La Pinza
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Info su questo ebook
Gli autori offrono un ampio ricettario, quanto mai ricco e variato nonché ‘praticabile’. Ma, divertendosi e divertendo, fanno conoscere al lettore anche tanti “modi di dire”, riferiti alla vecchia, cara Pinza: detti popolari, ameni e spesso sarcastici, che circolavano tra la gente del paese, in piazza tra le bancarelle del mercato, dentro le fumose osterie. Battute tutt’ora pungenti e capaci di strappare una bella risata. Non ultimo pregio del libro sono le bellissime immagini dei camini su cui la Pinza era fatta cuocere sotto la cenere e le braci oppure nelle campane di terracotta. Uno squarcio affascinante sul mondo di ieri, che possiamo pienamente gustare ancora oggi.
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Anteprima del libro
La Pinza - Claudio Rorato
ricettari
Prefazione
di Tommaso Tommaseo Ponzetta
La ricerca storica che Claudio Rorato e Renzo Toffoli hanno condotto sulla mitica Pinza, si apre con un elogiativo richiamo ai valori della tradizione. Per la quale si intende: Memoria di fatti e cose antiche, tramandata da racconti di vecchi a giovani, d’età in età. Onde si dice Avere o Sapere per tradizione…
(Dal Dizionario della lingua italiana – 1861 – di Niccolò Tommaseo, tanto per restare in famiglia!). Ma il filologo, attenendosi esclusivamente alla scienza linguistica, non va oltre e lascia ad altri rimettere in moto la forza attrattiva delle usanze e dei costumi tramandatici nel tempo. E in questo contesto il nostro pensiero spesso ci porta alla suadente, proustiana ricerca del tempo andato. Ecco allora che, tralasciando le implicazioni della semantica, si può ritenere che l’essenza della tradizione è esplicitamente contenuta nella espressione, imperativa e sentenziosa, del vecchio adagio veneto: Pitòst de pèrder na tradiziòn l’è mejo brusàr un paese…
. E credo che qui, sul significato e sul valore religioso
della tradizione, si possa chiudere. Nel lodevole intento di riportarci a essa Claudio Rorato e Renzo Toffoli (come dire… Ponte di Piave e Salgareda!) ci parlano, in questo loro prezioso libro, di un prodotto dolciario arcaico, la Pinza appunto, capace ancor oggi, quando tutto viene screditato, di farci apprezzare il gusto, nel senso figurativo del termine, di tramandare cose legate alla nostra terra e alla nostra gente. Per questo motivo possiamo dire che il libro, messo dagli Autori nella calza della Befana per noi tutti, buoni e cattivi, è un libro che fa bene al cuore.
Se tra i dolci conosciuti qualcuno mi chiedesse oggi di azzardare una graduatoria in base alla loro bontà e/o all’uso sapiente degli ingredienti, io davvero non me la sentirei di citare, tra questi, anche la Pinza. E non perché la disprezzi, anzi mi piace molto, ma solo perché mi sembrerebbe empio il comparare questo dolce magro, vecchio
e povero
, colmo di sapori che hanno segnato e confortato il tempo della vita grama, a un qualsiasi altro dolce, ad esempio al più giovane
e più ricco
Tiramisù, espressione grassa dell’opulenza dei nostri giorni, gradito non solo per le sue capacità ristoratrici ma anche, come qualcuno maliziosamente sostiene, per i suoi presunti effetti afrodisiaci.
Tutt’altro significato esprime invece l’innocente Pinza, legata alla notte magica della Befana e al fuoco del panevin, rituale sacro e antico del contadino che, in quella festa lieta, elevava a Dio una sola, splendida preghiera: Che Dio ne mande ’a sanità del Panevin!
. Non veniva chiesto il superfluo, ma soltanto il necessario: la pagnotta e il vino per il nutrimento, la salute per continuare a vivere e a lavorare, ("Io la madia e la botte amo…io ridirvi non so quanto mi piace il vin d’un anno con il pan d’un giorno! – da Grano e Vino di Giovanni Pascoli). Ecco allora che la Pinza (nel ricettario propostoci vi è da scegliere e anche da perdersi) sembra quasi un pretesto addotto dagli Autori per evocare le immagini lontanissime di un mondo, quello rurale, che si identificava nel faticoso lavoro di ogni giorno, trasmesso con tenacia e sapienza per molti secoli, da generazione in generazione, da quando l’uomo, abbandonata la caccia, si fece contadino. Il libro di Rorato e Toffoli acquista pertanto anche il merito di riportare alla memoria dei vecchi e alla conoscenza dei giovani una civiltà silenziosa, dimessa, come dimessa era stata tutta la sua esistenza. Va ricordato che intorno agli anni Sessanta del secolo scorso, mentre scoppiava la cosiddetta rivoluzione industriale
, qualcosa di intensamente umano, quindi anche di socialmente importante, stava scomparendo: se ne andava per sempre il mondo contadino, durato secoli. L’esistenza difficile e faticosa di quella gente dei campi, timorata di Dio e vissuta con dignità nelle angustie, emerge pienamente dalle pagine del libro, con il ricordo di simbolismi e di riti che, in ogni circostanza del calendario agricolo, denunciavano la presenza del sacro. Era il tempo delle benedizioni e dei vespri, delle rogazioni e dei tridui, dei fioretti e dei voti. Certamente si fa difficile per noi che apparteniamo a una società laicizzata ricordare quanto quel mondo fosse segnato dalla religiosità, dai valori del cristianesimo.
Celebrando l’arcaica Pinza con manifesto rapporto di riverenza, gli Autori fanno notare, non senza ironia, come la modernità, oggigiorno, l’abbia manipolata
ed elevata alla dignità di dolce nobile
. Ma da questa metamorfosi che, in parte, dissacra e corrompe l’antico impasto di elementi poveri (frumento, sorgo, mais), Rorato e Toffoli non si lasciano troppo distrarre. Essi, divertendosi e divertendo, hanno voluto far conoscere al lettore anche alcuni modi di dire
, riferiti strettamente alla vecchia e cara Pinza. Detti popolari, ameni e spesso sarcastici, battute pungenti che circolavano tra la gente del paese, sul sagrato dopo la messa, in piazza tra le bancarelle del mercato, dentro le case o nelle fumose osterie del Piave. Ahimè, per ragioni anagrafiche, io posso testimoniare di aver udito più volte, da ragazzino, alcuni di questi modi di dire riportati nel libro. E voglio qui ricordarne uno, quello che recitava: ‘A par ‘a pinza dei Oian
! E degli Oian (il cognome vero era Oggian, poi dialettizzato) ricordo molte storie, non solo quelle legate alla loro smisurata Pinza, alcune dolorose. Gli Oiani, così venivano chiamati, erano una famiglia di mezzadri rappresentata da sei fratelli, alcuni già avanti con gli anni, dalle loro mogli, logore dalla fatica e sfiancate dalle gravidanze, da innumerevoli figli (i non nati
di oggi, allora nascevano sempre!) e tanti erano tra coloro i piccolini che alla sera venivano contati. Una sera ne mancò uno: fu trovato annegato nella vasca del liquame organico (el pisarot
) dietro la stalla. Una tragedia nel clima della vita misera. Passarono molte stagioni, aprirono le fabbriche, cominciò la diaspora dalle campagne e la grande famiglia, a poco a poco, si disperse. Il vecchio Toni Oian, quello che badava ai tori, rimasto solo si rassegnò a lasciare la casa rossa nella campagna di Salgareda. Un figlio, che era andato a lavorare a Milano, lo convinse a raggiungerlo. A Milano il vecchio contadino finì in un caseggiato grigio dove arrivavano il rumore dei treni e le sirene degli stabilimenti. Passò poco tempo e una mattina Toni fu trovato morto nel suo letto. Non ricordo né l’anno né il giorno in cui questo accadde, mi piace solo immaginare che fosse una notte incantata e piena di stelle, quella dell’Epifania, che tutte le feste porta via. E si portò via anche lui. Era chiaro a tutti, tranne forse al medico, che il vecchio era morto di crepacuore: gli era mancata la Pinza! Intesa metaforicamente come la sua casa, il lavoro sui campi, il chiocciare delle galline, il canto del gallo, i muggiti che venivano dalla stalla. Toni era stato sradicato dalla terra (l’humus), tolto dal suo
mondo naturale, pur talvolta amaro e ingrato. Quel mondo dimenticato, che Claudio Rorato e Renzo Toffoli, parlandoci della Pinza quale dolce identificativo di una tradizione, hanno voluto evocare in questo libro, mettendoci il cuore.
Prima parte
Genesi di un dolce preistorico
La tradizione
Il tema della Pinza affrontato in questo libro, che si vuole divulgativo, non può essere trattato a prescindere dalla tradizione nella quale si innesta. Senza un rimando alla tradizione avremmo soltanto una sterile sequenza di ricette anonime, dimentiche della loro provenienza e di come si siano evolute nella storia.
Il cibo in generale, lo vedremo più ampiamente in seguito, va molto al di là della mera funzione nutritiva: si innesta in un contesto conviviale di relazioni sociali, di cui lo spirito si alimenta; è esplosione di fantasia nei colori, nei profumi, nell’intensità con cui è preparato e offerto; richiede, inoltre, un diverso impegno nella masticazione e deglutizione. In altre parole, il cibo è parte integrante della tradizione
e dell’identità di un popolo.
Spesso sentiamo parlare – quasi sempre in senso negativo, quando non spregiativo – di tradizione, di tradizioni, di tradizionalismi, ma che cos’è veramente la tradizione? Tradizione è, semplicemente, la trasmissione nel tempo, da una generazione a quelle successive, di memorie, notizie, testimonianze, modi di vivere, usi e costumi. In altre parole, la tradizione equivale a consegnare a coloro che verranno dopo di noi ciò che a nostra volta abbiamo ricevuto da quanti ci hanno preceduto. Non a caso, la radice del termine deriva dal verbo latino tradere che significa, appunto, trasmettere, consegnare
.
Tradidi quod et accepi, vale a dire: Ho tramandato ciò che a mia volta ho ricevuto
. Con questa frase l’apostolo Paolo di Tarso comunica ai cristiani di Corinto che trasmetterà loro fedelmente soltanto ciò che egli stesso ha ricevuto. Non sembri irriverente aver scomodato addirittura San Paolo per richiamare l’importanza della tradizione in un libro, che si vuole di amena lettura, su un tema quale la Pinza, ovvero un dolce antico, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Vorremmo soltanto sottolineare l’importanza della tradizione, non già per sterile nostalgia fine a se stessa di un passato che idealmente ci sembra migliore del tempo presente, ma perché la tradizione, qualsiasi tradizione – compresa soprattutto quella religiosa, che tanto a cuore stava all’Apostolo delle genti – ha un’importanza determinante per il presente. Lo studio della filosofia e della storia riesce a farci comprendere meglio chi siamo e da dove veniamo, ma anche la