I Moncalvo
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Anteprima del libro
I Moncalvo - Enrico Castelnuovo
I.
A Villa Borghese.
Arrivato a Roma la sera innanzi dopo un lungo soggiorno all'estero, Giorgio Moncalvo aveva voluto recarsi la mattina presto a Villa Borghese, ove lo chiamavano molti ricordi della sua adolescenza. Egli tornava da una grande metropoli, ricca di tutti gli agi della vita, di tutte le raffinatezze del gusto, di tutti gli strumenti del sapere, superba di recenti trofei, orgogliosa della sua civiltà prepotente e dominatrice; tornava da Berlino che a lui, spirito scientifico e indagatore, aveva offerto larghi mezzi di studio quali non può ancora offrire l'Italia. Eppure quest'Italia, non ricca, non vittoriosa, verso cui egli aveva rivolto i suoi passi con l'aria umiliata di figlio che quasi si vergogna della madre, quest'Italia lo aveva riavvinto a sè fin dal momento che, sboccando dalle gallerie del Gottardo, egli si era affacciato ai piani e ai laghi di Lombardia. E di mano in mano ch'egli procedeva nel suo viaggio lungo le coste del Mar Ligure e del Tirreno, egli aveva sentito crescere in lui e farsi sempre più caldo, più intenso l'amor della patria. Com'era bella la sua Italia in quello scorcio d'ottobre! Là al Nord, dond'egli scendeva, erano ormai i segni precursori dell'inverno; già nei parchi lisciati e pettinati cadevano dai rami le foglie rapite in giro dal vento; già ogni cosa intristiva nel cielo bigio, umido e freddo; qui l'aspetto della natura accennava appena a una voluttuosa stanchezza e l'estate pareva tuttavia indugiarsi e sorridere attraverso il tepore dell'aria e la luce del sole.
Quest'impressione provava Giorgio Moncalvo percorrendo nell'ora mattutina i larghi viali di Villa Borghese, e fermandosi di tratto in tratto a guardar le praterie smaltate di fiori ove i cavalli pascolavano liberi, e le grandi masse degli alberi che intrecciavano, senza confonderle, le gradazioni infinite dei loro verdi; dal verde cupo del pino, al verde opaco della quercia, al verde tenero della robinia.
Pressocchè deserta quand'egli v'era entrato, la Villa andava a poco a poco animandosi.... Qualche carrozza di forestieri ai quali il cocchiere faceva da cicerone; qualche coppia romantica; qualche ciclista solitario; qualche governante coi bimbi; qualche ordinanza a cavallo; qualche gruppo di preti.... Passò una compagnia di soldati; passò, col ronzio d'un enorme moscone, un'automobile polverosa, lasciando dietro di sè un forte odor di benzina; passò, proprio dinanzi a Moncalvo, un allegro manipolo di studenti.
Egli pensava: «Anch'io.... un tempo!»
Dov'era andato quel tempo? Dov'erano andate (e pur egli era giovine sempre) l'elasticità della sua fibra, la sua voglia di saltare, di ridere, di far del chiasso? Dov'erano andati gli amici, i compagni coi quali, ai primi rintocchi della campana che annunziava la fine sospirata delle lezioni, egli volava a Villa Borghese a ruzzare sull'erba, a giocare alla palla, a esercitarsi sulla bicicletta? E dov'era la sua mamma che, avvezza a vivere in una tranquilla città del Veneto, varcava a malincuore l'ingresso della Villa magnifica e rumorosa e diceva, tentennando la testa: «Sì, sì; sarà un bel posto, ma troppa gente, troppe vetture, troppo frastuono.... Non mi ci abituerò mai»?
Giorgio Moncalvo rammentava che i giocondi ritrovi di Villa Borghese erano stati interrotti in seguito alla malattia e alla morte della povera donna. Povera, povera mamma! Buona, intelligente, ma nata col segreto dell'infelicità! Fin che suo marito era stato un professorino d'istituto tecnico a duemila cinquecento lire l'anno ella lo aveva assordato con le sue lamentazioni esaltando, per umiliarlo, il fratello Gabriele che non perdeva le notti sui libri, ma, slanciandosi arditamente negli affari, accumulava una grossa fortuna e faceva nuotar la famiglia nell'abbondanza.
— Almeno tu ci procurassi qualche soddisfazione d'amor proprio! — ella sospirava. — Ma sì!... Con tutto il tuo ingegno resterai a marcire in una scuoletta di provincia....
Ed ecco che, di punto in bianco, Giacomo Moncalvo era divenuto un uomo celebre; aveva, coi suoi lavori di geometria superiore, vinto il premio reale dei Lincei per le matematiche, aveva ottenuto per concorso una cattedra all'Università di Roma.
— Sei contenta? — egli aveva chiesto alla moglie.
Ell'aveva risposto di sì, e forse sulle prime era stata contenta, ma fu una contentezza che durò poco. Sopraggiunsero i fastidi del trasporto, le difficoltà dell'alloggio e quelle anche maggiori di regolar l'azienda domestica in una città ove tutto costava infinitamente più caro. Indi nuove e interminabili querimonie.
— Qui si spende il doppio, il triplo.... Valeva proprio la pena di cambiar stato e domicilio per ridursi a dover guardare al centesimo! E poi che confusione, che babilonia! È un miracolo se non si va sotto una carrozza od un tram.... Ah, la mia pace, la mia pace!
La sua pace ella l'aveva trovata, di lì a non molto.... in cimitero, dopo una malattia breve e un'agonia dolce, che le aveva permesso di accommiatarsi affettuosamente dal marito e dal figlio e di chieder loro perdono se, amandoli tanto, li aveva tormentati con le ineguaglianze del suo carattere cruccioso ed inquieto.
Rivolgendosi a Giorgio in particolare, ell'aveva soggiunto:
— Ah, se la zia Clara potesse venire a star qualche mese con te!
In fatti, al solo annunzio della disgrazia, la zia Clara era venuta spontaneamente nientemeno che dal Cairo ove abitava già da parecchi anni con l'altro fratello, Gabriele, quello che aveva il bernoccolo degli affari. Era venuta ed era rimasta circa nove mesi, riordinando la casa, facendo sentire a Giacomo e a Giorgio tutto il pregio d'una buona massaia.
— Perchè non rimani sempre con noi? — le aveva chiesto il professore.
— Non posso.... Tutti di laggiù mi vogliono.
— Che bisogno hanno di te?
— Forse più di voi altri.
E quelli di laggiù, come la zia Clara chiamava suo fratello Gabriele, la cognata Rachele e la nipote Mariannina, se la portarono via nel novembre dopo aver passato anch'essi alcune settimane a Roma, di ritorno dal viaggio che facevano ogni estate nel nord dell'Europa. Questi parenti milionari che alloggiavano all'Hôtel del Quirinale, e sfoggiavano un lusso da principi, e tenevano carrozza e cavalli, e si facevano servire i pasti a parte con gran profusione di Bordeaux e di Sciampagna, avevano allora colpito la fantasia del giovine studente, trattato da loro con cordialità rumorosa, commensale festeggiato alla loro tavola, guida desiderata nelle loro visite ai monumenti di Roma.
Egli era per lo più con le donne; chè lo zio Gabriele, piombato in Italia durante un periodo d'elezioni generali, aveva avuto la malinconia di sollecitare una candidatura in un collegio del Lazio e si recava spesso tra i suoi presunti elettori a sbalordirli con le sue promesse e con i suoi quattrini.
Le signore disapprovavano questo capriccio costoso.
— Era meglio comperare quel yacht che ci avevano offerto, — diceva la figliuola, ch'era una vispa ragazza di dodici anni.
E la moglie, bellezza un po' matura dal tipo spiccatamente orientale, guardandosi le mani bianche e giojellate, si lagnava dell'insolita tirchieria del marito che non aveva voluto regalarle un anello di brillanti esposto da Marchesini sul Corso, con la misera scusa ch'ella ne aveva già troppi.
— Se lo zio riuscisse, — chiese Giorgio una sera, — verrebbero a stabilirsi in Italia?
— Presto o tardi, — rispose la zia Rachele, — lasceremo certo l'Egitto.... Ma non c'è furia.... Gabrio intanto, — ella chiamava spesso il consorte con questo diminutivo — Gabrio potrà andar su e giù.... È un viaggio così breve!...
Del resto, non occorse pensarvi, poichè Gabriele Moncalvo fu sonoramente battuto dal suo competitore, ch'era appoggiato dai clericali ed ebbe buon gioco contro un candidato forestiero, ebreo e socialistoide.
Benchè la sconfitta gli fosse amara, Moncalvo finse di non darsene per inteso, e si limitò a deplorare che l'Italia fosse sempre sotto il dominio dei preti, nemici d'ogni progresso. In quanto a lui, doveva esser riconoscente agli elettori che non gli avevano dato il voto e gli permettevano così di non distrarsi dal suo lavoro proficuo. E giacch'era libero da preoccupazioni politiche e s'avvicinava il momento della partenza per l'Egitto, egli voleva dedicare alle bellezze di Roma l'ultime due settimane del suo soggiorno in Italia.
In queste peregrinazioni, Giorgio, fresco degli studi classici, era stato un'ottima guida allo zio, il quale, con meraviglia del nipote, aveva mostrato più gusto artistico e più cultura archeologica di quella che non potesse aspettarsi da un uomo d'affari. Lo zio, alla sua volta, ammirando l'intelligenza pronta del giovinetto, aveva un istante accarezzato l'idea di associarlo alla sua azienda.
— Vuoi far la tua fortuna?
Giorgio rammentava questa domanda che lo zio gli aveva rivolta a bruciapelo, appunto a Villa Borghese, nell'atto di montare nella carrozza che li aspettava all'uscita del Museo.
— Se vuoi far la tua fortuna — erano state le precise parole dettegli da Gabriele Moncalvo dopo averselo fatto sedere accanto — devi piantar l'Università, ch'è una fabbrica di dottori inutili, e venire in Africa con noi.... Stai un paio di mesetti al Cairo come mio segretario particolare, prendi qualche lezione d'arabo, e in febbraio o in marzo vai nella nostra casa di Kartum.... Gente nuova, paesi nuovi, ci s'impara di più che in tutte le biblioteche del mondo.... E, strada facendo, vedrai delle antichità che non hanno nulla da invidiare a quelle di Roma.... In cinque o sei anni ti garantisco io che metti da parte un buon gruzzolo e puoi tornare in Europa a viver d'entrata.... Già fra cinque o sei anni ci torneremo tutti.... Ah, non pretendo che tu decida subito. Riflettici, consulta tuo padre, e sappimi dir qualche cosa domani o doman l'altro.
Non s'era concluso nulla. Il professore Giacomo, pur dichiarando al figliuolo che non voleva vincolar la sua libertà, l'aveva sconsigliato dall'accettar la proposta, ed egli stesso, Giorgio, non s'era sentito la forza di abbandonare il suo babbo, la sua casa, la sua patria, i suoi studi.
— Me lo immaginavo, — disse Gabriele Moncalvo. — Avete lo scirocco nelle ossa, come tutti gl'italiani contemporanei.... Il vostro ideale è l'impiego e la pensione.... E poi tuo padre è un filosofo stoico che disprezza il danaro.... Pazienza.... Se cambi opinione prima che finisca l'anno, non hai da far altro che imbarcarti per Alessandria e telegrafarmi.... Intanto c'imbarchiamo noi con mia sorella Clara, che avrete la compiacenza di restituirci.
Erano passati sett'anni, e per una serie di combinazioni Giorgio non aveva più rivisto questi suoi parenti, bench'essi fossero venuti ogni estate in Europa. Si può anzi affermare che quasi quasi egli li aveva dimenticati, a eccezione, s'intende, della zia Clara, la cui fisonomia placida e buona gli era sempre scolpita nella memoria e con la quale scambiava di tratto in tratto una lettera affettuosa.
«Sarà per me una festa il riabbracciarti, — ella gli aveva scritto all'annunzio del suo prossimo arrivo a Roma. — Ormai, grazie al cielo, siamo tornati italiani anche noi e, se Dio vuole, avremo finito di girare il mondo. Gli zii e la Mariannina ti salutano e sperano che non farai il prezioso come il tuo babbo che, per dir la verità, è un po' troppo orso».
La prospettiva di riabbracciare la zia Clara era certo gradita a Giorgio Moncalvo; non così quella di trovarsi col resto del parentado, verso il quale egli era stato messo in diffidenza dalle lettere di suo padre. «Sono immensamente ricchi, — ammoniva il professore, — molto più ricchi di quello che non fossero sett'anni fa. Non son gente per noi. Io apprezzo le grandi qualità di mio fratello; non ho nulla da rimproverare a mia cognata; ammiro la Mariannina ch'è una bellissima ragazza; ma me ne tengo alla larga quanto è possibile. E ti consiglio di tenertene alla larga anche tu».
— E un consiglio che seguirò senza fatica, — pensava Giorgio Moncalvo.
E, in vero, se in quei sett'anni i suoi parenti erano diventati molto più ricchi, egli era diventato molto più serio, molto più schivo dei piaceri, del lusso, delle allegre compagnie. E quante nuove immagini, e quante nuove impressioni s'erano sovrapposte nella sua mente e nel suo cuore alle immagini, alle impressioni di un tempo!
Appassionatosi degli studi fisiologici, e fattosi conoscere per qualche monografia originale mentr'era ancora all'Università, suo padre lo aveva mandato subito dopo la laurea a Berlino presso il celebre professor Raucher, che n'era rimasto entusiasta e lo aveva invitato ad aiutarlo nel suo gabinetto. Doveva trattenervisi solo alcuni mesi e vi si era trattenuto tre anni, chiuso, si può dire, fra i quattro muri del laboratorio, pieno di riverente ammirazione pel maestro insigne che nella scienza volta al servizio dell'umanità cercava un conforto ai due gran dolori della sua vita, la moglie morta, la figliola condannata a morire.
Accolto nell'intimità della casa, Giorgio Moncalvo aveva conosciuto la bionda e pallida Frida, che parlava con meravigliosa serenità del destino che l'attendeva, e sapeva di dover rinunziare all'amore e alla maternità, e pur, nell'anima assetata di affetto, architettava il romanzo d'un legame puramente spirituale e fraterno.
E vi fu un momento in cui Giorgio Moncalvo s'accorse d'essere divenuto egli stesso l'eroe di questo romanzo. Frida lo avvolgeva di una simpatia calda e discreta; quand'egli, ospite desiderato, sedeva alla mensa dei Raucher, era sicuro di trovarvi, preparate dalla giovinetta, le vivande ch'egli preferiva; quando la sera veniva a prendere il tè nel salottino raccolto ove il professore si riposava dalle fatiche della giornata, ella, pianista squisita, sonava per lui la musica ch'egli amava di più: Bach, Beethoven, Schumann. Altre volte invece, con la sua vocina esile e dolce, ella gli recitava le liriche di Goethe, di Schiller, di Heine, o lo supplicava di leggerle e di spiegarle una canzone di Leopardi, un coro di Manzoni, un'ode di Carducci, e stava intenta a sentirlo, affascinata, commossa dalla melodiosa lingua italiana ch'ell'aveva appresa fanciulla, passando due inverni a Pisa con la sua mamma, e che pronunziava ancora abbastanza correttamente e non senza una sua grazia gentile.
Di tratto in tratto, in una crisi del male che la insidiava, Frida rimaneva per tre o quattro giorni nella sua camera, invisibile a tutti fuori che al padre. E in quei giorni la ruga dolorosa che solcava sempre la fronte dello scienziato si faceva più profonda, e i piccoli occhi acutissimi, avvezzi a scrutar la vita segreta dell'atomo, non reggevano allo sforzo del microscopio.
— Guardi lei, Moncalvo. Oggi non posso.
— Ah, Moncalvo, Moncalvo, — aveva esclamato una mattina il professore, cedendo a un bisogno subitaneo di sfogo, egli così avvezzo a padroneggiare le sue emozioni, — se sapesse quello che io provo quando mi chiamano illustre, quando vantano le mie scoperte!... Io mi cambierei col primo bifolco che passa per la strada pur d'avere una figlia sana.... Io darei tutto il mio bagaglio di scienza per lo specifico d'un ciarlatano che facesse guarir la mia Frida.... E non c'è speranza.... Uno, due anni forse, e me la vedrò portar via come hanno portato via sua madre.... Perchè, perchè l'ho fatta venire al mondo?... Perchè ho sposato una donna affetta d'una malattia che si trasmette ai figlioli?... Ella, poverina, aveva il diritto d'ignorare.... Ma io, io, il grande fisiologo?... Creda, Moncalvo, è una colpa che non mi perdonerò mai.... E se Frida non fosse un angelo, come avrebbe ragione di maledirmi!... E, a ogni modo, quella sua ferma risoluzione di non prender marito.... già io stesso non glielo permetterei.... non è una tacita condanna per me?... Ah, se le cose fossero andate diversamente, se Frida fosse stata una ragazza come le altre.... libera di ubbidire alle sue simpatie!... Basta, è inutile discorrere di ciò che non può accader mai.... Grazie, Moncalvo, grazie delle attenzioni che usa alla mia Frida.... Non la disilluda.... Le lasci credere che le vuole un po' di bene, il bene di un fratello ad una sorella.... Frida non le chiede di più....
Ora Giorgio Moncalvo domandava a sè stesso quali fossero stati, quali fossero veramente i suoi sentimenti per Frida Raucher. Certo egli non l'aveva amata d'amore; pure il suo pensiero correva a lei con una tenerezza fatta di compassione e di gratitudine; pure all'idea ch'ell'era così lontana, che probabilmente egli non la avrebbe rivista, egli sentiva le lacrime fargli un groppo alla gola. Com'era bianca e smorta il giorno in cui egli s'era accommiatato da lei! Come le tremava la voce quando, sforzandosi di sorridere, ella gli aveva detto: — Era inevitabile che dovesse tornare in Italia, presso suo padre.... Avrebbe fatto malissimo a rifiutare l'assistentato che l'è offerto a Roma.... Resteremo amici ugualmente, non è vero?... La nostra affezione non è di quelle che hanno bisogno della convivenza.... Mi scriverà.... in italiano.... E le risponderò anch'io in italiano.... Sarà un esercizio utile.... Non si scandalizzerà de' miei spropositi.... Addio, signor Giorgio.... e buona fortuna....
La piccola mano umida e sottile che Moncalvo aveva presa nella sua s'era ritirata dolcemente, i mesti occhi languidi s'eran rivolti da un'altra parte; con un ultimo cenno di saluto Frida era scomparsa.
Giorgio Moncalvo girellava per la Villa da circa un paio d'ore. C'era entrato da Porta del Popolo e si dirigeva pian pianino verso l'uscita di Porta Pinciana, con l'intenzione di dare una capatina nei Quartieri Ludovisi, abbozzati appena nel tempo ch'egli partiva da Roma. Ma proprio mentr'egli, rallentando il passo, guardava alla sua sinistra, sopra un tenue rialzo di terra, il monumento a Goethe, biancheggiante fra il verde nel nitido candore dei marmi, la sua attenzione fu distratta da uno scalpitar di cavalli. La cavalcata, composta di tre donne e di un uomo, veniva dalla parte di dov'egli era venuto e probabilmente si avviava anch'essa a Porta Pinciana. Le tre donne, elegantissime nei lunghi vestiti d'amazzoni, erano giovani e belle; il loro compagno, che mostrava d'esser più vicino ai cinquanta che ai quarant'anni, aveva aspetto signorile ed aristocratico.
Moncalvo s'era tirato sul ciglio della strada per lasciar passare il gruppo che s'avanzava al buon trotto; ma qual fu la sua meraviglia quando una delle cavallerizze, e precisamente quella che gli era parsa la più bella e la più giovane, fece un gesto festoso di riconoscimento e si staccò dagli amici gridando forte:
— Go on; I'll soon be with you.
Indi la stessa voce, rivolta a lui, continuò in perfetto italiano:
— O Giorgio.... non si conosce?... non si saluta?
La bella incognita si chinò sulla sella e, tenendo la manina inguantata, soggiunse con un lieve accento d'impazienza:
— La Mariannina, via... Tanto ci vuole?...
Finalmente Giorgio Moncalvo la ravvisò.
— Mariannina!... Scusi.... È tanto mutata....
— Ma che scusi?... Ma che cosa significa quell'è tanto mutata?... O che mi daresti del lei!
Egli arrossiva, balbettava, stillandosi invano il cervello per mettere insieme due parole, umiliato al pensiero della misera figura che egli faceva con questa cugina non riveduta da sett'anni; ella però seguitava a sorridergli incoraggiante, benevola, paga dell'ammirazione ch'ella sentiva d'avergli inspirata.
— Verrai a trovarci, s'intende, — ella disse palpando il collo del suo magnifico sauro dalla fronte stellata che s'agitava fremente e raspava la terra col piede. — Aspetta.... Stasera no, che siamo fuori di casa.... Domani sera alle sette e tre quarti, a pranzo.... Riceverai l'invito per te e per lo zio.... Palazzo Gandi, via Nazionale, quasi dirimpetto alla Banca d'Italia.... Il tuo babbo potrebbe aver dimenticato l'indirizzo.... Ma domani non si salva, neppur lui.... A domani.... senza fallo.
E volò via in un nembo di polvere.
Giorgio Moncalvo rimase alcun poco immobile, con la fulgida visione negli occhi. Quella era dunque la Mariannina ch'egli rammentava con le sottane corte, leggiadra forse, ma in quel periodo critico nel quale la più bella fanciulla del mondo ha nel volto, nella persona qualche nota stridula ed aspra che turba ed offende e arresta, anche sul labbro compiacente dei familiari, i pronostici dell'avvenire? Era quella oggi così affascinante nella mirabile armonia delle membra,