Le malattie non esistono
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Info su questo ebook
Le malattie non esistono è un libro avvincente in cui le storie di pazienti si intrecciano con quelle di medici e dimostrano come, nella pratica clinica, esistono solo i malati.
Roberto Verzaro, classe 1963, è un medico specializzato in chirurgia generale, chirurgia oncologica e trapianti d’organo. Ha lavorato per alcuni anni negli USA, al Jackson Memorial Hospital dell’Università di Miami e presso l’Università di Pittsburgh. È stato chirurgo del centro trapianti di Palermo (IsMeTT). Ha contribuito alla nascita del centro trapianti dell’Università dell’Aquila e nel periodo 2010-2017 ha diretto il reparto di chirurgia generale e d’urgenza di un ospedale romano. Attualmente è coordinatore per la chirurgia generale del centro dell’Università di Pittsburgh (UPMC), presso la clinica Salvator Mundi International Hospital a Roma. Le malattie non esistono è il suo libro d’esordio. Nel 2008 ha vinto un premio letterario con un racconto breve: La palla di carta.
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Anteprima del libro
Le malattie non esistono - Roberto Verzaro
Roberto Verzaro
Le malattie non esistono
© Lastarìa Edizioni srls, 2021
Tutti i diritti riservati
Lastarìa Edizioni
Viale Libia 167 - 00199 Roma
www.lastaria.it
I Edizione: dicembre 2021
Isbn: 979-12-80660-06-0
Finito di stampare nel mese di dicembre 2021
presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Published by arrangement with Delia Agenzia Letteraria
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri
Le malattie non esistono
Ai miei genitori
A Francesca Romana e Nicole
A Meri, arcobaleno dei miei cieli tempestosi
There are many ways of being
in the circle we call life.
A wise man seeks an answer,
burns his candle through the night.
Joe Henry/John Denver
The wings that fly us home
Introduzione
L’errore più grande nel trattamento delle malattie
è che esistono medici per il corpo e medici per l’anima,
quando invece le due cose non possono essere separate.
Platone
Le pagine di questo libro sono scritte da un medico. Da un chirurgo per l’esattezza. Raccontano storie di pazienti¹ e di medici, di quanto accade in corsia e in sala operatoria. Raccontano dei progressi della medicina, di vittorie e di sconfitte, di errori e di atti di precisione. Raccontano quello che pensa un medico, un chirurgo, nei momenti cruciali di un intervento, nei momenti in cui deve prendere decisioni difficili, rischiose e anche di cosa pensa nei momenti, non necessariamente clinici
della sua professione.
Le pagine di questo libro hanno un unico filo conduttore: le malattie, così come le studiamo sui libri, non esistono. Esistono solo i malati. Le malattie descritte nei libri sono delle realtà parallele ai malati, descritte e catalogate dagli studiosi, dai ricercatori, dai professori per agevolare il lavoro dello studente sui libri e del medico al letto del paziente. Non è un caso che nelle aule universitarie o congressuali spesso si ricorra, per far comprendere dotte teorie mediche, alla presentazione del caso clinico
. Senza il malato, presentato a prova che quanto si sta esponendo corrisponde al vero, il docente non convince lo studente e il relatore è poco credibile. Un laureato in Medicina che conosce benissimo tutte le classificazioni delle malattie e i loro sintomi ma che non ha mai visitato un paziente, non è un medico. Non sa cosa sia la malattia, o meglio, non sa cosa sia un paziente. Ha studiato le malattie ma non le ha mai viste. Non le ha mai viste perché non esistono se non con il paziente. Se non le ha mai viste non può conoscerle. Ecco la differenza tra un buon medico e un laureato in Medicina e Chirurgia. Un buon medico conosce il paziente e quindi per lavorare bene, deve possedere oltre alla cultura medica, un’arte medica
. Quest’arte, in parte è innata e spiega perché molti decidono di iscriversi alla facoltà di Medicina senza avere preso in considerazione altri studi o professioni. Si dice che un buon medico è quello che sceglie di fare il medico perché non immagina nessun’altra professione possibile. Ma quest’arte, dall’altra, si affina con gli anni, con la dedizione e la passione al proprio lavoro; con il tempo passato vicino al letto del paziente o dopo infinite ore trascorse in sala operatoria. In altre parole, per essere un buon medico, non basta essere un conoscitore di tutte le patologie e delle loro terapie. Si devono possedere anche delle doti particolari di umanità e di comprensione e di visione dell’essere umano che rendono questo lavoro ancora affascinante e lo trasformano, nonostante si tenga attualmente a negarlo, in un’arte. Bisogna possedere l’arte di ascoltare il paziente, di sentire con lui (empatia) le emozioni, spesso negative, che un malato prova. Bisogna possedere l’arte di curare e prendersi cura. È necessario ricordare in ogni momento dell’esercizio della professione, che l’oggetto della medicina è e rimane soltanto l’essere umano. Non le malattie. Non i profitti personali, non i budget in positivo dell’azienda, non le pubblicazioni scientifiche da esibire per scalare posizioni accademiche.
Ogni malattia esiste solo perché si appalesa in un particolare malato. Impossibile vedere una malattia separata dal paziente. Impossibile vedere la malattia se non si vede il malato. La malattia non esiste senza il malato. Se il paziente soccombe alla malattia, la malattia scompare, non esiste più. È quello che accade quando, per esempio, i batteri o i virus, dopo aver provocato un’infezione grave, uccidono il malato, vincendo le resistenze dell’organismo e le eventuali terapie. Nel momento esatto in cui l’infezione uccide il paziente, muoiono anche tutti i batteri o i virus responsabili dell’infezione e la malattia stessa scompare.
Lo abbiamo visto di recente, con l’infezione da coronavirus, il SARS-CoV-2, che causa una malattia respiratoria denominata COVID-19. Per arginarla e controllarla abbiamo dovuto sottrarre al virus i pazienti. Senza potenziali pazienti in giro per le città, niente malattia. Tutti in casa è stata la prima risposta medica. Come a dire: nessun paziente da dare in pasto al virus, nessuna malattia. Ma c’è di più: i pazienti infetti da coronavirus hanno manifestato una miriade di sintomi, spesso diversi uno dall’altro. Abbiamo visto persone infette (positive al tampone) senza alcun sintomo e altri morire senza riuscire a respirare. Tra questi due estremi, infinite situazioni cliniche da COVID-19 diverse da paziente a paziente.
Lo stesso dicasi per il tumore, la malattia
per definizione. Il cancro cresce nel paziente, se ne impossessa fisicamente e anche psicologicamente e se lo uccide, vincendo le cure, scompare. Esiste solo se esiste il paziente. Per altre malattie poi, come quelle psicologiche, comprendere come esse non esistano al di fuori del paziente, è ancora più facile. Pensiamo alla depressione che, sebbene, possa riconoscere cause organiche
, non è effettivamente palpabile, misurabile o evidente se non nel paziente e con il paziente.
Nel manifestarsi in una determinata persona, la malattia diventa unica. Interagisce con la biologia e la psicologia di quell’individuo. Le due parti del malato, quella biologica e quella psicologica, sono inscindibili e, soprattutto sono uniche, irripetibili e legate esclusivamente a quell’individuo.
È esperienza comune che pazienti diversi, affetti dalla stessa malattia, hanno sintomi diversi. L’estrema variabilità è uno degli aspetti più affascinanti di questo mestiere. Alcuni ti sembrano molto malati, altri magari, non te ne accorgi nemmeno. Unico è poi il modo con cui, biologia e psicologia, interagiscono in un determinato paziente. Queste considerazioni sono spesso dimenticate o non percepite nei momenti importanti della storia clinica del singolo malato o durante il rapporto medico-paziente. Ricordare che le malattie non esistono ma esistono i malati, aiuta il medico nello svolgimento della sua professione, lo aiuta a provare empatia per il paziente, lo aiuta a interessarsi di più al malato e meno alla malattia
. Lo aiuta a seguire il famoso detto caring, not only curing (prendersi cura, non solo curare
). Lo aiuta anche a dare meno importanza a problemi di budget e valutazioni economiche, rimettendo il paziente al centro della sua nobile arte. Nobile perché l’oggetto del suo operare è l’essere umano. L’essere umano con le sue debolezze, la sua caducità, la sua ostinata voglia di vivere e la sua umana paura della morte e della sofferenza.
E aiuta il malato a capire che la sua malattia è unica, diversa da quella osservata nel vicino di letto in corsia, che può avere un decorso diverso. Aiuta il malato a capire che la medicina è fatta da esseri umani come lui. Lo aiuta a capire che deve fare la sua parte per guarire e che non sempre si guarisce.
Ricordare che le malattie non esistono ma esistono i malati, aiuta a capire che il medico fa un lavoro difficile. La biologia umana è complessa ed è così, dopo milioni di anni di evoluzione. Il medico ragiona di fronte al paziente con i limiti del suo ragionamento con i suoi errori di campionamento (bias), le sue esperienze precedenti che sono lì, fissate nella sua mente, a volte ad aiutarlo, a volte a tradirlo. È impossibile per il medico prevedere l’enorme variabilità biologica umana.
L’augurio è che questo libro aiuti chi lo legge, paziente o medico che sia, a ristabilire un rapporto ottimale tra le due figure, il malato e il curante
.
Viviamo un momento storico con un grosso paradosso. Le nostre conoscenze si sono affinate, la tecnologia è sempre più accurata, curiamo pazienti che solo fino a pochi anni fa erano destinati a morte certa e rapida; eppure noi medici abbiamo, oggi, la più bassa reputazione di sempre. Il medico è considerato dal paziente e dalla società, spesso come un pressapochista, una persona dedita solo al profitto, un professionista che compie continuamente errori. Non ha un rispetto pari ai risultati che la scienza medica oggi riesce a conseguire. L’epidemia COVID-19 ha, in parte, restituito valore e prestigio alla nostra professione, mostrando a tutti, di quanta dedizione, di quanta passione e di quanta empatia il medico sia capace, specie in momenti difficili. Il paziente, con il suo bagaglio di sofferenze, non solo fisiche, è stato riposizionato al centro dell’azione medica. La figura del medico, con le sue conoscenze e capacità umane, è nuovamente tornata ad essere centrale. Abbiamo tutti riscoperto il valore e il significato dell’empatia. Durante la pandemia da coronavirus, le problematiche amministrative, medico-legali e anche economiche sono state – almeno per un po’ – messe da parte. Si è pensato di più al malato e meno alla malattia.
Il rispetto, che abbiamo ora riconquistato e che meritiamo, deve essere rafforzato. Ci sono certamente medici che tradiscono la dignità e l’importanza della professione medica. Ma sono una minoranza.
Capita che il malato non riesca a vedere nel medico una professionista disposto ad aiutarlo, capace di prendersi cura di lui
. Il medico a volte, è troppo preso, suo malgrado, a risolvere problematiche amministrative, economiche o medico-legali. Vede il paziente come il prossimo querelante in un’aula di tribunale. Dimentica che non è un tecnico che deve riparare un organismo difettoso. Dimentica, a volte, l’importanza del suo lavoro: avere come unica finalità il benessere psico-fisico di uno come lui, con le sue stesse paure, le sue stesse fragilità, le sue speranze, la sua stessa voglia di vivere. Dimentica che le malattie non esistono ma esistono i malati.
¹ In alcuni casi i nomi dei pazienti, i luoghi e i contesti sono inventati per non rendere identificabili i protagonisti. In altri, dove l’identità del paziente è nota, il nome è rimasto originale. In ogni caso però le storie raccontate sono realmente accadute.
Le malattie non esistono
La medicina è la scienza
dell’incertezza e l’arte della probabilità.
Sir William Osler (1849-1919)
Avevo 21 anni quando frequentavo all’università La Sapienza di Roma la mia prima lezione di Patologia Medica
. Ricordo ancora l’aula, il professore, il suo modo di farci lezione e la sua gestualità. Ricordo anche l’atmosfera, almeno per me, solenne. Non riuscivo a nascondere, tra i banchi dell’aula universitaria, una profonda emozione. Per i primi tre anni avevo studiato l’anatomia umana, le basi biologiche delle malattie, la fisiologia, la biochimica e altro ancora, ma non le malattie vere e proprie
. Ora lo studio entrava nel vivo: superato l’esame di clinica medica avrei potuto frequentare il reparto, iniziare il contatto con i pazienti, finalmente avrei visto in faccia le malattie, le avrei perfino toccate
quelle malattie che fino a quel momento avevo solo immaginato nella mia mente attraverso fotografie, grafici e parole scritte nei testi. Finalmente avrei affrontato il nemico che mi ero proposto di combattere iscrivendomi a Medicina tre anni prima. Adesso il gioco si faceva duro e i duri entravo in gioco. Impossibile trattenere l’entusiasmo. Mi sentivo come un atleta al termine della sua preparazione fisica il giorno prima di una gara importante, per la quale aveva lavorato per anni.
Il professore di clinica medica inizia la sua lezione e ci spiega come ogni malattia sia in realtà un’entità sempre nuova, sempre diversa e mai la stessa, data l’unicità del paziente, la sua diversità da tutti gli altri. Come a dire: non pensate di poterle conoscere tutte le malattie. Quelle parole rimasero depositate nella mia memoria in attesa di riemergere qualche mese dopo, quando avrei iniziato il mio tirocinio a contatto con i primi pazienti. Dopo quella prima lezione, seguirono altre, tutte molto interessanti ma sempre senza
le malattie. Ancora molta teoria ma di malattie solo l’ombra, l’idea, la classificazione, al massimo delle foto. Iniziai a frequentare la corsia: adesso finalmente ci sono, pensai. Finalmente le vedrò. Macché, impossibile vederle
. Iniziava a farsi strada nella mia mente l’idea che le malattie così come le stavo studiando non esistevano.
Esistevano, però, i malati. Quelli sì che potevo vederli, toccarli, ricordarli, richiamarli con la memoria, dando a ciascuno un nome o associarli a una storia che avevano raccontato o di cui facevano parte. Quando ritornavo sui libri a ripassare le malattie che affliggevano i pazienti in corsia, esse cambiavano… finalmente prendevano forma, volto, odore, colore. Prendevano le forme, i volti, gli odori e i colori dei pazienti che avevo visitato in corsia. Di fatto avevano anche un nome e una storia. Cominciavo a conoscere i malati, il vero oggetto della professione medica. Riuscivo, improvvisamente, a ricordare le malattie e facilmente le catalogavo. Facilmente ricordavo i sintomi e le terapie più efficaci.
Le parole del Professore della prima lezione di patologia medica si sono poi mostrate profondamente vere negli anni a seguire. Ancora oggi, nella mia pratica clinica mi accorgo quotidianamente che ogni malato è diverso dai precedenti e che ogni malato è un’entità biologica e psicologica unica. Ha il suo bagaglio di vissuto, di esperienze biologiche e psicologiche, una sorta di memoria fisica e psichica che lo rende unico e rende perciò unica la malattia che lo affligge.
Queste considerazioni si sono affacciate prepotentemente nella mia carriera di chirurgo, sia agli esordi che più tardi, nel pieno della mia maturità professionale.
Mi trovavo a Miami e lavoravo, in qualità di fellow
nel reparto trapianti del Jackson Memorial Hospital affiliato all’Università di Miami. Ero di guardia quella notte. Avevo già una discreta esperienza con le urgenze e con i pazienti ricoverati in un reparto di chirurgia, ma non ero certamente un chirurgo formato appieno. Il medico di guardia del reparto trapianti del Jackson Memorial Hospital era responsabile del reparto degli adulti e del reparto pediatrico situato in un’ala dell’ospedale molto lontano dalla stanza del medico di guardia. Attraversare i vari edifici dell’ospedale richiedeva, a passo svelto, almeno 5 minuti. La presenza di un letto nella stanza del medico di guardia faceva supporre che in quella stanza il medico potesse in effetti dormire. Ricordo di aver disfatto il letto solo un paio di volte in tre anni, ed ero on call almeno una volta a settimana. Tutte le mattine lo consegnavo al medico del giorno dopo, intonso. Al Jackson Memorial Hospital era difficile dormire di notte. I pazienti ricoverati erano pazienti gravi e complessi che richiedevano continue attenzioni, continui aggiustamenti della terapia, continue medicazioni. Negli anni passati a non dormire di notte, accumuli sintomi da deprivazione del sonno e per sopravvivere escogiti trucchi che ti consentono di riposare in pochi minuti in ogni luogo e in ogni situazione. Ancora adesso che le notti on call sono un lontano ricordo, riesco ad addormentarmi più o meno dappertutto a comando
, pronto ad approfittare di ogni momento per riposare non sapendo quando ti si ripresenterà un’occasione per dormire.
Verso le 3 del mattino dopo aver eseguito un paio di biopsie epatiche in pazienti giunti verso la mezzanotte per un sospetto di rigetto nel fegato trapiantato, mi avvicinavo alla stanza del medico di guardia con la ferma intenzione di passare le prossime ore disteso sul letto e possibilmente a dormire. Al diavolo i pazienti, al diavolo le urgenze! La vera urgenza adesso ero io con la mia mente che stava impazzendo. I sintomi da deprivazione del sonno sono tali che, a volte, interpreti la realtà come un sogno. Alle otto del mattino avrei dovuto iniziare una intera giornata di sala operatoria e l’unica cosa che dovevo e volevo fare era dormire.
Mi sdraio, la mia testa tocca il cuscino e svengo. Già… non ci si addormenta in quelle situazioni, si sviene.
Alle 5:00 una chiamata in urgenza dal reparto adulti. Il paziente della 30 ha forti dolori alla schiena. Un medico deve vederlo. Ricordo ancora le esatte parole dell’infermiera che mi ha chiamato: "Patient number 30 is in excruciating pain! Come and see him right now, please". Il paziente 30 accusa un dolore straziante! Vieni a vederlo subito!
Il paziente, un arabo di circa 30 anni, aveva subito un trapianto di intestino. Il reparto trapianti del Jackson Memorial Hospital era uno dei pochi ospedali nel mondo, che all’epoca, effettuava trapianti di intestino. Un altro si trovava a Pittsburgh, nella Pennsylvania e un terzo in Europa, a Bruxelles. A Pittsburgh e a Miami si concentrava la maggior parte dei pazienti provenienti, praticamente, da tutto il mondo.
Il paziente della stanza 30 era stato trapiantato di intestino perché, in seguito ad un incidente stradale aveva subito un intervento chirurgico con rimozione di quasi tutto l’intestino. Quando perdi l’intestino, perdi la capacità di assorbire quello che mangi. Non potendo nutrirti mangiando, sei costretto per vivere, a introdurre gli elementi necessari alla tua sopravvivenza attraverso una grossa vena (di solito la succlavia o la giugulare). Prima o poi sviluppi una complicanza grave essendo alimentato
per vena, in maniera non fisiologica e, quando sviluppi una complicanza, ti rimane solo il trapianto di intestino per vivere.
Il decorso post-operatorio era stato regolare e si trovava in reparto da più di una settimana. Tutto sembrava procedere per il verso giusto. Mi alzo borbottando e, un po’ assonnato, arrivo in stanza dove trovo il paziente ripiegato su sé stesso, accovacciato in posizione fetale per contrastare il dolore. Lo visito. L’addome è trattabile. Niente di chirurgico
pensai. L’infermiera mi riporta i parametri vitali. Pressione arteriosa leggermente bassa e leggermente tachicardico, 96 battiti al minuto. Respiro leggermente affannato. Forse è il dolore che causa la tachicardia e la modica dispnea, pensiamo con l’infermiera. Tranquillizzo il paziente che parla un inglese discreto. Scuote la testa come a dire: non è una cosa da niente
. Ordino un emocromo. Non si sa mai e poi non sottovaluto mai cosa dice un paziente. Quello scuotere la testa in segno di disperazione aveva innescato un campanello d’allarme, aveva lasciato un segnale che si era andato a riporre in un angolo della mia mente, tra le pieghe di qualche neurone ancora sveglio nonostante l’ora. Vediamo gli esami e ci riaggiorniamo, gli dico e nel frattempo prescrivo un antidolorifico. Prima di abbandonare la stanza il paziente mi fa cenno che il dolore è forte dietro, al centro subito sotto le due scapole e continua a scuotere la testa cercando aiuto. Un altro contatto con gli occhi. Un altro SOS lanciato dal paziente incapace di fare una diagnosi ma consapevole (lui solo) della gravità delle sue condizioni. Arriva il risultato dell’emocromo. Emoglobina pari a 11 mg/dl. Valore normale o quanto meno compatibile con il decorso post-operatorio. Che ne pensi?
, chiedo all’infermiera. Mi sembra ok
, dice lei. Ma sì, anche a me. Ci rassicuriamo. I valori sono normali. Che altro fare? C’è un letto che mi aspetta e domani (tra un paio di ore in realtà: domani è già adesso), una sala operatoria dove partecipare a degli interventi. Lascio il reparto e mi avvio verso il letto. Poggio la testa sul cuscino e mi addormento di nuovo. Dopo poco risquilla il telefono. Ancora lui: il dolore aumenta. Ripenso allo sguardo del paziente che incrocia il mio e scuote la testa. Mi suona il campanello d’allarme che avevo lasciato in un angolo della mia mente poco fa. Ordino una TAC addome. Non so cosa, ma qualcosa non va
, dico alle infermiere per giustificare questo mio