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Mitologia delle piante inebrianti
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E-book288 pagine5 ore

Mitologia delle piante inebrianti

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Le piante inebrianti sono state ovunque considerate un dono che le divinità fecero agli uomini per permettere la comunicazione con la sfera divina, con il mondo degli spiriti o degli antenati. Questa credenza ha portato all’elaborazione del mito d’origine della pianta inebriante, che spiega, motiva, e continuamente fonda la sua esistenza e il suo rapporto causale con l’uomo; un mito più o meno elaborato, a volte ben preservatosi nelle cosmogonie e nelle antropogonie delle popolazioni tradizionali, in altri casi rintracciabile in un racconto, una novella o un semplice aneddoto, come forma residuale folklorica degli antichi miti.
In questo saggio sono raccolti e spiegati i racconti mitologici delle più disparate fonti vegetali inebrianti: dagli stimolanti quali caffè, tè, tabacco, coca, ai narcotici e sedativi come le bevande alcoliche e il papavero da oppio, alle fonti visionarie e allucinogene quali canapa, peyote, mandragora, ayahuasca, funghi.
Con un’osservazione che spazia fra le culture umane attuali e del passato, riemergono le origini siderali della vite, il parto vegetale della prima donna di questo mondo (ayahuasca), i miti che vedono nascere piante inebrianti nel luogo di amplessi umani (tabacco) o divini (kava), o incestuosi (coca), passando per quelli che lo vedono originare dalla tomba di donne morte ingiustamente (papavero) o per mal d’amore (betel), o che originano per volontà divina come fattore salvifico tribale (peyote, iboga).
LinguaItaliano
Data di uscita11 apr 2016
ISBN9788876926167
Mitologia delle piante inebrianti
Autore

Giorgio Samorini

Nato a Bologna nel 1957, è uno studioso etnobotanico che da decenni sviluppa un lavoro di ricerca sull’uso tradizionale delle piante inebrianti. Ha svolto indagini sul campo presso realtà tribali in Africa, America Latina, Asia. Ha pubblicato numerosi articoli in riviste scientifiche e diversi libri fra cui "L’erba di Carlo Erba" (1996), "Funghi allucinogeni. Studi etnomicologici" (2001), "Droghe tribali" (2012), "Animali che si drogano" (2013).

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    Mitologia delle piante inebrianti - Giorgio Samorini

    Collezione Biblioteca contemporanea

    © 2016 by Edizioni Studio Tesi

    Via Flaminia, 109 - 00196 Roma - Versione digitale realizzata da Volume Press

    ISBN 978-88-7692-616-7

    Giorgio Samorini

    Mitologia

    delle piante inebrianti

    Prefazione di Alessandro Grossato

    Edizioni Studio Tesi

    I miti sciamanici sull’origine divina e la funzione spirituale delle piante inebrianti e allucinogene

    Se riconosciamo la pianta come potenza autonoma, potenza che sopraggiunge per stabilirsi in noi con le sue radici e i suoi fiori, ci allontaniamo di alcuni gradi dalla falsa prospettiva secondo cui lo spirito è monopolio dell’uomo, qualcosa che non esiste al di fuori di lui.

    ERNST JÜNGER, Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza, 1978

    Giorgio Samorini ama definirsi un ricercatore nel particolarissimo campo d’indagine multidisciplinare, relativo all’utilizzo umano dei vegetali psicoattivi. Cofondatore e Presidente della Società Italiana per lo Studio degli Stati di Coscienza, con sede presso il Museo Civico di Rovereto, oltre a numerosi libri e articoli, nel 1997 ha fondato e diretto, insieme al botanico Francesco Festi, l’importante e assai originale rivista intitolata Eleusis. Piante e Composti Psicoattivi, edita dal Museo Civico di Rovereto.

    Questo suo sintetico studio, frutto di una esperienza di ricerca più che trentennale svolta non solo in biblioteche e archivi, ma appoggiata anche da originali ricerche sul campo, dall’Africa all’India, resta la più ampia rassegna in lingua italiana dedicata al gruppo di miti tradizionali riguardanti una particolare categoria del mondo vegetale, quella costituita dalle piante inebrianti. Una categoria che si divide, a sua volta, in tre specifiche sottoclassi, la prima delle quali comprende le piante stimolanti, la seconda le piante narcotiche e sedative, mentre la terza e più importante è quella delle piante allucinogene, in grado cioè di produrre, in chi le assume, diversi e specifici effetti visionari. L’uomo antico e preistorico ebbe certamente un rapporto profondo con tutte queste essenze vegetali, che erano così potentemente in grado di aiutarlo non solo a regolare la propria vita psichica e mentale, stimolandola o sedandola, ma di più ancora ad aprirgli più ampi orizzonti di esperienze visionarie pari se non superiori a quelle più comunemente diffuse, che sono normalmente connesse al sogno.

    Come ha dimostrato la ricerca antropologica, questa capacità quasi esclusiva, ma non del tutto, della specie umana di poter estendere l’esperienza onirica anche allo stato di veglia, ha certamente contribuito allo sviluppo delle facoltà immaginative e artistiche dell’uomo primitivo, con ricadute che ci sono ancor oggi testimoniate dagli innumeri schemi e modelli figurativi, che le civiltà dei popoli senza scrittura sono riuscite a visualizzare e a trasmettere di generazione in generazione attraverso l’uso che ne fu fatto, fin da epoche remotissime, per decorare dapprima il proprio stesso corpo, e quindi anche armi, utensili, caverne, abitazioni, ceramiche, tessuti. Si può ben dire che tutto questo era già mito in fieri, perché ciascuna di queste immagini esperita in sogno o in una visione faceva parte, fin dalla sua origine, di una ben precisa narrazione: quella, appunto, dei primi miti. Così, inoltre, il gesto stesso di riprodurre tali figure, tratte dai propri sogni individuali o dai miti collettivi tramandati tradizionalmente, diveniva anche la scaturigine di sempre nuovi comportamenti rituali.

    La base ideologica che legava insieme il filone dell’erboristeria primitiva e in particolare di quella dotata di capacità inebrianti, all’arte, al rito e poi, dopo la rivoluzione del Neolitico, alla religione, è quasi certamente quella che oggi noi chiamiamo sciamanesimo. Ovvero, quella capacità che era innata in alcuni individui appartenenti all’umanità primigenia, di suscitare in sé, anche da svegli, sia lo stato di sogno che le più potenti visioni. Non è quindi un caso se il mito, ma ormai anche la ricerca etnologica e antropologica contemporanea, attribuiscono proprio agli sciamani, spesso in questo facilitati dall’osservazione del comportamento di talune specie animali, il riconoscimento via via non solo di tutte le specie vegetali dotate di capacità curative, ma anche di quelle con proprietà psicoattive. A parte il loro frequente utilizzo anche curativo, queste ultime servivano soprattutto ad anticipare ai giovani candidati la lunga e difficile via dello sciamano, ovvero quegli stati che solo dopo almeno un decennio di rinunce, di ascesi e soprattutto di profonda, continuativa introspezione, sarebbero stati capaci di suscitare da se stessi, senza più alcun sussidio esterno. È quanto ha documentato, ad esempio, la lunga e paziente ricerca dell’antropologo Adolphus Peter Elkin (1891-1979), dedicata alle tradizioni sciamaniche degli aborigeni australiani.

    Detto questo, non c’è proprio da meravigliarsi che molti miti, nei diversi continenti, abbiano riguardato proprio l’origine, il dono e le possibilità di utilizzo di queste diverse categorie di piante inebrianti, sia giustificandone in termini cultuali e religiosi l’utilizzo nell’ambito delle società tradizionali, che facilitandone una più profonda comprensione in termini simbolici e sapienziali.

    Con l’avvento della civiltà moderna e contemporanea, tutte queste tradizioni erboristiche, simboliche ed esperienziali sono state via via sempre più confinate ai margini della società occidentale. E questo fino al punto non solo di farle quasi del tutto scomparire, ma di eliminarne persino il ricordo e la capacità di riconoscerle, magari attraverso lo studio dell’iconografia antica, o l’indagine della ricerca archeologica relativa alle passate civiltà d’Europa e del Mediterraneo. Salvo poi recuperare, quasi all’improvviso e spesso surrettiziamente, alcune delle piante stimolanti, come ad esempio il tè e il caffè, ma solo per farne l’oggetto di quella illusoria pausa lavorativa, resasi comunque indispensabile per ricaricare energeticamente le masse proletarie e borghesi, mobilitate dalla nascente civiltà industriale. Perché, come ha giustamente scritto l’irriverente Terence McKenna (1946-2000), lo zucchero e le droghe alla caffeina che si diffondono insieme a esso, rafforzano e sostengono la cieca enfasi della civiltà industriale sull’efficienza al costo del sacrificio dei valori umani arcaici. Per non parlare poi di un potente narcotico e sedativo come l’oppio, preso alla Cina dapprima per devastarla con la guerra omonima, e quindi per farne l’oggetto dei lussuosi, spesso vuoti, momenti d’ozio della nuova élite intellettuale dell’Occidente. Grazie alla nascita della psicologia del profondo, e all’autorevole benedizione di Sigmund Freud, si sarebbe arrivati a sdoganare persino la cocaina, non senza ricordare il mito solare delle origini della coca, quale dono divino dell’Inca Manco Cápac. Ma, a quel punto, e quasi temendo di restituire all’uomo occidentale le sue arcaiche e ormai perdute capacità visionarie, poco dopo la fine della Grande Guerra scattò un profondo istinto censorio. Anzi, una vera e propria rimozione, gradualmente estesa nel tempo anche ad altre sostanze, e più potente e assoluta di quella che allora riguardava, secondo Freud, la sola sfera sessuale.

    A questo punto della storia recentissima dell’Eurasia, si era già molto lontani da quei miti, come quello relativo al Soma vedico in India e al Graal in Occidente, in cui la vera e insostituibile bevanda miracolosa delle origini, dono degli stessi Dei agli uomini affinché possano direttamente comunicare con loro, e fonte esclusiva di conoscenza prima ancora che di immortalità, era già da tempo considerata come irrimediabilmente perduta, e solo imperfettamente sostituita dalle droghe e dalle bevande inebrianti.

    Il presente studio di Samorini, svolto con la serietà e il distacco documentale dello scienziato, ci restituisce la possibilità di conoscere sia le tradizioni mitologiche riguardanti le origini e il significato simbolico di queste strane e straordinarie sostanze, che l’autentica dimensione storica e antropologica della loro assunzione rituale, come avveniva e avviene nelle culture antiche e contemporanee.

    ALESSANDRO GROSSATO

    Piante inebrianti e miti

    Per piante inebrianti si intendono tutti quei vegetali – erbe, arbusti, alberi, funghi ecc. – che sono dotati di proprietà psicoattive per l’uomo: dalle piante con effetti stimolanti quali il caffè, il tè, la coca, a quelle dotate di proprietà narcotiche e sedative come il papavero da oppio, a quelle caratterizzate da effetti visionari (allucinogeni) come il peyote, la mandragora e diverse specie di funghi. Appartengono a questo medesimo gruppo di vegetali quelle piante che non sono psicoattive di per sé, bensì dalle quali vengono ricavate, mediante specifiche elaborazioni, bevande dagli effetti inebrianti, quali la vite – da cui si ricava il vino – e l’agave – da cui si ricava il pulque.

    I vegetali psicoattivi sono tantissimi, centinaia di specie distribuite in tutti i continenti,¹ e i dati archeologici hanno evidenziato un’antichità della relazione umana con le fonti psicoattive che raggiunge i periodi neolitici dell’umanità, e forse addirittura i periodi paleolitici, cioè i periodi della lunga Età della Pietra.²

    Le piante psicoattive sono state generalmente considerate come un dono lasciato agli uomini dalle divinità, e in certi casi sono state identificate totalmente con un Dio. Il principale motivo di questo dono divino è per permettere la comunicazione degli uomini con gli Dei. È il caso del Soma dei RgVeda – un antico testo religioso indiano – considerato al contempo un Dio e una bevanda dell’immortalità. Il Soma veniva preparato ritualmente e consumato dagli officianti nel corso delle cerimonie religiose. Un inno dei RgVeda recita: Abbiamo bevuto il Soma / siamo diventati immortali / siamo giunti alla luce / abbiamo incontrato gli Dei.³ Gli shivaiti indiani utilizzano gli effetti del bhang (sostanza visionaria ricavata dalla Cannabis) per comunicare con il Dio Shiva. Nel corso dei riti iniziatici, i Fang del Gabon consumano un’enorme quantità di radice di iboga, che provoca un prolungato stato di apparente coma, durante il quale l’anima dell’iniziando compie un viaggio sino alle radici della vita e al contatto diretto con Nazmé, il loro Dio.

    Il dono divino delle piante inebrianti è supportato dal concetto che questi vegetali sono consumati dagli Dei, è il loro cibo, e l’uomo che se ne nutre partecipa in un qualche modo della realtà divina. Negli antichi scritti sanscriti, la canapa era denominata indracarana, cibo degli Dei; gli Aztechi chiamavano i funghi inebrianti con il termine nahuatl teonanácatl, nutrimento degli Dei; i Guaraní del Brasile meridionale considerano il mate, o yerba mate, il cibo di cui comunemente si ciba Tupá, il Dio del bene; nell’Africa occidentale diverse tribù ritengono che la noce di cola sia il nutrimento del loro Dio.

    Numerose piante psicoattive, in particolare quelle dotate di effetti visionari, sono impiegate per scopi curativi, sebbene un tale impiego non sia separabile da un più generale contesto spirituale-religioso. Nelle culture tradizionali, questi vegetali non sono considerati mere medicine per il corpo umano, bensì medicine sacre per il sistema mente/corpo. I sistemi di cura tradizionali, incentrati sulla figura di uno specialista – sciamano, curandero, vegetalista – che conduce la cerimonia visionaria collettiva, operano attraverso un meccanismo che è stato definito dagli studiosi occidentali sociopsicoterapeutico.

    Nella maggior parte dei casi, la pianta psicoattiva viene consumata da tutti i partecipanti alla cerimonia, malati compresi. Nel corso del conseguente stato visionario, lo sciamano capta i messaggi inviati dallo spirito della pianta, o dall’entità spirituale o divina ch’essa rappresenta, e li traduce per la collettività. Si tratta di un fenomeno di diagnosi magica mediante il quale le entità sovrannaturali che abitano la pianta comunicano allo sciamano le cause della malattia e quali rimedi utilizzare – ad esempio, quali piante medicinali utilizzare.

    Presso diverse culture umane questi vegetali sono impiegati anche per scopi magici, cioè per indurre poteri psichici paranormali, mediante i quali prevedere il futuro, vedere e comunicare con persone distanti, ritrovare un oggetto smarrito, individuare il colpevole di un misfatto.

    Il grado di socializzazione delle esperienze che prevedono il consumo di vegetali inebrianti varia notevolmente, a seconda del contesto sociale e del tipo di approccio culturale connesso all’esperienza. Nel rito del Soma, la bevanda era consumata unicamente dagli officianti. È questo un esempio di uso di inebrianti riservato esclusivamente alla casta prelatizia, o a singoli individui prescelti come intermediari, mediante il quale avveniva il contatto degli Dei con il popolo. Anche nelle culture religiose sciamaniche lo sciamano funge da intermediario fra la sua gente e l’aldilà. Le esperienze visionarie possono essere vissute da un folto gruppo di individui, ma lo sciamano resta la figura-chiave dell’esperienza collettiva. Frequente è anche il caso di movimenti religiosi presso i quali la consumazione della fonte inebriante avviene in maniera più apertamente collettiva, a mo’ di comunione allargata a tutti i partecipanti al rito. In tali contesti, la pianta sacra viene considerata e vissuta come intermediario individuale fra ciascun individuo e la divinità.

    Lo stretto rapporto che si viene a creare fra l’uomo e le piante inebrianti giunge a influenzare anche i miti e le credenze dei popoli che ne fanno uso, sino al punto in cui esse ricoprono un significativo ruolo nelle cosmogonie e nelle antropogonie di queste popolazioni.

    Fra i miti e i racconti che trattano le piante psicoattive si evidenziano, per numero e per ricchezza d’elaborazione, quelli che trattano della loro origine, o dell’origine del rapporto di queste con l’uomo. Nella stragrande maggioranza dei casi, quesi primordi sono collocati ai tempi delle origini, nel corso della formazione del mondo e/o dell’uomo, cioè in illo tempore, come amava denominare Mircea Eliade i tempi della fondazione mitologica delle culture umane.⁵ Nell’Antico Testamento, il mondo vegetale fu creato da Dio nel terzo giorno della sua Creazione, prima degli animali e dell’uomo.⁶

    Frequentemente, in questi racconti le piante inebrianti sono indicate agli uomini da specifiche figure divine o dell’aldilà. Nella mitologia dei Fang del Gabon, gli spiriti dei morti indicano a Bandzioku, una donna, la pianta dell’iboga, e le insegnano come utilizzarla, affinché essa possa vederli e comunicare con loro. Fra i nativi del Nord America, lo Spirito del Peyote si presenta in sogno a un uomo o a una donna e indica loro il peyote, il sacro cactus, come strumento di salvezza della tribù. Se si domanda ai nativi dell’Amazzonia come fecero a scoprire la bevanda dello yajé (ayahuasca) – un enigma insoluto per gli studiosi occidentali, trattandosi di una combinazione molto specifica di due fonti vegetali – questi rispondono che non l’appresero da per loro, bensì fu lo spirito della foresta o lo Spirito dello Yajé, meglio noto come Donna-Yajé, che, un giorno, tanto tempo fa, lo indicò ai loro antenati.

    Di qui il mito d’origine della pianta inebriante, più o meno elaborato, che spiega, motiva, e continuamente fonda, la sua esistenza e il suo rapporto causale con l’uomo.

    In alcuni casi la scoperta umana della pianta inebriante viene attribuita, nel mito, all’osservazione del comportamento bizzarro di un animale che si è cibato di quella pianta. Le proprietà inebrianti del caffè, del khat, del fagiolo del mescal, furono scoperte osservando le capre che evidenziavano comportamenti nervosi e anomali dopo essersi nutrite di queste piante. Il kava (la droga del Pacifico) fu scoperto osservando un topo che ne aveva masticato le radici, cadendo di conseguenza in uno stato comatoso e riprendendosi dopo un certo periodo di tempo. Il fungo agarico muscario fu scoperto dalle popolazioni siberiane osservando le renne che se ne cibavano avidamente ed evidenziavano in seguito delle allucinazioni visive. Questo tema – la mediazione di un animale nella scoperta di un vegetale inebriante – parrebbe originare da un dato reale, e cioè dall’uso animale delle droghe, un comportamento che la moderna etologia sta effettivamente riscontrando presso i più disparati animali – dagli insetti agli uccelli, ai mammiferi.

    Diversi miti trattano dell’origine della pianta che germina dal cadavere o dalla tomba di un uomo o di una donna, il più delle volte un eroe culturale che, dopo aver fondato le regole tribali, i riti di passaggio, i principi dell’agricoltura, o altre importanti istituzioni sociali, elargisce un ultimo dono alla sua tribù trasformandosi, al momento della morte, nel vegetale psicoattivo. Questi racconti rientrano nel più vasto insieme dei miti relativi all’origine delle piante coltivate, peculiari dei popoli coltivatori e caratterizzati dal motivo della trasformazione nella pianta omonima di uno spirito – di un dema, per dirla con Adolf Jensen.

    Si presentano casi in cui un mito tratta contemporaneamente il tema dell’origine della pianta e quello dell’origine del suo uso, soprattutto in quei racconti in cui l’origine dell’uomo e l’origine della pianta sono in stretta relazione temporale fra di loro – nel tempo del mito, si intende. In altri casi, invece, i racconti trattano esclusivamente dell’origine del rapporto dell’uomo con la pianta, considerando questa come pre-esistente.

    Fra i miti qui riportati, si rileva una certa variabilità nel grado di purezza etnografica. Vi sono racconti che hanno subito le influenze e le interpretazioni di culture esterne, fino a perdere in alcuni casi le caratteristiche di mito d’origine, sepolti sotto una spessa coltre di modificazioni interpretative. In diversi casi, ciò che ci è pervenuto è un racconto, una novella o un semplice aneddoto, frutto della secolare volgarizzazione e folklorizzazione degli antichi miti.

    Quelle popolazioni la cui cultura e la cui religione sono state soggette a un fenomeno di sincretismo con religioni esterne, quali il Cristianesimo, l’Islamismo, il Buddhismo, hanno elaborato e adattato la loro mitologia attraverso un processo di sovrapposizioni e di comparazioni simboliche, che si riflettono anche sui miti d’origine delle piante inebrianti. Ad esempio, in alcune versioni del mito d’origine dell’uso del peyote tra i nativi del Nord America, non è più lo Spirito del Peyote, bensì Gesù Cristo, che si rivela all’uomo per indicargli il sacro cactus.

    Il sopraggiungere dei poteri religiosi ricopre generalmente di una nuova veste i racconti mitologici, sopprimendo, ad esempio, l’indipendenza della scoperta della fonte vegetale; tale è il caso del caffè, dove nelle versioni più antiche è un pastore a provare su se medesimo i frutti della pianta, scoprendone gli effetti stimolanti, mentre nelle versioni più tarde islamizzate, il pastore porta i frutti ai sufi o ad altre figure religiose, e saranno questi a scoprirne gli effetti.

    Si presentano casi in cui il vegetale o la fonte inebriante, pur provenendo da altri territori, viene considerato d’origine autoctona, e ciò si riflette nei corrispettivi miti. È il caso, ad esempio, della vite e del vino, che alcuni antichi miti egizi e greci facevano originare in Egitto e in Grecia, sebbene la sua origine sia più antica di alcuni millenni rispetto alle culture egizie e greche e sia localizzata in tutt’altra area geografica, probabilmente la Transcaucasia. Così come per il tabacco, di nota origine americana e che raggiunse gli altri continenti in seguito al contatto di Colombo con il Nuovo Mondo, ma che alcuni miti africani, indiani e siberiani fanno originare in queste rispettive aree geografiche.

    Alcuni miti d’origine hanno per tema la credenza che il vegetale o la bevanda inebriante siano velenosi e vengano assunti da individui che intendono suicidarsi, con l’inatteso risultato di scoprirne invece le proprietà psicoattive. È il caso di un racconto persiano sull’origine del vino, in cui una cortigiana che soffriva da lungo tempo di terribili emicranie decide di suicidarsi bevendo il succo andato a male di grappoli d’uva, quindi ritenuto velenoso, rimanendone addormentata e svegliandosi guarita dai mali che l’affliggevano. In un racconto dell’Isola di Pentecoste (Vanuatu) un ragazzo, addolorato per la morte della sua sorella gemella, decise di suicidarsi cibandosi delle radici del kava, che riteneva velenose. Ma invece di morire, dimenticò tutta la sua infelicità. In una novella inglese un uomo, stanco di essere continuamente oggetto di derisione della moglie, si reca nel bosco e mangia un agarico muscario, che riteneva velenoso, con lo scopo di suicidarsi. Con sua sorpresa, invece, acquisisce una grande forza fisica e il coraggio di affrontare sua moglie.

    Lo stato precario, di pericolo, di crisi della vita umana, precedente e predisponente l’incontro dell’uomo con la pianta inebriante, è un motivo che si presenta con una certa frequenza nei miti qui riportati, e non unicamente nei casi di intenzione di suicidio. Presso i nativi del Nord America, lo Spirito del Peyote si presenta a un individuo della tribù quando questi è in procinto di morire di fame o di freddo.

    L’origine della pianta inebriante è in alcuni casi spiegata con metafore di natura astrologica. In un arcaico mito greco, il primo tralcio di vite fu partorito da una cagna. Questa cagna appare essere una rappresentazione simbolica del Cane della costellazione di Orione, cioè la stella Sirio, in quanto si riteneva che l’apparizione stagionale di questo astro fosse responsabile della maturazione della vite. Secondo una tradizione taoista, il nome della Datura metel, una potente solanacea allucinogena, è quello di una delle stelle circumpolari, da cui si ravvisa una sua origine astrale.

    La scoperta di diverse piante inebrianti viene attribuita, nel mito,

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