La biblioteca libera Vol. I 1960-1980: Per una bibliografia alternativa
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La scelta dei testi non pretende di essere esauriente e sistematica; il volume presenta molti dei libri che furono fondamentali per l’epoca, ma estende il suo sguardo anche a settori erroneamente ritenuti non centrali negli avvenimenti di quel ventennio e a testi oggi dimenticati o allora trascurati.
Ruggero D'Alessandro
Laureato in legge e in scienze politiche, dottore di ricerca in sociologia, insegna italiano e cultura generale presso istituti tecnici della Svizzera italiana. Autore di molti libri, per i nostri tipi ha pubblicato La teoria critica in Italia, 2003; Breve storia della cittadinanza, 2006; La teoria e l’immaginazione. Sartre, Foucault, Deleuze e l’impegno politico 1968-1978, 2010; Il genio precario. Per un ritratto di Walter Benjamin, 2013; Gusti di classe, 2019.
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La biblioteca libera Vol. I 1960-1980 - Ruggero D'Alessandro
ESPLORAZIONI
Ruggero D’Alessandro
LA BIBLIOTECA LIBERA
PER UNA BIBLIOGRAFIA ALTERNATIVA
VOLUME 1 1960-1980
manifestolibri
© 2020 La Talpa srl – manifestolibri
Via della Torricella 46
Castel San Pietro Romano (RM)
ISBN 979-12-8012-447-0
www.manifestolibri.it
Digitalizzazione nel mese di marzo 2021
La talpa srl - manifestolibri
Premessa
L’idea alla base di questi due volumi è di raccogliere brevi schede bibliografiche relative a due diverse fasi della storia fra 1900 e 2000. Questo libro dà conto di alcuni testi apparsi fra due estremi temporali come il 1960 e il 1980.
Nel decennio Sessanta aumenta la diffusione di testi di scienze umane (iniziata già alla fine del decennio precedente); nel ’62 s’incrina il miracolo economico
italiano con la prima congiuntura
; nel ‘64-65 a Berkeley (USA) appare il primo movimento organizzato di studenti universitari occidentali che protestano contro la guerra in Vietnam e il consumismo, la resa delle università a servizio dell’industria militare e i centri di ricerca utilizzati per le forze armate e la politica di armamenti; nel ’66 appaiono i primi documenti dell’Internazionale Situazionista in Francia, mentre in Germania Federale nasce il movimento studentesco SDS che denuncia tanto il servilismo governativo verso gli Stati Uniti quanto il silenzio su Terzo Reich e Shoah, la repressione anticomunista e l’impunità per tantissimi genocidi reinseritisi perfettamente nella società post ’45; nel ’68 esplode la protesta studentesca in decine di Paesi occidentali e perfino in Polonia e Germania Est, per non parlare della Cecoslovacchia dove con la primavera di Praga
è l’intera società civile a volersi rendere indipendente dal modello negativo di socialismo reale
.
Il decennio successivo prosegue con proteste pacifiste fino alla conclusione della guerra in Vietnam nel 1975; in Germania la lotta armata viene scelta da decine di giovani delusi dalla mancata svolta rivoluzionaria del ’68; in Italia si assiste al caso unico di sviluppo della Nuova Sinistra per una quindicina d’anni – fra il ’65 e il ’79.
Negli anni Settanta fa comodo a troppi semplificare azzerando sulla linea brigatista tutta una cultura che coinvolge circa due milioni di persone. Da qui la repressione portata a livelli chiaramente incostituzionali, illegali, disumani.
Sono solo alcuni degli avvenimenti che rendono il ventennio 1960/79 così ricco di cambiamenti. Se si confrontano due servizi del telegiornale – uno per ciascuno degli anni che rappresentano gli estremi del periodo – la distanza appare davvero profonda. Per non parlare di mettere accanto due film: si pensi all’Antonioni de L’avventura (1959) e il Bertolucci de La luna (1979). Il linguaggio, il modo di esprimersi nel vestire, nel muoversi, i rapporti familiari, sociali, la mentalità, gli status symbols, le città, le auto, le case.
Il criterio di scelta non è assolutamente sistematico. Si è cercato di non prescindere da molti libri fondamentali: ma si è voluto anche allargare a settori erroneamente ritenuti non centrali negli avvenimenti di quel ventennio e a testi oggi dimenticati o allora trascurati.
Il volume successivo prenderà in considerazione la ripresa in grande stile dei movimenti sociali, dopo il lungo silenzio degli anni ’80 e ’90.
Affermare che nulla accada in quel lasso di tempo è certamente sbagliato. Così come è altrettanto corretto ricordare la svolta profonda che si realizza verso il privato, l’edonismo, la diffusione di governi reazionari e neoliberisti (il reaganismo negli USA, il thatcherismo in Gran Bretagna, il craxismo in Italia), la liquidazione come ciarpame ottocentesco di tutto quanto di collettivo, sincero, libertario si è prodotto nei vent’anni precedenti. Magari spacciandolo per strada a senso unico che sbocca poi nella lotta armata e nel caso Moro
.
Il primo verbo che scegliamo per ispirare questi due libri, prima ancora di LEGGERE, è PENSARE: aggiungendo con la propria testa
. Ecco spiegato l’aggettivo libera
accanto a biblioteca
nel titolo.
Alla fine di ogni scheda ci piace riportare una citazione per dare un’idea dei contenuti e dello stile del volume.
Se anche uno solo di questi libri qui brevemente raccontati servirà d’ispirazione nella vita di qualche lettore, i due testi avranno raggiunto felicemente l’obiettivo.
Theodor W. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino, 1954
A meno di dieci anni dalla fine della guerra appare un testo davvero inusuale per la cultura italiana. Un filosofo, sociologo, musicologo e altro ancora, tedesco dal doppio cognome, sconosciuto nel nostro Paese, ha redatto una serie di riflessioni suddivise in tematiche, titoli, giochi di parole, sentimenti, proverbi.
L’approccio è un terreno dove s’incontrano psicoanalisi e marxismo critico, hegelismo e critica della cultura di massa, sociologia e repulsione verso nazismo e stalinismo. L’arco temporale di scrittura è ricompreso fra il 1944 e il ’47, durante l’esilio statunitense.
Fondamentale per l’edizione italiana il saggio introduttivo a opera del traduttore-curatore Renato Solmi, una delle personalità chiave dell’Einaudi del tempo.
L’analisi della società statunitense risulta straniante per chi, nell’Italia negli anni ‘50/60, non è ancora abituato a viaggiare. In tal senso la società di massa e il cinema, i rotocalchi e i riti di massa vacanzieri e sportivi, la politica e la psicologia di massa, i rapporti sia tra i sessi e che tra le classi sociali: nulla sfugge all’occhio disincantato di questo quarantenne, privato della cittadinanza tedesca e della funzione di libero docente all’Università di Francoforte in quanto ebreo e marxista critico.
Il dodicennio in terra americana (1938/49) porterà fortuna e prestigio a tutto il gruppo Scuola di Francoforte
; e al rientro a casa all’alba degli anni ’50 la carriera riprende verso l’alto, piovono incarichi di ricerche sociali, riconoscimenti soprattutto all’amico Max Horkheimer (preside, quindi rettore all’Università di Francoforte).
Ma il prezzo da pagare è l’attenuazione crescente dell’iniziale radicalità. Il 1967/69 sono anni di sofferenza e qualche umiliazione per il timido e complicato Teddy
, soprattutto negli scontri verbali con gli studenti militanti di estrema sinistra.
L’eredità che lascia in termini di magistero, pensiero, opere teoriche, ricerche di campo è difficilmente comparabile con altri intellettuali del tempo.
Ancora oggi qualcuno pensa con mestizia di certi avvenimenti «chissà cosa ne avrebbe detto Adorno».
impossibile immaginare Nietzsche seduto alla scrivania del suo ufficio fino alle cinque, con la segretaria che riceve le telefonate in anticamera, quanto pensare che, a lavoro ultimato, vada a giocare a golf. Solo un’astuta compenetrazione di lavoro e felicità è ancora in grado di consentire – sotto la pressione della società – una vera esperienza. (p. 151).
Jack Kerouac, Sulla strada, romanzo, Mondadori, Milano, 1960
In una scena di uno fra i film eponimi degli anni Sessanta, Easy Rider di Dennis Hopper (USA, 1968), Peter Fonda propone di «let’s go». Jack Nicholson gli domanda «where?» e Fonda replica sornione «I have no idea. Let’s go».
L’andare in ogni caso, il not staying but going, everywhere we want diventa una delle espressioni chiave della nuova gioventù che s’impone violentemente o con la moda, inforcando moto o praticando la nonviolenza, ascoltando musica e fumando spinelli ai concerti rock.
Il viaggio dall’America metà Cinquanta, ormai cosciente della propria forza – il nuovo Impero mondiale, come e più dell’Inghilterra coloniale – a due luoghi come Monterey e Woodstock (1967 e ’69 rispettivamente) lo si fa con alcune guide d’eccezione: il rock’n’roll di Presley, il cinema di Brando e Dean, la giovane presidenza Kennedy (erroneamente santificato dopo Dallas), le moto veloci e poi i chopper, i primi joints e una corrente letteraria felicemente disorganica e in parte libertaria come la Beat Generation.
Il romanzo per definizione racconta proprio la voglia inspiegabile di andar via, la furia giovanile per i viaggi e la velocità, la passione contagiosa per gli spazi enormi e il jazz, la benzedrina e l’acool raccontati, mai spiegati.
Uno scrittore canadese mezzo francofono e già trentacinquenne, al suo secondo romanzo, ex studente ritiratosi dalla Columbia University, scopritore nei primi anni Quaranta di una New York infinita per stimoli e arte. Jack Kerouac nel ’57 pubblica On the Road, facendo sentire la propria voce di romanziere, assieme a quelle poetiche di Allen Ginsberg e Gregory Corso, alle storie folli e mentalmente truci di William Burroughs, alla libreria/casa editrice del poeta Lawrence Ferlinghetti. Due sono di origine italiana, uno canadese, due omosessuali, tre o quattro privi di studi regolari, tutti grossomodo bevono e si fanno
, qualcuno corre come uno squinternato in auto anche per 1000 km al giorno coast to coast, come si comincia a dire grazie alle automobili che ormai superano le 120/140 miglia orarie.
La prima ricerca è quella di ciò che viene negato nell’oppressiva e qualunquista America di Ike
Eisenhower fra il 1953 e il ’60, fra Truman e Kennedy.
due ragazzi di città (…) masticavano gomma, ammiccavano, cantavano nella brezza, e dissero che facevano l’autostop per tutti gli Stati Uniti durante l’estate. «Andiamo a Los Angeles!» urlarono. «Che ci andate a fare?» «Diavolo, non lo sappiamo. Che importa?» (pp. 57-58)
Simone De Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano, 1961
«Di tutti i libri che ho scritto» – confessa al biografo Deirdre Blair – «è stato il più facile da scrivere, in specie agli inizi». Il materiale che viene via via leggendo le si presenta presto sotto forma di vero e proprio schema d’analisi e scrittura.
A quel tempo de Beauvoir legge ormai correntemente l’inglese – la maggior parte dei materiali che studia è statunitense, britannica e canadese. Del resto, la scuola migliore è quella che fa assieme al suo compagno, lo scrittore statunitense Nelson Algren, con il quale intrattiene fra la fine degli anni ’40 e i ’50 la storia più importante, dopo quella durata mezzo secolo con Jean-Paul Sartre.
Quel che ne esce fuori pochi anni dopo è forse IL testo per antonomasia di tutto il ‘900, quello che ha maggiormente contribuito a formare la coscienza femminista fra i primi anni ‘60 e la fine dei ’70 in Occidente.
L’intento primario dell’autrice è tracciare un panorama della condizione femminile attraverso secoli, civiltà, lingue e culture; ma è tutt’altro che assente l’impegno a difendersi come donna, pensatrice, essere indipendente – lei stessa parla di «forte componente autobiografica presente nel testo».
Al di là di critiche e lodi sulla stampa di mezzo mondo negli anni Cinquanta, il grande e gratificante riscontro del suo libro De Beauvoir lo proverà in occasione dei frequenti viaggi compiuti nel decennio successivo, quello delle lotte e dei movimenti sociali di giovani, operai, studenti e, per l’appunto, donne.
Se io voglio definirmi, sono obbligata anzitutto a dichiarare: «Sono una donna»; questa verità costituisce il fondo sul quale si ancorerà ogni altra affermazione. (…) È pura formalità che le rubriche maschile, femminile appaiono simmetriche nei registri dei municipi e negli attestati d’identità. Il rapporto dei due sessi non è quello di due elettricità, di due poli: l’uomo rappresenta insieme il polo positivo e il negativo al punto che diciamo «gli uomini» per indicare gli esseri umani, il senso singolare della parola vir essendosi assimilato al senso generale della parola homo. La donna invece appare come il solo negativo, al punto che ogni determinazione le è imputata in guisa di limitazione, senza reciprocità. (p. 15)
Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo, Samonà e Savelli, Roma, 1965
Pier Paolo Pasolini, dopo gli anni di ribellione, a poco a poco si allinea allo «spirito di partito». Lo stesso romanzo Un vita violenta piace proprio perché riesce a mettere in gabbia (con il simbolo del P.C.I.) la rabbia sottoproletaria, la veracità dei lumpen, la sopravvivenza, durissima eppure ridanciana, nelle borgate di Tor Bella Monaca o Tufello, Pietralata o Prenestina.
Carlo Cassola è un anticomunista impregnato di vacua sfiducia nell’uomo.
In Italia manca una letteratura grande borghese, come quella dei Mann e Proust, Musil e Schnitzler – con le due eccezioni di Svevo e Gadda.
Sempre in Italia sono assenti l’odio e la lotta di classe dai romanzi cosidetti neorealisti e ufficialmente apprezzati dai due partiti della Sinistra Storica.
Chi scrive queste (e tante altre) che appaiono eresie o bestemmie alla suddetta Sinistra storica è un giovane critico romano di trentadue anni (quando esce con Einaudi questo volume ormai classico).
Le questioni messe in