Il viaggio di Ermelinda: Romanzo
()
Info su questo ebook
sa di studio per migliorare le sue conoscenze
linguistiche e si trasferisce a Vienna. Il primo
impatto con la metropoli, carica di tutta la
polvere storica del XX secolo, la trascina subi -
to in una spirale di esperienze nuove e sconvolgenti,
con risvolti che cambieranno, anche
se soltanto su un piano inconscio, la sua vi -
sione del mondo. All'inizio del nuovo Millennio,
tornando in questa grande cittá, che nel
frattempo ha ritrovato il vecchio splendore e
tutta la grandezza che le compete, si accorge
di aver vissuto secondo regole dettate da secoli
di tradizioni e non dallo scorrere del
tempo. Sarà in grado di andare finalmente
controcorrente?
Un romanzo di formazione, per quel che questa
definizione voglia dire.
Ada Zapperi Zucker
Ada Zapperi Zucker ist in Catania geboren und hat in Rom Klavier und Gesang studiert und dieses Studium an der Musikhochschule Wien beendet. Gleichzeitig hat sie für Dizionario Biografico degli italiani dell'Istituto Treccani, Enciclopedia dello Spettacolo und Enciclopedia Universo De Agostini gearbeitet. Als Opernsängerin war sie hauptsächlich außerhalb Italiens tätig, derzeit unterrichtet sie Gesang in Deutschland und in Südtirol. Von dem südtiroler Maler Gotthard Bonell wurde sie in Malerei unterrichtet. Sie lebt seit vielen Jahren in München, ist mit einem Österreicher verheiratet und hat zwei Kinder.
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Anteprima del libro
Il viaggio di Ermelinda - Ada Zapperi Zucker
Ada Zapperi Zucker è nata a Catania. A Roma ha iniziato gli studi di canto e pianoforte per poi concluderli alla Musikhochschule di Vienna. Insegna canto in Germania e in Sudtirolo.
Ha collaborato al Dizionario Biografico degli italiani dell’Istituto Treccani, all’Enciclopedia dello Spettacolo e all’Enciclopedia Universo De Agostini.
Cantante lirica ha svolto la sua attività prevalentemente all’estero, soprattutto in Austria e Germania. Col pittore sudtirolese Gotthard Bonell ha studiato pittura e partecipato a diverse mostre.
I suoi scritti letterari hanno ottenuto vari premi nazionali e internazionali, i più importanti sono:
Le ragazze siciliane hanno gli occhi fermi e seducenti, ma come velati da una malinconica apatia… In quegli occhi sono stratificati le sofferenze, l’ansia e il torpore di infinite generazioni, tutta la storia del popolo siciliano, che è una successione ininterrotta di impulsi disperati e di sottomissioni supine, di momenti rapidi pieni di luce e di zone interminabilmente oscure.
S. Aglianò, Questa Sicilia. 1982
Indice
PARTE PRIMA
Una borsa di studio
In viaggio
Una casa viennese
Una nuova amica
I racconti di Lise
Rahimi
Incontri viennesi
Una lettera
Il mistero dei sogni
Luci e ombre
La fuga
PARTE SECONDA
Viaggio nella realtà
Un tuffo nel passato
Un brutto sogno
Tante scoperte
Rimettersi in gioco?
PARTE PRIMA
Una borsa di studio
«Cosa vuoi che siano quattro mesi? Niente, un brevissimo lasso di tempo, una breve stagione dall’autunno all’inverno. Una borsa di studio! L’avessi avuta io, alla tua età.»
Il padre sembrava dovesse partire lui stesso tanto era entusiasta, ringalluzzito addirittura, quasi fosse lui il vero vincitore di quella borsa. Con forzata euforia tentava in realtà di minimizzare la reazione della moglie, che al contrario vedeva in tutta quella impresa solo motivo di preoccupazione. Una ragazza sola, smaniava la madre, senza nessuna esperienza del mondo – e il mondo è cattivo – in una città straniera, lontana almeno duemila chilometri, oltre le Alpi. Non che non si fidasse della figlia, ma era troppo ingenua, sprovveduta, priva di malizia; e poi come avrebbe potuto sopravvivere se non sapeva neanche cucinare due spaghetti? E che vantaggio gliene sarebbe venuto, visto che avrebbe in ogni caso insegnato solo materie letterarie? Certo, il punteggio, ma a costo di quali sacrifici. Tutta colpa del professore. Era stato lui a metterle quella pulce nell’orecchio. Già non aveva mai capito per quale motivo la figlia si fosse messa a studiare tedesco.
Il professore qui, il professore là. Da quando Ermelinda aveva cominciato quel corso, il professor Müller era entrato nella sua famiglia. Addirittura aveva preso posto in mezzo a loro, pur non avendo mai messo piede nella loro casa. Ogni giorno la ragazza arrivava con una notizia: il professore ha detto, e partiva… Il padre, per quietare la moglie che temeva chissà quali interessi particolari, era andato all’Università, – alla figlia disse di essersi trovato a passare da quelle parti per certe sue faccende – per conoscere il famoso professore. Fu sorpreso di scoprire un vecchietto, una specie di nonno, da qualche anno in pensione, che, come gli raccontò, non riusciva a rassegnarsi a restare in casa senza nessuna occupazione. I giovani lo aiutavano a superare la solitudine, disse, ora che aveva perduto anche la moglie.
Il professore aveva decretato: „per imparare una lingua non basta studiare la grammatica e i vocaboli, bisogna vivere sul posto e parlare con la gente del luogo. Ecco cosa è necessario." Così, senza neanche informare i genitori, si era messo a brigare con lettere e controlettere, in diretta corrispondenza col Ministero degli Affari Esteri dove diceva di avere delle conoscenze, ed ora ecco la risposta da Roma. Vienna, con uno stipendio di duemila scellini al mese. Nessuno era stato in grado di stabilire se la somma fosse sufficiente per vivere, ma il papà aveva subito assicurato un piccolo aiuto.
Per Ermelinda vennero giorni di grande inquietudine; non riusciva a immaginare la sua vita lontana dalla famiglia, dalla città nella quale era nata e vissuta, dalle sue amiche. Si era allontanata dalla Sicilia solo una volta, insieme ai genitori, nel 1950, per l’Anno Santo. Aveva attraversato lo stretto di Messina col batticuore, conscia del grande momento che stava vivendo. Le sorelle erano rimaste con la nonna; solo lei, la maggiore ormai undicenne, aveva avuto il grande privilegio di fare quel viaggio memorabile per vedere il Papa, il Vaticano e visitare le sette chiese (benché quattro sarebbero state più che sufficienti) e cioè San Pietro, naturalmente, poi San Paolo fuori le Mura, San Giovanni in Laterano, Santa Croce in Gerusalemme, San Lorenzo fuori le Mura e santa Maria Maggiore. Per la settima era mancato il tempo; tre giorni faticosissimi, una sfacchinata che non avrebbe mai dimenticato. In classe poi, su richiesta della professoressa, aveva dovuto fare una specie di rapporto piuttosto dettagliato, in piedi accanto alla cattedra; per fare più colpo sulle compagne che non avevano mai messo il naso fuori dalla loro città si era permessa qualche correzione e qualche omissione, cioè aveva eliminato tutti i lati negativi delle tre giornate, le corse, la confusione nelle chiese dove era impossibile vedere qualcosa per la troppa gente, il male ai piedi, la stanchezza e non per ultimo la noia. Ma questa della noia non lo ammise neanche a se stessa.
Un peccatuccio di vanità, come era stata rimproverata dal confessore, che le aveva somministrato qualche Avemaria e Paternostro in più.
Già allora aveva una fantasia che correva a briglia sciolta sbizzarrendosi come un puledrino alle prime armi, senza prevedere le reazioni che ogni volta questo suo fantasticare le procurava: le piaceva infatti inventarsi incontri con coetanei, ma anche con adulti, che spuntavano da chissà dove, affermando di averli conosciuti in circostanze tutte particolari. E raccontava storie piuttosto confuse su luoghi e persone, in realtà mai visti, dove era assolutamente convinta di essere stata.
Tutto ciò metteva la madre in crisi e si poteva scommettere che dopo una di queste uscite scoppiasse una discussione fra la madre e la nonna che viveva con loro. L’accusa era sempre la stessa: la nonna con i suoi racconti fantastici confondeva le idee nelle teste ancora in via di formazione dei suoi bambini, incoraggiandoli a inventarsi storie senza capo né coda. Di pari passo venivano criticati aspramente i metodi educativi della nonna che da persona non istruita e senza la minima conoscenza della pedagogia e ancor meno della psicologia, come ogni volta non mancava di sottolineare, non aveva nessuna idea della psiche infantile.
Fin qui il tono era quasi sempre pacato, anche perché la figlia cercava di giustificare il comportamento della madre con la scusa della sua ignoranza, ma bastava che la nonna, alquanto piccata da tanta saccenteria, si mettesse sulle difensive dicendo che da che mondo è mondo ai bambini sono sempre piaciute le fiabe con l’orco e la mammatrava, per arrivare agli urli e alla famosa frase:
«I figli sono miei e li educo come voglio io.» A questo punto la nonna chiudeva la discussione ritirandosi nella propria stanzetta senza aggiungere altro, borbottando solo:
«Fai come credi.» Tanto sapeva che con la figlia non era più possibile ragionare.
I bambini disorientati ma nel frattempo abituati a quelle scenate, continuavano a giocare, zitti zitti, facendo finta di non sentire, quasi la cosa non li riguardasse. Ma a loro piacevano le fiabe e il mondo magico della nonna, mentre la mamma non raccontava mai niente, diceva anzi che le fiabe sono solo invenzioni di gente dalla fantasia malata.
Ermelinda in particolare amava le fiabe, soprattutto quelle dove apparivano fate, gnomi e naturalmente il principe azzurro, e se la nonna per qualche tempo, dopo le sfuriate della figlia, diceva di non saperne altre, lei se le raccontava da sola. E quando anche la sua fantasia si esauriva, arrivavano i sogni. Sognava infatti veri e propri romanzi a puntate. La scena era sempre la stessa: in riva al mare, una spiaggia deserta, una distesa di sabbia che si perdeva a vista d’occhio, un veliero corsaro in lontananza e una piccola principessa. Un gruppo di uomini neri si buttavano su di lei e la trascinavano via. In quel preciso momento si udiva lo scalpitio di un cavallo e un puntino luminoso si avvicinava a gran velocità. In uno sfolgorio di luci appariva un guerriero in una magnifica armatura luccicante come il sole, la stessa armatura dei Paladini di Francia che una volta aveva visto all’Opera dei Pupi. In piena corsa, con un braccio solo, sollevava da terra la bambina indifesa (che poi era lei) e tutto finiva lì.
Il gesto meraviglioso di quel braccio fasciato da un bracciale di ferro che si protendeva verso il basso; il cavaliere che si piegava sulla staffa come un acrobata; il cavallo, naturalmente bianco, che schiumava per la corsa: tutto la riempiva di un’estasi, di una gioia così intensa che ogni volta si svegliava col cuore in tumulto, quasi sul punto di scoppiare. Si riaddormentava subito dopo col desiderio di ripetere lo stesso sogno e di non svegliarsi, per favore, per arrivare finalmente al castello. Come avrebbe voluto vedere quel castello, almeno da lontano, le torri merlate, il ponte levatoio e tutto il resto, che conosceva dalle illustrazioni dei suoi libri. Da sveglia poi, aveva tutta quella scena davanti agli occhi, come una realtà da toccare con mano. E invece niente, ogni volta si svegliava nel momento stesso in cui il cavaliere la sollevava da terra. A forza di rifletterci su, finì col convincersi che era proprio quel movimento a svegliarla, troppo brusco, improvviso… se il cavaliere si fosse fermato un momento e l’avesse issata con un pochino di garbo sulla groppa del cavallo, se quel gesto fosse stato guidato da qualcosa che aveva a che fare con la cortesia, con la tenerezza, magari e… qui si perdeva, non riuscendo a trovare un seguito, un finale soddisfacente.
Non raccontò mai a nessuno quella serie di sogni fantastici. Neanche alla nonna.
La nonna.
Il pensiero di quella separazione le procurava un vuoto allo stomaco, un malessere mai conosciuto.
Con la mamma aveva poca confidenza, la vedeva poco, solo il pomeriggio e non sempre.
E poi la mamma era impaziente e autoritaria. Convinta di dover prendere le redini in mano nell’educazione dei figli e nell’organizzazione del ménage famigliare, non tollerava nessun intervento in quello che considerava sue esclusive competenze. E questo significava guerra continua con la propria madre, ormai in pianta stabile da loro da quando era nata Ermelinda. Certo, dovendo lavorare, aveva bisogno di un aiuto in casa, una comodità che a sentir lei la metteva in posizione subalterna, addirittura di dipendenza nei confronti della madre. Cosa che soltanto in parte rispondeva alla verità, infatti la nonna per amore della pace in famiglia era sempre pronta a cedere. A ogni scontro reagiva infatti sempre con la frase: fai come credi.
Ermelinda, insieme alle due sorelle e al fratellino, arrivato quando nessuno più se lo aspettava, era stata cresciuta dalla nonna, una donna semplice, appunto, senza quella istruzione scolastica cui la figlia attribuiva tanta importanza, ma con una saggezza dettata più dall’esperienza che da ogni ‘sicologia’¹ libresca. A conti fatti, nonostante gli interventi di disturbo della figlia, era lei a tenere ben saldi i fili di quel nucleo famigliare.
La nascita dell’ultimo figlio, otto anni prima, aveva scombussolato l’equilibrio della famiglia. Ermelinda aveva accolto quel bambino con una sorta di religiosità, quasi consapevole del miracolo della creazione, riservato solo alle donne: aveva seguito con apprensione le varie fasi della gravidanza della madre e soprattutto l’ultimo mese era stato motivo di angosce inesprimibili. Inconsciamente temeva per la sua vita e forse anche per quella della creatura che in qualche modo doveva uscire dal suo grembo, non sapeva come, non osando chiedere chiarimenti alla nonna e tanto meno alla mamma. Le due sorelle al contrario ridacchiavano della sua ignoranza: a scuola avevano sentito di un buco speciale che al momento opportuno si sarebbe aperto… come, nessuno lo sapeva. La madre non si era curata di dare spiegazioni, troppo occupata dal nuovo evento, piuttosto problematico data la sua età e la nonna, anche lei impreparata e piuttosto imbarazzata dallo stato di sua figlia, non aveva fatto nessun commento. E poi il trionfo: un figlio maschio, finalmente dopo tre femmine. La conferma e chissà magari una giustificazione dell’essersi permessa ancora dopo dieci anni e alla sua età, una nuova gravidanza: un figlio maschio, quasi una riabilitazione davanti ai parenti, ai colleghi, ai vicini. Di certo, la più grande soddisfazione della sua vita.
Ermelinda, allora al liceo, non vedeva l’ora di tornare a casa per coccolare il fratellino. Quasi trascurava, lei sempre una delle migliori della classe, di studiare; fu l’unico anno in cui sulla sua pagella apparve qualche sei. Ma era innamorata, semplicemente innamorata di quel bambino.
E quell’amore intenso, esclusivo, era se possibile aumentato con gli anni.
Non osava confessare neanche alla nonna la tristezza, le lacrime che versava di notte al pensiero di dover lasciare il ‘suo’ bambino, la nonna, le sorelle, il mondo nel quale si sentiva sicura e protetta. Non per ultimo il suo papà, al quale era legata da un affetto profondo, in un rapporto di totale fiducia.
Era lo stesso sentimento di impotenza, di perdita di sé che aveva provato da bambina, quando sentiva un dente dondolare in bocca, pronto a lasciarla per sempre, mentre nessuno capiva la sua angoscia, sola davanti a quel fatto ineluttabile. Il dente poi, trattenuto soltanto dalla forza della sua volontà, non cadeva spontaneamente. Andava avanti per giorni, finché un nuovo spasimo si aggiungeva al primo… avrebbe potuto inghiottirlo, mangiando. La nonna capiva che era necessaria un’azione di forza e arrivava con una piccola tenaglia, un oggetto da gioielliere e la pregava di aprire la bocca. Lei, con le lacrime agli occhi, si difendeva pur sapendo di non avere nessuna possibilità di salvezza. E quell’angoscia si ripeteva ogni volta, per ogni dente.
Ora non poteva permettersi di rifiutare, sarebbe stata una gran vigliaccheria e lei aveva l’obbligo di non mostrare alcuna debolezza. Fin dalla più tenera età non aveva fatto altro che sentire:
«Tu devi essere di esempio alle tue sorelline. Sei la più grande, devi essere ragionevole.» Inoltre dopo la laurea, ottenuta con il massimo dei voti, come del resto ognuno si aspettava da lei, aveva avuto qualche sporadica supplenza alle scuole medie, una settimana qui, una là; quando poi cominciava ad avere un rapporto più personale con gli scolari, doveva andar via. A lei piaceva insegnare. Diceva di averlo nel sangue, ereditato dai genitori (anche il padre era maestro di scuola); ma c’era soprattutto il suo amore per i bambini, la capacità di identificarsi con loro, la comprensione che le veniva anche dall’esperienza giornaliera col fratellino, il suo avvicinarsi al mondo infantile con sensibilità, da pari a pari, lei stessa ancora bambina.
Si aspettava che venisse bandito un concorso, se ne parlava di tanto in tanto, e avrebbe dovuto sostenere gli esami a Roma, tutto in un futuro non ben definito.
Ora doveva separarsi da tutto questo per approfondire le sue conoscenze della lingua tedesca – non sapeva lei stessa perché avesse scelto proprio tedesco come materia facoltativa, forse per via di un’amica che faceva lingue e l’aveva invogliata ad andare insieme a lei, – e vivere la grande avventura della sua vita, lontana dalla famiglia e, come non bastasse, all’estero.
Indipendente!
Così aveva detto papà.
«Questo viaggio ti insegnerà a badare a te stessa: ogni uccellino deve uscire dal nido, imparare a volare prima di costruirsi il proprio nido, la propria vita. Maturerai, non è soltanto per via della lingua che devi andare; a volte ho l’impressione che tu non sia ancora uscita dal guscio. In questa famiglia l’infanzia si prolunga oltre l’ordinario. Forse è colpa nostra; il contatto quotidiano con centinaia di bambini ci rende ciechi verso la realtà della nostra famiglia; voi crescete e noi quasi non ce ne accorgiamo. E poi, devi liberarti da questo maledetto provincialismo, vedere il mondo, conoscere altra gente.»
Il padre non perdeva occasione di raccontare del suo soggiorno a Vienna, prima dell’Annessione, nella vecchia Vienna fra le due guerre, qualche anno prima del grande cataclisma. Anche lui aveva studiato tedesco, ma il suo viaggio aveva avuto un motivo sentimentale che lasciava trapelare qua e là, con discrezione, evitando soprattutto di parlarne in presenza della mamma. Una signora non ben identificata, che aveva conosciuto a Siracusa, una signora austriaca, sposata, in viaggio insieme al marito, archeologo. Lui giovane, scapolo, allora insegnante in quella città. Lei in giro per i negozi, sola… Le aveva fatto da interprete.
«Quella è gente che vive in modo completamente diverso da noi; sono liberi, hanno orizzonti aperti, una visione del mondo senza le restrizioni, i pregiudizi, gli arcaismi che accompagnano la nostra esistenza. Lì una donna è prima di ogni cosa un essere umano, cioè non viene definita a motivo del proprio… (e non osava pronunciare la parola sesso in presenza delle figliole) genere. Qui da noi una donna che studiava, allora, dico venti-trent’anni fa, prima della guerra, era guardata male. Le vostre nonne non hanno potuto frequentare più della seconda elementare e non erano le sole; e questo non soltanto in Sicilia, paese retrogrado per eccellenza, col più alto tasso di analfabetismo; anche nel nord, nel Continente, erano poche le ragazze che potevano studiare, andare sole in giro, decidere della propria vita, delle proprie scelte. Voi adesso non avete la minima idea di come si vivesse allora, non si vedeva una donna o una ragazza sola per strada. La tua professoressa, per andare all’Università doveva farsi accompagnare dal padre, me lo ha raccontato lei personalmente e non lo crederete, ma le ragazze che allora frequentavano l’Università si potevano contare sulle dita di una mano.»
¹ psicologia
In viaggio
Il padre l’accompagnò fino a Roma. Partirono insieme, una domenica mattina, ai primi di settembre.
La seconda volta che Ermelinda passava lo stretto di Messina.
Il mare era agitato