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Quaranta giorni
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E-book284 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Un male di vivere che ha radici lontane, in un episodio efferato che le ha contaminato per sempre l’esistenza. Ricordi violenti in cui in famiglia non trovava quell’amore di cui si è affamati fin dal primo respiro, ma solo artigli che graffiavano il cuore lasciandolo devastato come una terra di nessuno.
Lilia si ritrova adulta, ancora in lotta con i suoi demoni, con un passato ingombrante che non sa gestire e allora fa del suo cercare vendetta lo scopo della sua quotidianità. 
Ma forse tutto quell’odio, tutta quell’amarezza la porteranno, con gli incroci strani del destino, a una comprensione più ampia, a ritrovare quella bambina che si era persa nel passato...

Monica De Meo è nata a Roma l’anno delle Olimpiadi (1960). È cresciuta per i primi sei anni dai nonni, con i prozii e sua zia, a Capua in Campania, poi a Milano fino all’età di tredici anni, dopodiché la famiglia si trasferisce in Svizzera, a Losanna (Suisse Romande). Ottiene il Baccalaureato Internazionale. Nel 1980 parte per un viaggio a New York di cui si innamora e dove rimane a vivere fino a che non si trasferisce a Dallas, nel Texas, dopo un divorzio. Cresce due figli da sola, un maschio, Alex, e una femmina, Helena, ora adulti e sposati. Si trasferisce a Key West, Florida, dove lavora come assistente giudiziario per un giudice di circoscrizione. Parla italiano, inglese, e francese. Ha due cani Corgi di otto e nove anni, ma la razza umana è quella che trova più affascinante. Le piace scrivere in riva al mare o sotto le foglie di una palma con la vista sull’oceano. 
Ama il sorriso e odia la mendacità.
LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2024
ISBN9788830697836
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    Anteprima del libro

    Quaranta giorni - Monica De Meo

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    Monica De Meo

    Quaranta giorni

    © 2024 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    www.gruppoalbatros.com - [email protected]

    ISBN 978-88-306-9528-3

    I edizione giugno 2024

    Finito di stampare nel mese di giugno 2024

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa

    Quaranta giorni

    Ad Alexander e Helena

    Potranno tagliare tutti i fiori

    ma non fermeranno mai la primavera.

    Pablo Neruda

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Il cielo

    Guardò verso il cielo attraverso triangoli isosceli, pezzi di alberi intagliati nel blu di fondo al di sopra della sua testa; si chiese come il cielo potesse rimanere così pieno di pace, infinito, ignaro di ogni peccato terreno, oscurità dell’anima, e di ogni tristezza scavata nel cuore di un essere umano. Fulmini e temporali, nuvole nere senza tregua, piogge torrenziali ed infangate, questo era il minimo che si aspettava, mentre, invece, era tutto solo blu, chiaro, cristallino e innocente, come sopra la casa di un angelo. Piccole nuvole stracciate, come perle di saggezza per una storia che, allora, ancora doveva scriversi, si disegnarono davanti ai suoi occhi, ma lei non riuscì a contarle. Una preghiera le si fermò sulle labbra; pregò solo con le parole che conosceva, perché una volta, poco tempo prima, così le era stato insegnato.

    Padre nostro che sei nei cieli. Padre nostro che sei... Dio ti prego... Dio ti prego... sia fatta la Tua volontà... sia fatta la Tua.... Le parole mancavano, si confondevano, e nessuno era lì accanto a lei a sussurrarle, come faceva una volta, nonna Maria.

    Le apparve una prima immagine, come in una fotografia intarsiata nell’anima; era l’immagine di suor Teodora, la sua maestra di letteratura in prima media, quando la scuola cattolica le insegnava a ricamare con la mano sbagliata, ma lei, testarda e mancina, aveva imparato lo stesso a ricamare da destra verso sinistra, anche seduta da sola in un angolo, vicino alla finestra, separata da tutte le altre che ricamavano con la mano giusta. C’erano risatine, ricordò, e occhi pieni di derisione, verso la ragazzina che sfidava l’imperfezione con testardaggine. Persino nonna Maria, che l’amava tantissimo, diverse volte quando stava imparando a scrivere, aveva provato a toglierle la matita dalla mano.

    Non scrivere con la mano del diavolo, piccerè le diceva nonna scuotendo la testa infastidita mentre gliela toglieva dalla sinistra, e gliela forzava nella piccola mano destra che lei arrotondava a forma di pugno, così come fa una persona che non sa né prendere una forchetta, né le bacchette quando mangia cibo cinese per la prima volta; in modo goffo e inadeguato. Tutte le lettere erano così difficili da scrivere, e lei si sforzava, veramente ci provava, ma poi finiva sempre per riprendere la matita con la mano sinistra, e andava avanti; la caparbietà era innata in lei. Il ricamo era solo un modo per distinguersi; provare a tutti che anche mancina e figlia del diavolo riuscire a ricamare, scrivere o disegnare non le era impossibile.

    Quella scuola era la sua prova del fuoco, un costante ed istintivo bisogno di accattivarsi al vezzo di ogni suora, che a lei veniva così facile, come se parte della sua genetica fosse il desiderio di ribellarsi sempre e ovunque. Ogni giorno portava una nuova sfida e ogni sfida necessitava di essere sconfitta. La più ardua era la confessione del mercoledì mattina.

    Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen.... Parole che temeva ogni martedì sera. Ho rubato il cioccolato di papà nel frigo. Forse non era abbastanza peccato, o forse sì. Se solo avesse potuto raccontare di quella storia che ricordava ancora di quando aveva cinque anni e nonna l’aveva portata a visitare un’amica di famiglia durante un funerale e, su un tavolino nel salotto, lei aveva visto questa scatoletta scintillante d’argento con sopra il coperchio, il ritratto della Gioconda dipinta su un minuscolo cuscino in seta. Sapeva che era la Gioconda perché la foto gliel’aveva fatta vedere una volta su un libro d’arte sua zia Antonia, che sapeva tutto di tutti. Quel sorriso mezzo accattivante l’era rimasto impresso nella mente, e quella scatolina era la cosa più preziosa che avesse mai visto. Forse ci poteva mettere dentro quegli anicini che zietta le comprava al mercato il venerdì quando la portava nel negozio di caramelle di donna Carolina, la vecchietta scontrosa con lo scialletto rosa che sedeva dietro enormi barattoli di vetro pieni di caramelle di tutti i colori e sapori, e pezzi di cioccolata grandi quanto una casa. Sgridava sempre tutti, ma tutti i bambini la perdonavano perché i profumi di quel negozietto in piazza erano il premio più bello che si potesse ricevere per qualunque bimbo; buono o cattivo. Lei ritornava a casa con quel piccolo cartoccio bianco pieno di liquerizie bianche, e poi le mangiava piano piano assaporandole fino al venerdì successivo, parsimoniosamente, come fossero piccoli fagottini preziosi; ogni anicino le riempiva la bocca di una spezia dal sapore di fuoco, ed erano così buoni, che lei accompagnava ogni caramella che inghiottiva con un suono pieno di gusto che faceva ridere zietta. Fatto sta che l’immaginazione del voler fare chissà che con quella scatola l’aveva spinta a prenderla, e se l’era messa velocemente nella tasca del grembiulino che le aveva fatto a mano nonna, per poi nasconderla sotto il cuscino finché non avrebbe trovato un posto migliore. Ma erano passati troppi anni dal giorno del furto; non si poteva andare indietro nel tempo, solo avanti.

    Quella scuola era anche causa d’ilarità giornaliera, grazie al pedofilo affamato, che sedeva sulla Vespa giù di sotto in cortile, con il trench e gli occhiali scuri, i calzoni aperti, mangiando un panino al prosciutto, e che lei e le sue compagne salutavano, ogni giorno puntualmente, a mezzogiorno, agitando le mani con gesti spropositati, mentre le suore meschine, con le loro pesanti tonache, si spargevano a destra e a sinistra, in uno stato di panico, come galline crocchianti in un turbinio di piume bianche e nere. Fu lì che imparò a giocare a pallone e distrusse la grande porta di vetro nel corridoio, lì anche imparò a fumare, in piedi sul water con la finestrina del bagno aperta per la disperazione di suor Gioconda.

    Suor Teodora però era diversa; si fermava sempre vicina a lei durante l’ora di letteratura, le si abbassava sopra, e poi le metteva la mano sul ginocchio, in quella porzione di pelle dove finiva l’uniforme e cominciava il calzino, e lei la sentiva troppo vicina che odorava di naftalina e alito pesante, fatto di cose vecchie, ed aria putrida. Le chiedeva di recitare alla classe la parte del Terzo Cerchio, dal Sesto Canto dell’Inferno di Dante, ed in questo lei trovava ironia, perché ogni volta che suor Teodora le veniva vicino con gli occhi sporgenti e la fissava, lei si sentiva coperta da una pioggia sporca e gelida. Si ricordò brevemente del dente scheggiato della Sorella, che si affacciava sopra il labbro inferiore scostante e audace, mentre la fissava, interessata più che alla liricità del poema, al suo labbro inferiore, che si arrotondava come dipinto in una sorta di broncio permanente, e dove a volte a Lilia piaceva, quando pensava, appoggiare la matita.

    Il tempo ora pareva essersi quasi fermato, come se tutto intorno a lei girasse al rallentatore. Osservò brevemente petali di glicine a sinistra del suo viso; gocce di rugiada vi parevano incollate, ed una seconda immagine prese il sopravvento; quella di un vestito. Era meno vaga della precedente, la realtà stava incominciando a farsi sentire; un dolore fisico si era insinuato nell’immagine, uno sconforto che si propagava un poco alla volta dalle gambe, su per i fianchi fino al grembo, come fosse un fiume devastante che, attraversando terra soffice, toccava solo di passaggio la sponda. Come un’emozione veloce tocca il cuore. Ma quale cuore, si chiese. Un cuore batte senza sosta, instancabile; il suo si era fermato in quel momento, morto di solitudine e sconforto. C’era del putrido intorno a lei, odore di usato e dilaniato, cose ridotte a stracci, pensieri che, come esplosivi, lasciavano dietro miseria e distruzione.

    Poi l’immagine del vestito tornò a riempirle la mente. Il colore del vestito era rosso, vivido, così come il sangue incrostato tra le sue cosce infantilmente magre, gocce di ruggine tra i piccoli ricci aggrovigliati, al di fuori dell’arco pubico; rosso, contro il bianco latteo della sua pelle. Bianco, come le margherite disegnate dappertutto sulle pieghe di quel vestito, e poi odore di metallo, tiepido, come la pelle cruda tra le piccole labbra infiammate. Il vestito era di cotone, era Ferragosto del 1972, Lilia aveva solo dodici anni.

    Non avrei dovuto seguirli, si disse, ma c’era troppo baccano nella sua mente ridotta in pezzi di perché e per come, inghiottita intera dal maremoto di quell’ora, per vedere la vista della piccola città assonnata al di sopra della collina..., come uno di loro le aveva sussurrato, descrivendo il posto dove molti anni prima si erano combattute salienti battaglie di conquista per salvare il mondo, e sangue fatto di coraggio fu sparso tra i castagneti, e le schioppettate di mitraglie ancora risuonavano nel riverbero di una storia nel tempo che valeva la pena di raccontare, non come la sua, che sarebbe rimasta scolpita nel lamentoso ed antico ricordo di una bambina. ... per salire più vicino al cielo..., aveva detto quello che le aveva carezzato la guancia nel bus, mentre gli adulti non guardavano, con un gesto che sembrava di gentilezza. Un gesto giusto al di fuori del centro di te stesso è pur sempre parte di te. Un gesto violento che invade l’anima di qualcuno, se ti è vicino, distrugge il tuo universo.

    Correre, più veloce del vento, la frase le venne in mente, ma solo per un secondo, precipitare senza freno, lontano da quell’aria soffocante, che qualcuno chiamava brezza estiva e che ora le portava il fetore del sudore dei loro colli appiccicosi, togliendole il respiro; uno dopo l’altro, odori di pelli diverse, sudori di agosto; come colla sull’anima. Lei avrebbe voluto essere come un serpente che muta, voleva uscirsene da quella pelle troppo stretta che la ingabbiava in quell’essere sudicio e mezzo nudo. I serpenti prima di mutare diventano irascibili, sono assetati, stanchi, e così terribilmente soli in quell’incredibile disfarsi della pelle vecchia; proprio come si sentiva lei, ormai solo coperta di pelle vecchia. Si sentì sola, inerme contro un fatto troppo grande per lei, una paura mai conosciuta prima, un qualcosa che lasciava senza fiato, ma solo con il bisogno di una disperata ricerca del familiare, del ricordo che ti fa sentire bene.

    Come bambina, non conosceva ancora la vera solitudine, quella che ti prende al cuore e ti lascia senza scampo, persa nell’infinito di un mondo che non ti vuole, di gente che ti passa accanto senza vederti, di coloro che dicono di amarti, ma ti lasciano la mano per un miglior momento d’ilarità, per un sorriso più promettente, una carezza più calda, un pensiero più intelligente. Avrebbe dovuto correre più veloce delle corse in bicicletta che faceva con Anna sotto la pioggia d’estate, quando cose e persone apparivano solo come nello scatto di una foto, una dopo l’altra senza né senso né regola, e i suoni si susseguivano brevi e distaccati, ombre, quelle degli alberi, mescolate con luce, quella del sole, ma quale luce, si disse, pur sempre brevemente, perché pensare con logica appartiene a coloro che se ne fanno una ragione della vita e i suoi perché; lei era solo una bambina, catapultata nella vita con l’istinto di un animale non predatore, ma preda.

    Giampiero mi ha detto in autobus che conosce un posto bellissimo, migliore di dove vogliono andare gli altri, e che poi facciamo insieme anche il picnic... Giampiero ha degli occhi neri scuri, e delle fossette... non è fico da morire?. Parlava ad Anna seduta nell’autobus vicino a lei, ma parlava con eccitamento anche a sé stessa. Era la prima volta che un ragazzo così più grande di lei l’aveva notata; la luce le si accese negli occhi, e Lilia ricordò perché amava Anna più di una sorella. Mentre parlava, Anna la osservava senza dire una parola, con attenzione, considerando ogni espressione sul suo viso, aspettando il suo turno, e Lilia amava il suo modo di semplicemente esserci, senza mai lasciar andare quell’amore che le univa, senza mai abbandonarla nel silenzio.

    Non ci vengo, e non ci dovresti andare neanche tu. Aveva risposto Anna. Perché vorresti andare nei boschi, in giro con quei tipi... sono molto più grandi. Non mi fido, ci guardano in un modo strano e poi ridono sempre tra di loro... Per favore Lilia, smettila di metterti sempre nei casini.... Gli occhi neri di Anna erano grandi e liquidi, e le sopracciglia erano sempre piegate in un modo inquisitivo che le facevano assumere un’aria tra il vittimismo ed il rimpianto. La sua erre moscia, che riempiva ogni parola con una tenerezza che rendeva Lilia materna e protettrice, era la cosa più bella di Anna. Quando Anna parlava, quell’erre moscia faceva scivolare dalla sua bocca pensieri e frasi intelligenti; mentre lei si sentiva sempre così stupida, continuamente a ridere di qualcosa, sempre piena di storie che non avevano mai fine. Il ranocchio mangia la ribollita col ragù. Lilia aveva inventato una specie di rima che forzava Anna a cantare per poi ridere insieme, e Anna la lasciava fare, perché era dolce, e paziente.

    Ma dai Anna, sono solo un po’ più grandi, al liceo, capirai, uno è il figlio del preside, figurati se ci mette nei casini; altrimenti che ci siamo venute a fare qui, solo a vedere i siti? Che palle... Sempre e solo musei e storia... poi cattedrali e ancora musei, dai.... Lilia l’aveva quasi convinta, ma poi all’ultimo momento Anna si era tirata indietro, e anche se dentro Lilia esisteva sempre quell’essere doppio, quella ragazzina a metà, indecisa tra il desiderio ed il dovere, alla fine con un pizzico di titubanza nel cuore, quel cuore che non aveva ancora imparato ad ascoltare, aveva deciso di andare da sola.

    Era previsto essere un semplice viaggio in montagna, sovrastante un grande parco, circondato da una foresta di castagneti, neanche una mezz’ora da dove abitavano, un’esperienza culturale organizzata dall’insegnante di storia che pensava, e molte famiglie avevano convenuto, che sarebbe stato bello organizzare una gita estiva per due giorni, per i ragazzi della scuola media di Via Santo Spirito, durante una delle estati più calde registrate nella storia di quel Sud indelebile. Erano tutti studenti delle medie, tranne il figlio del preside, un liceale, e due dei suoi amici che avevano deciso di unirsi a loro, e gli insegnanti avevano pensato che fosse una buona idea farsi aiutare con i ragazzini.

    Allora ragazzi, aveva annunciato al gruppo l’insegnante di storia, il signor Liotta, divertiamoci ma rimaniamo vigili gli uni degli altri per favore. Giampiero e i suoi amici volontari vi terranno d’occhio oggi, perché conoscono bene la zona. Restiamo al sicuro e portiamo con noi i nostri fischietti nel caso ci fosse un pericolo e dovessimo comunicare tra di noi al più presto. Ci rivediamo tutti qui alle quindici. L’autobus partirà puntualmente alle quindici e quarantacinque. Rimanete nel gruppo e non allontanatevi l’uno dall’altra. Divertitevi, ma siate cauti. Il fischietto. Un oggetto senza scopo che ora giaceva inerme e rozzo tra glicini e terra, come un giocattolo senza più dovere, né senso. Ripensò all’esatto momento quando i maestri avevano chiesto alla classe se volessero arrivare più in alto sulla collina, là dove ci sarebbe una bella vista; la maggioranza della classe aveva seguito il maestro di geografia, ma Giampiero, il figlio del preside, e i suoi due amici l’avevano fermata nell’autobus prima che scendesse, e le avevano chiesto se volesse andare con loro, poiché loro sarebbero andati in un posto migliore di quello dove i maestri intendevano, un castagneto bellissimo.

    C’è una vista incredibile, porta anche la tua amica Anna, vedrai, ci sono alberi dappertutto, ti sembrerà di toccare il cielo. E poi le aveva sfiorato il viso con il dito indice, gentilmente, come se lui avesse veramente conosciuto il significato della dolcezza. Iniziò tutto con un sorriso amichevole, aperto, nel quale cadde come in un precipizio senza scampo. Sfiorato il viso, la guancia. Il sotterfugio capillare, il tradimento di un Giuda aguzzino. Fatti vedere... come sei bella. Una volta lassù, le aveva toccato il viso di nuovo, in quel cerchio d’illusione nel quale l’avevano castigata, e poi un altro le aveva dato un bacio, mentre si sorprendeva nell’inganno, presa dalla paura, e l’angoscia del non capire. Si sentiva giudicata come aveva visto fare con il bestiame, in quei viaggi mattutini in campagna, quando nonno Alberto la portava con lui a comprare mozzarella di bufala, ma lei sentiva solo gli odori, come quello forte dei latticini, così forte da farle venire la voglia di vomitare. Odori travolgenti e selvaggi, quelli delle vacche, delle capre, di terra infangata; e poi i colori pieni di irruenza, proprio come quegli sguardi esploratori, occhi scuri, penetranti e infervorati, e poi la confusione di un momento che portava gesti inconsueti, braccia senza padrone, mani con carezze che diventavano irrefrenabile desiderio. Si era perduta nel vortice di se stessa, che l’aveva risucchiata, come l’acqua di un fiume che corre inarrestabile dentro il mare, e si mescola, diventando immenso, perdutamente solo ed invisibile, parte di una marea eterna, mai più riconoscibile. Un breve momento che durò un’eternità. E il desiderio? Esiste un punto nella violenza di un atto immondo dove il desiderio ha sopravvento sulla gestualità di una bestia in forma umana? Desiderio. Definizione di Oxford Languages: 1. Sentimento di ricerca appassionata o di attesa del possesso, del conseguimento o dell’attuazione di quanto è sentito confacente alle proprie esigenze o ai propri gusti. 2. Bisogno, necessità.

    Parole senza senso perché esistono solo se il soddisfacimento è quello del disfacimento umano. Egocentrica ricerca dello schiavo di emozioni. Non aveva pensato tutto questo mentre era bambina, solo anni dopo, perché una bambina è fatta di poche cose; cose né complicate né semplici, solo istinto e vita, al dettaglio, perché ogni dettaglio conta, ogni minuto è vissuto fino alla fine.

    L’odio che cresce poi non cresce subito; si insinua, come un serpente esploratore, la sua lingua biforcata che riesce a sentire il fetore della morte, dell’insolenza umana, della debolezza di una vittima braccata. Provò solo ribrezzo, in quello strofinare di carne contro carne, un tremore che, seppure dell’anima, corse in ogni parte del suo corpo come un brivido di freddo; la loro pelle umida e viscosa toccava la sua, come un polipo le cui ventose si incollavano a lei senza farla respirare, lei ora preda di tre ragazzi diciottenni che improvvisamente le parvero adulti, vecchi, dalle mani carnose ed esperte, come fossero fatte di metallo tagliente, mentre la luce del sole, tra le foglie in raggi rifratti, le illuminava l’anima cupa, ed il suo volto, coperto di ciocche di capelli, sembrava uno specchio in frantumi. Non riuscì neanche a guardarli in faccia, decidendo di chiudere gli occhi al mondo, ed ogni volta che apriva le palpebre, vedeva solo ritagli di immagini, luci mescolate a ombre, mani miste che le coprivano il corpo, avvolgendola in un turbine di paura, brividi che la trafiggevano come lampi dentro e poi fuori di lei. Se mai avesse immaginato come si manifestavano i fantasmi, li avrebbe descritti così; immagini di luce ed ombra, che si muovono veloci, inafferrabili, attraverso un campo visivo, come se scappassero da qualcosa. Fuggivano, forse, dall’inferno eterno. Anni dopo si chiese il perché non si fosse ribellata, forse avrebbe dovuto gridare, ma la voce le era mancata, il grido dell’anima si era trasformato in desiderio di nascondersi e, incapace di esprimersi in urla di rabbia e di disgusto, si era invece eclissata in quel posto pieno di silenzio che le apparteneva, che era parte sacra della sua anima. Un posto dentro di sé dove ogni suono era ovattato, e i gesti erano fatti di ricordi dolci ed indelebili.

    Quel posto esisteva; era la stanza di suo nonno, l’ultima nella casa di nonna Maria, una casa nella quale era cresciuta fino all’età di sei anni, tra l’amore incondizionato degli anziani che appartenevano alla sua famiglia, e quello di sua zia Antonia, che era una maestra delle elementari, e che si sarebbe sposata tardi nella vita. Aveva abbandonato quella casa con i suoi genitori, dopo la nascita di sua sorella, ma si riformava magicamente nei suoi pensieri, in ogni momento della vita quando la paura le si avvinghiava intorno e le toglieva il respiro. La porta della stanza di nonno Alberto si nascondeva dietro una tenda pesante di velluto verde, che trasformava, ogni volta, il viaggio di scoperta attraverso quelle mille stanze e stanzette in un perfetto mistero. Quando pensava a quel posto, era sempre d’estate, dove tutto era bagnato di pace e sole. La luce era tersa, come in un quadro fatto di colori soffici, classico, congelato nel tempo, dove il giallo si mescolava con il bianco creando

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