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File danneggiati
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E-book106 pagine1 ora

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Info su questo ebook

File danneggiati è un romanzo che trascina il lettore in un viaggio emotivo attraverso la vita di Francesca Saccomani, un personaggio che affronta sfide e tragedie con una resilienza straordinaria. Raccontando la sua storia, il libro esplora temi come la perdita, la crescita personale e la lotta per trovare la propria voce in un mondo che spesso sembra non ascoltare. La narrazione, intima e coinvolgente, permette al lettore di immergersi profondamente nei ricordi e nelle esperienze di Francesca, offrendo una prospettiva unica sulla fragilità e la forza dell’essere umano. File danneggiati non è solo una storia di superamento delle avversità, ma anche una testimonianza del potere della memoria e del racconto nella definizione di noi stessi.
LinguaItaliano
Data di uscita20 feb 2024
ISBN9791220150132
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    Anteprima del libro

    File danneggiati - Francesca Saccomani

    Saccomani-Francesca_LQ.jpg

    Francesca Saccomani

    File danneggiati

    © 2024 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - [email protected]

    ISBN 979-12-201-4802-3

    I edizione febbraio 2024

    Finito di stampare nel mese di febbraio 2024

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    File danneggiati

    Capitolo 1

    Tutto è iniziato per gioco. Era un brutto periodo, ero fasciata e stampellata perché mi avevano asportato un neo con sospetto di melanoma maligno e per questo passavo molto tempo a poltrire sul divano. È incredibile come ai giorni nostri la vita possa avere una svolta improvvisa e inaspettata semplicemente capitando sul sito giusto. Stavo scorrendo annoiata i contenuti di un social, quando fui catturata da una pubblicità: «Vuoi raccontare la tua storia?». Era un contenuto che sponsorizzava la possibilità di scrivere un’autobiografia. C’era un numero di telefono. Per giorni ho esitato, spinta dalla voglia di farlo e dal timore che la mia storia non avrebbe interessato nessuno. Alla fine, mi decisi a tentare. Dall’altra parte del telefono incontrai Daniele, che ascoltò con pazienza la mia storia – interrotta saltuariamente da un’ondata di lacrime - e alla fine mi disse: «Ne parlo con la redazione e ti faccio sapere».

    Nell’attesa friggevo, temendo una risposta negativa. Quando Daniele mi ha richiamato, non riuscivo a crederci. L’avevano accettata!

    Cominciava così una nuova avventura, ma questa volta non avevo intenzione di porci troppe speranze. Troppe volte la vita mi aveva dato una bella possibilità, per poi togliermela crudelmente all’ultimo momento. Iniziai abbassando al massimo le mie aspettative e ripetendo a me stessa di non fomentare troppo le mie speranze. Come va, va, doveva essere il mio motto. Non avevo idea di cosa mi aspettasse.

    Era estate e faceva un caldo torrido quando ho sentito la voce di Nadia per la prima volta. Parlare con qualcuno senza vederne il volto era difficile per me, così ci accordammo per lavorare insieme in videochiamata, avendo almeno la parvenza di essere vicine, la possibilità di guardarci negli occhi.

    Non è semplice raccontare la propria vita a una persona sconosciuta e le prime telefonate sono state dure. Non aiutava la differenza di età tra noi a trasmettermi una nota di disagio. Eppure, non ci è voluto troppo per iniziare a fidarmi e presto i nostri appuntamenti settimanali sono entrati a far parte della mia routine. Solo mio marito sapeva cosa stessi facendo. Ho mantenuto il segreto con tutti, persino con mia figlia, non so bene neanch’io se per pudore o per scaramanzia. A mia figlia ho detto che avevo iniziato un percorso psicologico e questo era il motivo per cui mi chiudevo in camera una volta a settimana. Il percorso che ho fatto con Nadia è stato simile a una terapia, ho raccontato tutta la mia vita, senza mai trattenere lacrime, senza mai trattenere la rabbia o la tristezza. Ho condiviso con lei momenti che non avevo mai raccontato a nessuno e insieme abbiamo lavorato per metterli su carta, dando vita infine a questo libro che avete tra le mani.

    Non so se piacerà o meno, se interesserà o meno la mia storia, ma arrivata quasi alla fine di questo viaggio posso dire di essere fiera di tutto il percorso. Questa che per me è la fine l’ho messa qui, tra le prime pagine di questo libro, perché adesso che è quasi completo, che sto per tracciare la parola fine, sento che sta davvero iniziando un nuovo capitolo della mia vita.

    Capitolo 2

    Quando ero ragazza, a Verona avevano tutti un Ciao e solo qualche fortunato la moto da cross. Io, invece, giravo orgogliosa sul mio mini-bike blu, un motorino con delle ruote così piccole da sembrare un giocattolo. Me lo aveva regalato mio padre per il mio quattordicesimo compleanno ed era lo stesso che aveva anche Maurizio, il ragazzo più carismatico della Compagnia della pankina. Io e il mio mini-bike eravamo inseparabili: andavo e tornavo da scuola, portavo in giro le mie amiche e soprattutto, verso le sei del pomeriggio, andavo dai ragazzi alla pankina. Ci si incontrava sempre lì, alla panchina davanti ad un lavasecco, senza bisogno di appuntamento. Non eravamo l’unica compagnia di Verona. C’erano quella dei cubi, quella di piazza Vittorio Veneto e io stessa, prima di conoscerli, avevo frequentato per un po’ la compagnia della latteria, ma presto mi ero spostata, diventando una nuova adepta in pankina. I ragazzi della compagnia abitavano tutti a Borgo Trento, mentre casa mia era dall’altro lato della città, vicina alla stazione. Ogni pomeriggio prendevo il mio mini-bike, attraversavo il ponte della Vittoria e arrivavo alla pankina pronta a far casino insieme a loro. Eravamo una cinquantina, tra frequentatori assidui e occasionali. A legarci tutti era Maurizio, che organizzava gite in montagna, giri in motorino, che decideva in quale bar andare la sera o a quale festa partecipare. Non so quante volte gli abitanti del quartiere hanno chiamato la polizia perché stavamo facendo troppo chiasso, non so quante follie abbiamo fatto tutti insieme. Avevamo un modo di parlare tutto nostro e la capacità di capirci con un solo sguardo. Creammo persino un nostro giornale umoristico, sul quale trasformammo in fumetti ogni battuta stupida che ci veniva in mente e che ci faceva morire dal ridere. Eravamo stupidi, eravamo giovani, eravamo appassionati e folli. Insieme a loro sono sempre stata felice.

    I miei genitori avevano insistito per iscrivermi al Liceo Classico, ma all’epoca avevo pochissima voglia di studiare e una immensa di vivere, così il primo anno mi feci bocciare e quelli successivi andai avanti facendo il minimo indispensabile e falsificando le firme sul libretto. La mia inseparabile compagna di banco era Marcella, complice di infinite chiacchierate, di compiti in classe valutati con 0 e di gite imposte in presidenza. Per cinque anni ci hanno tenute al primo banco nella vana speranza di porre fine alle nostre parlantine incontrollabili, ma non hanno mai avuto successo. Vivevamo in simbiosi e ci nascondevamo sotto i banchi ogni volta che i professori interrogavano. Suo padre era Onorevole della Democrazia Cristiana, il mio uno dei fondatori del Movimento Sociale Italiano, insieme ad Almirante, ma a noi della politica non importava assolutamente nulla. Era molto legata alla sua famiglia e seguiva diligentemente le regole rigide che le imponevano, almeno finché non era insieme a me e, contagiata dal mio essere uno spirito libero, si scatenava. La nostra classe era caotica e indisciplinata e, a ripensarci ora, provo molta tenerezza per i professori che hanno dovuto sopportarci. I ragazzi delle ultime file erano i peggiori. Spingevano i banchi con i piedi, facendoli avanzare tutti. Io e Marcella ci ritrovavamo appiccicate alla cattedra e quando l’insegnante ci sgridava, rotolavano a terra dalle risate. A volte, durante le lezioni ci mettevamo a riprodurre i rumori del bosco. Tra chi imitava gli uccelli, chi il vento, chi il ruscello e chi gli insetti, spiegare o interrogare per gli insegnanti diventava impossibile. Non mi piaceva studiare, ma amavo andare a scuola. Adoravo i miei compagni, l’intervallo e i panini al tonno di Luciano. Le uniche due materie che mi piacevano e che studiavo volentieri erano il greco e la filosofia. Avevo un professore di filosofia bravissimo, ma con una lieve predisposizione logorroica. Era capace di spiegare senza sosta per due ore ed io, che amavo seguirlo e prendere appunti, alla fine delle sue lezioni avevo sempre l’impressione di aver trascritto un’enciclopedia. Gli altri insegnanti, invece, non li ascoltavo quasi per nulla. Ricordo una mattina in cui, pur di saltare la prima ora, mi unsi braccia e vestiti con l’olio dalla catena del mio mini-bike, fingendo con il preside di essere in ritardo perché mi si era rotto il motorino.

    La data del 4 aprile l’ho impressa nella memoria, ma non riesco a ricordare con precisione l’anno del mio incidente. Per un po’ sono stata convinta fosse il 1974, ma pensandoci bene i conti non tornano. Guidavo il motorino già da un po’ di tempo e frequentavo da parecchio la compagnia della pankina; quindi, deve essere stato dopo. Ricordo che ero andata al cinema

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