrava ascoltare con la massima attenzione.
- Suggerisco inoltre - proseguì Gadfium - che nonostante tut-
te le precauzioni prese, è possibile che comunque sia soltanto
questione di tempo prima che i data corpus di Ogooué-Mariti-
me vengano contaminati dai nanovirus caotici.
- Credo - intervenne l'addetto - che se il ricercatore capo vor-
rà chiedere al concistoriale Cserse...
- Grazie, signora concistoriale - interruppe Adijine, con un
gran sorriso, annuendo come in segno d'incoraggiamento. - Ma
credo che Gadfium abbia ragione. - Lievemente accigliato,
guardò Cserse. - Forse, se istituissimo una sottocommissione
per indagare sulla sicurezza della trasmissione dati e sulla pro-
tezione dai virus...
Saggiamente, Cserse annuì, prima di girarsi a sussurrare
qualcosa a una sua assistente, che annuì a sua volta, si addossò
allo schienale, e chiuse gli occhi.
Intanto, Adijine sorrise a Gadfium, la quale scoprì i denti,
nel tentativo di assumere un'espressione di gratino tudine, ma
reprimendo il desiderio spasmodico di urlare.
Sento un kruntc.
Mi dgiro puntando il raddgio della tortcia dgiu* per la galle-
ria; la breddza kalda ke* sale dal pottso nero & profondo mi fa
sventolare la dgiakka. Il raddgio della tortcia semplitcemente
skompare nelloskurita*, kome ingjottito.
Si sente un altro kruntc, poi tce* un rumore di kwalkosa ke*
avantsa strillando verso di me*.
Non 'o il tempo di abbassarmi & non vedo ke* kosa mi kol-
pi∫e, ma mi prende in pjeno petto & mi katapulta allindjetro,
fattcio Uuf! & mi manka il fjato. Sento ke* sto kadendo oltre
Iorio del pottso & mi aggrappo kon una mano mentre ∫ivolo kol
sedere sul bordo rottcioso. Manko la presa.
Pretcipito nella gola tenebrosa del pottso.
Kon un ruddgito sempre piu* forte, larja mi strappa il respi-
ratore dalla fattcia.
Poki sekondi dopo riprendo fjato & komintcio a strillare.
PARTE OTTAVA
1
Era un codice chiuso in una vasta biblioteca buia, con una
valle come pavimento, strapiombi come pareti, pianori come
alcove: un libro antico, grande e pesante, profumato, gravido di
conoscenze, con le pagine miniate e la copertina di cuoio gof-
frato, rinforzata in metallo, e un fermaglio di cui soltanto Asura
possedeva la chiave.
Era una vergine la notte di nozze, aveva mangiato e bevuto,
era stata vezzeggiata, aveva ricevuto gli auguri dei famigliari e
degli amici che ancora festeggiavano nelle sale sottostanti da
cui giungeva un vocio lontano: era ebbra, e doveva togliersi l'a-
bito nuziale per sostituirlo con la camicia da notte e scivolare
sotto le coltri del letto ampio, riscaldato dal bel marito che l'at-
tendeva.
Era l'unica capace di parlare in una tribù di muti, camminava
alta e silente fra gli altri, che la toccavano deferenti con le mani
esitanti, e la imploravano con gli occhi mesti e con i gesti
fluenti, affinché parlasse per loro, cantasse per loro, fosse la
loro voce.
Era la capitana di una nave affondata dai nemici, l'unica a
bordo della scialuppa di salvataggio a non avere ancora perduto
conoscenza, mentre i marinai agonizzanti sul pagliolato geme-
vano con le labbra incrostate di sale o deliravano fra gli spasmi.
Avvistò una nave, ma, per orgoglio, esitò a fare segnali, perché
si trattava di una nave nemica.
Era una madre che condannava alla morte il figlio sofferente
perché apparteneva a una fede che rifiutava i farmaci: i dottori,
le infermiere e gli amici la imploravano di salvarlo con una pa-
rola o con un gesto, mentre un medico attendeva con una sirin-
ga in mano.
Era una dissidente che aveva le prove che i suoi compagni le
avevano mentito, l'avevano tradita e abbandonata. La sua col-
pevolezza era al di là di ogni dubbio: doveva soltanto ammet-
terla. Non era necessario che denunciasse nessun altro: doveva
soltanto riconoscere la propria responsabilità. Lo doveva alla
società, perché era stata folle. Con rammarico, le furono mo-
strati gli strumenti di tortura.
/ Permise che il libro fosse aperto, perché era interamente
tradotto in una lingua che soltanto lei conosceva. Sorrise fra sé
e sé, quando esso fu rabbiosamente richiuso.
/ Fece bere altro vino al marito, spogliandolo lentamente, e
quando fu costretto a recarsi in bagno per orinare, lo chiuse
dentro, indossò i suoi indumenti, calò dalla finestra una fune ri-
cavata dalle lenzuola, versò vino sul letto a simulare un trofeo
da fiero defloratore, e fuggì nella notte.
/ Cantò alla tribù con la danza e con i gesti, più belli dei di-
scorsi e dei canti, e così pose fine alle loro suppliche silenti.
/ Fece segnali alla nave. Quando la vide cambiare rotta, bloc-
cò la barra affinché la scialuppa le navigasse incontro, poi si la-
sciò scivolare in acqua e si allontanò a nuoto, mentre i suoi
compagni venivano tratti in salvo.
/ In silenzio, prese la siringa, l'avvicinò al braccio del figlio,
guardò i suoi occhi vacui, poi, rapidamente, gli schizzò il flui-
do sulla pelle, aspirò aria con la siringa e si girò a conficcarla
nel petto del medico in preda all'orrore.
/ Presso il tavolo di tortura imbrattato di sangue, scoppiò a
piangere, accosciandosi, singhiozzando con il viso nelle mani,
ma quando il carnefice si curvò pietosamente come per conso-
larla, ella sollevò il viso rigato di lacrime e lo azzannò, sgoz-
zandolo.
Sono tornata.
Grazie al cielo! Dove sei stata?
Mentre ficcanasavo dove non avrei dovuto, ho rischiato di
essere catturata dalla Sicurezza. Ho dovuto rimanere isolata
per un po'.
Santi numi! Sai dove...?
Stai viaggiando per vaste gallerie buie e gocciolanti, in
groppa a un mammut chimerico, insieme a un umanoide nudo
e deforme, nonché a un gipeto che parla come un antico predi-
catore, in un modo che ti ricorda lo stile del messaggio inviato
dalla torre d'ormeggio.
Esatto. E non riesco a capire niente di quello che sta succe-
dendo. Nessuno è in grado di rispondermi in maniera sensata.
L'uccello sputa ciance pseudoreligiose, mentre l'umanoide non
fa altro che sogghignare come un babbeo, urlare, sibilare e
sbavare. Ero proprio sul punto di chiedere al mammut che
cosa sta succedendo.
Almeno li hai seguiti...
Avevo scelta, forse?
Immagino che tu abbia dimenticato l'arma.
Oh...
Non importa. Hai agito per il meglio: non preoccuparti. In-
dovina, piuttosto, con chi ho comunicato...
Sbalordiscimi.
Con la torre d'ormeggio.
Cosa?!
Be', con un rappresentante della torre d'ormeggio, anche se
non osa rientrare in contatto con essa per timore di una conta-
minazione caotica.
Ma come? Dove? Cosa...?
Il rappresentante è semplicemente apparso nella cripta: un
Bianco, vecchio e canuto, con una veste bianca e fluente. Si è
replicato illegalmente e ha provocato guasti di sistema ovun-
que. Tutti hanno pensato che si trattasse di un attacco in forze
da parte del caos, fino a quando hanno scoperto quanto fosse
facile intrappolarlo e annientarlo. Non credo che la torre sap-
pia trattare efficacemente con gli umani. Comunque, tutte le
copie hanno cominciato a cercare di parlare con chiunque fos-
se disposto ad ascoltare. I criptografi le hanno rastrellate qua-
si tutte, e adesso stanno braccando le altre. Tuttavia, sono riu-
scita a trovarne una e ad interrogarla.
Ebbene?
Esiste un 'asura, e si trova qui, a Serehfa. Ha già iniziato la
sua missione, ma attualmente si trova imprigionata. La torre
stessa sembra molto confusa a proposito di chi e di che cosa
sia l'asura, ma crede che si trovi qui da qualche parte e che
abbia bisogno d'aiuto.
Sei sicura che non si tratti di un trucco della Sicurezza o dei
Criptografi?
Assolutamente. Ma non è tutto...
Cos'altro c'è?
Abbiamo un alleato.
Chi?
Io, signora, intervenne una voce maschile. Salve.
Oh... Gadfium trasalì. Salve. D'improvviso, si sentì confusa,
inquieta Chi è lei?
Mi chiami Alan. Sono lieto di conoscerla, signora ricercato-
re capo, anche se, per la verità, ci siamo già incontrati, in un
certo senso. Comunque, oso dire che comunicheremo ancora.
Ah, sì, certo, rispose Gadfium, ancora sconcertata.
Era il nostro alleato, spiegò il costrutto di Gadfium.
L'avevo immaginato. Ma chi...?
E un altro planetes, Gadfium. E un altro viandante del siste-
ma, benché vi si trovi da molto più tempo di me. E alquanto re-
stio a rivelare la propria vera identità, però ho l'impressione
che il suo originale umano fosse molto potente e molto influen-
te. Lui stesso è estremamente bene informato e conosce la crip-
ta meglio dei Criptografi. A quanto pare, è giunto alla stessa
conclusione della torre a proposito dell'efficacia del servirsi di
agenti chimerici anziché umani per eludere la Sicurezza.
Non vorrei sembrare troppo sospettosa, ma...
No, non credo che sia un 'esca lanciata dalla Sicurezza. Mi
ha incontrata mentre spiavo nei dintorni del luogo in cui ten-
gono prigioniera l'asura: se non fosse stato per lui, la Sicurez-
za mi avrebbe catturata.
Questo è ciò che credi...
E ciò che so. Senti... E stato Alan a condurmi dalle chimere
con cui ti trovi.
In silenzio, Gadflum osservò il subumano che le stava di
fronte. Era tanto lurido che probabilmente, se la luce fosse stata
sufficiente, la sua chioma sarebbe apparsa brulicante di parassi-
ti. L'uccello gigantesco non era più appollaiato sulle sue spalle:
schiamazzante, si era allontanato in volo nella galleria buia,
precedendo il mammut, il quale avanzava con andatura dondo-
lante e sorprendentemente rapida, alla testa di un branco com-
posto da una ventina di suoi simili. Gli altri umanoidi a cavallo
dei giganteschi animali facevano grandi sorrisi e agitavano i
pugni con entusiasmo ogni volta che Gadfium si girava a guar-
darli.
Grattandosi, Gadfium cercò di non pensare a quale profondi-
tà si trovava nel sottosuolo: Be', credo che dovresti ringraziar-
lo, per questo. Ma dove stiamo andando, esattamente, e a fare
cosa?
Voi siete la cavalleria, Gadfium, e tutti insieme stiamo cor-
rendo al soccorso! rispose il costrutto, con entusiasmo.
Credevo di essere io ad aver bisogno di soccorso...
Invece sei diventata la salvatrice, Gad. Stiamo andando a li-
berare l'asura.
Stiamo facendo... cosa?!
Siete diretti a Oubliette, il porto marino sotterraneo del ca-
stello. È là che l'asura è prigioniera della Sicurezza. Alan e io
ci occuperemo di quasi tutto, ma per liberare fisicamente la
ragazza avremo bisogno di te, nonché delle chimere, natural-
mente. I mammut e gli umanoidi sembrano essere sotto l'in-
fluenza del nostro amico gipeto, che potrebbe essere in contat-
to con la torre d'ormeggio. In ogni modo, sto ancora cercando
di capire.
Per un poco, Gadfium non seppe che cosa rispondere. Si li-
mitò a scrutare l'oscurità dinanzi a sé, dove riusciva a scorgere
soltanto il gipeto che stava tornando. Compendiò la propria si-
tuazione con un'immagine: in compagnia di un uccello predica-
tore, di venti umanoidi cretini e di altrettanti mammut grandi
come case, stava correndo verso la buia città sotterranea di Ou-
bliette, sempre più vicina, per affrontare gli agenti speciali del-
la Sicurezza, e probabilmente anche i Criptografi.
Battendo le ali, l'uccello dal collo scaglioso si appollaiò sulle
ampie spalle villose dell'umanoide: - Abbi fede nel nulla - esor-
tò, in un pacato stridio. - La fede è l'occhio che vede il nulla e
ne gioisce. L'assenza di conoscenza assolve il futuro sentiero
del pericolo. L'occhio vede, vede il nulla, e così ha fede. Ciò è
bene. Tutti siamo consacrati. Pace.
Scuotendo la testa, Gadfium abbassò lo sguardo alla pelliccia
aggrovigliata del mammut, sentendosi avvolgere dal suo odore
denso e umido come dal dubbio: Siamo impazzite entrambe,
chiese al costrutto, o soltanto tu?
3
L'angelo era alto, luminoso e sensualmente asessuato, con la
chioma e gli occhi dorati, la pelle luccicante come bronzo li-
quido. Indossava soltanto un panciotto e un paio di calzoncini.
Le ali erano variopinte: dal bronzo delle scapolari, passando
per tutte le sfumature dell'azzurro, giungevano al bianco dei
sommoli.
Volando con eleganza, senza sforzo, l'angelo atterrò lieve-
mente dinanzi a Sessine, il quale, per non sembrare scortese,
aveva smesso di ridere. Lentamente e profondamente, s'inchi-
nò.
Quando parlò, la sua voce fu più che musicale: ogni fonema,
ogni sillaba, ogni parola, possedevano una limpidezza assoluta,
e al tempo stesso una sinfonia di toni che si dilatava e si propa-
gava all'istante da ogni singolo suono, come una valanga che
rotolasse giù per un versante primevo.
- Benvenuto. Hai compiuto un lungo viaggio prima di arriva-
re alfine qui da noi.
- Grazie - annuì Sessine. - Se ci fossimo incontrati in qualun-
que altra circostanza, nel corso del mio viaggio, avrei potuto
presentarmi vestito un po' più decentemente a contraccambiare
il tuo saluto.
L'angelo sorrise, senza curarsi della nudità di Sessine: - Pre-
go... - Con un gesto elegante e rapido da illusionista, fece com-
parire all'improvviso un ampio mantello nero, che subito porse
al conte.
- Grazie - rispose Sessine, senza prenderlo. - Ma se serve
soltanto a risparmiarmi di arrossire, preferiscono rimanere
come sono.
- Come desideri.
Il mantello scomparve.
- Dimmi... Ho frainteso qualcosa, oppure sono stato convo-
cato qui?
- Sei stato convocato. Vorremmo chiederti qualcosa.
- "Vorremmo"? E chi?
- Coloro i quali appartengono a una regione del data corpus,
che un tempo ne era parte integrante e che ha l'incarico di so-
vrintendere al funzionamento delle altre regioni, nonché di sor-
vegliare il benessere del nostro mondo.
- Non è certo un compito facile... E che cosa vi proponete di
fare, attualmente?
- Cercheremo di contattare un sistema installato molto tempo
fa, che forse può contribuire a salvarci da quella che è stata
chiamata l'Invasione.
- E come potrebbe riuscirci, esattamente?
L'angelo fece un sorriso abbacinante: - Non ne abbiamo idea.
A sua volta, Sessine non potè fare a meno di sorridere: - E
quale potrebbe essere il mio ruolo in tutto questo?
Sempre scrutandolo, l'angelo chinò la testa: - Potresti farci
dono della tua anima, Alandre.
Allora Sessine fu invaso dallo sgomento: - Cosa? - domandò,
incrociando le braccia. - Non è un po' troppo metafisico, tutto
ciò?
- È il modo più significativo per esprimere quello che ti chie-
diamo.
In un tono che sperava risultasse scettico, Sessine disse: -La
mia anima...
Lentamente, l'angelo annuì: - Sì, l'essenza di ciò che sei. Do-
vrai cederla a noi, se intendi aiutarci.
- Se ne potrebbe effettuare una copia...
- Certo. Ma lo desideri?
Per un poco, Sessine scrutò l'angelo negli occhi, prima di so-
spirare: - Continuerò ad essere me stesso? L'angelo scosse la
testa: - No.
- Allora chi diventerò?
- Da te, e con te, creeremo una nuova entità. - L'angelo si
strinse nelle spalle, con un ondeggiare bello e magnifico delle
ali. - Sarà una persona diversa, che conterrà alcuni aspetti di te,
anzi, più aspetti di te che di chiunque altro, e che tuttavia non
sarai tu.
- Ma rimarrà qualcosa di me a ricordare questo, e il tempo
che ho trascorso qui, e quello che sono stato, e dunque ciò che
mi accadrà a partire da questo momento, nonché se... ho com-
piuto qualcosa di buono?
- Forse.
- Non puoi essere un po' più preciso?
- Non posso. Ciò dipenderà in parte da te, ma mentirei, se ti
dicessi che vi sono molte probabilità.
- E se rifiutassi di aiutarvi?
- In tal caso potresti andartene. Ti forniremmo oggetti per
rimpiazzare quelli che hai perduto nel mare, e potresti riprende-
re le tue peregrinazioni. Al tuo funerale, fra una cinquantina
d'anni nel criptotempo, riceveresti tutte le cortesie che ti sono
state solitamente accordate, e così prenderesti il tuo posto nella
criptosfera. Trascorreranno ventimila anni, nel criptotempo,
prima che l'Invasione si compia, e passerà ancora più tempo
prima che nel mondo reale la situazione divenga disperata.
Benché si vergognasse delle proprie parole, Sessine sentì di
dover insistere: - Ma esiste una possibilità che permanga una
sorta di continuità, che una parte di me sopravviva a ricordare
tutto ciò, ad avere consapevolezza della connessione, a sapere
che cosa ho fatto?
- Sì - rispose l'angelo, con quello che fu quasi un inchino. -
Una possibilità.
- Mmm... Be', è stata una lunga vita... - Sessine si lasciò
sfuggire una breve risata: - Vite, anzi. - E sorrise all'angelo. Ma
gli sembrò che fosse triste, e stranamente si sentì triste per lui. -
Che cosa devo fare?
- Vieni con me. - D'improvviso, l'angelo si trasformò in un
ometto dalla chioma nera e dalla pelle bianca, elegantemente
vestito con cappello, giacca, camicia, panciotto, guanti, calzoni
e un bastone. Con la mano in cui teneva i bianchi guanti imma-
colati, accennò elegantemente al viottolo che attraversava il
giardino.
Camminandogli accanto, Sessine percorse il viottolo fino a
una rotonda in cima a un colle. Ruotando lentamente, la roton-
da s'innalzò a rivelare un basamento che aveva la forma di una
gigantesca vite cilindrica, e quindi una porta. Allorché la porta
fu interamente emersa, la rotazione cessò.
Sempre percorrendo il viottolo, l'ometto e Sessine si recaro-
no alla porta della rotonda, che, dapprima buia, s'illuminò di
una calda luce giallo-arancione, simile a una bruma investita
obliquamente dal raggio di un faro.
- Per fare tutto quello che ti chiediamo, devi soltanto entrare.
Se porterai qualcosa del tuo essere attraverso il processo che
qui ti attende, forse riuscirai a fare quello che chiedi a te stesso.
La bruma che si vedeva attraverso la porta aperta scintillava
come la luce del sole. Sessine avanzò di un passo e fiutò l'aria
salmastra del mare. Esitante, si volse all'ometto che era stato un
angelo: - E tu?
Con un sorriso ironico, l'ometto si girò a guardare oltre gli
alberi la torre silente, che si stagliava fieramente, alta e grigia,
sullo sfondo del cielo al crepuscolo: - Non posso tornare indie-
tro - disse, in tono di rassegnazione. - Probabilmente rimarrò
qui, ad occuparmi del giardino. - E si guardò attorno. - Sono
sempre stato convinto che ostenta un'eleganza troppo perfetta.
Avrebbe bisogno d'un po' di... amore. - Si volse di nuovo a Ses-
sine, sorridendo consapevolmente. - O forse potrei vagabonda-
re per questo livello, come hai fatto tu. Forse farò entrambe le
cose, l'una dopo l'altra.
Posando una mano sopra una spalla dell'ometto, Sessine ac-
cennò con la testa alla bella torre: - Mi dispiace che tu non pos-
sa tornare indietro...
- Grazie per l'interessamento, e per aver detto questo. - L'o-
metto si accigliò, parve esitare. - Forse, il mio "forse" di
poc'anzi è stato troppo pessimistico...
- Lo vedremo. Addio.
- Addio.
Dopo avere scambiato una stretta di mano con l'ometto, Ses-
sine si girò e varcò la soglia, addentrandosi nella bruma lumi-
nosa.
4
Uuiii! Adesso sono probabilmente pju* in alto di kiunkwe
altro nel vekkjo vasto mondo, a parte la dgente nella torre dor-
meddgio ammesso ke* tci sia kwalkuno lassu* naturalmente.
Laerostato e* unombra enorme sopra di me*. Tci sono appe-
so medjante una sorta dimbragatura attakkata a una rete ke* av-
voldge la grande sfera. I dgipeti mi 'anno legato sul petto tre
bombole dossidgeno & sulla skjena un pakketto leddgero. Inol-
tre, adesso indosso un altro respiratore.
& 'o anke una borrattcia dakkwa.
& indumenti kaldi.
& una tortcia,
& un koltello.
& unemikranja, anke se* kwesto e* probabilmente lultimo
dei mjei problemi, ma non importa.
& 'o persino un parakadute, anke se* forse dovro* liberarme-
ne kwando saro* un po pju* in alto.
G£i uttcelli in fondo al pottso sembravano avere una tcerta
fretta. Mistruirono soltanto per tcirka djetci minuti su* kome
kontrollare il pallone mentre mi ekwipaddgiavo kon g£indu-
menti dalta kwota & kosi* via, ma alla fin fine si tratta di uzare
un pajo di funi per orjentare i deflettori ipersostentatori ke*
fungono da aerofreni per mantenere lassetto, & inoltre (per
kontrollare la velotcita* da∫esa) aspettare ke* il pallone rallenti
& tag£iare pettsi dei tubi di plastika assikurati allimbragatura.
I dgipeti tirarono fwori laerostato da una grande rimessa nel-
la kaverna alla baze del pottso, fatcendolo skorrere medjante
gwide fissate al soffitto. Laerostato non e* altro ke* una grande
sfera pjena di vwoto; e* semplitce. E* gridgiastro & sekondo
gli uttcelli e* fatto di roba simile alla materja del kastello, pert-
cio* devessere molto robusto. La rete e limbragatura erano
dgia* applikati al pallone.
& se* skoppja? kjesi, skertsando in realta*, ma il kapo dei
dgipeti mi gwardo* kon un tcerto imbarattso & disse kwalkosa
a propozito di altri modelli kon palloni pju* pikkoli ke* non si
erano rivelati adatti al kompito & ke* se* fosse skoppjato tcio*
sarebbe avvenuto probabilmente a bassa kwota & per kwesta
evenjentsa mi avrebbero dato un parakadute.
Komunkwe, non preokkupatevi dissi, in un tcerto senso ram-
marikandomi di averlo kjesto.
Mimpartirono le istruttsjoni di volo, mi djedero lekwipadd-
giamento, mi ajutarono a indossarlo, spinsero il pallone, kon
me* attakkato sotto, fin kwazi alla fine delle gwide al fondo del
pottso. Attakkarono i tubi di plastika allimbragatura davanti a
me* & kosi* tutto fu* pronto.
Bwona fortuna, padron Baskule, disse il kapo dei dgipeti. Ti
augurjamo bwona fortuna.
Ankio me lauguro, dissi, kosa ke* forse non era molto ele-
gante, ma almeno era vera. O, & grattsje per tutto il vostro aju-
to, dissi.
Di nulla, disse il kapo dei dgipeti. Mi sembro* un po teso,
poi disse, Konvjene adgire; la fattcenda sembra voldgere al ter-
mine. Rimaze in silentsjo per un momento, poi parve annuire
fra se & se. Ti konsig£ierei di non uzare la kripta per il mo-
mento, mi disse.
Tcerto, dissi, & kon un dgesto fetci kapire ke* ero pronto.
I dgipeti tirarono alkune leve & le gwide sopra di me* si
aprirono; il pallone sinnaltso* kon un wu∫, sollevando me* & i
tubi di plastika. Fu* kome kadere verso lalto. Mi sembro* ke*
lo stomako mi venisse risukkjato in fondo ag£i stivali.
I dgipeti kjusero le porte della kaverna presso il fondo del
pottso oppure spensero le lutci, perke* tutto divento* bujo
laddgiu* & io rimazi soltanto kon il gridgiore kupo delle pareti
del pottso. Lo spostamento darja mi fatceva sventolare g£indu-
menti.
Anke* se* il pallone sembrava salire perfettamente dritto, ti-
raj le funi di kontrollo tanto per assikurarmi ke* i deflettori
funtsjonassero.
Anke* kon tutti kwei tubi & tutto il resto la∫esa fu* molto
velotce & dovetti kontinuare a zbadig£iare per sturarmi le
orekkje. Alkuni dgipeti si erano altsati in volo allinterno del
pottso & kosi* salutaj kon la mano le loro ombre nel passare. Il
grande tcerkjo del fondo del pottso sembro* rimpittciolire
kome un otturatore ke* si kjude mentre io & il pallone konti-
nuavamo a salire rapidamente; in breve gli uttcelli ke* volava-
no allinterno del pottso divennero troppo pikkoli per essere vi-
zibili, & il fondo del pottso fu* soltanto un tcerkjo nero ke*
rimpittcioliva lentamente.
Non so* kwanti minuti okkorsero per arrivare a dove mi fu*
netcessarjo lossidgeno, ma nel frattempo era diventato maledet-
tamente freddo, ve lassikuro. Fuj kontento dellattrettsatura ke*
mi avevano dato i dgipeti. Ormai la testa komintciava a doler-
mi un po.
Aprii la prima bombola dossidgeno & respiraj. Il pallone
aveva rallentato molto & non volevo uzare pju* ossidgeno del
netcessarjo, pertcio* tag£iaj via un pettso di tubo: era spesso
kome kwelli ke* si uzano per le condutture di skariko o roba
del dgenere & kadde kome un grosso verme ridgido; il pallone
riprese velotcita* & larja sottile sibilo* al mio passaddgio.
Le pareti del pottso bujo erano dizadorne & nojose, tcerano
soltanto kondutture & binari & di kwando in kwando ingressi
tcirkolari ke* potevano essere porte ma ke* non erano mai
aperti.
Avevo tag£iato tcinkwe deg£i otto tubi di plastika kwando
vidi alkuni lampi dabbasso, nelle profondita* del pottso. Poko
dopo udii alkune detonattsjoni soffokate.
Vidi altri brevi lampi, & poi una favilla ondeddgiante ke*
non si spense; antsi la maledetta sembro* diventare pju* lumi-
nosa & vitcina.
O kattso, pensaj, & tag£iaj g£i altri tre tubi di plastika. Il pal-
lone sali* pju* velotcemente kon un wu∫. I kavi mi morsero la
fattcia & le brattcia mi furono tirate lungo i fjanki. Larja rudd-
gi* intorno a me* & la mia emikranja peddgioro*.
Gwardaj pretcipitare i tre tubi, sperando ke* kolpissero tcio*
ke* mi stava insegwendo kwalunkwe kosa fosse, ma non ando*
kosi*. Il raddzo, tcio* ke* prezumevo ke* fosse, kontinuo* a
segwirmi. Non volevo zbarattsarmi del parakadute & komunk-
we non kredevo ke* avrebbe fatto molta differentsa inoltre
avrej avuto una possibilita* di sopravvivere se* il raddzo aves-
se distrutto il pallone & dunkwe di uzare il parakadute (A! Ma
ki* volevo illudere?) Sentii ke* la mia ve∫ika era pronta ad al-
leddgerirmi un po.
Akkwa, pensaj. Presi la borrattcia & stavo per dgettarla via,
kwando il fwoko in koda al raddzo si spense. Il raddzo konti-
nuo* a salire maledettamente a lungo badate, & io maspettavo
ke* un sekondo stadjo o kwalkosa del dgenere sattcendesse, &
ankora ezitavo a dgettar via la borrattcia.
Non akkadde njente; il raddzo arrivo* a meno di tcirka med-
dzo kilometro o dgiu* di li* & poi fetce una spetcie di kapriola
& lentamente komintcio* a kadere roteando nelloskurita* &
alla fine skomparve.
Fecti un sospiro di solljevo ke* mi annebbjio* la maskera del
respiratore. Il pallone riskjo* di sfregare kontro la parete del
pottso ma kon un po di destrettsa & una modika kwantita* di
o∫filattsjoni & di paniko riportai in rotta il dannato aerostato.
Tci fu* unesplozjone in fondo al pottso.
Non arrivarono altri raddzi.
Potevo gwardar su* naturalmente, ma la baze del pottso era
lontanissima ormai & io pensavo di essere vitcino alla tcima
della torre. Daltronde, il pallone kontinuava a salire, pertcio*
immadginaj ke* non fosse kome pensavo. Di sikuro, la∫esa
kontinuo* per kwalke tempo in segwito. Komintciavo ad avere
molto freddo ai pjedi & alle mani. La testa mi sembrava sul
punto di esplodere.
Avevo la sensattsjone di non respirare bene, ma non riu∫ivo a
rikordare ke* kosa dovevo fare per rimedjare. Komintciaj a
preokkuparmi per kwello ke* sarebbe suttcesso se* avessero
tolto la tcima alla torre o se* fossi u∫ito per unapertura laterale
& fossi finito nello spattsjo. Ke* kosa avrej dovuto fare in tal
kaso? mi domandaj. Gwardaj dgiu*; le mie mani gwantate pa-
stittciavano kon le valvole delle bombole assikurate al mio pet-
to. Skossi la testa. Kwesto movimento mi prokuro* un gran do-
lore.
Persi kono∫entsa per un po suppongo perke* kwando mi
zveg£iaj ero immobile.