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Comunista a 16 anni
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E-book291 pagine4 ore

Comunista a 16 anni

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Info su questo ebook

Mario Patruno narra il momento cruciale in cui decide di aderire al Partito Comunista Italiano, nell’inverno del 1972. Si tratta di un passaggio che segna non solo una svolta politica, ma anche un profondo cambiamento culturale e umano.
Le radici familiari, l’esperienza personale, le nuove scoperte e i tumulti politici di quegli anni, lo portano a una consapevolezza più profonda, spingendolo a convertire il suo impegno culturale in un’azione diretta e organizzata. L’autore riflette sul potenziale trasformativo della politica, che può venire da una conoscenza approfondita dei processi storici, provando a narrare il passato per comprendere il presente e indicare una via per il futuro. Gli elementi autobiografici rappresentano il pretesto letterario, il filo conduttore per tenere legati argomenti della politica nazionale e internazionale che altrimenti sembrerebbero distanti fra di loro: una piccola storia nella grande Storia narrata, però, con la leggerezza di un racconto.
LinguaItaliano
Data di uscita28 ago 2024
ISBN9791223601785
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    Anteprima del libro

    Comunista a 16 anni - Mario Patruno

    Gli antefatti

    La mia infanzia e adolescenza erano trascorse fra giochi di strada in terra battuta con gli amici del piccolo mondo di periferia intorno a Via Caprera, come Giacomantonio Antonio, mio cugino Vito Mazzilli, i fratelli Salvatore e Gino Piazzolla, i fratelli Nino e Lorenzo Valerio e Mimmo Garbetta, che poi diventerà mio cugino anch’egli. Ve ne erano altri altrettanto cari, ma erano anni di fortissima emigrazione, al punto che solo di recente ho fatto pace con Milano, dopo aver nutrito – per anni – un sordo rancore verso la metropoli che si portava via i miei amici di infanzia, a uno a uno.

    L’altro mio piccolo orizzonte sul mondo era costituito dalla scuola, dove il mio primo impatto con la socializzazione fu di avere come compagno di banco l’incredibile, inesauribile, terribile vivacità di Antonio Di Lillo, fortunatamente resa sopportabile dalla presenza di Michele Sardaro, Franco Labianca, Saverio Russo, Saverio Lamonaca, Michele Piazzolla, Vincenzo Di Paola, Damiano Daluiso e altri.

    Probabilmente già da allora dovevo essere piuttosto insofferente alla disciplina, tanto è vero che nella foto di classe della terza elementare sono uno dei pochissimi che compare senza il grembiule e con un atteggiamento beffardo. Ma si tratta di un indizio troppo debole per prefigurare quello che sarei diventato dopo. Al contrario, gli anni della scuola media passarono attraverso una forte immedesimazione nella gioventù cattolica della Chiesa Matrice guidata del salesiano don Paolo Giampetruzzi e quella stranissima perpetua che era sua sorella, nota semplicemente come la signorina.

    Ero talmente impegnato a servire messa e a seguire processioni come chierichetto, lettore e cantore, al punto che don Paolo e don Giulio pensarono a una vocazione che non c’era. I due non potevano immaginare che la ragione vera del mio attivismo in chiesa era dovuto al tentativo di fare colpo su una ragazzina che aveva la testa e il cuore da tutt’altra parte e un’età in cui è impensabile che si possa prendere un impegno e, tantomeno, promettere il futuro. Però quell’attivismo deve aver lasciato il segno in quel piccolo pezzo di società se è vero come è vero che, ancora oggi, chi proviene da quel mondo e mi ha conosciuto in quegli anni mi chiama Pio, mentre per tutti gli altri sono Mario.

    Fino agli esami di scuola media il mio impegno politico era stato pressoché nullo. A casa non si parlava di politica.

    Da piccolo andavo a trovare mio nonno nella sezione della CGIL pensionati che si trovava allora nelle case di Giovanni Patruno, dove per anni c’è stata la filiale della Cassa di Risparmio. Mio zio Vincenzo Mazzilli ha trascorso un’intera vita a lavorare volontariamente nel patronato INCA-CGIL e veniva spesso a casa per trovare la sorella e i nipoti. Ma quando era da noi, ci insegnava a tenere la penna in mano, mi prendeva in giro per la mia grafia a zampa di gallina, ribadiva come un mantra la necessità e la centralità della cultura e del sapere che sicuramente aveva appreso dall’insegnamento di Giuseppe Di Vittorio, ma niente di più.

    A casa di mio zio è venuta una volta Baldina Di Vittorio a tenere una riunione di donne e tutti noi monelli di strada rimanemmo a sentire in religioso silenzio, con i calzoni corti e seduti in terra, quella donna che mi sembrava alta e robusta e che parlava con parole semplici alle donne del rione di periferia. Solo molto più tardi ho saputo che uno dei fratelli di mio nonno era stato iscritto al Partito Comunista d’Italia dal 1921, che lo stesso nonno materno era convinto che Cristo fosse socialista perché l’immagine sacra del Cuore di Gesù aveva sulle spalle un gran bel mantello rosso. Solo molto più tardi, verso la fine dei suoi anni, mio padre mi ha dato la sua tessera al PCI del 1953 firmata dal segretario del tempo – poi diventato sindaco – Salvatore Russo e conservata per circa sessant’anni intatta, pulita come fosse nuova, incellofanata e custodita come una reliquia fra le sue carte più preziose... ma fino alla scuola media la mia consapevolezza politica era praticamente vicina allo zero.

    Anche le vicende turbolente ed epocali del 1968-69 smossero ben poco la mia curiosità per la politica.

    Nell’estate del 1969 andavo in campagna con mio padre, come facevo tutte le estati dall’età di 8-9 anni, e vedevo le tende e le bandiere della CGIL piantate all’ingresso dell’azienda peschicola di De Martino-Norante sulla Statale 16; capivo che stava succedendo qualcosa di inconsueto, ma non immaginavo mai che quei braccianti stavano dando il loro piccolo, grande contributo a scrivere una pagina decisiva della storia del Novecento.

    Anche quando mi iscrissi al Liceo-Ginnasio Nicola Zingarelli, mi trovai coinvolto in vicende più grandi della mia capacità di comprensione.

    Una mattina come tante altre, salii lo scalone di ingresso del vecchio palazzo dei conti Pavoncelli e vi trovai ad attendermi il mio compagno di classe Antonio Palieri che mi invitò a firmare a sostegno dell’occupazione della scuola che era in corso. Mi sentii lusingato da quell’invito, non per l’occupazione della scuola di cui non sapevo nemmeno le motivazioni, ma per il fatto che per la prima volta un compagno di classe rivolgesse la parola a me che ero un estraneo e un escluso: estraneo perché venivo da fuori ed escluso perché ero l’unico figlio di bracciante in una classe in cui erano tutti figli di medici, avvocati, impiegati, proprietari terrieri o commercianti. Oggi una cosa del genere potrebbe far sorridere, ma in quei tempi le differenze di classe fra il ceto medio e le classi lavoratrici si sentivano molto forti e pesanti.

    Morale della favola, mi ritrovai con la mia prima denuncia alla Questura per una occupazione della scuola di cui non sapevo nulla e che mi veniva utile solo per tornare a casa senza compiti.

    Per fortuna la cosa finì senza conseguenze, ad acqua di seppia, perché alcuni dei protagonisti veri dell’occupazione erano giovani rampolli delle famiglie più in vista della città. Paradossalmente molti di questi provenivano da formazioni politiche moderate o apertamente di destra. Anche il modo in cui si concluse l’occupazione apparve, al tempo stesso, inverosimile e paradigmatico: i poliziotti del posto che avrebbero dovuto sgombrare l’occupazione erano genitori di alcuni degli occupanti, entrarono in borghese facendo finta di andare a trovare i figli, giocarono a carte insieme a loro fino a notte fonda e quando i ragazzi si addormentarono sui banchi o per terra, li presero e li sgombrarono a uno a uno.

    E così si concluse nel modo più inglorioso che si potesse immaginare un’occupazione cui avevo aderito in modo del tutto inconsapevole.

    Sapevo niente o quasi di Alexander Dubcek e della primavera di Praga, del massacro di Piazza delle Tre Culture a Città del Messico e meno che mai sapevo qualcosa delle teorie della liberazione che avevano preso spunto dalla beffa fatta a Stalin con la pubblicazione dei Manoscritti economico-filosofici del ‘44 di Karl Marx e dello scenario inedito che questo aveva aperto nel mondo, intorno alle teorie dell’alienazione e della liberazione.

    Gli anni di Comunità Aperta

    Quello che pesava di più in quegli anni era l’impatto con gli studi al Ginnasio. Fu un periodo durissimo per la mole di compiti e per l’insegnante di Italiano, Latino e Greco che stava da noi 18 ore alla settimana su 24: una bravissima insegnante dalla memoria invidiabile ma dalla voce stridula e dalla presenza invasiva.

    Vivevo fra libri e una vita sociale vicina allo zero, fino a quando mio cugino e Vincenzo Brucoli non cominciarono a venire ad aspettarmi quando finivo di servire messa. Cominciarono a parlarmi di altri loro compagni di classe che si vedevano presso la Chiesa del Rosario, dove erano seguiti da un giovane alto e magro che aveva studiato da prete ma che poi aveva rinunciato a quella scelta di vita.

    Il primo a cui mi presentarono era un ragazzotto con gli occhiali e le gambe un po’ sghembe che incrociammo all’angolo di via Roma sul marciapiede della pizzeria di Toruccio. Canticchiava Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi con sincero trasporto e mi risultò simpatico a pelle. Dopo Ignazio Gissi vennero a ruota Carlo Casamassima, Ruggero Isernia, Concetta Isernia, Raffaele Garbetta, Franco Russo, Gabriele Lopez, Girolamo Gino Calmo, Lucio Camporeale e altri loro amici o compagni di classe. La differenza che notai rispetto alla mia parrocchia era che i ragazzi erano seguiti da quel giovane alto e magro che aveva studiato da prete, che li metteva tutti intorno a un tavolo e li sollecitava a parlare e discutere.

    Fin tanto che faceva parlare gli altri, la cosa mi andava a genio e seguivo tutti con interesse. Il bello venne quando il giro arrivò a me e io pensai che potevo passare la parola al ragazzo che mi stava accanto.

    E invece no.

    Felice Lovecchio mi impose di dire la mia, per cui mi trovai per la prima volta a esprimere un pensiero a voce alta; io che fino ad allora ero convinto che i miei pensieri erano solo ed esclusivamente miei e che non era il caso di condividerli con alcuno. Probabilmente, devo a quell’imposizione se dopo di allora mi è venuta di una estrema semplicità parlare alla gente. Il mondo delle mie relazioni che si racchiudeva a una cerchia ristrettissima e super selezionata di amici si aprì rapidamente a una comunicazione verso un pubblico sempre più vasto.

    Non spetta a me scrivere la storia di quel fenomeno di rinnovamento cattolico rappresentato dal gruppo di Comunità Aperta, come declinazione locale dell’onda lunga del Concilio Vaticano II che finalmente arrivava a scalfire anche la nostra cittadina. Però penso che i tempi siano maturi e qualcuno dovrà farlo perché né prima di quegli anni, né dopo, si è mai registrata un’ondata di cattolicesimo sociale così incisiva e unica nel suo genere. Così come penso che qualcuno si dovrà assumere il compito di non far perdere nell’oblio la memoria di esperienze significative di quegli anni come il gruppo femminista Franca Viola, il Centro Studi Aldo Moro, il Centro Studi Gaetano Salvemini e il Collettivo Culturale Giovanile Arci, il gruppo pro-biblioteca, nonostante nessuno di tali gruppi abbia mantenuto una impostazione politica generale e da nessuno di essi siano emersi dirigenti politici o amministratori, se non per qualche raro caso, e solo dopo l’ingresso e la maturazione nel PCI o nei Verdi, come per Carlo Casamassima.

    Comunque, Comunità Aperta era l’acqua in cui mi piaceva nuotare, ma lo stagno diventava sempre più piccolo per le mie esigenze e cercavo spazi più ampi in cui esprimere le idee che si muovevano ancora confusamente dentro di me.

    La sorte volle che passando davanti a casa di Andrea Palmieri sentii dalla TV, per la prima volta, la voce pacata e suadente, con un fortissimo accento sardo, del nuovo segretario del PCI, Enrico Berlinguer.

    Non fu la conversione sulla via di Damasco perché dentro di me la scelta l’avevo già maturata. Ma adesso essa trovava una sponda solidissima nella enorme differenza di stile e di cultura, anche rispetto a leader allora molto alla moda e sulla cresta dell’onda, come il radicale Marco Pannella.

    Quindi, cominciai a cercare autonomamente i simboli e i luoghi di quel partito. Il primo che mi è rimasto impresso fu un adesivo sul vetro posteriore di una 124 Fiat in cui era scritto semplicemente Io voto comunista. Tutto sommato, una stupidata poco degna di considerazione, se non fosse che la Fiat in questione era quella di Marco Acquaviva: un autista di linea che era un autentico mito per tutti gli studenti del paese perché con lui si arrivava a casa in anticipo e perché ci faceva sempre ascoltare la Hit Parade di Lelio Luttazzi.

    Poi ne scoprii un altro durante la campagna elettorale politica per le elezioni del 7 e 8 maggio 1972 quando mi trovai per caso a passare dalla piazza che attendeva l’arrivo del compianto On. Aldo Moro. C’era tutta la Democrazia Cristiana locale in pompa magna con le bandiere con lo Scudo Crociato su tutto il palco e le attiviste dell’Azione Cattolica pronte ad accoglierlo con fantastici bouquet di rose bianche, gigli e gladioli bianchi. Un turbinio di canzoni di partito a tutto volume e lo speaker ufficiale, Sabino Violino Rinelli, che annunciava l’arrivo a momenti del Presidente On. Aldo Moro. Una scenografia mai vista; e lo speaker che continuava ad annunciare che il Presidente era a pochi minuti dall’arrivo. I minuti passavano e la folla attendeva; passavano tantissimi minuti, ma il Presidente non arrivava. Però la folla non si muoveva dalla piazza, affascinata dall’idea di vedere dal vivo e ascoltare la voce di quella grande personalità politica.

    Intanto sul palco di fronte cominciava ad apparire la bandiera rossa e il simbolo del PCI cui spettava il turno successivo, ma era giusto e doveroso rispettare la figura istituzionale del Presidente. Il quale, finalmente, arrivò, fece un comizio in cui elencò i successi della Democrazia Cristiana al Governo e invitò a votare per la DC.

    Nel mentre le donne dell’Azione Cattolica portavano al Presidente i loro fiori, saltò sul palco di fronte – quello con le bandiere del PCI – Giuseppe Giannaccaro, un bracciante, che urlò con tutto il fiato che aveva in gola... Onorevole Moro, non ci fai paura...!

    Quasi in sincrono, la gente che riempiva la piazza e che aveva ascoltato in religioso silenzio il Presidente, si voltò a sentire il comizio comunista lasciando praticamente soli le donne con i loro fiori e l’On Moro, il quale – con l’ironia caustica e intelligente di cui solo i grandi uomini sono capaci – chiese, a microfoni ancora accesi: Ma come, ci sono ancora i comunisti in questo paese?

    Non ascoltai il comizio comunista, ma mi colpì quel bracciante che sembrava Davide contro Golia e mi fece riflettere che a sentire quel bracciante con la terza elementare ci fosse così tanta gente, mentre noi giovani intellettuali in erba non riuscivamo a uscire dallo stagno pulito, colto ma piccolo, in cui nuotavamo.

    Cominciai a pensare che la cultura staccata dalla vita reale delle masse non aiuta a cambiare la storia; resta pur sempre una gran bella cosa, ma non aiuta a migliorare la vita delle persone in carne e ossa.

    La scelta dell’iscrizione alla Federazione Giovanile Comunista Italiana

    Decidere di aderire a una formazione politica è una cosa; decidere di diventarne un’attivista e dirigente è tutto un altro registro.

    Ci misi più di qualche mese prima di arrivare a convincermi che bisognava passare a quel registro.

    Nel frattempo, il lavoro nel gruppo cattolico si intensificava. Notai che scrivere articoli di ogni genere, approfondire continuamente argomenti nuovi, aveva un doppio effetto benefico sulla mia formazione culturale: l’impegno sociale agevolava i miei studi a scuola, gli studi aiutavano a migliorare il mio impegno sociale. Stampavamo i nostri giornalini ciclostilati nella CGIL in una contaminazione fra il mondo della Camera del Lavoro e quello della parrocchia che poteva lasciare sorpreso Willi Schiapparelli, ma che a noi veniva quasi naturale.

    Credo che il momento di svolta nel mio metodo di studio sia avvenuto su Dante Alighieri e sui quattro significati della scrittura dantesca: letterale, allegorico, morale, anagogico. Al primo anno di Liceo avemmo la ventura di incontrare Giuseppina Pizzi, un’insegnante di Italiano collegata direttamente alla parte migliore degli studiosi di Letteratura Italiana del tempo, con un sistema di insegnamento estremamente innovativo rispetto agli studi mnemonici con cui ci affogavano al Ginnasio, ma che era accompagnata da una fama che terrorizzava noi studenti. Si diceva addirittura che ella fosse stata cacciata da un altro Liceo a causa dei suoi metodi di insegnamento e del suo comportamento troppo severo.

    Non ho mai saputo se ciò sia accaduto realmente. Sta di fatto che per tutto il primo quadrimestre, lei spiegava, assegnava una pagina, o anche meno, di un testo di letteratura di Giuseppe Petronio, con un linguaggio giustamente specialistico ma straordinariamente complicato e con un’impostazione decisamente gramsciana, e poi interrogava. Tutti i giorni. E tutti i giorni interrogava solo e soltanto me. Il quale, pieno della mia presunzione, ritenevo sufficiente lo studio in autobus. Tutti i giorni parlavo girando intorno all’argomento, ma mi afflosciavo come un sacco vuoto alla prima richiesta di spiegazione di un termine nuovo o di un concetto articolato su cui bisognava aver riflettuto.

    Il giorno prima dell’ultima lezione del quadrimestre decisi di andare preparato e – per la prima volta in vita mia – studiai veramente. Confrontai testi diversi, approfondii opinioni dei critici danteschi più famosi: insomma, compresi che studiare significa andare dentro le cose, intus-ire e non girarci intorno o scivolarci sopra. Fatto sta che la mattina dopo, l’insegnante chiamò tutti i miei compagni; tutti rigorosamente impreparati perché erano certi che ella avrebbe chiamato me, come sempre. Nel silenzio e nello sgomento generale, alzai la mano per offrirmi volontario e la tenni in vista per un bel po’, fino a quando la Pizzi alzò gli occhi dal registro, mi lanciò uno sguardo che mi tagliò in due e disse con caustico sarcasmo:

    Sentiamo quale altra sciocchezza ha da dire oggi Patruno!

    Mi alzai e parlai dal banco per un lunghissimo quarto d’ora, senza sentire la terra sotto i piedi. Non ricordo granché della mia esposizione. Ricordo soltanto che alla fine disse:

    "Bravo. Per questo exploit finale, ti darò un bel voto."

    Di nuovo un lungo silenzio tombale della classe, questa volta dominato dalla curiosità, fino a che Osvaldo Battarino non trovò il coraggio di chiedere sommessamente:

    Quale voto?

    Gli darò un bel quattro!

    Ero felice come una pasqua.

    Avevo vinto con me stesso una grande sfida della vita per cui non pensai al voto. E non ci pensò neanche lei. Tanto è vero che da quel momento, non solo mi assegnò sempre quello che per lei era il massimo dei voti, ma mi chiamava per un parere sulle tracce dei compiti che voleva assegnare alle sue classi o mi portava a qualsiasi iniziativa esterna cui era invitato il Liceo.

    Probabilmente, fu la consapevolezza di aver acquisito fiducia in me stesso a convincermi che potevo fare il salto di qualità anche sul terreno dell’impegno politico.

    Comunicai la mia decisione agli amici di Comunità Aperta in una riunione in una sera di tarda primavera sul terrazzo della casa dei genitori di Saverio Russo. Mi fecero mille domande ed espressero altrettanti dubbi e obiezioni sulle motivazioni della mia scelta. Cercai di rispondere, ribattendo e invitandoli a condividerla.

    Non riuscii a convincerli.

    Non riuscii a trasformare un impegno culturale e sociale in una scelta politica e ancora oggi mi chiedo quanto e come avrebbe potuto incidere positivamente sullo sviluppo futuro della nostra cittadina un gruppo compatto e preparato come quello, se avesse deciso di estendere l’orizzonte del proprio impegno all’attività politica organica alle classi subalterne, dalle quali tutti noi provenivamo.

    Alla fine, venne fuori con me dalla riunione solo Giuseppe Parente.

    Rimase chiuso in un incedere lento e un silenzio meditabondo fino a via Marconi, all’altezza della cartolibreria di Renna, fino a quando ruppe i suoi pensieri dicendo:

    Io vengo con te. Ma come pensiamo di poter cambiare questo paese io e te da soli?

    Giuseppe – risposi – fino a qualche ora fa ero solo io ad aver fatto la scelta, mentre ora siamo già in due. Se aggreghiamo altri due, avremo raddoppiato le nostre forze e poi le aumenteremo ancora. Quindi, diamoci da fare.

    Ero entrato in contatto da poco con gli scritti di Gramsci per cui non ero consapevole che Giuseppe stava esprimendo il pessimismo della ragione, mentre io esprimevo l’ottimismo della volontà. Neanche sapevo nulla di come le scelte di un singolo soggetto individuale possono contribuire a cambiare il corso degli eventi, e come il corso oggettivo degli eventi può incidere sulla vita dei singoli.

    Oggi avrei citato Gramsci e avrei detto a Giuseppe: Il mondo è grande e terribile e complicato. Ogni azione lanciata sulla sua complessità sveglia echi inaspettati

    Ogni azione. E quindi anche la mia scelta inizialmente in solitaria e per brevissimo tempo in solitaria.

    A guardare le cose per come si sono svolte, si possono tirare le somme e si può notare facilmente che da quella sezione giovanile comunista sono venute fuori tre consiglieri comunali donne, di cui due hanno anche ricoperto la carica di assessore; un segretario regionale di categoria della CGIL; due segretari provinciali di partito nonché consiglieri provinciali e capigruppo, un buon numero di consiglieri comunali e assessori... escludendo me, ovviamente. Ciascuno di essi ha contribuito nel suo ambito proprio di

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