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Esistenze senza cornice
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E-book400 pagine5 ore

Esistenze senza cornice

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Info su questo ebook

Una storia dove i fili della trama sono le vite solitarie e sofferte dei protagonisti che si intrecciano, si snodano e si riannodano in modo inconsapevole, come quel furto che fa da sfondo alle loro esistenze. Antonio, malato terminale, Pasquale, il fratello lontano, Sophia – amica di sempre e speranza di riscatto – "dipingono" Esistenze senza cornice. L’autore, Francesco Sciannarella, ci porta a conoscere, dal di dentro, queste anime regalando emozioni e colpi di scena in una Matera di antica bellezza.
LinguaItaliano
Data di uscita6 mag 2021
ISBN9788869601187
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    Anteprima del libro

    Esistenze senza cornice - Francesco Sciannarella

    1770x2500.jpg

    FRANCESCO

    SCIANNARELLA

    ESISTENZE

    SENZA

    CORNICE

    Una storia

    d’amore,

    di vendetta

    e di un furto

    inconsapevole

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    Questo libro è un’opera di fantasia.

    Ogni riferimento a eventi, luoghi

    o persone reali, viventi o defunte,

    è puramente casuale.

    Titolo dell’opera:

    Esistenze senza cornice

    © 2021 Altrimedia Edizioni

    ISBN: 9788869601187

    © Altrimedia Edizioni è un marchio di

    Diòtima srl - servizi e progetti per l’editoria

    Prima edizione digitale: Aprile 2021

    Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    PROLOGO

    Roma, 10 agosto 1946

    Per tutto il viaggio mia madre non aveva parlato, o meglio aveva parlato pochissimo. Io per niente. La strada per arrivare a Roma mi era sembrata interminabile. Il rombo della Fiat 1100 mi aveva stordito, provocandomi una stanchezza centellinata chilometro dopo chilometro. Non ricordo quante volte mi ero assopito e poi ridestato quasi di soprassalto, sempre speranzoso di essere arrivato a destinazione. Roma, però, sembrava essere stata costruita in capo al mondo.

    L’automobile la guidava un cugino di mia madre, Salvatore, di una magrezza esasperante, ma con la rabbia di un leone e la forza di un toro. Un uomo tanto silenzioso quanto corrucciato, dalla sera alla mattina.

    «Salvatore dice due parole all’anno, ma quando le dice… le dice bene!» Così me lo descrisse una volta mia madre.

    Salvatore in paese salutava tutti, quando gli andava di farlo. Un movimento quasi impercettibile della testa. Nella mia fantasia di bambino avevo sempre pensato che quell’uomo avesse un peso legato al mento che gli impediva di alzare la testa più di tanto.

    Salvatore era nato e cresciuto a Grassano, un paese abbarbicato su di un cucuzzolo. Alcuni anni prima aveva conosciuto a Matera quella che era diventata sua moglie, Bruna. Una donna dal carattere caustico e scontroso, destinata con quasi totale certezza al nubilato. Nel giro di sei mesi erano convolati a nozze, nel rispetto delle tempistiche imposte all’epoca. L’amore reciproco era pressoché inesistente. Così Salvatore era diventato uno di città. Il destino aveva poi voluto perdesse il suo lavoro di muratore. In suo aiuto era intervenuto suo suocero. Questi gli aveva proposto di gestire il suo negozio di generi alimentari in piazza, a Matera, assieme a sua moglie. L’alternativa era che morissero entrambi di fame.

    «A tuo figlio potevi anche non portalo appresso» avevo sentito dire a Salvatore, durante il viaggio. Mia madre si era girata a guardami. Io ero assorto a guardare oltre il vetro, ma con l’orecchio attento.

    «No! Deve vedere con gli occhi suoi» aveva risposto lei. Poi si era rivolta a me: «Non guardare da quella parte, a mamma, se no la macchina ti farà male».

    Mia madre, come sempre, aveva avuto ragione. Non ero avvezzo a lunghi viaggi in auto. Dopo dieci minuti il mio stomaco ne aveva risentito. Era il mio primo viaggio fuori paese. Il motivo mi era del tutto ignoto.

    «Ti piacerebbe fare un viaggio a Roma?» mi aveva chiesto mia madre. Era un giorno di luglio. Mi ero limitato ad assentire con il capo. Lei aveva sorriso e mi aveva donato una carezza. Si era allontanata, lasciandomi a rimuginare. Pensavo dove potesse essere Roma, mentre ero con il capo chino sul piatto di fave lesse. Avevo frequentato solo la prima elementare e non era stata sufficiente per capire qualcosa di geografia.

    Entrammo nella capitale a metà mattinata, nel pieno fervore della vita cittadina. L’impatto con il caos urbano era stato strabiliante e per certi versi terrificante. Per me quella era la civiltà come la chiamavano i vecchi in paese, entrambi appartenenti a un’altra epoca, a un altro tempo. Ci erano sfrecciate accanto auto e moto di cui avevo perso il conto dopo pochi minuti. C’erano persone in ogni strada, in alcuni punti si muovevano a frotte. In un lasso di tempo brevissimo avevamo incontrato più persone di quante ne vivessero nel nostro paese. Quella eccessiva vitalità mi aveva fatto girare la testa, ma al contempo avevo sorriso. Mi ero chiesto se un giorno sarei mai tornato in quel posto così pieno di vita e di rumori.

    «E dove vanno tutte ‘ste persone?» aveva chiesto mia madre, attonita tanto quanto me.

    «Al lavoro, a passeggio, a spendere soldi» aveva risposto Salvatore tenendo lo sguardo immobile alla strada. Io fissavo le sue mani nere di sole, piene di vene grosse come rami di quercia. Stringevano lo sterzo, quasi temesse glielo rubassero.

    «Beati loro che ce li hanno i soldi da spendere» aveva sentenziato mia madre. Salvatore non aveva fatto alcun cenno, alla stregua di un sordo. Quella frase e ciò che girava attorno alla parola denaro era il ritornello dell’esistenza di mia madre. L’indigenza in cui vivevamo era il suo più grande cruccio, da sempre.

    In casa eravamo solo io e lei. Un padre non c’era mai stato, o quanto meno io non ne avevo un ricordo. Un giorno, di ritorno dai campi di don Pietro dove lavoravo come pastore, avevo chiesto spiegazioni. La mia era innocente curiosità. La risposta di lei era suonata tanto laconica quanto falsa.

    «Tuo padre ci ha lasciati.» E non aveva aggiunto altro. Io mi ero accontentato, ma in cuor mio era rimasta tutta l’amarezza di non sapere la verità. Col tempo molte cose sarebbero apparse chiare a mie spese, ma in quegli anni di bambino tutto era nebuloso e criptico. Come lo sguardo di mia madre sull’argomento.

    Salvatore, prima di arrivare a destinazione, si era fermato non meno di cinque volte a chiedere informazioni. Ci eravamo persi tra i meandri delle strade di Roma. Quando arrivammo era madido di sudore. Mia madre altrettanto, ma non per la fatica del viaggio. Era tesa fino allo spasmo per quello che stava apprestandosi a fare.

    L’automobile l’avevamo parcheggiata davanti a un enorme palazzo che si affacciava su di una piazza. Alla sinistra c’era una chiesa e su altri due lati altri palazzi immensi.

    Forse là dentro ci stanno tutti i miei compaesani, avevo pensato, e forse ci stanno pure larghi!

    A quella frase pensata con la mia testa di dieci anni, avevo accennato un sorriso. Salvatore aveva tolto la giacca. La camicia era bagnata sulla spalla. Poi aveva preso una delle sue sigarette puzzolenti e l’aveva accesa. Non si curava di quello che c’era attorno a lui, me compreso.

    «Aspetta qui, a mamma» aveva detto mia madre avvicinandosi a me. Era come se mi avesse all’improvviso ridestato dall’incantesimo di quel posto. Tutto mi appariva bellissimo. «Stai co’ Salvatore, vengo subito, va bene?»

    «Dove vai?» Ero preoccupato.

    «Vengo subito.» Poi si era avviata verso il palazzo sotto il quale Salvatore aveva parcheggiato. Poco dopo era scomparsa nel portone. Sentendomi perduto mi ero avvicinato al cugino di mia madre.

    «Dove va mamma?» Prima di rispondermi aveva sbuffato fumo fetido dalla bocca.

    «Non t’ha detto proprio niente?» E mi aveva guardato. Poi aveva guardato il portone. In quell’istante, per la prima volta, avevo avuto l’impressione che quell’uomo senza tempo sorridesse.

    Non può essere, avevo pensato incredulo, Salvatore non sa ridere!

    Sempre più preso dallo sconforto, avevo risposto con un diniego della testa. Salvatore, infastidito da tanto disturbo da parte mia, aveva aspirato altre due volte prima di guardami in faccia.

    «Deve incontrare a uno!»

    La risposta, tipica di quell’uomo con un vocabolario di poche pagine, non era stata ovviamente esaustiva per me. Complice anche la mia apprensione, amplificata dal viaggio estenuante. Ero frastornato dal caos della vita romana e dalla mia enorme insicurezza.

    Per un tempo lunghissimo mi ero chiesto chi fosse costui. Il tempo si era trasformato in rassegnazione. Mi ero poggiato all’auto, accanto a Salvatore, e avevo atteso impaziente.

    I miei occhi avidi di curiosità non riuscivano a star fermi in un punto. Ora osservavo un’auto che ci passava davanti. Ora una moto con una ragazza seduta dietro un ragazzo con entrambe le gambe su di un lato. Quando era passata la prima di queste l’avevo seguita con lo sguardo. E avevo guardato Salvatore che sembrava indifferente anche a quella cosa per me assurda.

    «Hai visto, Salvatore?» avevo chiesto. Ero desideroso di un dialogo con un altro essere umano.

    «Ho visto» la sua risposta era infastidita, «qui le femmine non sono come da noi!»

    «E come sono?»

    Salvatore mi aveva guardato e aveva accennato un sorriso.

    «Sono moderne.» Mi ero accontentato di quella risposta. Ero felice anche di avergli strappato un sorriso. Poi ero tornato con lo guardo alla piazza, al traffico e al portone.

    Mia madre non si decideva a uscire.

    «Ma quello che deve incontrare mamma è uno importante?» Speravo di ottenere un minimo di spiegazione.

    «Tu che dici?» Salvatore si era girato a guardare l’elegante palazzo dove mia madre era entrata. Avevo guardato per l’ennesima volta la facciata e avevo risposto.

    «Se abita qui… vuol dire che c’ha i soldi.»

    Salvatore aveva fatto un cenno di assenso e si era acceso un’altra sigaretta. Intollerante a quell’odore nauseabondo, andai a sedermi all’ultimo gradino della scala di quel palazzo.

    Non riuscii mai a quantificare il tempo trascorso in quel punto di Roma. All’epoca mi sembrò tantissimo, ma forse fu meno di un’ora.

    Prima di vedere mia madre sentii la sua voce. Subito dopo quella di un uomo. Entrambe provenivano dall’interno del portone. Mi raddrizzai e le andai incontro fermandomi sul primo gradino. Desideravo rivederla e poi ero un po’ preoccupato. Quel parlare concitato tra lei e lo sconosciuto mi intimoriva.

    «Lo sapete pure voi che dico la verità!» E a quelle parole me la ritrovai di fronte. La fissai a lungo senza capire. Non avevo notato l’uomo subito dietro. Era ancora in ombra all’interno.

    Mia madre poi si rivolse a me con la stessa stizza.

    «Andiamo, a mamma, è meglio.» Prese la mia mano e mi tirò giù per le scale. Salvatore aveva assistito alla scena immobile, ma pronto a ripartire. Quando fummo accanto all’auto mia madre scoppiò in lacrime, poggiandosi alla carrozzeria.

    «Maddalena, tutto a posto?» chiese Salvatore.

    Lei disse di sì con il capo.

    «Mamma, che è stato?»

    «Maddalena, aspettate!» Una voce all’improvviso giunse dal portone. Fissai a lungo quell’uomo, fermo sulla soglia. Capelli ricci, naso aquilino, sigaro tra le dita. Prese a scendere le scale, deciso verso di noi.

    «Andiamocene, Salvatore.» Mia madre aprì lo sportello e scostò il sedile per farmi entrare. «Vieni, a mamma, torniamo a casa!»

    Ero pietrificato. Fissavo quell’uomo. Era davanti a me, imponente. La mia rabbia era enorme. E da quel giorno si sarebbe sedimentata per sempre dentro, diventando odio puro. Sarebbe stato per sempre colui che aveva fatto del male a mia madre.

    «Maddalena, fermatevi per favore!»

    L’uomo si era avvicinato ancora un po’. Io ero entrato in auto. Mia madre aveva continuato a ignorarlo. A fermare il tutto, a renderlo immobile come in una fotografia, fu la voce rauca e profonda di Salvatore.

    «Dottore, lasciate perdere, per favore!»

    Oltre il vetro continuai a fissare l’uomo. Lui fissava mia madre, tornata a sedersi davanti a me, rigida, lo sguardo fisso al vetro.

    «Salvatore, voglio solo essere d’aiuto.» Rimasi colpito, quell’uomo conosceva anche lui.

    «Dottore, lasciate perdere! Mia cugina non ha bisogno della vostra elemosina!» Salvatore era già con un piede nell’auto.

    L’uomo non replicò. I miei occhi erano su di lui che cercava quelli di mia madre. Non li trovò più. Poi girò lo sguardo a me e ci ritrovammo a fissarci. Quel volto non lo avrei più dimenticato.

    Occhi su occhi, mentre il motore ripartiva con tutto il suo clangore.

    All’improvviso quell’uomo mi sorrise con dolcezza. Ebbi l’impressione che mi conoscesse da sempre. Io non ricambiai, non ne avevo la minima intenzione.

    Salvatore ingranò la marcia. Si immise nel traffico lentamente. Io non distolsi lo sguardo da quell’uomo. Nonostante il suo sorriso, per me era cattivo. Mi girai a guardarlo attraverso il vetro posteriore. Continuava a sorridermi. Poco prima di scomparire alla sua vista, lo vidi alzare la mano con la quale teneva il sigaro. Un saluto lento e misurato al mio indirizzo.

    Non ricambiai, ovviamente. Poi tornai a sedermi. Per gran parte del viaggio l’immagine di quello sconosciuto che mi salutava era tornata nella mia mente. Fino a che non avevamo lasciato Roma avevo fissato la nuca di mia madre. Aveva smesso di piangere in silenzio solo quando ci eravamo lasciati il traffico alle spalle.

    Per tutto il viaggio, nessuno parlò dell’accaduto.

    Quella giornata l’avrei rievocata molti anni dopo. Ormai sedicenne, quando lavoravo come muratore a Napoli. Fu lì che ci trasferimmo meno di un anno dopo quell’incontro pieno di mistero. Successivamente, nel conoscere la verità, la rabbia sopita fino a quel giorno, tornò viva dentro di me. L’odio era nato davanti a quel portone di Piazza del Gesù, nell’agosto del ’46. Odio puro nei confronti solo e soltanto di quell’uomo. Mia madre si rifiutò di dirmi il suo nome, ma il destino volle che lo scoprissi da solo.

    (Uno)

    Antonio

    Matera, 3 marzo 2011

    «Papà, anche tu stai morendo come la mamma?»

    Alzo lo sguardo verso Mattia e gli sorrido, tra un eccesso di tosse e l’altro.

    «Sì...» Lo vedo sedersi al muretto, accanto a me e farsi triste.

    Nonostante gli manchi poco per compiere otto anni, è un bambino molto intelligente e troppo sensibile. Osservo i suoi lineamenti. Mi ricordano moltissimo sua madre, Carla. Lei è stata l’unica donna che abbia mai amato nella mia vita. L’unica che ha continuato ad amarmi persino oltre la vita.

    «Quindi io rimarrò da solo?» Mattia non riesce a guardarmi negli occhi.

    Gli accarezzo i capelli castani, un tempo molto più scuri. Sento la rotondità della sua testa, la conosco a memoria. Vorrei piangere.

    «Rimarrai con nonno Sandro e nonna Francesca.» Nelle mie parole c’è poca allegria. È l’unica certezza in mio possesso. Non è quello il senso delle parole di Mattia. Non ho altro modo per districarmi dall’argomento. «Capito, amore?»

    Mattia fa sì con la testa. Sento i miei occhi pieni di lacrime.

    Mi mancherai moltissimo, figlio mio!

    Non ho idea di quanto tempo rimarrò ancora su questo mondo di merda. Mi resta da vivere un ultimo scampolo di vita indegna. Me la sono procurata con le mie stesse mani. Quel po’ che mi rimane da vivere voglio passarlo accanto a mio figlio. Non fosse stato per lui, appena uscito di galera, mi sarei gettato da un ponte. L’avrei fatta finita. Lui è il mio ultimo legame con Carla. L’ho uccisa io. Le ho trasmesso l’AIDS. Sono il più becero degli assassini. Non c’è pentimento in grado di lenire il dolore di questa colpa. Non esiste redenzione per questo.

    «La tua malattia non si può curare?» chiede Mattia.

    Con un gesto furtivo mi asciugo le lacrime. Con la testa gli dico di no.

    «È la stessa malattia della mamma?»

    Un cenno di assenso. Le lacrime sgorgano senza controllo. Mio figlio mi abbraccia d’istinto. Lo fa sempre quando sono giù di corda. È il suo modo per dirmi che non devo abbattermi. E funziona. Ricambio l’abbraccio tenero e fortissimo. Desidero poter provare questa sensazione sublime anche dopo la morte. Se è vero quello che dicono, mi aspetta un’eternità infernale. In fondo, però, non mi importa affatto.

    Con la vista distorta dalle lacrime vedo avvicinarsi nonna Francesca, la madre della mia Carla. È mia complice in questi incontri clandestini con Mattia. Suo marito ha pagato i migliori avvocati della città per ridurre all’osso le ore da passare insieme a mio figlio. Il suo desiderio di vendetta nei miei confronti non conosce limiti. Non fosse per questa donna gentile, vedrei mio figlio due ore a settimana al sabato. In lei vedo la mia Carla, se mai fosse diventata vecchia.

    «Lo faccio solo per lui» aveva detto, quando aveva messo in piedi quella menzogna, «per mio marito suo nipote è a scuola di basket e il giorno in cui scoprirà la verità non ci sarà altro che potrò fare per te».

    «Sì, certo» le avevo detto. «La ringrazio» avevo aggiunto. Avevo ancora la fissa di darle del lei, come il primo giorno in cui ci eravamo conosciuti.

    La signora Francesca si avvicina lentamente, per darci modo di stare insieme ancora un po’. Purtroppo non può tardare molto, suo marito è sospettoso. Il padre di Carla è un uomo la cui scaltrezza è pari solo al suo denaro. E di denaro ne ha tanto. A Matera la sua fama lo precede. È uno dei più importanti costruttori della zona. Ha fatto diventare la città una colata di cemento, senza alcuna pietà. Il nostro rapporto non è mai stato idilliaco. Sin da quando ci stringemmo la mano la prima volta. Quel giorno i suoi lineamenti duri erano stati più sinceri delle sue parole, edulcorate da un sorriso fatto solo con la bocca. Quando, poi, io e Carla andammo a vivere insieme, la sua repulsione nei miei confronti divenne rabbia. E con la morte della sua unica figlia, per colpa della vita dissoluta nella quale l’avevo trascinata, quella rabbia divenne odio allo stato puro, procrastinato senza pietà oltre la morte. La sua vendetta sarà raggiunta con la mia scomparsa da questo mondo, cosa per la quale prega ogni giorno: un’altra delle mie poche certezze. La sua arma è Mattia, non potendomi ridurre alla miseria nella quale già annaspo da anni. Se potesse mi eliminerebbe fisicamente con le sue stesse mani. In fondo lo capisco. Anch’io sarei disposto a uccidere se qualcuno torcesse un solo capello a mio figlio.

    «Dobbiamo andare, tesoro!» La signora Francesca parla con il suo tono di voce morbido. Mi ha salutato con un leggero cenno del capo e il suo sorriso dolcissimo.

    Mattia si separa da me e mi guarda negli occhi.

    «Ciao papà… ci vediamo mercoledì!» Mi dà un bacio lunghissimo sulla guancia. Lo fa sempre prima di andare via. Io evito di baciarlo. A volte ho delle ulcere vicino la bocca. Non mi accorgo neanche di averle. E non voglio rischiare di uccidere anche lui.

    «Va bene. Mi raccomando a scuola, capito?»

    Mattia annuisce. Gli sorrido. Gli scompiglio i capelli. Mi alzo. Trovo gli occhi di un verde intenso della madre di Carla.

    «Grazie» le sussurro, come sempre.

    Lei risponde con un movimento leggero della testa. È una donna molto riservata e di buone maniere. Porta dentro di sé il dolore per la morte di sua figlia con orgoglio. Agli occhi del mondo è una donna che non cede il passo a nessuno, sembra che niente possa scalfire la sua sicurezza, ma in realtà il dolore ha legato con ogni molecola del suo corpo.

    «Mia madre soffre senza emettere un gemito» disse di lei una volta Carla. Era accaduto dopo l’ennesima sfuriata di suo padre, perché voleva tornasse a casa. La signora Francesca non aveva proferito parola.

    «Ciao, papà.»

    «Ciao.»

    Osservo mio figlio andare via. Sua nonna ha poggiato una mano sulla sua spalla. Il mio sguardo è fisso su quell’immagine. Ho un magone che mi toglie il respiro. Ogni volta è un addio, soprattutto da quando mi hanno detto che a Natale probabilmente non ci arrivo.

    Quando l’auto della signora Francesca è uscita dal cancello, lontano dalla mia vista, prendo una sigaretta e l’accendo. Il dottore mi ha vietato di fumare, per il mio bene. Mi chiedo a cosa possa servire privarsi di qualche misero piacere, ormai.

    Io sono un uomo morto che cammina.

    Dead man walking!

    Sorrido. Riecheggiano nella mia testa le parole del film.

    Dopo la prima boccata già sento la tosse tornare. Me ne frego. Arrivo al mio sgangherato Califfone. È l’unico mezzo di trasporto alla portata delle mie tasche. L’unico per tutte le stagioni. Anche questo non fa bene alla mia salute cagionevole, ma non ho scelta. Non ho un lavoro, non mi posso permettere un’automobile. Quello che guadagno dai furti con il mio socio Mario, detto Rasta e Basta, è appena sufficiente per sopravvivere. Per fortuna il mio avvocato non lo pago, essendo un amico, Gennaro. Mi sono rivolto a lui nella vana speranza di ottenere qualcosa contro il padre di Carla, ma è una lotta impari.

    «È come Davide contro Golia» mi disse una volta, poco fiducioso.

    «Solo che, a differenza della storia, qui Davide perde.»

    Gennaro non aveva replicato alla mia affermazione. Un altro modo di dire sì.

    In realtà dei soldi mi importerebbe davvero poco. Non avrei problemi a mangiare alla mensa della chiesa dell’Annunziata, ma i soldi mi servono per pagare Angelo. Devo dargli mille euro, se entro pochi giorni non lo pago verrà a spezzarmi qualche osso. Avevo provato a vendere una partita di hashish per conto suo. Un altro modo per fumare gratis. La sfortuna ha voluto che lungo la strada perdessi il panetto. Dopo due ore di ricerca avevo rinunciato.

    «I soldi devi darmeli tu» aveva detto Angelo mostrandomi i denti gialli, «non me ne frega un cazzo dove li prenderai». Mi si era avvicinato e mi aveva guardato dritto negli occhi: «E se non ti dai da fare maturano gli interessi, lo sai, sì?»

    E così i mille euro iniziali erano diventati tremila nel giro di due mesi, ma per fortuna ero riuscito a ridurre il debito quasi completamente. L’ultima dannatissima trance non riesco a saldarla. Nella mia scatola degli spiccioli ho raccolto ottocento euro, ma avrei dovuto saldare entro la fine di febbraio. Spero quello stronzo di uno strozzino non mi stia cercando. Se così è, non ho scampo. Mi ritroverò con un braccio rotto, senza gli ottocento euro e il debito sarà ancora in piedi per gli interessi maturati.

    Dio mio che vita di merda!

    Guardo l’orologio. Mancano pochi minuti alle diciotto. Nel mio ruolo di complice di Mario c’è quello di controllare che la refurtiva non venga scoperta. Si tratta quasi sempre di veicoli commerciali, facili da piazzare. Mi limito a tenere il mezzo in un posto sicuro, neanche Mario lo conosce, fino alla vendita. Con Rasta e Basta sono legato da una amicizia piuttosto datata, ma non mi fido di lui. È sempre sballato, non sa fare altro.

    Salgo sul mio due ruote. Indosso un casco a forma di padella non omologato. Lo indosso con riluttanza, ma non posso permettermi di andare a piedi.

    Abbasso la pedivella con un colpo secco del piede. L’unico cilindro si muove e fa partire il motore. Una nube di fumo di un colore simile alla nebbia di Londra esce dalla marmitta. È il risultato dell’utilizzo della miscela ottenuta da olio sintetico esausto e benzina per uso agricolo. Un regalo di Mario.

    «Ho fregato ‘sto cesso di Fiorino» disse un giorno, mostrandomi un’auto del valore di meno di mille euro, «dentro c’è un bidone di benzina agricola». Poi aveva guardato il mio motorino e aveva sentenziato: «Mettila in quello schifo di motorino… almeno non spendi soldi per la miscela, io non so che cazzo farmene!»

    Ovviamente accettai senza battere ciglio.

    Parto alla volta di Matera sud. Questa volta ha rubato un furgone bianco nuovo di zecca. Appartiene a una società di autonoleggio. Non so altro. Ne ricaveremo circa duemila euro a testa. Spero Mario faccia quanto prima lo scambio. Lo spettro di Angelo mi mette inquietudine.

    Mi immetto su via Passarelli, sentendo già il freddo penetrarmi nelle ossa.

    Io e Mario entrammo in società perché lui aveva bisogno di qualcuno che gli nascondesse la refurtiva. Io di guadagnare un po’ di soldi in più. All’epoca lavoravamo insieme a un distributore di benzina. Era l’unico lavoro che avevo trovato appena uscito di galera. Mi ero fatto tre anni e due mesi per spaccio e detenzione di stupefacenti. E non era la prima volta che mi beccavano. Alla pompa di benzina, più che di lavoro era più giusto parlare di schiavitù remunerata. Quel gentleman del mio capo mi pagava seicento euro al mese per respirare benzene per otto, a volte anche nove ore al giorno. Ovviamente, per mantener fede al contratto di sfruttamento, quando non c’era nessun cliente da rifornire dovevamo occuparci dell’autolavaggio. Tutto questo senza uno straccio di busta paga.

    «Eppure pensavo che la schiavitù l’avessero abolita» dissi un giorno a Sophia, la mia migliore e unica amica, quando ebbi il mio primo stipendio.

    «Non è mai stata abolita» aveva risposto lei, con il suo modo cupo di parlare, «ha solo cambiato forma!»

    Insieme avevamo sorriso, mentre condividevamo una canna a buon mercato. Il suo odore acre aveva ammorbato l’aria della mia casa fatiscente, in via Fiorentini, nel cuore dei Sassi.

    I freni del Califfone sono all’osso e ho iniziato a frenare a metà della discesa di via Passarelli. Se non faccio così rischio di arrivare in via Lucana come un razzo e finire ammazzato. Anche se, con la fortuna che mi ritrovo, è più probabile che uccida qualcuno e io ne esca illeso.

    Giro a destra su via Lucana e inizio a percorrere quell’arteria sempre troppo trafficata che si snoda per tutta la città, cambiando nome lungo il percorso. Non ho ancora messo i piedi per terra da quando sono partito. Se con un motorino, poco più largo di una bicicletta, ti lasci imbottigliare dal traffico allora vuol dire che sei un coglione. È meglio andare a piedi.

    A quest’ora via Lucana è piuttosto trafficata. Gente che torna da lavoro. Gente che ci va. Gente che esce a far spesa. Corro con l’acceleratore a manetta e me ne frego dei clacson delle auto costrette a inchiodare perché le sfioro di un soffio. Non mi giro neanche più a mostragli il dito medio. Da ragazzo, quando un motorino come il mio non aveva neanche la targa, lo facevo spesso. Mi divertivo.

    Passo davanti alla scuola elementare Padre Giovanni Minozzi, la scuola che ho frequentato assieme a mio fratello Pasquale. Una fitta provocata dai ricordi legati a lui mi attraversa lungo tutto il corpo. Da cinque anni non ho sue notizie. Il giorno in cui venne a farmi visita in carcere, per comunicarmi che lasciava Matera, fu uno dei più tristi della mia vita.

    «Dove andrai?» gli avevo chiesto nella sala colloqui. Fissavo le mie mani sul tavolo maleodorante di detersivo a basso costo.

    «Non lo so» aveva mentito Pasquale. Sfuggiva il mio sguardo. «Ho un amico a Torino, per un po’ starò lì, poi vedrò.»

    Non avevo replicato. Mi ero limitato a un leggero movimento del capo. Pasquale non era tipo da partire all’arrembaggio, aveva programmato tutto, ne ero certo. Era nel suo carattere non condividere con me i suoi progetti e questo in parte era anche colpa mia. Negli anni ci eravamo allontanati, poco alla volta. Eravamo due fratelli con strade diverse da percorrere, era stato chiaro sin dall’adolescenza. Io, dopo il liceo e tre anni di università a esami zero, come dicevamo in casa a Bari, ero tornato a Matera. Avevo iniziato a lavorare nella fabbrica di salotti messa in piedi da nostro padre. Pasquale, invece, aveva studiato con abnegazione e voglia di arrivare. Si era laureato in Architettura con ottimi voti. Sembravamo figli di genitori diversi. E più lui solidificava le basi per il suo futuro, più io distruggevo le mie. E quel giorno in cui ci siamo salutati in carcere, eravamo la cosa più lontana che ci potesse essere tra due fratelli.

    «Buona fortuna, allora!» era stata l’unica cosa che ero riuscito a dirgli. Dentro di me c’era più rabbia che malinconia, come sempre. Quando mi aveva lasciato solo, i sentimenti si erano invertiti di posto e dimensione. Il magone per quell’altra perdita, se pur non definitiva, mi aveva scavato le viscere con un dolore lento e inguaribile. Da quel giorno non una telefonata, una cartolina, un accenno della nostra esistenza reciproca.

    Ho appena superato il monumento in memoria dei materani uccisi dai tedeschi il 21 settembre 1943. Svolto a destra della biforcazione e inizio a percorrere la statale. Sono diretto poco fuori città. Il posto dove nascondo gli automezzi rubati non è mio, ma il suo proprietario l’ha abbandonato da anni. Lo conosco bene, non ci mette mai piede. Quel posto è legato a un triste ricordo della sua esistenza. Il posto è un’antica masseria, ogni giorno sempre più a pezzi, un vecchio palazzotto degli inizi secolo scorso. C’è un grande locale, un tempo adibito a magazzino e stalla. In tempi recenti un enorme portone in ferro ha sostituito la meno sicura porta di legno. Dopo l’abbandono ho provveduto quanto meno a sistemarla in modo che non cadesse. È indispensabile affinché nasconda a occhi indiscreti il suo contenuto. Tra questi ci sono anche gli occhi del proprietario stesso. Ha deciso infatti di costruirsi una nuova struttura in stile moderno nella zona più alta della stessa collina, mantenendosi a una buona distanza, per fortuna. Sorrido, mentre il vento sembra volermi tagliare la pelle del volto. Penso alla faccia che farebbe il vecchio se mi scoprisse. In realtà poco mi importa. A volte mi auguro scoprano la refurtiva, così magari incolpano lui.

    Con il mio Califfone sono ormai fuori città. Ho messo il motore al minimo per non far spegnere la luce e quindi rimanere completamente al buio. Devo percorrere un paio di chilometri in discesa e non mi sembra il caso di consumare carburante.

    Per uno strano motivo, o più probabilmente per un legame con il posto dove sto andando, mi viene in mente

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