Quando sarai a casa
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Anteprima del libro
Quando sarai a casa - Valentina Leone
Il cavalcavia
Latif gettò uno sguardo alla vallata ferrosa della stazione e salì sul punto più alto del cavalcavia. Incastrò le gambe nella ringhiera scrostata, le lasciò penzolare nel vuoto e attese che la paura di precipitare di sotto, di schiantarsi a terra come una cacca di piccione, gli si incollasse in gola.
Solo a quel punto cominciò a respirare.
Sotto di lui, i treni scivolavano via lenti, i fischi che incidevano l’aria.
Da dove arrivavano?
Dove se ne andavano?
Latif si incantò senza una risposta.
Davanti agli occhi e sotto i piedi, solo vuoto e un silenzio che non si curava di lui. Alle spalle, l’inferno del cavalcavia. Il traffico del mattino che aggrediva l’aria, il mondo che girava svelto, distratto. E lui che era solo un puntino, in fondo, tra le macchine che si suonavano impazienti e il 16 che alzava coni di scintille per conquistare la salita. Anche quella mattina sarebbe passata così, con le guance strette tra le sbarre di ferro, gli occhi nel nulla, le orecchie sorde al rumore. Mimetizzarsi con tutto il resto, ecco lo scopo di essere lì. Mimetizzarsi e sparire.
Perché lì non era come in ogni altro posto, nessuno lo guardava come si guarda la scritta sul muro fresco di vernice. Lassù, anche lui semplicemente si confondeva. Era solo una schiena contro una ringhiera arrugginita che si apre sul vuoto della stazione. Non era niente, e se non sei niente non sei neanche un problema. Quell’indifferenza totale se la sentiva addosso come la nebbia che saliva, densa, freddina. Confortante. Poteva quasi sognare in quella luce lattiginosa. Fingere di salire al volo su uno di quei treni e partire, uno a caso, anche coperto fino al tetto di scritte, ché vedere fuori è impossibile, tanto lui il fuori lo vedeva sempre a modo suo e tutti dicevano che era il modo sbagliato, e allora tanto valeva immaginarselo da solo, ’sto benedetto fuori, e come lo voleva lui. Almeno questo gli era sempre venuto bene, immaginare le cose che non ci sono. Come togliersi da lì. Andare via, verso sud, direzione Tunisia. Levarsi di torno e non voltarsi indietro. Tornarsene una buona volta a casa.
E tu che ci fai qui?
Non vai a scuola?
Quanti anni hai?
Non ce l’hai una famiglia?
Dai, tieni, ma solo per questa volta.
Le undici in punto. Latif ne ebbe semplicemente la certezza. Il suo pensionato spaccava il secondo, era un orologio vivente, e lui non poté che tirarsi su, per una volta docile, farsi investire dalle sue domande sempre uguali, sempre le stesse. Il vecchio lo trovava lì alla ringhiera ogni mattina, sulla traiettoria delle sue scarpe di lana cotta senza lacci, e non lo riconosceva mai, come se ogni notte lavasse via la giornata precedente e al vecchio non restasse che ricominciare tutto da capo. Ogni volta attonito, davanti al mondo sempre nuovo, il mondo che gli sfuggiva di mano. Eppure, ogni mattina, alle undici in punto qualcosa nel suo cervello resettato faceva contatto e si accendeva, davanti alla schiena di Latif.
Latif si girò a guardarlo, le guance segnate dalla ringhiera.
Che palle
pensò. Ma poi girovagò con lo sguardo sul gilet da pescatore con le cento tasche piene di chissà cosa, sugli occhiali da sole che facevano più cataratta che vacanza, sul piccolo cane che non lo mollava mai, che dei due era il più centrato. E un sorriso sbilenco gli tagliò di netto la faccia. Un sorriso rapido e senza coraggio, che il cavalcavia risucchiò e disperse. Che quel vecchio era come suo nonno, e lui suo nonno non lo vedeva da troppo tempo per rispondergli male. Che poi non gli assomigliava affatto, a suo nonno, questo era certo, ma che differenza faceva? Sperò solo che lontanissimo da lì, nel suo villaggio di polvere sotto l’Atlante, in quel preciso momento, cioè le undici del mattino ora italiana, un ragazzino come lui usasse al suo vecchio lo stesso sorriso accennato. Non doveva far altro, solo alzare un angolo della bocca e trattenersi un po’. Che forse bastava così.
«Sì, signore. Tutto a posto, signore. Grazie mille, signore» disse meccanicamente, guardando di sotto e infilandosi in tasca il solito euro.
Poi si girò per guardare il vecchio allontanarsi nel traffico, il piccolo cane isterico a difendere la sua solitudine senza memoria. No, non assomigliava per niente al nonno, poche storie. Niente kaftano grigio perso, né ciabatte rotte. Ma che importanza aveva? Era l’unico, a parte lui, a non patire affatto il casino feroce del cavalcavia, lo squallore di quelle mattinate senza scopo, il vuoto dei treni che se ne vanno. Era l’unico che non riusciva a stare lontano da quel posto più di una notte.
Latif si fece segare le guance dalla ringhiera ghiacciata ancora un po’, finché la campana della chiesa urlò che era l’ora. Si alzò di scatto, si scrollò dagli occhi l’immagine del nonno, della casa di terra rossa alta come il fico del cortile, delle vie storte verniciate di azzurro. E un attimo forse vacillò, ma giusto un attimo. Tanto quelle cose adesso non c’erano e forse non sarebbero tornate mai. Ma certo non è sempre il caso di dirsela a voce alta la verità, spesso è meglio trovarsi un posto – un posto incasinato e distratto come quello magari – e bisbigliarla piano. E che il rumore intorno se la pigli, se la porti via e basta.
Datti una mossa amico
, si disse buttamdosi svelto nel corso alberato, fino alla gradinata di scuola.
Appoggiato alla panchina di pietra, lanciò un mezzo fischio a Orlando, il bidello, il solo in quel luogo a non averlo mai respinto. Quando Orlando si girò per rispondere al saluto, Latif balzò in piedi d’istinto, come in classe con i prof non gli veniva mai, se non dopo lunghe occhiate eloquenti. Orlando allargò le braccia sui fianchi, alzò e abbassò il mento, aprì la bocca e subito la richiuse, tranciando il dispiacere di non vederlo più a scuola. Ma Orlando non era uno che giudicava, non lo sapeva proprio fare. Al massimo ti guardava un attimo, il tempo necessario a centrare il punto dolorante dietro la corazza, dietro la scusa già pronta. E per questo Latif si vergognò un po’.
Per non pensarci, osservò il fiume di teste che travolgeva le scale tirando dritto alla fermata del pullman e si disse che non gliene fregava più niente di essere là in mezzo, che preferiva di gran lunga il cavalcavia, i treni e il pensionato delle undici, che il sogno del nonno di vederlo diplomato al liceo scientifico era appunto del nonno, ma non suo, e lui preferiva farsi segnare le guance da una ringhiera arrugginita, gettare i piedi nel vuoto e perdersi, sperare di venirne risucchiato, smettere una volta per tutte di credere di potercela fare.
Sputò in terra rumorosamente e a più riprese, finché dal fiume di teste non si creò un’onda che prendeva le distanze da lui, facce schifate che diventavano nuche al solo vederlo, e risatine masticate piano, perché con quelli come lui non si sa mai. Finché fu il solito schifo, insomma, lui da una parte, e tutti quanti dall’altra. Solo che là tra quegli altri, in coda a tutti come per non disturbare, c’era lei. In mezzo ma altrove, scendeva la scalinata, lenta. I pensieri sparpagliati in luoghi di cui Latif non aveva mai avuto le chiavi.
Margherita ancorò lo zaino a entrambe le spalle e armeggiò con il colletto del cappotto, fino a prendere fuori la treccia. Poi infilò le mani in tasca, senza tirarne fuori cellulare né cuffiette, ma solo per lasciarle lì, nascoste come quello che le passava in testa. Che importanza poteva avere se nessuno – a parte lei – teneva lo zaino così, come se alle cose che c’erano dentro ci tenesse, e se nessuna – a parte lei – si sarebbe mai legata quella cascata di capelli invece di scioglierseli davanti alla faccia come un riparo? Non hai bisogno di ripari, tu
pensò Latif.
Latif percepì lo sguardo impigliarsi sulla sua figura esile e tutto il resto sfumò lentamente. Margherita e tutto il resto non avevano in fondo niente da dirsi, e il mondo la sputava fuori come un corpo estraneo. Non sei qui e non assomigli a nessuno.
Ma a Latif non sembrava estranea per niente.
Aspettò che tra loro si creasse la giusta distanza, quella che lo avrebbe di certo escluso dal suo campo visivo – ammesso che mai ci fosse entrato – e la seguì.
Insieme – se dieci metri di inconsapevolezza significano insieme – Latif e Margherita tagliarono il centro, senza concedere neanche uno sguardo a negozi e locali. Latif, con il suo passo saltellante ci avrebbe impiegato un soffio, ma adorava regolarsi sull’andatura di lei, sentirne il respiro appesantito dai libri, quelli che lui non aveva mai dietro, intuirne la giornata dall’inclinazione della testa. E rallentare, frenare un po’. Sentire il proprio tempo combaciare con un altro.
Poi Latif scollò gli occhi dalla schiena di Margherita, li posò un istante sul mondo intorno, e Torino riprese a pulsare. Un giorno o l’altro anche lui si sarebbe preso un pezzo di quella città, avrebbe infilato le mani dentro le cose, smesso di guardare tutto come dietro a un vetro. Entrare in un bar, ordinare due cappuccini, parlare al cameriere senza sbagliare una parola. Gustarsi la schiuma tra i denti, portarle lo zaino, aspettare di vedere se gli occhi di Margherita da marroni diventavano un po’ verdi.
Allora Latif allungò di colpo il passo, accorciò la distanza che lo rendeva invisibile, tirò fuori la mano che nascondeva sempre in tasca, neanche fosse colpevole, la allungò verso la treccia di lei.
Che avrebbe detto, lei, a sentirsela tirare, quella treccia?
Che faccia avrebbe fatto a vederselo lì davanti?
Lo avrebbe riconosciuto?
E se si fosse spaventata?
Ma poi via Milano si conficcò dentro Porta Palazzo come una lisca tra i denti. Diventò Corso Giulio, che poi è il nome sbagliato ma nessuno ci fa caso, dato che nel loro quartiere le cose sbagliate sono tante, quasi tutte. Le vie si fanno buie e storte, i muri si coprono di scritte vecchie come cicatrici, l’aria si addensa, si carica di vapori umidi e speziati, si riempie di parole urlate dai balconi, quasi mai in italiano.
Qui anche Margherita è più presente, tiene il ritmo che il loro quartiere richiede, occhi aperti e passo veloce, e via in fretta nel portone scuro, senza neanche voltarsi indietro.
Latif guarda il portone chiuso e la sua mano tesa, rimasta a mezz’aria, vuota come adesso è vuoto tutto il resto.
La casa bianca
Alba entrò in ascensore, trascinando le borse della spesa. Si appoggiò alla parete sospirando e cercò di ignorare la figura che lo specchio, impietoso, le restituiva. Fianchi larghi, gambe certo non magre e seni morbidi. Il tutto infilato in una vecchia tuta grigia che non aiutava. Quante ‘camminate veloci’ avrebbe dovuto fare ancora per dimagrire? Non voleva nemmeno pensarci. Osservandosi così, sudaticcia e spettinata, ancora stravolta per i quaranta minuti di affanno lungo il Po, si sentiva esattamente identica a qualche mese prima, quando aveva giurato a se stessa di mettersi a dieta. Non aveva perso neanche un grammo.
Alba odiava le diete, dello stesso odio sordo con cui odiava lo sport. Lo sport in generale, e nello specifico quello che doveva fare lei, almeno una volta a settimana. Quella pratica generava in lei una fatica fisica e mentale, un’insopportabile malinconia del divano, una nostalgia di tisana più libro che solo un paio di cuffie le rendeva tollerabile. E lì dentro, non musica frenetica, non ritmo esaltante, nemmeno parole di incitazione per illudersi di potercela fare. Solo il sussurro di una voce sorridente, amica: Il cacciatore di libri di Radio 24 in podcast libero. Solo così infilarsi una tuta e camminare diventava quasi sopportabile.
Una volta in casa, guardò con sufficienza lo spettacolo dei led che si accendevano gradualmente, gettando una luce lattiginosa per l’ampia sala.
«Bentornato, Carlo» echeggiò civettuola la voce di Google Home, mentre l’appartamento prendeva vita.
«Non sono Carlo, scema» sussurrò all’ingresso vuoto. Con i sacchetti che le segavano i palmi, si fermò per qualche istante. Doveva farsi forza.
Ci abitava da un anno ormai, e non ci aveva ancora fatto l’abitudine. Tutta quella tecnologia, quell’efficienza, quella robotica cortesia. E lei lì, da sola, senza nessuno ad aspettarla. Il suo fidanzato, il bentornato Carlo appunto, almeno sulla carta l’aveva cercata, comprata, arredata per loro due, quella casa, eppure da quando ci aveva messo piede, ad Alba era sembrata subito lampante una cosa. Quella casa non era casa sua. Non lo sarebbe mai stata, non l’avrebbe mai veramente accolta. Quella casa sarebbe stata sempre e solo la casa di Carlo. Del resto Google Home parlava chiaro: i saluti non erano intitolati a lei.
«Come fai a offenderti con una voce registrata?» la prendeva in giro Carlo. Ma c’era poco da scherzare. Quella voce la sapeva lunga, era l’unica a non girare mai intorno alle cose. E infatti, fin dal pianerottolo, Alba lì dentro non compariva da nessuna parte.
Non sul citofono, ad esempio, dove un numero, un asettico codice di quattro cifre retroilluminate, campeggiava al posto dei loro cognomi. Carlo lo trovava molto discreto, e «la discrezione è sinonimo di eleganza» diceva. O di assenza? Si chiedeva Alba. Perché lei, nemmeno varcata la soglia, non si ritrovava in alcun modo in quel luogo. Niente lì dentro la rappresentava, niente parlava di lei.
L’appartamento era in pieno centro storico, in uno degli edifici più antichi della città. Tra gli spessi muri di pietra secentesca, Carlo aveva saputo erigere un tempio della modernità. Un immenso open space su due livelli, senza pareti, senza tende, quasi senza mobili.
Senza una consolazione
si era detta vedendola la prima volta. E senza un colore
avrebbe aggiunto poi.
Nella casa di Carlo, tutto era bianco. Pareti, divani, tavoli, sedie e lampadari. La luce, anche la luce era bianca – e alogena – colpiva le superfici come una secchiata d’acqua gelida.
«Il bianco è essenziale, moderno, figo. Svecchia tutto» le aveva detto Carlo.
Non è neanche un colore
aveva pensato lei, che lo concepiva al massimo come intermezzo tra le tinte forti, accese, quelle che le davano la carica, che lasciavano giù un’emozione.
«È tutti i colori assieme» aveva aggiunto lui, intuendo le sue perplessità.
«Tutti, cioè nessuno.» Alba lo aveva detto sorridendo, con una morbidezza che lasciava sempre filtrare nelle conversazioni, quando tutto le sembrava irrisolvibile. Ma il bianco le aveva fatto paura allora e le faceva paura adesso, che pure in quella casa bianca ci viveva. Era qualcosa di freddo, che non implicava scelte, non prevedeva emozioni. Creava uno spazio che riusciva a definire solo in negativo, che vedeva privo di qualcosa. Quanto tempo aveva impiegato a sentirsi sola, esposta, vulnerabile, lì dentro?
«Come le facciamo le pareti?» Aveva azzardato allegra alla prima visita.
«Cioè?» aveva risposto Carlo distratto, i polpastrelli che picchiettavano sul cellulare. «Guarda che lascio tutto bianco.» Avrebbe dovuto capirlo allora, già allora, che la risposta ricevuta si stagliava a caratteri cubitali sulla volta del soffitto, immensa come lo schermo di un cinema.
E non era un caso se lei parlava sempre al plurale e Carlo al singolare. Grammaticalmente distanti, Alba e Carlo erano paradigmi di progetti oggi discordanti, domani opposti. Comunque disegnati con tinte diverse.
Entrò decisa in bagno, si tolse i vestiti e li buttò con stizza nella lavatrice, a eliminare le prove di quella umiliazione. Il settimanale, disperato, sforzo sportivo. Lasciò che