Le indagini del sergente McRae
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Il collezionista di bambini - Il cacciatore di ossa - La porta dell'inferno - La casa delle anime morte
4 romanzi in 1
Il maestro del giallo scozzese
N°1 in Inghilterra
Quattro difficili casi da risolvere per il sergente Logan McRae, del dipartimento di polizia di Aberdeen.
Un serial killer pedofilo semina il panico in città uccidendo bambini innocenti. Un criminale spietato ha intrappolato alcune persone in un palazzo in fiamme. Un assassino lascia la sua macabra firma sui corpi delle donne che stupra. Un cadavere smembrato viene ritrovato a pezzi in un freezer. Questo è lo scenario. Lo sfondo: la città di Aberdeen, buia, piovosa, fredda come il granito degli obitori. Non è mai facile per un sergente avere a che fare quotidianamente con la feccia della società, soprattutto se il dipartimento di polizia è composto per la metà di cinici pronti a fregarti il posto e per l’altra metà di schiappe incompetenti. Protagonista assoluta di queste vicende è una vivida e quasi scientifica violenza, stemperata dal dissacrante senso dell’umorismo dell’autore, che fluttua costante fra le pagine. In un crescendo di tensione e brutalità, Stuart MacBride svela una serie di trame mozzafiato.
Dal maestro indiscusso del giallo scozzese
Un autore da oltre 800.000
4 bestseller in un unico volume
«Un concentrato di cattiveria narrativa.»
Il Sole 24 ore
«Un grandioso esempio di scrittura pennellata col machete.»
La Stampa
Stuart MacBride
È diventato uno scrittore di successo dopo aver svolto decine di lavori diversi. La Newton Compton ha pubblicato i suoi thriller Il collezionista di bambini (Premio Barry come miglior romanzo d’esordio), Il cacciatore di ossa, La porta dell’inferno, La casa delle anime morte, Il collezionista di occhi, Sangue nero e La stanza delle torture, con protagonista il sergente Logan McRae, oltre a Cartoline dall'inferno. MacBride ha ricevuto nel 2007 il prestigioso premio CWA Dagger in the Library, per l’insieme delle sue opere, e nel 2008 l’ITV Crime Thriller come rivelazione dell’anno. Vive in Scozia con la moglie Fiona.
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Anteprima del libro
Le indagini del sergente McRae - Stuart MacBride
657
Prima edizione ebook: febbraio 2014
© 2008, 2009, 2010, 2011, 2014 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
Titoli originali:
Cold Granite (traduzione di Tino Lamberti)
Dying Light (traduzione di Claudia Businaro)
Broken Skin (traduzione di Francesca Toticchi)
Flesh House (traduzione di Tino Lamberti)
ISBN 978-88-541-6358-4
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Gag srl
Stuart MacBride
Le indagini del sergente McRae
Il collezionista di bambini
Il cacciatore di ossa
La porta dell’inferno
La casa delle anime morte
Newton Compton editori
IL COLLEZIONISTA DI BAMBINI
1
Per lui le cose morte avevano sempre avuto qualcosa di speciale. La loro delicata freddezza. La loro pelle. L’odore pieno, dolciastro che emanavano nella putrefazione. Mentre tornavano a Dio.
La cosa che aveva in mano era morta da poco. Poche ore fa era stata piena di vita. Era stata felice. Era stata sporca e lurida e impura... Ma adesso era pura. Delicatamente e con reverenza la sistemò sul mucchio delle altre cose. Cose che erano state tutte vive, che avevano gridato e giocato, sporche e luride e impure. Ma adesso stavano con Dio. Adesso avevano trovato la pace.
Chiuse gli occhi e respirò profondamente, immergendosi negli odori. Alcuni freschi, altri più robusti. Ma tutti piacevoli. Guardando benevolmente la sua collezione pensò: questo deve essere l’odore che ti circonda quando sei Dio. Questo deve essere l’odore che ti circonda quando sei in paradiso. Circondato dai morti.
Un sorriso gli apparve sulle labbra, spargendosi come il fuoco in un edificio in fiamme. Avrebbe dovuto prendere la medicina, ma non adesso. Non ancora.
Non quando c’erano tante cose morte delle quali godere.
2
Pioveva a dirotto. La pioggia scrosciava rumorosamente sulle pareti e sul tetto della tenda che la polizia aveva eretto sul luogo del delitto e nello spazio ristretto, unita al ronzio costante dei generatori portatili, rendeva la conversazione praticamente impossibile. A dire il vero, nessuno sembrava avere una gran voglia di chiacchierare, alla mezzanotte e un quarto di un lunedì mattina.
Specialmente con il corpo di David Reid steso lì, sul terreno gelido.
A un’estremità della tenda sbilenca la polizia aveva recintato col nastro blu un tratto di fossato, lungo poco più di un metro. L’acqua, viscida e scura, luccicava sotto i riflettori. Il resto della tenda copriva una parte della sponda del fiume, con la giallastra erba invernale calpestata e imbrattata di fango.
C’era un mucchio di gente. Quattro agenti dell’Aberdeen Identification Bureau con le loro tute cartacee bianche: due occupati nella ricerca di impronte digitali, con la polverina e il nastro adesivo, un terzo che scattava fotografie e il quarto che immortalava la scena con una videocamera. A questi andavano aggiunti un agente appena sfornato dall’Accademia di Polizia, il dottore della polizia, un sergente dall’aspetto di uno che aveva visto giorni migliori e l’ospite d’onore: il piccolo David Brookline Reid, di tre anni e nove mesi.
Avevano dovuto tirarlo fuori dall’acqua del fossato, prima di poterne dichiarare la morte. Ma non ce n’era alcun dubbio: il povero piccolo era morto da molto tempo. Avevano steso il corpicino su un telo di plastica blu, esponendolo agli occhi del mondo, con addosso solo una maglietta degli X-Men
.
La macchina fotografica scattò ancora, bruciando via i dettagli e i colori, col lampo del flash che lasciava un’impronta sulla retina dei presenti. Appartato in un angolo, il sergente Logan McRae chiuse gli occhi e cercò di pensare a cosa avrebbe detto alla madre del piccolo David
Reid. Suo figlio era scomparso da tre mesi. Tre mesi senza notizie. Tre mesi sperando che glielo ritrovassero sano e salvo. Mentre invece il bambino giaceva morto in un fossato.
Si passò una mano sul volto stanco, sentendo la barba ispida sotto le dita. Cristo, se almeno avesse avuto una sigaretta! E pensare che non avrebbe dovuto neanche essere qui!
Tirò fuori l’orologio e imprecò sottovoce. Quattordici ore, da quando si era presentato in servizio ieri mattina. E gli avevano detto che avrebbe dovuto inserirsi in servizio gradualmente!
Un’ondata di vento freddo entrò nella tenda: Logan diede un’occhiata alla figura che si affrettava via dalla pioggia. Il patologo era arrivato.
La dottoressa Isobel MacAlister: trentatreenne, un metro e sessanta, brunetta, capelli a paggetto. Quando le baci l’interno delle cosce miagola come una gattina in amore. Era vestita di tutto punto, con giacca e pantaloni grigi, cappotto nero; il tutto alquanto ridicolizzato da un enorme paio di stivaloni di gomma che le arrivavano alle ginocchia.
Diede un’occhiata all’interno della tenda e s’irrigidì appena vide Logan. Un titubante sorriso le illuminò brevemente il volto, ma sbiadì subito. E non c’era da sorprendersi, visto l’aspetto di Logan. Barba lunga, borse sotto gli occhi, capelli spettinati e bagnati dalla pioggia.
Isobel aprì la bocca e la richiuse subito.
Nonostante il fragore della pioggia, il monotono rumore dei generatori diesel, la macchina fotografica che cliccava e si riavvolgeva col tipico ronzio, il silenzio all’interno della tenda era quasi palpabile.
Fu il dottore a romperlo. «Merda!», urlò scuotendo un piede la cui scarpa era piena d’acqua.
Isobel si diede un’aria professionale. «È stata dichiarata la morte?», chiese alzando la voce per farsi sentire al disopra dei rumori di fondo.
Logan tirò un sospiro di sollievo. Il momento era passato.
Il dottore soffocò uno sbadiglio e indicò il gonfio corpicino al centro della tenda. «Oh, sì. È morto, eccome!». Si infilò le mani nelle tasche e tirò su col naso. «E se vuoi la mia opinione, lo è stato per un bel po’. Almeno due mesi».
Isobel annuì e sistemò la sua borsa sul telo, vicino al piccolo cadavere. «Credo che tu abbia ragione», rispose accovacciandosi e guardandolo da vicino.
Si infilò un paio di guanti di latex e cominciò a tirar fuori i suoi strumenti di lavoro. Il dottore si dondolò avanti e indietro un paio di volte, con le scarpe che sguazzavano nel fango. «Allora io vado», disse. «Chiamami se hai bisogno di qualcosa, va bene?».
Isobel gli promise che lo avrebbe fatto e il dottore, dopo un breve cenno di commiato, uscì dalla tenda nella notte piovosa.
Logan guardò Isobel accovacciata e pensò a tutte le cose che si era proposto di dirle quando l’avrebbe rivista per la prima volta. Per rimettere tutto a posto. Per riparare ciò che era andato in frantumi il giorno che Angus Robertson era stato condannato a trent’anni. Ma non aveva mai immaginato di rivederla vicino al cadavere di un bambino di tre anni assassinato. E questo particolare, in un certo qual modo, metteva un freno alle cose.
Invece le chiese: «Sei in grado di stabilire quando è morto?».
Isobel sollevò lo sguardo dal corpicino in putrefazione e arrossì leggermente. «Il dottor Wilson non si sbagliava di molto», rispose senza guardarlo. «Due, forse tre mesi. Ne saprò di più dopo l’autopsia. Sappiamo chi è?»
«David Reid. Ha quasi quattro anni», sospirò Logan. «È stato sulla lista dei Chi l’ha visto?
da agosto».
«Povero piccolo», mormorò Isobel. Dalla borsa tirò fuori un microfonino munito di cuffia; ne controllò il funzionamento e se lo mise in testa. Inserì una cassetta vergine nel registratore e cominciò a esaminare il piccolo David Reid.
L’una e mezza del mattino e la pioggia non dava alcun segno di smettere. Il sergente Logan McRae si riparava alla meglio sotto una quercia, mentre il flash del fotografo illuminava la tenda, facendo risaltare le silhouette degli uomini intorno sulla plastica blu, come un macabro gioco di ombre cinesi.
Quattro potenti riflettori sfrigolavano sotto il diluvio, illuminando l’area intorno alla tenda con la loro luce bianca, fredda e cruda. I generatori continuavano col loro monotono rumore, avvolti nel fumo bluastro dei motori diesel. La pioggia fredda sibilava sul metallo rovente. Al di là del cerchio di luce era buio pesto.
Due dei riflettori erano puntati dove il fossato emergeva dalla tenda. Le piogge di fine novembre lo avevano riempito e due sommozzatori della polizia, con le loro mute di neoprene blu, vi brancolavano dentro con l’acqua alla vita. Sforzandosi invano contro il vento e la pioggia, due agenti dell’IB cercavano di montare un’altra tenda sopra i sommozzatori nel tentativo di preservare altri indizi dalla tempesta.
A meno di tre metri, il fiume Don scorreva silenzioso, scuro e pieno. Sotto la pioggia torrenziale piccoli punti luminosi si formavano sulla sua superficie, i riflessi dei fari sparivano e si riformavano. Se c’era una cosa che Aberdeen faceva per bene, era la pioggia.
A monte il fiume aveva già rotto gli argini in una dozzina di punti, allagando le campagne circostanti e trasformando i campi in laghi. Qui ci si trovava a poco più di un chilometro dalla foce nel Mare del Nord e l’acqua scorreva veloce.
Dall’altra parte del fiume, al di là di una radura con alberi spogli, si elevavano i palazzi del quartiere di Hayton. Cinque rettangoli, brulli e senza carattere, illuminati qui e lì da luci gialle e fredde, con la pioggia che li faceva apparire e sparire. Era una notte orrenda.
Una squadra di ricerca messa insieme in fretta e furia, arrancava lungo la sponda del fiume, a monte e a valle, con potenti torce elettriche, a caccia di qualche indizio, anche se era ancora troppo buio per trovare qualcosa. Ma le foto avrebbero figurato bene sui giornali del mattino.
Con le mani in tasca e tirando su col naso Logan si girò a guardare sull’alto della scarpata, verso i riflettori delle squadre della televisione. Erano giunte lì poco dopo il suo arrivo, affamate di carne morta. I primi ad arrivare erano stati quelli della stampa locale, che ponevano domande a chiunque indossasse una divisa. Poi era arrivata l’artiglieria pesante: la BBC e l’ITV, con le loro telecamere e i loro presentatori, seri e con facce da circostanza.
La Grampian Police aveva emesso il bollettino standard che era privo di qualsiasi informazione. Quindi Dio sa cosa trovassero da commentare.
Logan volse loro le spalle e continuò a guardare le luci dei ricercatori che squarciavano il buio lungo la sponda del fiume.
Questo non avrebbe dovuto essere il suo caso, non nel primo giorno del suo rientro in servizio. Ma della squadra del CID¹ di Aberdeen, alcuni erano via per un corso di aggiornamento e il resto a ubriacarsi alla festa di pensionamento di uno di loro. Non c’era neanche un ispettore disponibile. L’ispettore McPherson, che avrebbe dovuto inserire gradualmente Logan nel suo lavoro, era impegnato altrove. In ospedale in effetti, dove gli stavano ricucendo la testa, dopo che qualcuno aveva cercato di decapitarlo con un coltello da cucina. Quindi ecco il povero sergente Logan McRae, impegnato a dirigere un’importante investigazione di omicidio, pregando Dio di non pasticciarla prima di poterla passare a chi di dovere. Bentornato, McRae.
Il giovane agente uscì dalla tenda e sguazzando nel fango si unì a Logan sotto l’albero. A guardarlo si capiva subito che stava peggio di Logan.
«Gesù», mormorò. Rabbrividì e si mise una sigaretta in bocca, come se fosse l’unica cosa che gli avrebbe impedito di andare in frantumi. Esitò un attimo e poi ne offrì una anche a Logan, che rifiutò.
Il giovanotto si strinse nelle spalle; tirò fuori un accendino da una tasca della casacca e accese la sigaretta che nel buio spiccava come un carbone acceso. «Come primo giorno del rientro al lavoro non poteva andarle peggio, vero signore?».
Una nuvoletta di fumo bianco si elevò dalla sigaretta; prima che il vento la soffiasse via Logan aspirò profondamente, inalando il fumo nei suoi polmoni malmessi.
«Cosa dice Iso...», si trattenne in tempo. «Cosa dice la dottoressa MacAlister?».
Nella tenda il flash del fotografo lampeggiò di nuovo, bloccando per un attimo le ombre dei presenti.
«Su per giù quello che ha detto il nostro dottore. Il bambino è stato strangolato con qualcosa. Ha detto che l’altra roba è probabilmente successa dopo».
Logan chiuse gli occhi e cercò di non vedere mentalmente il corpo rigonfio del bambino.
«Meno male», continuò il poliziotto, annuendo saggiamente, con l’estremità accesa della sigaretta che andava su e giù nel buio, come una piccola luce rossa. «Almeno era già morto quando è successo. È qualcosa di cui essere grati al cielo».
Concraig Circle, 15 era ubicata in una delle nuove zone di Kingswells, un quartiere periferico a cinque minuti da Aberdeen, alla quale si avvicinava sempre più di anno in anno. Qui le case venivano descritte dalle agenzie immobiliari come villette per dirigenti, dotate di personalità
; sembrava invece che fossero state costruite da qualcuno che avesse comprato una gran partita di mattoni ma che fosse totalmente sprovvisto di buon gusto edilizio.
Il numero 15 era vicino all’entrata di una tortuosa stradina senza uscita, i giardini ancora troppo nuovi per essere poco più di un rettangolo d’erba con qualche arbusto lungo i lati. C’erano tante piante ancora con l’etichetta del garden center. Nonostante fossero quasi le due del mattino, dalle veneziane delle finestre del piano terra si intravedevano le luci ancora accese.
Il sergente Logan MacRae era seduto nel posto del passeggero in una delle macchine del CID. Sospirò; che gli piacesse o no, era il responsabile delle investigazioni, e quindi toccava a lui dire alla madre di David Reid che suo figlio era morto. Ma aveva portato con sé due donne: l’agente Watson e un agente del servizio assistenza famiglie, per facilitarsi l’arduo compito. Almeno così non sarebbe stato il solo a soffrire.
«Andiamo», disse dopo una breve pausa. «Più aspettiamo, più difficile diventa».
Un uomo tarchiato, sui cinquant’anni, aprì la porta. Aveva un viso rossiccio, baffi, occhi iniettati di sangue e decisamente ostili. Diede un’occhiata alla divisa dell’agente Watson; a braccia conserte e senza muoversi dalla soglia, li aggredì verbalmente. «Ce ne avete messo del tempo! Era ora che voi brutti stronzi vi faceste vivi!».
Non era l’accoglienza che Logan si aspettava. «Vorrei parlare con Miss Reid».
«Davvero? Siete in ritardo! I giornalisti ci hanno telefonato un quarto d’ora fa, chiedendoci una dichiarazione!». Alzava la voce con ogni parola, arrivando a urlare nel viso di Logan. «Avreste dovuto dirlo a noi per primi!». Si picchiò il petto con un pugno. «Siamo la sua famiglia!». Logan non riuscì a nascondere il suo disappunto. Come diavolo avevano fatto quelli della stampa a sapere che il corpo di David Reid
era stato trovato? Come se la famiglia non stesse soffrendo abbastanza.
«Mi dispiace, Mr...?»
«Reid, Charles Reid». L’uomo incrociò di nuovo le braccia e assunse un atteggiamento ancor più bellicoso. «Sono il nonno di David».
«Mr Reid, non so come abbia fatto la stampa a saperlo. Ma le prometto una cosa: chiunque sia stato sarà preso a calci da qui a Stonehaven». Tacque per un attimo. «E so anche che questa mia promessa non mette tutto a posto. Ma adesso ho bisogno di parlare con la madre di David». Per qualche istante Mr Reid lo guardò torvo. Dopodiché si fece da parte e, attraverso una porta a vetri, Logan intravide un soggiorno, pitturato in un giallo brioso. Su un divano rosso c’erano due donne: una che sembrava un carro armato con addosso un vestito a fiori; l’altra, invece, uno zombie.
Il gruppo della polizia entrò, e la più giovane delle due donne non sembrò neanche accorgersi della loro presenza. Con sguardo spento continuò a guardare il televisore, dove i clowns tormentavano Dumbo. Logan guardò speranzoso l’agente del servizio assistenza famiglie, ma lei stava facendo il possibile per evitare di guardarlo.
Logan respirò profondamente e chiese: «Miss Reid?».
Nessuna reazione.
Logan le si accovacciò davanti, bloccandole la vista del televisore. Ma lei continuò a guardare nel vuoto, come se lui non esistesse.
«Miss Reid? Alice?».
Non si mosse, ma l’altra donna lo guardò cupamente, con aria minacciosa. Aveva gli occhi rossi e gonfi di pianto; le guance paffute erano bagnate di lacrime. «Come osate!», ringhiò. «Siete dei buoni a nulla, pezzi di mer...».
L’uomo li aveva seguiti nel soggiorno. «Sheila!», gridò e la donna tacque subito.
Logan si rivolse alla giovane donna sul divano, dall’aspetto comatoso. «Alice», disse. «Abbiamo trovato David».
Sentendo il nome del figlio un piccolo bagliore le illuminò gli occhi. «David?». Le labbra si mossero impercettibilmente; più che pronunciata la parola fu esalata.
«Mi dispiace, Alice. È morto».
«David...».
«È stato assassinato».
Ci fu un attimo di silenzio, poi l’uomo esplose: «Brutti bastardi! Aveva appena tre anni!».
«Mi dispiace». Logan non seppe dire altro.
«Ti dispiace? Ti dispiace?». Mr Reid lo affrontò, rosso in viso dalla rabbia. «Se voi brutti stronzi pezzi di merda vi foste dati da fare e lo aveste trovato quando è scomparso, adesso non sarebbe morto! Tre mesi!».
L’agente del servizio assistenza cercò di calmarlo facendo dei gesti concilianti, ma Mr Reid la ignorò. Tremava dalla rabbia e aveva gli occhi pieni di lacrime. Scandendo le parole gridò: «Tre! – mesi! – d’inferno!».
Logan alzò le braccia, cercando di placarlo.
«Mr Reid, si calmi, per favore. Capisco quanto lei sia...».
Il colpo colse Logan di sorpresa. Una mano grossa come un badile gli diede un pugno nello stomaco, proprio sulla cicatrice, mettendogli le budella a fuoco. Aprì la bocca per gridare, ma non aveva più fiato nei polmoni.
Le ginocchia gli si piegarono. Una manaccia lo afferrò per il bavero della giacca e lo tirò su in piedi, mentre un altro pugno veniva tirato indietro, pronto a colpirlo e a ridurgli il volto in polpa.
L’agente Watson gridò qualcosa, ma Logan non la sentì. Ci fu un rumore fragoroso, e la mano che lo reggeva lo lasciò andare. Logan crollò sul tappeto, piegandosi in due con lo stomaco in fiamme. Un urlo, e poi la voce di Watson che gridava a Mr Reid che gli avrebbe rotto il braccio se non si fosse calmato.
Mr Reid urlò dal dolore.
Il carro armato col vestito a fiori gridò: «Charlie! Fermati, in nome del cielo!».
L’agente Watson disse qualcosa di poco corretto e tutti tacquero immediatamente.
L’autopattuglia sfrecciava lungo Anderson Drive a sirene spiegate. Logan era seduto nel sedile del passeggero, grigio in volto, e sudava freddo. Si teneva le mani sullo stomaco e tremava dal dolore a ogni sussulto della macchina.
Mr Charles Reid era seduto sul sedile posteriore, con la cintura di sicurezza sopra i polsi ammanettati. Non era più così bellicoso; anzi era decisamente impaurito. Continuava a ripetere: «Oddio, cosa ho fatto! Oddio, quanto mi dispiace!».
L’agente Watson fermò la macchina davanti al Pronto Soccorso, in uno degli spazi riservati alle ambulanze. Aiutò delicatamente Logan a uscire dall’auto, come se fosse stato di vetro; si fermò brevemente solo per dire a Mr Reid: «Tenga le chiappe su quel sedile fino al mio ritorno altrimenti mi farò delle giarrettiere con le sue budella!». Per buona misura schiacciò il pulsante della chiusura centralizzata, chiudendolo in macchina.
Arrivarono all’accettazione e Logan svenne.
¹ CID: Criminal Investigation Department, Corpo di Polizia Investigativa (n.d.t.).
3
Aberdeen, palazzo della Centrale della Grampian Police. Un edificio di sette piani, vetro e cemento armato, sormontato da antenne radio e apparecchiature per trasmissioni d’emergenza, leggermente fuori mano in fondo a Queen Street, proprio di fianco alla Sheriff Court. Dirimpetto c’è il grigio edificio in granito del Marischal College, vagamente somigliante a una torta nuziale. Dietro l’angolo c’è l’Arts Center, una specie di tempio in stile pseudo-romano eretto in epoca vittoriana.
La Centrale di polizia era una testimonianza dell’amore che l’architetto nutriva per la le cose brutte. Ma era ubicata nelle vicinanze della Pretura, delle Camere di Consiglio dell’amministrazione comunale e di una dozzina di pub.
Pub, chiese e pioggia. Tre cose che abbondavano ad Aberdeen.
Il cielo era scuro e nuvoloso; le gialle lampade al sodio dell’illuminazione stradale davano alle prime ore del mattino un colorito itterico, come se le strade fossero malate. Pioveva; non c’era stata nessuna interruzione dalla sera prima e i goccioloni rimbalzavano sui marciapiedi lucidi.
Gli autobus arrancavano per le strade, sollevando ondate di pioggia che inzuppavano chiunque avesse la sfortuna di trovarsi in giro in una mattinata come questa.
Bestemmiando sottovoce Logan si strinse il cappotto con una mano e augurò una morte atroce a tutti quei bastardi che guidavano gli autobus. Aveva avuto una nottata bestiale; un pugno nelle budella, al quale avevano fatto seguito tre ore di visita medica da parte dei dottori del pronto soccorso. Gli avevano messo una fasciatura elastica, gli avevano dato una boccetta di antidolorifici e alle 5,15 lo avevano rimandato fuori, al freddo e nel diluvio.
Ed era anche riuscito a dormire per un’ora intera.
Entrò sguazzando nella Centrale e si presentò alla reception. Il suo appartamento era a meno di due minuti di cammino, ma era bagnato fradicio.
Dall’altra parte del vetro un sergente che Logan non riconobbe sfoggiò il sorriso previsto dal regolamento e chiese: «Buongiorno, signore. In cosa posso esserle utile?».
Logan sospirò. «Buongiorno, sergente. Dovevo presentarmi all’ispettore McPherson e...».
Appena si rese conto che Logan non era un cittadino che chiedeva assistenza alle forze dell’ordine, il sorriso svanì dalle labbra del sergente. «Sarà molto difficile: si è preso una coltellata in testa». Mimò il gesto della coltellata e Logan cercò di non batter ciglio. «Lei è...», consultò un blocco notes sulla scrivania, sfogliando le pagine avanti e indietro fino a quando trovò quel che cercava, «il sergente McRae, giusto?».
Logan annuì e gli mostrò il suo tesserino per conferma.
«Va bene», disse il sergente, impassibile. «Si presenti all’ispettore Insch. Nella sala riunioni, che è stata adibita a centro investigazioni. L’ispettore darà le consegne alla sua squadra tra...», guardò l’orologio a muro, «da cinque minuti fa». Sorrise ancora. «E non gli piace chi arriva in ritardo».
Logan arrivò alla riunione indetta per le 7,30 con dodici minuti di ritardo. La sala riunioni era piena di agenti di ambo i sessi, visibilmente seri e preoccupati. Cercò di entrare alla chetichella, chiudendo silenziosamente la porta, ma tutti si girarono verso lui. L’ispettore Insch, un omone calvo, con un doppiopetto nuovissimo, si interruppe e lo guardò male. Zoppicando leggermente Logan andò a sedersi su una sedia vuota in prima fila.
«Come dicevo», continuò l’ispettore lanciandogli un’occhiata malevola, «la relazione preliminare del patologo indica che la morte è avvenuta circa tre mesi fa. Ed è difficile che ci sia ancora qualche indizio sulla scena di un crimine dopo tre mesi, specialmente in questo tempaccio. Ma questo non vuol dire che non lo cercheremo: voglio una ricerca accuratissima, a tutto campo, per un raggio di un chilometro da dove è stato trovato il cadavere».
Nella sala si sentì un mugugno collettivo di sconforto. Un’area di due chilometri di diametro era enorme e le probabilità di trovare qualcosa erano praticamente nulle. Specialmente dopo tre mesi. E fuori pioveva ancora a dirotto. Sarebbe stato un lavoraccio di merda.
«So benissimo che è una rottura di palle», continuò l’ispettore Insch. Da una tasca della giacca tirò fuori una caramellina morbida; la guardò, ne soffiò via la peluria e se la mise in bocca. «Ma non importa. Qui si parla di un bambino di tre anni. E voglio prendere quel bastardo che lo ha ucciso. Non voglio stronzate. Mi sono spiegato?».
Fece una pausa, quasi sfidando i presenti a sollevare qualche obiezione.
«E parlando di stronzate; ieri sera qualcuno ha detto al Press and Journal
che avevamo trovato il cadavere di David Reid». Mostrò ai presenti una copia dell’edizione di quel giorno; a grandi lettere il titolo diceva: Trovato cadavere di bambino assassinato! Si dividevano la prima pagina una fotografia di un sorridente David Reid e una della tenda eretta sul luogo dov’era stato trovato il cadavere, illuminata dall’interno dal flash del fotografo, con le sagome degli occupanti stagliate contro i teli della tenda.
«I giornalisti hanno chiesto una dichiarazione alla madre del bambino», alzò la voce arrabbiatissimo, «prima che potessimo andare a dire alla povera donna che suo figlio era morto!». Sbatté il giornale sulla scrivania. Un rabbioso mormorio si levò dai presenti.
«Vi dico una cosa: nei prossimi giorni sarete tutti interrogati da un ispettore della sezione Standard Professionali. Ma credetemi; a confronto con la mia, la loro caccia alla strega sarà una gita al mare. Quando scoprirò chi è stato a fare la soffiata ai giornalisti, lo appenderò al soffitto per i coglioni!».
Si interruppe, guardando accigliato tutti i presenti.
«Bene. Queste sono le consegne per oggi». Si appoggiò col sedere alla scrivania e cominciò a leggere i nomi: chi sarebbe andato a fare domande porta a porta, chi sarebbe andato al fiume, chi sarebbe rimasto in Centrale a gestire le telefonate. L’unico nome che non lesse fu quello del sergente Logan McRae.
«Un’ultima cosa», disse Insch alzando le braccia come se stesse per benedire i suoi subalterni. «Vi ricordo che i biglietti per lo spettacolo natalizio di quest’anno sono già in vendita alla reception!».
Gli agenti uscirono dalla sala riunioni; quelli destinati ai telefoni commiseravano con sarcasmo i poveri diavoli che avrebbero trascorso la giornata sotto la pioggia. Logan si sistemò in coda agli uscenti, sperando di riconoscere qualcuno. Un anno di assenza per malattia e non aveva ancora visto un volto a cui potesse dare un nome.
L’ispettore si accorse di lui e gli fece cenno di avvicinarsi.
«Cosa è successo ieri sera?», gli chiese mentre l’ultimo agente usciva dalla stanza lasciandoli soli.
Logan tirò fuori il blocco notes e cominciò a leggere: «Il corpo del bambino è stato scoperto alle 22,15 da un certo Duncan Nicholson...».
«Non intendevo questo», lo interruppe Insch. Si appoggiò alla scrivania e incrociò le braccia. Con la sua corporatura, testa calva e vestito nuovo, sembrava un elegantissimo Buddha. Ma dall’aspetto cattivo. «L’agente Watson ti ha lasciato al pronto soccorso alle due di stamattina. Sei rientrato in servizio da meno di ventiquattr’ore e hai già passato una notte in ospedale; abbiamo il nonno di David Reid in cella in attesa di provvedimenti penali e per completare il tutto, ti presenti alla mia riunione in ritardo e zoppicante».
Logan si spostò leggermente, palesemente a disagio. «Vede, signore; Mr Reid era piuttosto scosso. E non posso veramente fargliene una colpa. Se i giornalisti non fossero andati a dargli le brutte notiz...».
L’ispettore Insch lo interruppe di nuovo. «Sergente, avresti dovuto lavorare per l’ispettore McPherson, vero?»
«Be’... sì, signore».
Insch annuì saggiamente, e tirò fuori un’altra caramellina morbida: se la mise in bocca senza ripulirla e cominciò a parlare masticandola. «E invece no. Fino a quando McPherson non si sarà completamente ricucito la testa, lavorerai per me».
Logan cercò di non rendere troppo palese la sua delusione: McPherson era stato il suo capo per due anni, prima che Angus Robertson decidesse di usare come puntaspilli le sue budella piantandovi un coltello da caccia dalla lama di quindici centimetri. McPherson gli piaceva. Tutte le sue vecchie conoscenze lavoravano per McPherson.
Dell’ispettore Insch sapeva solo che non sopportava gli idioti. E che per l’ispettore Insch tutti erano idioti.
L’ispettore riappoggiò il sedere sulla scrivania e scrutò Logan da capo a piedi. «McRae, non avrai mica intenzione di tirare le cuoia mentre
lavori per me?»
«Spero proprio di no, signore».
Insch annuì, chiuso in se stesso e distante. Un silenzio pesante si creò tra i due. Era uno dei trucchi del mestiere dell’ispettore: se crei una pausa nel corso di un interrogatorio, prima o poi l’individuo che stai interrogando dirà qualcosa, qualsiasi cosa, tanto per rompere il silenzio. Era incredibile quante cose gli interrogati si lasciavano sfuggire, cose che magari non avrebbero voluto dire. E soprattutto che non avrebbero voluto far sapere all’ispettore Insch.
Ma Logan rimaneva a bocca chiusa.
Dopo qualche istante l’ispettore annuì. «Ho letto la tua cartella personale. McPherson dice che non sei una schiappa, quindi ti concederò il beneficio del dubbio. Ma se mi vai a finire di nuovo al pronto soccorso come hai fatto stanotte, esci dalla mia squadra. Chiaro?»
«Sì, signore. Grazie».
«Bene. Il tuo previsto inserimento graduale è pertanto cancellato, con effetto immediato. Non ho nessuna intenzione di perder tempo con quelle coglionate. O sei all’altezza dei compiti che ti affiderò o non lo sei. Basta così. L’autopsia avrà luogo tra un quarto d’ora e voglio che tu sia presente».
Si spostò dalla scrivania e si frugò in tasca, cercando altre caramelline. «Io sarò in riunione dalle 8,15 fino alle 11,30. Mi informerai sull’autopsia quando ci rivedremo».
Logan spostò lo sguardo verso la porta e di nuovo sull’ispettore.
«Qualche obiezione, sergente?».
Logan disse di no, mentendo.
«Bene. Vista la tua recente visita al pronto soccorso, ho destinato l’agente Watson a essere il tuo angelo custode. Sarà qui alle 10,00. Non farti sorprendere da me senza di lei. Questa decisione non è discutibile. Chiaro?»
«Sì, signore». Pensa, adesso gli davano anche la babysitter.
«E adesso datti da fare».
Logan era quasi uscito quando Insch aggiunse: «E cerca sempre di prendere Watson per il verso giusto. È vero che è una donna, ma non la chiamano Braccio di ferro
per niente».
La Centrale di Aberdeen della Grampian Police era grande abbastanza da avere il suo obitorio, che era situato un piano sottoterra, lontano dalla mensa del personale quel tanto che bastava a non far rivoltare lo stomaco ai commensali. Era una stanza spaziosa, bianca, pulitissima; lungo una parete c’erano i cassetti refrigerati per i cadaveri. Logan spinse le doppie porte ed entrò, con le scarpe bagnate che cigolavano sul pavimento. Un forte odore di antisettico permeava la stanza, quasi per coprire l’odore di morte. Era uno strano miscuglio di odori. Una fragranza che Logan aveva finito con l’associare alla donna che ora si trovava, da sola, vicina a una tavola da dissezione.
La dottoressa Isobel MacAlister indossava la divisa da lavoro; camice verde pisello da chirurgo, con un grembiule rosso di gomma, capelli sotto una cuffia verde. Senza makeup, per evitare la contaminazione del cadavere che stava per esaminare. Sentendo il rumore delle scarpe di Logan alzò gli occhi per vedere chi fosse.
Logan si fermò e abbozzò un sorriso. «Ciao».
Alzò una mano e quasi gli fece un cenno di saluto. «Ciao». Tornò a guardare il corpicino nudo steso sul tavolo. Il piccolo David Reid. «Non ho ancora cominciato. Sei qui in veste ufficiale?».
Logan annuì, si schiarì la voce. «Non ho avuto modo di chiedertelo ieri sera», disse. «Come stai?».
Non lo guardò, ma continuò ad allineare i brillanti strumenti chirurgici nel loro vassoio; l’acciaio inossidabile luccicava, sotto le potenti luci. «Oh...», sospirò e strinse le spalle. «Così così». Mise a posto uno scalpello. «E tu?».
Anche Logan strinse le spalle. «Anch’io, più o meno».
Il silenzio era palpabile.
«Isobel, io...».
In quel preciso istante le porte si spalancarono ed entrarono tre persone: Brian l’assistente di Isobel, un procuratore e un altro patologo, che era lì come osservatore. «Scusate il ritardo», esordì Brian, aggiustandosi i lunghi capelli. «Ma sapete come vanno per le lunghe le inchieste su incidenti mortali! Un’infinità di relazioni da preparare!». Fece un sorriso accattivante a Logan. «Salve sergente, che piacere rivederla!». Si fermò a stringergli la mano, prima di andarsi a mettere anche lui un grembiule di gomma rosso. Il patologo e il procuratore salutarono Logan con un cenno del capo, si scusarono con Isobel e si sistemarono per vederla lavorare. L’autopsia sarebbe stata effettuata da Isobel, da sola. L’altro patologo, un uomo grassoccio sulla cinquantina, calvo e con le orecchie piene di peli, era lì solo per confermare che le conclusioni di Isobel fossero corrette, come richiesto dalla legge scozzese. Non avrebbe osato contestarla; almeno non apertamente. Tanto lei aveva sempre ragione.
«Bene», disse Isobel. «Sarà bene cominciare». Si mise in testa la cuffia col microfonino, ne controllò il funzionamento e cominciò con i preliminari dell’operazione.
Con Logan che la guardava, cominciò a lavorare sul cadavere di David. Tre mesi in un fossato, coperto da un vecchio pezzo di truciolato, ne avevano reso la pelle quasi nera. L’intero corpicino era gonfio come un pallone; la decomposizione aveva operato la sua robusta magia. Piccole chiazze bianche coprivano parti del corpo, là dove una muffa saprofita aveva attecchito. L’odore era cattivo, ma Logan sapeva che sarebbe diventato ancora più insopportabile.
Vicino al corpo c’era un piccolo vassoio di acciaio inossidabile, nel quale Isobel depositava piccoli detriti e sostanze estranee man mano che le recuperava dal cadavere: erba, muschio, pezzettini di carta. Cose che erano rimaste attaccate al cadavere da quando era morto. Magari anche qualcosa che li avrebbe messi in grado di identificare l’assassino.
«Oh oh...», disse Isobel improvvisamente, guardando nella bocca del bambino, che era rimasta aperta nello spasimo dell’ultimo grido. «Sembra che qui ci sia un ospite. Un insetto». Gentilmente, rovistò nella bocca di David con una pinzetta e per un istante Logan pensò che stesse per tirar fuori una farfalla, magari una sfinge testa di morto
. Ma la pinzetta emerse con un semplice onisco, ancora vivo e dimenantesi.
Isobel guardò controluce il grigio insetto che agitava le sue zampette nell’aria. «Probabilmente gli si è infilato in bocca cercando qualcosa da mangiare», disse. «Non credo che ci dirà niente di utile, ma non si sa mai». Lo mise in un boccettino pieno di liquido preservante. Logan rabbrividì, osservando l’insetto che annegava lentamente.
Un’ora e mezzo dopo Logan e Isobel erano al distributore di bevande calde, mentre Brian ricuciva il corpicino.
Logan si sentiva decisamente male. Prima di oggi non era mai stato a guardare una sua ex che apriva con un bisturi il cadavere di un bambino su una tavola di dissezione. Pensava a quelle mani, efficienti e calme che tagliavano, estraevano, misuravano... passavano a Brian piccoli ritagli di organi interni che Brian poi metteva in fialette, etichettava e metteva via. Rabbrividì e Isobel s’interruppe per chiedergli cosa avesse.
«Niente, solo un leggero raffreddore». Si sforzò di sorridere. «Dicevi?»
«La morte è stata causata da strangolamento, probabilmente con un legaccio. Qualcosa di liscio e non molto spesso, come potrebbe essere un cavetto elettrico. Ci sono delle ecchimosi sulla schiena, tra le scapole; e delle contusioni e lacerazioni sulla fronte, sul naso e sulle guance. Secondo me l’assassino ha spinto il bambino a terra, faccia in giù, e gli si è inginocchiato addosso mentre lo strangolava». Parlava freddamente, come se aprire cadaveri di bambini fosse qualcosa che faceva ogni giorno. Per la prima volta Logan si rese conto che probabilmente era proprio così. «Non ho riscontrato la presenza di fluido seminale, ma dopo tutto questo tempo...», strinse le spalle. «Comunque, le lacerazioni dell’ano indicano che c’è stata penetrazione».
Logan fece una smorfia di raccapriccio e vuotò nella pattumiera il contenuto del suo bicchiere di plastica.
Isobel si accorse del suo disagio. «Magra consolazione se vuoi, ma questo è accaduto post mortem
. All’atto della penetrazione il bambino era già morto».
«Possibilità di un controllo del DNA?»
«Improbabile. Le lacerazioni interne non sembrano causate da qualcosa di flessibile. Io mi azzarderei a dire che sono state causate da un corpo estraneo, piuttosto che dal pene dell’assassino. Magari un manico di scopa?».
Logan chiuse gli occhi e bestemmiò sottovoce. Isobel si limitò a stringere le spalle.
«Mi dispiace», disse. «I genitali di David sono stati tagliati dopo la morte usando un paio di cesoie da giardino, a lama curva. Non so quanto tempo dopo, ma abbastanza per aver fatto raggrumare il sangue. Probabilmente dopo il subentro del rigor mortis».
Rimasero in silenzio per alcuni istanti, evitando di guardarsi.
Isobel giocherellò col suo bicchiere di plastica. «Mi... mi dispiace...».
Logan annuì. «Anche a me». E si allontanò.
4
L’agente Watson lo stava aspettando alla reception. Era imbacuccata fino alle orecchie in un giaccone nero della polizia, imbottito, impermeabile e luccicante di pioggia. Aveva raccolto i capelli in uno chignon che aveva poi infilato sotto il berretto della divisa; e aveva il naso così rosso che sembrava lo stop di una moto.
Lo vide avvicinarsi, mani in tasca, che pensava ancora all’autopsia, e gli sorrise.
«Buongiorno, signore. Come va lo stomaco?».
Logan si sforzò di sorridere, con l’odore del bambino morto ancora nelle narici. «Meglio, grazie. E tu?».
Sorrise. «Lieta di essere tornata ai turni di giorno». Si guardò intorno, nella reception vuota. «E allora? Qual è il programma per oggi?».
Logan guardò l’orologio. Quasi le dieci. Un’ora e mezzo prima che l’ispettore Insch uscisse dalla sua riunione.
«Ti va di fare un giretto?».
Firmarono e ritirarono una vettura dal parco auto del CID. L’agente Watson guidò la vecchia e arrugginita Vauxall, con Logan al suo fianco. Avrebbero avuto appena il tempo di fare una puntatina attraverso la città fino al ponte sul Don, dove le squadre di ricercatori se la stavano godendo sotto la pioggia, cercando qualcosa che probabilmente non c’era più e forse non c’era mai stato.
Mentre erano fermi a uno stop, un vecchio autobus attraversò la strada davanti a loro, spruzzando acqua sul loro parabrezza. Watson aveva i tergicristalli alla massima velocità; il monotono wheek-whonk della gomma sul parabrezza e il ronzio della ventola del riscaldamento erano gli unici rumori in macchina. Nessuno dei due aveva detto una parola da quando erano partiti dalla Centrale.
Finalmente Logan ruppe il silenzio. «Ho detto al sergente di servizio di lasciar andare Charles Reid con una cauzione verbale».
Watson annuì. «Immaginavo che sarebbe andata così». Si inserì dietro un 4x4 dall’aspetto molto costoso.
«In effetti non era colpa sua».
Watson strinse le spalle. «Non sta a me giudicare, signore. Ma lei è quello che quasi quasi ci lasciava la pelle».
L’autista del 4x4, trazione integrale permanente, capace di superare tutte le asperità, ma che molto probabilmente non aveva mai viaggiato su niente di più sterrato dei tombini di Holburn Street, improvvisamente decise di svoltare a destra, inserendo l’indicatore di direzione all’ultimo secondo e fermandosi nel bel mezzo del crocevia. Watson frenò e riuscì a evitare il tamponamento, ma non riuscì a soffocare un paio di parolacce mentre cercava di inserirsi nell’altra corsia.
«Uomini al volante...», borbottò prima di rendersi conto che Logan era in macchina con lei. «Scusi, signore».
«Non ti preoccupare...». Ricadde nel silenzio, pensando a Charles Reid e alla corsa al pronto soccorso della sera prima. In effetti non era stata colpa di Mr Reid. Uno stronzo telefona a tua figlia e le chiede come si sente ora che il suo bambino di tre anni, scomparso da tre mesi, è stato trovato morto in un fossato. Quindi non c’era da sorprendersi che si fosse sfogato col primo bersaglio che gli era capitato a tiro. La colpa era di chi aveva fatto la soffiata al «Press and Journal».
«Ho cambiato idea», disse a Watson. «Vediamo se riusciamo a trovare un giornalista, di quelli schifosi».
«The Press and Journal. L’informazione locale dal 1748». C’era scritto così, su ogni edizione. Ma lo stabile che il giornale condivideva con l’altro quotidiano dello stesso gruppo, l’«Evening Express», non aveva un aspetto così vetusto. Era una mostruosità di due piani in cemento armato e vetro, ubicato appena dietro la Lang Stracht. Lo si intravedeva al di là di una palizzata, tozzo e accovacciato, come un rottweiler imbronciato. Non essendovi accesso dalla strada principale, Watson imboccò una stradina laterale che attraversava una piccola zona industriale piuttosto dimessa, piena di rivenditori di auto usate e pullulante di auto parcheggiate in doppia fila. Arrivati all’entrata del parcheggio del giornale, la guardia al cancello notò l’uniforme dell’agente Watson e con un sorriso sdentato alzò subito la sbarra.
Vicino alla porta girevole c’era una piastra di granito lucido sulla quale, a caratteri dorati, era scritto «Aberdeen Journals Ltd» e una piastra d’ottone che rivelava l’età del giornale: «Fondato da James Chalmers nel 1748...» bla bla bla. Logan non si preoccupò di leggere il resto.
Le mura spoglie della reception erano pitturate in lilla. Una tabella in legno, con su i nomi dei dipendenti del giornale deceduti nella seconda guerra mondiale, era l’unico cenno di sfarzo nel monotono arredamento dell’ingresso. Logan si aspettava qualcosa più consono all’attività di un giornale: prime pagine incorniciate, premi ricevuti, attestati, fotografie di qualche giornalista. Invece sembrava che il giornale avesse appena traslocato lì da un’altra sede e non avesse ancora cominciato ad arredare i locali.
Un pavimento in linoleum dai colori violenti e chiassosi, con quadrati in finto marmo blu incorniciati in un pattern in oro e rosa, e qualche vaso con delle piantine striminzite contribuivano all’aria dimessa dell’ambiente.
L’addetta alla reception non era molto meglio: occhi con makeup rosa e capelli biondi senza vita. Emanava un forte odore di caramelle al mentolo e all’eucalipto. Li guardò con occhi appannati, mentre si soffiava il naso in un fazzoletto sgualcito.
«Benvenuti all’Aberdeen Journals», disse con entusiasmo zero. «In cosa posso aiutarvi?».
Logan tirò fuori il tesserino e glielo mise sotto il naso colante. «Sono il sergente McRae. Vorrei parlare con la persona che ieri sera ha telefonato alla signora Alice Reid».
La ragazza esaminò il tesserino, guardò Logan, guardò l’agente Watson e sospirò. «Non ho la più pallida idea di chi possa essere stato»; s’interruppe per tirar su col naso. «Io sono qui solo il lunedì e mercoledì».
«Chi potrebbe saperlo?».
La ragazza strinse le spalle e tirò ancora su col naso.
Da una rastrelliera sul muro l’agente Watson tirò fuori una copia del giornale di quella mattina e la sbatté sul banco della reception. Trovato cadavere di bambino assassinato!; puntò il dito sulle parole «di Colin Miller». «E lui lo saprà?».
La ragazza prese il giornale e lo guardò con occhi gonfi dal raffreddore. Il suo volto divenne improvvisamente dimesso: «Oh... lui».
Accigliata, fece un numero al telefono. Dall’altoparlante una voce di donna rispose: «Sì?». Prese la cornetta e il suo accento passò rapidamente da costipato e gentile a costipato e sguaiato aberdoniano.
«Lesley? Sono Sharon. Senti, c’è Superman?». Pausa. «Sì, c’è la polizia... non so, aspetta un attimo». Mise una mano sul microfono e guardò Logan, speranzosa. «Siete qui per arrestarlo?» chiese, tornata tutta gentile.
Logan aprì la bocca, la richiuse. «Vogliamo solo fargli qualche domanda», finì col dire.
«Oh...», Sharon sembrò delusa. «No», disse nella cornetta. «Non sono qui per arrestare il piccolo pezzo di merda». Continuò ad ascoltare, annuendo diverse volte e poi sorrise. «Aspetta che glielo chiedo». Sforzandosi di sembrare seducente fece gli occhi dolci a Logan e con la bocca a cuoricino gli chiese: «Se non siete qui per arrestarlo, potreste almeno dargli una strapazzata? Magari a suon di sberle?».
Con un aria di complicità Watson ammiccò a Sharon. «Vedremo cosa si può fare. Dov’è?».
Sharon indicò una porta sulla sinistra. «Non abbiate paura di mutilarlo». Sorrise e schiacciò il pulsante che sbloccava la porta.
La redazione era come un enorme magazzino, ma con la moquette. Spazio aperto, con un paio di centinaia di scrivanie, ammucchiate e divise in tanti settori: notizie, servizi speciali, editoria, impaginazione... le mura erano pitturate nello stesso pallido lilla della reception e ugualmente spoglie. Non c’erano partizioni e le scrivanie sembravano traboccare l’una sull’altra. Montagne di scartoffie, post-it gialli e appunti scribacchiati che si propagavano da una scrivania all’altra come una valanga al rallentatore.
Tante persone erano chine sulle tastiere dei loro computer, intente a preparare l’edizione dell’indomani. Oltre all’onnipresente ronzio dei computer e della fotocopiatrice, la sala stampa era stranamente silenziosa.
Logan fermò la prima persona che gli venne a tiro. Un uomo di mezza età, pantaloni di velluto bruno a coste, camicia poco pulita e cravatta con su le macchie di almeno tre delle cose che aveva mangiato a colazione. Quasi tutti i capelli gli avevano detto addio tanto tempo fa; ma lui stendeva sulla calvizie quei pochi che gli erano rimasti, illudendosi di coprirla.
«Cerchiamo Colin Miller», disse Logan, mostrandogli il tesserino.
«Davvero? Volete arrestarlo?»
«Non ero venuto qui per questo», rispose Logan rimettendosi in tasca il tesserino, «ma ci sto facendo un pensierino. Perché me lo chiede?».
L’anziano giornalista si tirò su i pantaloni e sorrise. «Nessun motivo».
Pausa; due, tre, quattro...
«Allora», disse Logan. «Dov’è?».
Il vecchio gli strizzò l’occhio e girò la testa verso i gabinetti. Con parole cariche di allusioni disse: «Non ne ho la più pallida idea, sergente». Terminò dando un’occhiata esplicita verso la porta del gabinetto per uomini.
Logan annuì. «Grazie, lei mi è stato di grande aiuto».
«E invece no», rispose il giornalista. «Anzi, sono stato vago e impreciso
da quel vecchio rincoglionito
che sono».
Mentre il vecchio tornava alla sua scrivania, Logan e Watson si diressero rapidamente al gabinetto uomini. Con gran sorpresa di Logan, Watson aprì la porta ed entrò nel locale, a mattonelle bianche e nere. Logan la seguì, scuotendo la testa.
Watson gridò «Colin Miller?» e questo provocò un piccolo pandemonio tra gli uomini presenti. Tutti si affrettarono a tirarsi su le cerniere dei pantaloni e a sgattaiolare fuori dal gabinetto. Rimase solo un uomo. Basso, tarchiato, spalle larghe, ben pettinato e dall’aspetto muscoloso, con addosso un costoso vestito grigio scuro. Restò all’orinatoio, fischiettando un’arietta senza melodia e ondeggiando avanti e indietro. Watson lo guardò dalla testa ai piedi. «Colin Miller?», chiese ancora.
Si girò e la guardò, con aria disinvolta. «Mi aiuteresti a scrollare questo coso?», le chiese strizzandole l’occhio; il suo accento indicò che veniva da Glasgow. Continuò: «Il mio dottore dice che non devo sollevare cose pesanti...».
Watson fece una smorfia di compatimento e senza mezzi termini gli disse quel che pensava della sua richiesta di assistenza.
Logan si intromise tra i due prima che Watson potesse dimostrare perché la chiamavano Braccio di Ferro
.
Il giornalista sorrise compiaciuto alla sua battuta e si girò, tirandosi su la cerniera. Aveva un anello d’oro su quasi ogni dito e una catena d’oro al collo, sopra la cravatta e la camicia di seta.
«Mr Miller?», chiese Logan.
«Sì, cosa volete, un autografo?». Pavoneggiandosi, si diresse al lavandino, spingendosi un po’ in su le maniche e rivelando un pesante braccialetto d’oro a maglia larga al polso destro e un orologio grande come un frullatore su quello sinistro. Non c’era da sorprendersi che fosse muscoloso: per portare in giro tutta quella gioielleria doveva esserlo per forza.
«Vogliamo parlarle di David Reid, il bambino di tre anni che...».
«So chi è», interruppe Miller aprendo il rubinetto. «Ho fatto un servizio in prima pagina sul poveretto». Ghignò e si pompò del sapone liquido dal distributore. «Tremila parole di puro oro giornalistico. Vi dico una cosa: l’assassinio di un bambino è oro colato, credetemi. Un bastardo dal cervello bacato uccide un povero bambino e improvvisamente tutti muoiono dalla voglia di leggerne i particolari mentre fanno colazione. Merda, roba da non crederci».
Logan riuscì a dire: «Ieri sera lei ha chiamato la famiglia», tenendo le mani in tasca per controllare la voglia sempre crescente di afferrarlo per il collo e sbattergli la faccia su un orinatoio. «Chi le ha detto che lo avevamo trovato?».
Miller alzò la testa e sorrise all’immagine di Logan nello specchio sopra il lavandino. «Per certe cose non ci vuole mica un genio, ispettore...?».
«Sergente», rispose Logan. «Sergente McRae, CID».
Il giornalista strinse le spalle e azionò l’asciugatrice ad aria calda. «Appena sergente, eh?». Alzò la voce per farsi sentire sopra il rumore della ventola. «Non importa. Mi aiuti ad acciuffare lo stronzo che lo ha ucciso e farò in modo che lei sia promosso ispettore».
«Io aiutare lei...?», inorridito Logan chiuse gli occhi e non vide altro che il naso rotto di Miller che sanguinava nell’orinatoio. «Chi le ha detto che avevamo trovato il cadavere di David Reid?», ripeté a denti stretti.
Click. L’asciugatrice si fermò.
«Gliel’ho detto: non c’è voluto un genio. La polizia trova il cadavere di un bambino, chi altro avrebbe potuto essere?»
«Non avevamo detto che si trattava del cadavere di un bambino: questo particolare non era stato divulgato».
«Davvero? Allora dev’essere stata una coincidenza».
Logan gli si avvicinò, guardandolo torvo. «Chi – glielo – ha – detto?», chiese scandendo le parole.
Miller sorrise e spinse in fuori i polsini della camicia controllando che ci fossero almeno due centimetri di polsino inamidato fuori da ogni manica della giacca.
«Avete mai sentito parlare di immunità giornalistica? Io non ho l’obbligo di rivelare le mie fonti d’informazione. E voi non potete costringermi a farlo!». Fece una pausa, cambiando tono. «Ma se quella bella poliziotta che è con lei volesse fare la Mata Hari con me, potrei cambiare idea... Quanto mi piacciono le donne in divisa!».
Watson fece una smorfia e tirò fuori il suo manganello telescopico.
Improvvisamente la porta del gabinetto si spalancò, facendo entrare un donnone dai capelli ricci che si fermò al centro della stanza con le mani sui fianchi e il fuoco negli occhi. «Cosa diavolo succede qui?», chiese guardando torva Logan e Watson. «Ho gran parte della redazione con i pantaloni bagnati di piscio!». Prima che qualcuno potesse rispondere si rivolse a Miller. «E come mai tu sei ancora qui? Tra mezz’ora c’è una conferenza stampa sul bambino morto! La stampa popolare si accaparrerà la storia. Guarda che questa fottutissima storia è nostra e voglio che lo rimanga!».
«Mr Miller ci sta assistendo in una nostra indagine», disse Logan. «Voglio sapere chi gli ha detto che avevamo trov...».
«Siete qui per arrestarlo?», lo interruppe la donna.
Logan tardò un secondo, ma fu abbastanza.
«No, lo sapevo. Tu!», puntò un dito a Miller. «Muovi le chiappe e corri alla conferenza stampa. Non ti pago per fare il cascamorto con le poliziotte nei gabinetti!».
Miller sorrise e salutò l’astiosa donna. «Subito, capo!». Si girò verso Logan e gli sorrise, strizzando l’occhio. «Spiacente, ma devo andare. Il dovere mi chiama... sapete com’è».
Fece un passo verso la porta ma Watson gli sbarrò il passo, manganello alla mano. «Signore?», chiese sperando di poterlo usare sulla testa di Miller.
Logan guardò da lei al giornalista che sorrideva, sornione e compiaciuto e ancora a lei. «Lascialo andare», disse finalmente. «Continueremo la nostra chiacchierata un’altra volta, Mr Miller».
Il giornalista ghignò. «Quando vuole». Fece il gesto di una pistola con la mano destra e sparò un colpo all’agente Watson. «Alla prossima, Sherlock Holmes».
Fortunatamente Watson non reagì a questo sarcasmo.
Tornati nel parcheggio, corsero alla loro macchina. Watson aprì la portiera, buttò il berretto sul sedile posteriore, si inserì al posto di guida, richiuse la portiera e bestemmiò.
Logan dovette ammettere che aveva ragione. Miller non avrebbe mai rivelato la sua fonte. E in un pistolotto durato dieci minuti, quella riccioluta megera (che era il suo editore) glielo aveva fatto capire senza mezzi termini. Era più probabile che l’Aberdeen Football Club vincesse la Premier League piuttosto che lei ordinasse a Miller di rivelare l’identità della sua fonte d’informazioni.
Qualcuno bussò sul finestrino del passeggero. Logan sussultò e vide una facciona con un sorriso accattivante che si chinava verso di lui, tenendosi una copia dell’«Evening Express» sulla testa per non bagnarsi i pochi capelli. Era il giornalista che non
gli aveva detto che lo schifosissimo Mr Miller si era nascosto nel gabinetto degli uomini. Aprì il finestrino.
«Lei è Logan McRae!», disse l’uomo. «Lo sapevo! Sapevo di averla riconosciuta!».
«Davvero?», borbottò McRae, affondando sempre più nel sedile.
L’uomo annuì, felice della sua scoperta. «Io scrissi un articolo, vediamo... un anno fa? Eroico poliziotto accoltellato dal Mostro di Mastrick
! Merda, quella fu una bella storia!». Infilò la mano destra nel finestrino aperto. «Martin Leslie, servizi speciali».
Logan gliela strinse, sentendosi sempre più imbarazzato dall’incontro.
«Chi l’avrebbe detto, Logan McRae...», continuò il giornalista. «È ispettore adesso?».
Logan gli disse di no, che era ancora sergente e il vecchio reagì sdegnato. «Soltanto sergente? Dice sul serio? Brutti bastardi! Lei meritava la promozione! Quello stronzo di Angus Robertson era un bastardo sballato!...Ha saputo cosa gli hanno fatto gli altri detenuti a Peterhead? Gli hanno fatto l’appendicectomia col fai da te
». Abbassò la voce. «Un cacciavite affilato, proprio nelle budella. Adesso gli tocca fare la cacca in un sacchetto...».
Logan non rispose e il giornalista infilò la testa nel finestrino.
«In quale indagine è impegnato adesso?», chiese.
Logan continuò a guardare dritto davanti a se, alla grigia Lang Stracht. «Ma...», disse. «Veramente io...».
«Se le interessa Colin Coglione», mormorò; si rese conto di ciò che aveva detto e si coprì la bocca con una mano. Guardò la Watson: «Mi scusi, agente... mi è scappata».
Watson si strinse nelle spalle: lei stessa aveva dato a Miller epiteti ben peggiori.
Leslie sorrise imbarazzato. «Allora... quel pezzo di merda è venuto a noi dallo Scottish Sun
, convinto di essere un dono di Dio alla razza umana... ma ho sentito dire che al Sun
lo avevano buttato fuori a calci nel sedere». Si rabbuiò in volto. «Vede sergente, c’è gente tra noi che crede ancora nell’etica professionale. Non si deve cercare di farsi belli facendo le scarpe a un collega! Non si telefona alla mamma di un bambino scomparso per dirle che è stato trovato morto, non prima che la polizia abbia comunicato la triste notizia! Ma quel bastardo è convinto che può farla franca ogni volta, basta che ne tiri fuori una storia». Fece una piccola pausa. «E come se non bastasse, la sua ortografia fa schifo!».
Logan lo guardò attentamente. «Lei sa chi gli ha detto che avevamo trovato il cadavere?».
Il vecchio giornalista scosse la testa. «No, davvero. Ma se vengo a saperlo, la chiamerò subito! Sarà un piacere fare le scarpe a lui, tanto per cambiare!».
Logan annuì. «Bene, la ringrazio». Forzò un sorriso. «Ma adesso dobbiamo andare...».
Watson uscì dal posto auto, lasciando il vecchio sotto la pioggia.
«Dovrebbero farla ispettore!», gridò mentre la macchina si avvicinava all’uscita del parcheggio. «E subito!».
Mentre si allontanavano Logan si sentì arrossire.
«Quell’uomo ha ragione, signore», disse l’agente Watson, mentre Logan diventava color barbabietola. «Lei è d’esempio e d’ispirazione per tutti noi».
5
Stavano tornando alla Centrale. Mentre si barcamenavano nel traffico di Anderson Drive, Logan cominciò a sentirsi meno imbarazzato. Quella strada era nata come una tangenziale, ma la città aveva continuato a straripare, espandendosi e riempiendo gli spazi vuoti con edifici di granito freddo e grigio. Adesso Anderson Drive era una bretella che attraversava la città e nelle ore di punta era stracolma di veicoli. Un incubo.
Non aveva smesso di piovere e la gente di Aberdeen reagiva come al solito: c’erano quelli che andavano imbacuccati e incappucciati in giacconi impermeabili, con gli ombrelli controvento. E quelli che se la cavavano come potevano, infradiciandosi fino alle ossa.
Tutti andavano in giro chiusi in se stessi e con espressioni tristi e cupe. All’arrivo della primavera si sarebbero sbarazzati dei pesanti indumenti invernali e avrebbero ripreso a sorridere. Ma d’inverno l’intera città sembrava un’audizione per il cast di Un tranquillo weekend di paura.
Logan guardava dal finestrino e osservava i passanti che tribolavano nel maltempo. Ecco una casalinga. Eccone un’altra, con bambini. Un tizio con un montgomery e uno stupido cappello. Un netturbino del comune, addetto alla rimozione dalle strade dei cadaveri di animali, con la sua pala e il bidone sul carrettino probabilmente pieno di animali morti. Un bambino con un sacchetto di plastica. Una donna con passeggino. Un uomo col kilt, mini per giunta.
«Ma a cosa diavolo pensava stamattina quello là!», disse Logan mentre Watson andava avanti un altro metro.
«Chi, Roadkill¹ ? La mattina va a lavorare, prende su un gatto morto, fa pausa pranzo, prende su un cane morto...».
«No, non lui», l’interruppe Logan. «Quel tipo nel kilt. Cosa fa, si alza e dice Che bello, guarda che vento; metto su il mini kilt così mostro le chiappe a tutti
?».
Come se lo avesse sentito, il vento sollevò il kilt dello scozzese, mostrando un paio di candide mutande.
Watson sorrise, divertita. «Almeno ha le mutande pulite», disse sorpassando una Volvo blu. «Sua madre non dovrà temere di fare brutta figura se suo figlio sarà investito da un autobus».
«Vero», commentò Logan. Si chinò verso il cruscotto e accese la radio, cercando di sintonizzarsi su Northsound, l’emittente commerciale di Aberdeen. Capì che ci era riuscito appena sentì uno spot pubblicitario per una ditta locale istallatrice di doppi vetri. L’annuncio era stato registrato nello stretto dialetto aberdoniano e sembrava che fossero riusciti a pronunciare circa settemila parole in meno di sei secondi, il tutto con una stomachevole melodia in sottofondo.
«Santo Cielo!», esclamò Watson incredula e inorridita: «Come fa ad ascoltare quelle porcherie?».
Logan fece un gesto d’indifferenza. «È un’emittente locale. Mi piace».
«Balle». Watson accelerò al semaforo prima che diventasse rosso. «La miglior emittente è Radio 1, della BBC. Questa Northsound è merda. E lei sa benissimo che non possiamo avere la radio accesa in macchina. Se per caso ci chiamasse la Centrale?».
Logan indicò l’orologio del cruscotto. «Sono le undici, ora del giornale radio. Notizie del luogo per la gente del luogo. Conviene sempre essere al corrente di ciò che succede nella tua zona di lavoro».
Allo spot pubblicitario per i vetri termici fece seguito quello di un autosalone a Inverurie, registrato addirittura in doric
, il più incomprensibile tra i dialetti aberdoniani. Poi uno per il Balletto jugoslavo e uno per una nuova paninoteca a Inverbervie. E finalmente il giornale radio, che consisteva nelle solite banalità; ma qualcosa attirò l’attenzione di Logan. Si sporse in avanti e alzò il volume.
«...questa mattina. Il processo di Gerald Cleaver continua all’Aberdeen Sheriff Court. Il cinquantaseienne, proveniente da Manchester, è accusato di violenza sessuale nei confronti di oltre venti bambini mentre lavorava come infermiere all’Aberdeen Children’s Hospital. Una folla ostile lo ha atteso fuori del tribunale e quando è arrivato, strettamente scortato dalla polizia, lo ha accolto con gli insulti».
«Spero che gli diano quel che si merita», commentò Watson, svoltando a un incrocio e accelerando giù per una stradina laterale.
«A seguito della scoperta del cadavere del loro bambino di tre anni presso il fiume Don ieri sera, i genitori del piccolo David Reid sono stati inondati da messaggi di condoglianza e di solidarietà».
Logan spense la radio. «Gerald Cleaver è un brutto pezzo di merda», disse guardando un ciclista che sorpassava un tassì e si girava bestemmiando per mostrare il medio della mano destra all’autista. «Ricordo che lo interrogai per gli omicidi con stupro a Mastrick. Non sospettavamo di lui, ma era sulla lista delle persone dubbie
, e quindi lo interrogammo comunque. Ricordo le sue mani; sembravano due rospi, tanto erano fredde e viscide. Continuava a toccarsi i genitali...». Rabbrividì solo a pensarci. «Ma stavolta lo incastrano per bene. Minimo quattordici anni a Peterhead».
«Ben gli sta».
La prigione di Peterhead. Lì venivano incarcerati i condannati per reati sessuali. Stupratori, pedofili, sadici, serial killer... gente come Angus Robertson. Gente che doveva essere protetta dai criminali perbene, quelli normali e, in un certo senso, rispettabili. Quelli che si divertivano a esercitare chirurgia sui perversi con dei bisturi fatti in casa. Risultato? Sacchetto da colostomia per il povero Angus Robertson. Logan non riusciva a sentirsi spiacente per lui. Chissà perché.
L’agente disse qualcosa, ma Logan era troppo immerso nei suoi ricordi del mostro di Mastrick e non sentì. Dalla sua espressione si rese conto che Watson gli aveva fatto una domanda e decise di usare un intercalare che funzionava sempre. «In che senso?», chiese.
Watson lo guardò accigliata: «Come sarebbe a dire, in che senso? Cosa le ha detto il dottore del pronto soccorso ieri sera?».
Logan grugnì e tirò fuori un boccettino di pillole, scuotendolo. «Una ogni quattro ore, dopo i pasti, da non prendere con alcool». Quella mattina ne aveva già prese tre.
Watson inarcò le sopracciglia senza dir parola.
Due minuti dopo parcheggiavano la loro auto al terzo piano del parcheggio dietro la Centrale, nello spazio riservato alle auto di pattuglia e a quelle del CID. L’uso del parcheggio era consentito solo agli alti gradi e alle macchine di servizio. Tutti gli altri dovevano arrangiarsi come potevano, il che significava parcheggiare sul Beach Boulevard, a cinque minuti di cammino dalla Centrale. Quando piove a catinelle, un ufficiale d’alto grado ha dei vantaggi non trascurabili.
Trovarono l’ispettore Insch al centro investigazioni. Appoggiato alla scrivania, ascoltava un giovane agente che gli riferiva dei dati leggendoli da una tabella fermabloc. Le notizie dalle squadre dei ricercatori erano poco buone. Il corpo era stato abbandonato troppo tempo addietro e le condizioni meteorologiche erano orrende. Se, e solo per miracolo, un elemento che la scientifica avrebbe potuto analizzare fosse rimasto sulla scena del crimine per tre mesi, la pioggia delle ultime sei ore lo avrebbe portato via. Insch non disse una parola mentre l’agente gli leggeva la lista di dati, tutti negativi; rimase lì impassibile a mangiare le sue caramelline effervescenti.
L’agente finì il suo rapporto e