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Tutte le fiabe
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E-book1.511 pagine18 ore

Tutte le fiabe

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Info su questo ebook

Introduzione e cura di Kirsten Bech
Traduzioni di Kirsten Bech, Maria Pezzé Pascolato e Giuliana Pozzo
Edizioni integrali

«Andersen scopre nuove sorgenti del meraviglioso [...], non si deve equivocare con prodotti artigianali e surrogati quali la novelletta edificante, il raccontino didascalico omoralistico, insomma quella che viene chiamata [...] “letteratura pedagogica”». Così Gianni Rodari, che vedeva nel narratore danese un grande innovatore e sperimentatore del genere favolistico. Infatti, mentre i fratelli Grimm per la loro raccolta attinsero prevalentemente al folklore e alle fonti tradizionali del popolo tedesco, Andersen fa della materia esistente il punto di partenza per le sue elaborazioni fantastiche, per le sue invenzioni anche stilistiche. Prende spesso spunto da episodi della sua vita, cosicché l’elemento tradizionale si intreccia e compenetra con il vissuto personale – esperienza reale o memoria di un racconto ascoltato da bambino – per poi lasciar libera la fantasia di galoppare e percorrere strade di cui egli stesso si stupisce. La novità e la diversità della sua opera scandalizzarono gli accademici e disorientarono i lettori, sia per l’introduzione della lingua parlata in ambito letterario, sia per le invenzioni anche sintattiche e grammaticali in cui ci si imbatte leggendo i suoi testi. Ma proprio attraverso queste “sconvenienti” deviazioni dalla regola e dalla tradizione, il narratore riesce a incantare, a trasmettere l’intima poesia di un animo sensibilissimo, a esprimere l’essenza dello spirito popolare danese, allegro, scanzonato, bonario e saggio. Le meravigliose favole di Andersen sono un capolavoro universale e senza tempo.


Hans Christian Andersen

nacque nel 1805 a Odense, in Danimarca. Rimase orfano del padre a 11 anni e compì gli studi in modo poco costante. Grazie a un sussidio governativo poté viaggiare a lungo in Europa e in Italia. Nonostante abbia sperimentato diversi generi letterari – scrisse infatti anche romanzi e opere drammatiche – la sua fama resta legata alle fiabe, cui si dedicò con passione tra il 1835 e il 1872, tradotte in quasi tutte le lingue del mondo. Morì nel 1875.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854128934
Tutte le fiabe
Autore

Hans Christian Andersen

Hans Christian Andersen ist fast jedem noch heute bekannt als einer der größten Märchenerzähler des 19. Jahrhunderts. Sein bewegtes Leben begann am 2. April 1805 im dänischen Odense auf der Insel Fünen. Er war der Sohn eines verarmten Schuhmachers und einer Trinkerin und hatte dadurch alles andere als gute Voraussetzungen für sein künftiges Leben. Den meisten sind heute die Märchen des Hans Christian Andersen bekannt. Auch wenn Hans Christian Andersen die Märchen zunächst für Kinder schrieb, sind sie heute vor allem bei erwachsenen Lesern beliebt. Der hintergründige Humor und die oft ernste Handlung mit subtilen Untertönen finden mehr bei Älteren Anklang.

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    Anteprima del libro

    Tutte le fiabe - Hans Christian Andersen

    L’acciarino

    Per la strada maestra veniva marciando un soldato: «Uno, due! Uno, due!», Aveva sulle spalle il suo bravo zaino e al fianco la spada, perché era stato alla guerra ed ora se ne tornava a casa sua. Sulla strada maestra, s’imbatté in una vecchia strega, brutta da far paura, col labbro inferiore che le pendeva giù sino a mezzo il petto. Disse la strega:

    «Buona sera, soldato! Che bella spada tu hai! e che zaino! Sei proprio un vero soldato! E io ti dico che avrai tanto danaro quanto mai ne puoi desiderare.»

    «Grazie tante, vecchia strega!», disse il soldato.

    «Vedi quel grosso albero?», disse la strega, e accennava ad uno di quelli che fiancheggiano la strada: «Dentro è tutto vuoto. Se tu sali sino alla vetta, vedrai un buco, per il quale ti puoi calar giù in fondo all’albero. Ti legherò una corda alla cintola per tirarti su quando chiamerai».

    «Bene: e che ci avrei da fare giù, dentro all’albero?», domandò il soldato.

    «Che ci avresti da fare? Toh! Prenderti il danaro!», rispose la strega. «Hai da sapere che appena sarai in fondo al tronco, ti troverai in un ampio sotterraneo; ma laggiù, però, è chiaro come di giorno, perché ci ardono più di cento lampade. Là vedrai tre porte: padrone tu di aprirle, perché le chiavi son nella toppa. Se vai nella prima stanza, vedrai in mezzo dell’impiantito un grande scrigno: su questo scrigno sta accovacciato un cane con un par d’occhi grandi come scodelle. Ma non te ne devi fare né in qua né in là. Ti darò il mio grembiale di rigatino, e tu stendilo per terra; poi, va’ diritto al cane, prendilo e posalo sul grembiale; apri lo scrigno, e togline quanto danaro vuoi: è tutto rame sonante. Se però preferisci l’argento, non hai che da andare nella seconda stanza. Là ci sta un cane, che ha un par d’occhi grandi come le mole da molino; ma tu a questo non hai da badare; posalo sopra il mio grembiale, e prenditi quanto denaro vuoi. Che poi, se invece, tu vuoi oro, ne trovi quanto ne puoi portare e molto più; basta tu vada nella terza stanza. Solo che il cane, il quale sta sopra al terzo scrigno, ha certi occhi, che ognuno è grande come un torrione rotondo¹. Quello, vedi, è un cane!... Ma tu devi fare come se non fosse affar tuo. Posalo sul mio grembiale, e allora non ti farà nulla, e tu potrai prenderti tutto l’oro che vuoi.»

    «Eh, non mi dispiace», disse il soldato: «Ma a te, poi, vecchia strega, che dovrò io dare in pagamento? Perché qualche cosa, m’immagino, tu vorrai anche per te».

    «No», disse la strega: «Per conto mio, non voglio nemmeno un soldo. Mi basta che tu mi riporti un vecchio acciarino, che la mia nonna dimenticò laggiù, l’ultima volta che ci andò».

    Disse il soldato:

    «Bene. Legami la corda alla vita».

    Disse la strega:

    «Eccola; e questo è il mio grembiale di rigatino».

    Allora il soldato s’arrampicò sull’albero, sino su in vetta, e poi si lasciò scivolare giù per il cavo del tronco sino in fondo; ed ecco che si trovò in un vasto sotterraneo, come aveva detto la strega per l’appunto, dove ardevano più di cento lampade.

    Apre la prima porta. Uh, che cagnaccio! E lì accovacciato, che lo guarda fisso con un par d’occhi grandi come due scodelle.

    «Guardate che brava bestiola!» disse il soldato, e lo posò sul grembiale della strega; prese tante monete di rame quante ne poté far entrare nelle tasche, richiuse lo scrigno, ci rimise sopra il cane, e passò alla seconda stanza. Ohi, là! Eccoti quest’altro cane con gli occhi grandi come mole da molino.

    «Che c’è bisogno di guardarmi fisso a cotesto modo?» disse il soldato: «Bada che tu non abbia ad accecare!». E posò il cane sul grembiale della strega. Quando vide tutto quell’argento ch’era nello scrigno, buttò via in fretta e furia le monete di rame che aveva prese avanti, e riempì d’argento tasche e zaino. Poi andò nella terza stanza. Uh! che orrore! Quel cagnaccio aveva davvero gli occhi come torrioni, e giravano giravano come ruote.

    «Buona sera a voi!» disse il soldato, e fece il saluto con la mano al cheppì, perché una bestia simile non l’aveva mai veduta davvero. Quando l’ebbe esaminato un po’ più da vicino: «Ora basta!» disse; lo sollevò, lo mise a terra ed aperse lo scrigno. Bontà divina! Che massa d’oro c’era là dentro! Tanto da comprare tutta la città di Copenaghen e tutte le caramelle della pasticceria, e tutti i soldatini di piombo, e le fruste, e i cavalli a dondolo del mondo intero. Ah, che massa di danaro! E il soldato, via subito tutto l’argento di cui aveva riempite tasche e zaino, e dentro oro, invece! Oro in ogni tasca, nella giberna, nello zaino, nel cheppì, nelle trombe degli stivali, da per tutto, tanto che non poteva quasi più camminare.

    Ora sì che ne aveva, del danaro! Rimise il cane sullo scrigno, richiuse la porta, e poi gridò, affacciandosi al cavo dell’albero:

    «Tirami su, ohé! vecchia strega!»

    «L’acciarino, ce l’hai?» domandò la strega.

    «Hai ragione!» disse il soldato: «M’era proprio uscito di mente». E andò, e lo prese.

    La vecchia lo tirò su, e in un momento egli fu di nuovo sulla strada maestra, con le tasche, gli stivaloni, lo zaino, il cheppì, tutti pieni d’oro.

    «Che vuoi tu fare di questo acciarino?» domandò il soldato.

    «Ciò non ti riguarda» rispose la strega: «Il tuo danaro, l’hai avuto: dammi dunque il mio acciarino».

    «Marameo!» fece il soldato: «O mi dici subito quel che ne vuoi fare, o cavo la spada e ti taglio la testa!».

    E la strega, spaventata, scappò a gambe levate, lasciando cadere l’acciarino. Il soldato mise tutto il danaro nel grembiale di rigatino, ne fece un involto e se lo caricò sulle spalle; raccolse l’acciarino, se lo cacciò in tasca, e via difilato in città.

    Che magnifica città era quella! Ed egli andò niente meno che alla primissima locanda, si fece dare le più belle stanze, e ordinò tutti i piatti di cui era più ghiotto; perché, ormai, era ricco a palate, con tutto quell’oro che aveva. Il facchino della locanda, ch’ebbe a lustrargli gli stivali, li trovò, a dir vero, un po’ vecchi e logori per un signore a quel modo; ma egli non aveva ancora avuto tempo per comprarsene di nuovi: il giorno dopo si procurò scarpe e vestiti adatti al suo stato. Ora, il nostro soldato era dunque divenuto un ricco signore; e la gente gli raccontava di tutte le belle cose che c’erano da vedere nella città, e del Re, e della Principessa sua figliuola, bella come il sole.

    «E dove si va per poterla vedere?» domandò il soldato.

    «Vederla non si può, in nessun modo!» dissero tutti a una voce. «Abita un grande castello di rame, con tante e tante cinte di muraglie e tante e tante torri: non ci può andare altri che il Re; perché fu predetto che avrebbe sposato un soldato semplice, ed il Re non può tollerare una cosa simile.»

    Mi piacerebbe di vederla!, pensò il soldato; ma, naturalmente, non c’era da ottenere permessi.

    Intanto, passava allegramente le sue giornate: andava a teatro ogni sera, puntualmente; girava in carrozza per i giardini reali, e dava molto danaro ai poveri; e qui, almeno, faceva bene. Non aveva mica dimenticato i giorni della sua prima giovinezza, né quel che voglia dire essere senza un soldo. Era ricco, ora, e aveva bei vestiti, e s’era fatto molti amici, i quali tutti dicevano ch’era un bravo giovanotto e un vero gentiluomo: e ciò al soldato faceva molto piacere. Siccome, però, danaro ne spendeva ogni giorno e mai ne guadagnava, si trovò ridotto, una bella mattina, a non aver più che due soldi; e così dovette sloggiare dall’elegante quartiere che aveva abitato sino allora, e andar a stare in uno sgabuzzino sotto il tetto; e gli toccò lustrarsi da sé gli stivali, e ogni tanto darvi anche qualche punto con un ago da stuoie. Gli amici non venivano più a trovarlo, perché c’era da salir troppe scale.

    Una sera, ch’era buio pesto ed egli non aveva nemmeno di che comprarsi un mozzicone di candela, si rammentò a un tratto d’un pezzetto d’esca, il quale doveva essere ancora nella scatola dell’acciarino, da quel giorno che l’aveva portato su dal cavo dell’albero, dove la strega lo aveva mandato.

    Cavò fuori esca e acciarino; ma proprio nel momento che, battendo sulla pietra focaia, ne faceva sprizzare la scintilla, eccoti che si spalanca la porta, e gli si presenta quel cane che aveva un par d’occhi grandi come due scodelle, quello ch’egli aveva veduto nel sotterraneo, e gli dice:

    «Che mi comanda il mio Padrone?»

    «Che affare è questo?» disse il soldato: «Ecco un curioso acciarino, d’un genere che non mi dispiace, se battendolo posso avere tutto quello che voglio! Portami un po’ di danaro!» disse al cane; e il cane, vsssst! via come il vento; e vssst! rieccotelo con una grossa borsa tra i denti, tutta piena di danaro.

    Il soldato sapeva ora che meraviglioso acciarino fosse quello. Se batteva un colpo solo, subito veniva il cane che stava sullo scrigno delle monete di rame; se batteva due colpi, veniva quello ch’era a guardia dell’argento; se ne batteva tre, veniva quello che era a guardia dell’oro. – E allora il soldato tornò nel bel quartierino di prima, tornò ben vestito; e allora tutti i suoi buoni amici lo riconobbero subito, perché, già, gli volevano un mondo di bene.

    Un giorno egli disse tra sé:

    «È curioso che non si possa mai arrivare a vederla, questa Principessa, dicono tutti che sia tanto bella... Ma a che serve, se ha da star sempre rinchiusa nel castello di rame dalle mille torri? Che non m’abbia a riuscire di vederla una volta? Dov’è il mio acciarino?» Batté sulla pietra focaia, e vssst! eccoti il cane con gli occhi grandi come due scodelle.

    «Veramente, è quasi mezzanotte» disse il soldato: «Ma pure mi piacerebbe di vedere la Principessa, non fosse che per un minuto».

    Non aveva finito di dirlo, che il cane, via di corsa! era bell’e fuor dell’uscio; e prima che il soldato se n’avvedesse, era già di ritorno con la Principessa. Essa gli stava seduta sul dorso e dormiva: non c’era da sbagliarla; si vedeva subito ch’era una vera Principessa, tanto era bella. Il soldato non poté far a meno di darle un bacio: non si è soldati per nulla.

    Ma il cane tornò via di corsa con la Principessa.

    La mattina dopo, mentre il Re e la Regina erano a colazione, la Principessa raccontò uno strano sogno, che aveva fatto la notte prima, di un cane e di un soldato –, di un cane ch’era venuto a prenderla, e di un soldato che l’aveva baciata.

    «Non ci mancherebbe altro!» esclamò la Regina.

    E fu ordinato ad una vecchia dama di corte di montare la guardia, la notte dopo, presso al letto della Principessa, per vedere se si trattasse veramente d’un sogno, o che altro potesse mai essere.

    Il soldato si struggeva dal desiderio di rivedere un’altra volta la Principessa; e così, il cane tornò nella notte, la prese, e via di corsa, più presto che poté. Ma la vecchia dama si mise le galosce, e corse quanto il cane. Quando l’ebbe visto entrare in un gran casamento, pensò: «Ora, so io dov’è!», e con un pezzetto di gesso fece una croce sulla porta; poi andò a casa, e si coricò. Intanto il cane tornò con la principessa; ma quando vide che sull’uscio della casa dove abitava il soldato c’era una croce, prese anch’esso un pezzetto di gesso e fece tanto di croci, su tutti gli usci della città. E fu una bella trovata, perché così la dama non poteva più riconoscere l’uscio del soldato, se tutti gli usci avevano la loro croce.

    La mattina all’alba, eccoti il Re e la Regina, con la vecchia dama di corte e tutti gli ufficiali, venuti a vedere dove fosse stata la Principessa.

    «Ci siamo!» disse il Re, quando vide il primo uscio con la croce di gesso.

    «No, caro marito; è qui!» disse la Regina, additando un altr’uscio, dove c’era pure una croce.

    «Ma ce n’è una anche lì! E un’altra lì!» gridarono tutti, perché, da qualunque parte si volgessero, tutti gli usci avevano la loro croce. E così videro ch’era inutile continuare le ricerche, perché non sarebbero approdate a nulla.

    La Regina, però, era una donna molto accorta, una donna fuor del comune, la quale sapeva fare qualche cosa di più che andare attorno in carrozza. Prese le sue forbicione d’oro, tagliò un bel pezzetto di broccato, ne fece un bel sacchettino, lo riempì di fior di farina fine fine, e lo appese sulla schiena della Principessa; e poi, nel fondo del sacchetto, fece un forellino, così che la farina si avesse a spargere per tutto dove la Principessa passava. La notte, il cane tornò, prese la Principessa, e via dal soldato, il quale le voleva oramai molto bene, ed era molto dispiacente di non essere principe e di non poterla sposare.

    Il cane non si avvide della farina, che s’era sparsa per tutta la strada, dal castello sin sotto alla finestra del soldato, dove aveva dato la scalata al muro, sempre reggendo la Principessa sul dorso. E così, al mattino, il Re e la Regina vennero a risapere dove la loro figliuola fosse stata; e il soldato fu preso e messo in prigione.

    E in prigione gli toccò stare. Ah, che buio e che noia là dentro! E, per giunta, sentirsi dire: «Domani sarai impiccato!». C’era poco da stare allegri, davvero; e pensare che aveva lasciato l’acciarino alla locanda! La mattina, dall’inferriata della prigione, scorgeva già la gente che s’affrettava fuor di porta, per vederlo impiccare; e sentiva le trombe, e lo scalpiccìo dei soldati che sfilavano. Tutti correvano: anzi, un garzone di calzolaio, ch’era tra la folla, col suo grembiale di cuoio e certe ciabatte sgangherate, correva tanto che una delle ciabatte gli sgusciò via e andò a battere proprio contro il muro, dietro al quale stava il nostro soldato, affacciato all’inferriata. «Ohilà, ragazzo mio! Che c’è bisogno di scalmanarsi a cotesto modo?» gli gridò il soldato: «Tanto, senza di me non incominciano! Ma se vuoi fare una corsa sino al mio alloggio, a prendermi il mio acciarino, ti darò quattro soldi. Devi adoperare le gambe della domenica, però!».

    Al garzone del calzolaio, quattro soldi facevano molto comodo; per ciò andò via di carriera, e in quattro e quattr’otto tornò con l’acciarino. E allora... e allora, state a sentire quel che avvenne.

    Fuori della città, era rizzata una grande forca; e intorno ci stavano i soldati e molte migliaia di spettatori; e il Re e la Regina erano seduti su di un ricchissimo trono, rimpetto ai Giudici e al Consiglio della Corona. Il soldato era già sul palco; ma quando stavano per mettergli la corda al collo, domandò di parlare: ad un povero condannato prima del supplizio era sempre concesso di esprimere un ultimo innocente desiderio, ed egli disse che si struggeva di fumare una pipa di tabacco, e sperava gli fosse accordato, poi ch’era l’ultima fumatina, che dava in questo mondo.

    Il Re non seppe negargli questa piccola grazia; e allora il soldato cavò l’acciarino e battè la pietra una, due, tre volte... Che è, che non è, eccoti a un tratto tutti e tre i cani, quello con gli occhi come scodelle, quello con gli occhi come mole da molino e quello con gli occhi come torrioni.

    «Aiutatemi un po’ ora, che non m’impicchino!» disse il soldato.

    I cani non se lo fecero dir due volte: si avventarono ai Giudici ed ai Consiglieri della Corona, e chi afferrando per uno stinco, chi per una spalla, e chi per il naso, li buttarono tutti a gambe all’aria, e ne fecero un massacro.

    «Non voglio!» diceva il Re; ma il cagnaccio più grande prese lui e la Regina e li scaraventò dietro agli altri. Allora poi, anche le guardie ebbero paura, e tutto il popolo si diede a gridare:

    «Soldatino, soldatino caro, sii tu nostro Re e marito della nostra bella Reginotta!».

    Misero il soldato nella carrozza del Re, e i tre cani andavano innanzi come staffette e gridavano: «Evviva!», i ragazzi fischiavano, ponendosi due dita in bocca, e i soldati presentavano le armi.

    La Principessa uscì dal suo castello di rame e divenne Regina; le feste nuziali durarono una settimana intera, e i tre cani, seduti a tavola con gli altri, spalancavano tanto d’occhi, ancora più del solito, a tutto quel che vedevano.

    ¹ A Copenaghen, capitale della Danimarca, la Torre della Trinità, chiamata dal popolo il Torrione Rotondo, dov’è l’Osservatorio astronomico, è tanto grande che ci si potrebbe salire in carrozza (n.d.a.).

    Niccolino e Niccolone

    Vivevano una volta in un villaggio due contadini che avevano lo stesso nome: Nicola, ma l’uno possedeva quattro cavalli e l’altro soltanto uno. Per non far confusione, la gente chiamava Niccolone il proprietario dei quattro cavalli, Niccolino l’altro. Ed è la loro storia che oggi vi voglio raccontare.

    Niccolino lavorava tutta la settimana per Niccolone, e per di più doveva prestargli anche il cavallo. In cambio, Niccolone gli prestava i suoi, ma soltanto alla domenica. «Ih! Ih!» così incitava Niccolino i cinque cavalli facendo schioccare allegramente la frusta dall’alba al tramonto. Il sole splendeva nel cielo e le campane suonavano a festa. Con il libro da messa in mano, i paesani affrettavano il passo per non arrivare tardi alla casa di Dio, ma non trascuravano, passando accanto al campicello di Niccolino, di salutare il villano che frustava tutto allegro i cinque cavalli, gridando:

    «Ih! Ih! Cavalli miei!».

    Un giorno queste parole giunsero all’orecchio di Niccolone, che subito si incollerì.

    «Con che diritto dici miei?» chiese a Niccolino. «Tu possiedi uno, non cinque cavalli.»

    Ma la domenica seguente Niccolino, dimentico del rimprovero, prese a gridare come prima:

    «Ih! Ih! Cavalli miei!».

    E proprio mentre i villici passavano sul sentiero diretti alla messa.

    «Ti ordino di smetterla!» tuonò allora Niccolone. «E se la prossima domenica questa storia si ripete, taglio la testa al tuo cavallo.»

    «Non lo farò più», promise Niccolino, ma quando fu domenica e la gente del villaggio tornò a passare sul sentiero, la promessa fu dimenticata.

    «Ih! Ih! Cavalli miei!» tornò a gridare Niccolino.

    «Ora ti insegno io a non far passare per tua la roba d’altri», strepitò Niccolone rosso di collera. Si armò di un grosso bastone e assestò un tale colpo sulla fronte al cavallo di Niccolino, che l’animale cadde a terra stecchito.

    «Ah, Signore», gemette Niccolino, «ora sono senza cavallo!» e cominciò a piangere. Poi scuoiò il cavallo, ne fece seccare la pelle al vento, la ficcò in un sacco che si caricò sulle spalle e si recò in città, dove sperava di ricavare ancora qualche soldo dal cavallo morto.

    La strada da percorrere era lunga e attraversava un fitto bosco. Niccolino camminava ancora nel folto, quando lo colse un violento temporale che gli fece smarrire la via. Quando infine la ritrovò, era ormai troppo tardi per riuscire a raggiungere la città prima di notte.

    Ad un tratto, a una svolta del sentiero, ecco apparire, nella penombra del bosco, una fattoria. Tutte le finestre erano chiuse, ma dagli spiragli filtrava un po’ di luce. Là forse troverò rifugio, pensò Niccolino e si diresse a quella volta.

    Bussò; una donna gli aperse, ma quando apprese di che si trattava, disse che era sola in casa e che, in assenza del marito, non poteva dar ricovero a sconosciuti.

    «Be’, allora passerò la notte qui fuori», rispose Niccolino accomodante.

    Brontolando, la contadina gli richiuse la porta sul naso. Di fronte alla casa sorgeva il fienile.

    «Ecco dove dormirò», si disse Niccolino e si arrampicò in cima a un mucchio di fieno alto quasi fino al tetto. Si sdraiò sul fianco destro, poi sul sinistro, infine si mise bocconi, sperando di prender sonno; ma si accorse che poteva guardare in casa della contadina, poiché gli scuri proteggevano le finestre solamente a metà.

    Nella stanza che gli si presentava così davanti agli occhi, una tavola era apparecchiata. Vino, pane, arrosto e un grosso pesce vi facevano bella mostra. La contadina e il sagrestano sedevano l’uno di fronte all’altra. La donna lo serviva ed egli ingoiava avidamente tutto quanto aveva nel piatto.

    «Potessi esserci anch’io», sospirò Niccolino con gli occhi fissi sulla tavola. E la torta che la donna stava tagliando in quel momento gli fece venire l’acquolina in bocca.

    Ad un tratto gli giunse all’orecchio un rumore di zoccoli di cavallo e poco dopo un cavaliere apparve sul sentiero e venne a fermarsi davanti alla fattoria; era il padrone che tornava a casa.

    Costui era un brav’uomo, ma nutriva una profonda antipatia per i sagrestani, li vedeva come il fumo negli occhi. E se per caso ne incontrava uno sulla sua via, la sua collera non aveva freni. Per questo il sagrestano faceva visita alla contadina solamente quando il marito era lontano. Quando lo udì arrivare, immaginatevi il suo spavento... e infatti, senza più fiato in corpo, andò a nascondersi dentro una grossa cesta. La donna, spaurita anch’ella la sua parte, si affrettava intanto a celare piatti e boccali dentro il forno, per non destar sospetti nel marito.

    «Che peccato!» sospirò di nuovo Niccolino, vedendo scomparire tutto quel ben di Dio.

    «Chi c’è nel fienile?» esclamò il contadino alzando il capo. «Che fai lassù?» disse poi, scorgendo lo sconosciuto. «Vieni dentro!»

    Niccolino gli raccontò che il temporale gli aveva fatto smarrire la strada e per questo aveva cercato rifugio nel fienile fino allo spuntar del giorno. Poteva rimanere?

    «E perché no?» fece il contadino. «Ma prima di tutto mangiamo un boccone.»

    La donna diede a entrambi il benvenuto e mise loro davanti una scodella di ceci. Il contadino aveva fame e si servì, ma Niccolino continuava a pensare al bell’arrosto, al pesce ed alla torta nascosti dentro il forno.

    Sotto alla tavola, aveva messo il sacco con la pelle del cavallo, per vendere la quale si era messo in cammino. Quella brodaglia non gli andava giù. Indispettito, diede un calcio al sacco. E la pelle scricchiolò.

    «Silenzio!» gridò Niccolino al sacco assestandogli al tempo stesso un altro calcio, di modo che la pelle scricchiolò di nuovo.

    «Cosa c’è in quel sacco?» volle sapere il contadino.

    «Oh, soltanto un mago», rispose Niccolino. «Dice che non dobbiamo mangiare questa minestra, perché ha messo nel forno per noi un arrosto, del pesce e una focaccia.»

    «Come?» esclamò il contadino e con un salto fu davanti al forno, ne aperse lo sportello... ed ecco apparire alla sua vista tutte le ghiottonerie nascostevi dalla moglie, ma che egli credeva apparse là per opera di magia. Ammutolita, la contadina si affrettò a deporre sulla tavola tutto quel ben di Dio, che i due affamati fecero sparire in un battibaleno. Niccolino diede un altro calcio al sacco.

    «Che cosa ha detto il mago?» si informò il contadino, udendo di nuovo lo scricchiolio.

    «Dice che nel forno ci sono anche due boccali di vino.»

    La donna fu costretta a mettere sulla tavola anche il vino. Il contadino ne tracannò vari bicchieri e fu così che diventò allegrissimo. Gli sarebbe piaciuto avere un mago simile a quello del suo ospite.

    «Ah, sì... Il mio mago sa far le cose bene!» insinuò Niccolino.

    «Può chiamare anche il diavolo?» volle sapere il contadino.

    Niccolino fece cenno di sì.

    «Può fare tutto quello che gli chiedo», affermò. «Non è vero, mago?»

    Gettò un’occhiata sotto la tavola e fece di nuovo scricchiolare il sacco. «Hai sentito? Dice di sì», continuò. «Ma ti metto in guardia... il diavolo ha un aspetto spaventevole.»

    «Io non ho mai paura», si vantò il contadino. «A chi assomiglia?»

    «A un sagrestano.»

    «Allora è proprio brutto. I sagrestani non li posso soffrire... Ma questa volta ne sopporterò la vista, perché so che si tratta del diavolo. Digli però che non mi venga troppo vicino.»

    «Sentiamo che ne pensa il mago», rispose Niccolino, e giù un altro calcio al sacco.

    «Che cosa dice?»

    «Vuole che tu apra quel cesto laggiù nell’angolo. Basterà socchiuderne il coperchio... sul fondo vedrai il diavolo. Ma sta attento che non salti fuori!»

    «Mi aiuterai a tenerlo», e così dicendo il contadino si avvicinò al cesto nel quale stava nascosto il sagrestano. Immaginate un po’ lo spavento di quel poveretto.

    Il contadino aperse appena un poco il coperchio e guardò dentro attraverso lo spiraglio.

    «Uh!» fece balzando indietro spaventato. «L’ho visto... l’ho visto... sembra tutto il nostro sagrestano!»

    Dopo una simile emozione, i due sentirono il bisogno di rincuorarsi. Perciò, un bicchiere dopo l’altro, svuotarono tutti e due i boccali.

    «Devi vendermi il tuo mago!» esclamò allora il contadino. «Ti do quello che vuoi... anche uno staio d’oro.»

    «Ah, no, l’affare non si fa», rispose Niccolino. «Pensa un po’ quanti servigi mi rende il mio mago.»

    «Mi sono fitto in capo di averlo», insistette il contadino, e tanto disse e tanto fece che l’ospite si lasciò convincere.

    «Be’, allora te lo cedo», rispose infine Niccolino. «In cambio d’uno staio d’oro, ma ben pieno.»

    «D’accordo», esclamò il contadino soddisfatto. «Ma devi portarmi via quel cesto. Non voglio averlo in casa un momento di più. Non si sa mai, il diavolo potrebbe essere ancora dentro.»

    Niccolino consegnò al contadino il sacco con la pelle del cavallo, ne ebbe in cambio uno staio d’oro e inoltre una carriola per portar via sia il denaro che la cesta. Salutò con la mano e volse la carriola verso il bosco.

    Quando l’ebbe attraversato, si trovò davanti un fiume talmente gonfio ed impetuoso, che nessuno l’avrebbe passato a guado. Un ponte lo valicava e Niccolino vi spinse sopra la carriola; quando si trovò a uguale distanza dall’una e dall’altra sponda, disse a gran voce per farsi sentire dal sagrestano rinchiuso nella cesta:

    «Che cosa me ne faccio di questa cesta? Pesa come se fosse piena di sassi! Si fa troppo fatica a trasportarla. La butterò nel fiume».

    Così dicendo afferrò la cesta e la sollevò un poco, come se veramente intendesse gettarla nel fiume.

    «Fermo! Fermo!» gridò dal di dentro il sagrestano dando pugni al coperchio. «Lasciami uscire!»

    «Per carità!» fece Niccolino fingendosi spaurito.

    «È ancora dentro! Svelto nel fiume, che affoghi una buona volta!» «No, no!» gemette il sagrestano. «Ti do uno staio d’oro se non mi getti in acqua.»

    «Allora le cose cambiano», disse Niccolino, e aperse la cesta. Il sagrestano ne uscì pallido di spavento e, gettata la cesta oltre il parapetto, si diresse verso casa seguito da Niccolino, al quale consegnò il denaro promesso. Fu così che il nostro eroe se ne tornò al paese con la carriola colma di monete d’oro.

    Chiuso nella sua stanza, rovesciò a terra il carico prezioso, mormorando tra sé tutto soddisfatto:

    «Me l’han pagato bene il mio cavallo, non c’è che dire! Chissà che faccia farà Niccolone quando verrà a sapere che son ricco... Ma di dove venga il mio denaro non glielo dirò certo!».

    Chiamò un ragazzo e gli disse di correre da Niccolone a farsi prestare uno staio.

    «Che cosa ne vorrà fare?» si chiese Niccolone, e sparse un po’ di pece sul fondo dello staio perché vi rimanesse qualcosa di ciò che vi veniva pesato. Infatti così avvenne. Quando lo staio gli fu restituito, sul fondo luccicavano due talleri d’argento.

    «Dove diavolo li avrà presi?» si stupì Niccolone e corse a casa di Niccolino. «Come mai hai tanti soldi?» volle sapere.

    «È il prezzo che ho ottenuto per la pelle del cavallo», rispose Niccolino. «È un prezzo molto buono», osservò Niccolone e tornato a casa, si armò di una scure e uccise tutti e quattro i suoi cavalli. Poi li scuoiò e se ne andò in città per venderne le pelli.

    «Pelli! Pelli! chi vuol comperare delle pelli?» gridava di strada in strada.

    Tutti i calzolai e i conciatori del luogo si affacciarono alla finestra per chiedergli a che prezzo le vendesse.

    «Uno staio d’oro per ognuna», fu la risposta.

    «Sei matto?» protestarono gli altri. «Credi sia facile avere l’oro a stai?»

    «Pelli! Pelli! Chi vuol comprare pelli?» riprese a gridare Niccolone e a chiunque gliene chiedesse il prezzo rispondeva ch’era di uno staio d’oro.

    «Ci crede proprio stupidi», finirono col dire gli artigiani e, armatisi dei loro arnesi, cominciarono a bastonare Niccolone.

    «Pelli! Pelli!» lo scimmiottavano intanto. «Vedrai come conceremo la tua pelle. Diventerà di tutti i colori! Via di qui, sanguisuga!»

    E Niccolone fu costretto a darsela a gambe il più in fretta che poteva, per non rimetterci, oltre alla pelle dei cavalli, anche la sua.

    «Niccolino me la pagherà», ripeteva tra i denti cammin facendo. «Lo voglio uccidere, quell’imbroglione!»

    Frattanto a Niccolino era morta la nonna. Bisogna dire che la vecchia lo aveva sempre maltrattato tuttavia Niccolino, che aveva buon cuore, l’aveva adagiata sul suo letto nella speranza di ridarle la vita con il tepore delle coltri. In quanto a lui, avrebbe atteso il mattino seduto su di una sedia, come del resto aveva fatto tante volte.

    Mentre egli se ne stava così seduto in un angolo, la porta si aperse, e Niccolone entrò armato di scure. In punta di piedi si avvicinò al letto e, credendo di colpire il suo nemico, assestò un gran colpo sulla testa della morta.

    «Adesso non ti farai più gioco di me!» gridò poi e si allontanò in gran fretta.

    «Ma guarda che briccone», disse Niccolino tra sé. «Per un pelo non mi ha ucciso. Che fortuna che la nonna fosse morta, altrimenti questa sarebbe stata la sua fine!»

    II giorno dopo vestì il cadavere con i panni migliori, si fece prestare il cavallo da un vicino, lo attaccò al suo carro e vi pose sopra la nonna. Si diresse così verso il bosco e, giunto a una locanda, vi entrò per mangiare un boccone.

    L’oste era ricco e di animo buono, ma di temperamento tanto collerico che sembrava sempre carico di polvere da sparo.

    «Buon giorno», disse all’avventore. «Come sei mattiniero! Dove vai?»

    «Vado in città con la mia vecchia nonna», rispose Niccolino. «È fuori sul carro e non può scendere. Portale un bicchiere di sciroppo. Ma bisogna che tu le parli ad alta voce perché è un po’ dura d’orecchio.»

    «Benissimo», disse l’oste e si avviò alla porta con lo sciroppo.

    «Ecco qua, ve lo manda vostro nipote», così disse alla vecchia, che sedeva rigida ed immobile.

    «Non mi sentite?» gridò di nuovo l’oste. «Ecco un bicchiere di sciroppo.»

    Lo ripeté una volta, poi due, poi tre, ma poiché la vecchia non accennava a muoversi, perdette infine la pazienza e le gettò lo sciroppo sulla faccia; bastò quel lieve urto a far perdere l’equilibrio alla defunta, che rotolò a terra.

    Niccolino accorse e, afferrando l’oste per il petto, cominciò a gridare:

    «Hai ucciso la mia nonna! Guarda che taglio ha nella fronte!».

    «Oh, che disgrazia!» gemette l’oste torcendosi le mani. «E tutto per colpa del mio brutto carattere! Niccolino caro, ti darò uno staio d’oro e farò seppellire la nonna a spese mie, ma ti scongiuro, taci, non dire a nessuno quello che è accaduto.»

    Così Niccolino si guadagnò un terzo staio d’oro e non ebbe nemmeno la spesa dei funerali della nonna.

    Di ritorno a casa, mandò di nuovo il ragazzo da Niccolone per averne nuovamente in prestito lo staio.

    Niccolone fece tanto d’occhi. «Dunque non l’ho ammazzato!» andava dicendosi. «Bisogna che vada a vedere.» E, preso lo staio, si recò egli stesso da Niccolino.

    «Come hai guadagnato tutto quel denaro?» chiese pallido di invidia, notando che il mucchio si era ancora accresciuto.

    «Semplicissimo», rispose Niccolino. «Ieri notte tu non hai ucciso me, bensì mia nonna. E ora l’ho venduta per uno staio d’oro.»

    «Il prezzo è proprio buono», disse Niccolone. Corse a casa, si armò della scure e uccise la sua nonna. Poi la caricò sul carro e si recò in città. Là giunto, entrò dal farmacista e gli chiese se non voleva comperare un cadavere.

    «Chi è e come l’hai avuto?» volle sapere il farmacista.

    «Si tratta di mia nonna», rispose Niccolone. «L’ho uccisa, per ricavarne uno staio d’oro.»

    «Il Signore me ne guardi!» esclamò il farmacista. «Tu non sai quello che dici. Farai meglio a tener chiusa la bocca, se non vuoi finire in carcere!»

    E tentò di spiegargli che orribile azione fosse quella e che il delitto avrebbe pesato sulla sua coscienza fino a quando non l’avesse espiato. Niccolone, colto dalla paura, balzò sul carro e, frustando rabbiosamente i cavalli, uscì dalla città a tale andatura, che i passanti lo credettero impazzito.

    «Quel birbante me la pagherà!» ripeteva digrignando i denti e agitando la frusta perché i cavalli corressero sempre più in fretta.

    Giunto a casa, cercò un grosso sacco e si recò con quello da Niccolino.

    «Questa volta hai finito di giocarmi brutti tiri!» strepitò. «Prima ho ucciso i miei cavalli, e poi mia nonna. E tutto per colpa tua. Ma non ti riuscirà più di prendermi per il naso.» Così disse e, acciuffato Niccolino, lo ficcò nel sacco; poi, col carico sulle spalle, si avviò verso il fiume.

    La strada era lunga e presto la schiena cominciò a dolergli per il troppo peso. A un certo punto, la via passava a lato della chiesa, dalla quale in quel momento usciva un suono d’organo. Per riposare un poco, Niccolone mise il sacco a terra e si fermò a guardare la casa di Dio. Voleva dire una preghiera prima di rimettersi in cammino. Niccolino era ben chiuso dentro il sacco e intorno non c’era anima viva che potesse aiutarlo ad uscirne.

    «Oh, povero me! Oh, povero me!» gemeva Niccolino voltandosi e rivoltandosi senza però riuscire a liberarsi. In quel momento un vecchio pastore dai capelli bianchi passò di lì. Si appoggiava a un bastone da pellegrino e spingeva davanti a sé una mandria di buoi. Uno di essi urtò contro il sacco che cadde a terra.

    «Oh, povero me», gemette più forte Niccolino. «Sono così giovane e devo morire!»

    «Oh, povero me», fece eco il pastore, «sono così vecchio e non riesco a morire!»

    «Apri il sacco!» gridò Niccolino. «Prendi il mio posto e presto il tuo desiderio sarà soddisfatto!»

    «Grazie amico», disse il pastore e si affrettò a ficcarsi dentro il sacco. «Ma tu cura le mie bestie!» lo ammonì.

    Niccolino promise, chiuse di nuovo il sacco e se ne andò spingendo le mucche al pascolo.

    Poco dopo, ecco Niccolone uscire di chiesa. Si caricò di nuovo il sacco sulle spalle e gli parve che fosse più leggero di prima, poiché infatti il vecchio pastore pesava meno di Niccolino.

    «Ora faccio meno fatica», si disse Niccolone. «Certo è perché la parola di Dio mi ha rinvigorito.»

    Giunse così al fiume, che scorreva profondo e vorticoso, e, gettando il suo carico tra i flutti, esclamò con un sospiro di sollievo: «Così... l’ho finita con te!».

    Lemme lemme si diresse verso casa, ma a metà strada, sul prato che costeggiava il sentiero, ecco Niccolino con la mandria di buoi.

    «Come è possibile?» balbettò Niccolone non credendo ai suoi occhi. «Non ti ho dunque gettato nel fiume?»

    «Sì... sì», lo rassicurò Niccolino. «Mezz’ora fa stavo per affogare.»

    «Ma dove hai preso quelle mucche?» volle sapere Niccolone, che non riusciva a distogliere gli occhi dalla mandria.

    «Sono mucche di mare», mentì Niccolino. «Ti racconterò tutta la storia... e poi, ti voglio ringraziare di avermi gettato nel fiume, perché adesso me la passo bene... sono veramente ricco. Quando mi hai gettato in acqua chiuso nel sacco, non respiravo più dalla paura. Mi son trovato subito sul fondo, ma non mi sono fatto male, perché là sotto cresce un’erba fitta e tenera. Qualcuno aperse il sacco e una sirena con i capelli incoronati d’alghe mi aiutò ad uscirne. Mi prese poi per mano e mi disse: Tu sei Niccolino, non e vero? Per prima cosa ti daremo una mandria di buoi. Se non ti basta, percorri tre miglia e tutto quello che vedrai ti apparterrà».

    «E poi?...» chiese col fiato mozzo Niccolone.

    «E poi scomparve. Mi guardai attorno e capii che il fiume per i suoi abitanti è come una grande strada. Da una parte conduce al mare, dall’altra al punto Èdove il fiume nasce. E tutta fiorita e i pesci ti frullano attorno al capo come qui gli uccelli. Le persone che si incontrano sono tutte gentili... e le mucche... be’, non ho bisogno di descrivertele... eccole qui.»

    «Ma perché non ci sei rimasto, se il fiume è tanto bello?» volle sapere Niccolone.

    «L’ho fatto soltanto per risparmiare tempo», rispose Niccolino. «Quassù arrivo più presto alla mia meta.»

    «Non capisco», bofonchiò Niccolone.

    «Sta’ attento», cominciò Niccolino. «Mi spetta un’altra mandria, che si trova a tre miglia di qui, ma a monte del fiume. E andare contro corrente è una fatica. Per questo son tornato sulla strada. Quando avrò percorso tre miglia, mi getterò di nuovo in acqua e troverò le mucche.»

    «Sei proprio fortunato!» commentò acidamente Niccolone. «Perché non incontro anch’io una sirena che mi regali mucche e buoi?»

    «Perché le sirene vivono soltanto nell’acqua. Sulle nostre strade non se ne vedono mai.»

    «Non puoi aiutarmi, Niccolino?»

    «Mi rincresce... sei troppo pesante. Non posso portarti fino al fiume. Ma quando ci saremo arrivati, se vorrai metterti nel sacco, in acqua ti getterò volentieri.»

    «Sei proprio gentile», disse Niccolone. «Ma ricorda una cosa: se quando sono sotto non trovo né mucche né buoi, ti azzoppo, stanne certo.»

    «Di questo parleremo quando sarai tornato», bofonchiò Niccolino. E si avviarono in silenzio. Dopo un po’, le mucche affrettarono il passo sentendo vicino il fiume, perché avevano sete.

    «Guarda come si affrettano», disse Niccolino. «Non vedono l’ora d’essere di nuovo in fondo al fiume.»

    «Aiutami!» lo interruppe Niccolone; prese il sacco che pendeva dal dorso d’una mucca e vi si ficcò dentro, dopo essersi messo sotto il braccio un grosso sasso, per toccare il fondo prima di Niccolino.

    «Fai pure con calma», disse questi. «Io non ho fretta.» Legò ben bene il sacco e lo gettò nel fiume.

    Plaf! Niccolone precipitò nell’acqua gelida e giù, sempre più giù, fino a toccare il fondo.

    «Temo proprio che mucche non ne troverà», disse tra sé Niccolino, e passo passo s’avviò verso casa seguito dalla mandria.

    I fiori della piccola Ida

    «I miei poveri fiori sono completamente morti!», disse la piccola Ida. «Erano tanto belli ieri sera e ora tutte le foglie pendono appassite! Perché fanno così?» chiese al baccelliere, seduto sul sofà; infatti gli voleva molto bene, lui conosceva storie meravigliose e ritagliava delle figure tanto divertenti: cuori con dentro delle piccole signore che ballavano; fiori e grandi castelli in cui si potevano aprire le porte; era un baccelliere molto allegro! «Perché i fiori sembrano stare tanto male oggi?», chiese Ida di nuovo mostrandogli un intero mazzolino di fiori completamente appassito. «Ebbene, sai che cos’hanno!», disse il baccelliere. «I fiori sono stati al ballo questa notte ed ecco perché hanno la testa che ciondola!»

    «Ma i fiori non sapranno ballare!», disse la piccola Ida.

    «Ma sì», disse il baccelliere, «quando diventa buio e noi altri dormiamo allora saltano allegramente dappertutto; ballano quasi ogni notte!»

    «I bambini non possono partecipare a quel ballo?»

    «Ma sì», disse il baccelliere, «le margheritine e i piccoli mughetti!»

    «Dove ballano i fiori più belli?», chiese la piccola Ida.

    «Non sei stata spesso fuori dalla porta della città, vicino al grande castello, dove d’estate abita il re e dove c’è lo splendido giardino con tantissimi fiori? Sì che hai visto i cigni che si avvicinano a nuoto quando dai loro le briciole di pane. Credimi, là fuori ci sono veramente dei balli!»

    «Ero lì fuori nel giardino ieri con la mia mamma!», disse Ida, «ma gli alberi erano senza foglie e non c’era rimasto più un fiore! dove sono? quest’estate ne ho visti così tanti!»

    «Sono all’interno del castello!», disse il baccelliere. «Devi sapere che appena il re e tutta la sua corte tornano in città, i fiori corrono immediatamente dal giardino dentro al castello e si divertono. Dovresti vedere! Le due rose più belle in assoluto si mettono sedute sul trono come re e regina. Tutte le rosse creste di gallo si mettono di lato e s’inchinano, sono i gentiluomini di corte. – Poi vengono i fiori più graziosi e poi c’è il gran ballo, le violette rappresentano piccoli cadetti della marina, ballano coi giacinti e con i crochi, e li chiamano signorine! I tulipani e i grandi gigli gialli sono le signore anziane, controllano che si balli come si deve e che tutto si svolga a dovere.»

    «Ma», chiese la piccola Ida, – non vi è nessuno che fa qualcosa ai fiori perché ballano nel castello del re?

    «Non c’è nessuno che sappia bene qualcosa!», disse il baccelliere. «Qualche volta di notte, bisogna dirlo, passa il vecchio intendente del castello, che ha la responsabilità di sorvegliare tutto questo, porta con sé un grande mazzo di chiavi ma appena i fiori sentono il tintinnare delle chiavi, si azzittiscono completamente, si nascondono dietro le lunghe tende tirando fuori la testa.

    Sento dal profumo che qui dentro vi sono dei fiori, dice il vecchio intendente, ma non riesce a vederli».

    «È divertente!», disse la piccola Ida battendo le mani. «Ma nemmeno io potrei vedere i fiori?»

    «Ma sì», disse il baccelliere, – ricordati semplicemente, quando andrai lì di nuovo, di guardare dentro la finestra, così li vedrai senz’altro. Io l’ho fatto oggi, c’era un lungo narciso giallo sdraiato sul sofà, era una dama di corte!»

    «Anche i fiori del giardino botanico possono andarci? Riescono a fare tutta quella strada?»

    «Sì, certamente, credimi!», disse il baccelliere, «perché se volessero, potrebbero volare. Non hai visto le belle farfalle, quelle rosse, gialle e bianche, sembrano quasi dei fiori, e lo sono state, sono saltate via dal gambo nell’aria sbattendo poi i petali come se fossero piccole ali e così volarono; e poiché salirono bene, ebbero il permesso di volare anche di giorno, non dovettero tornare a casa a stare ferme sul gambo e così i petali finirono col diventare vere ali. L’hai visto tu stessa! Però potrebbe anche essere che i fiori all’interno del giardino botanico non siano mai stati al castello del re fuori città o che nemmeno sappiano che là ci sia tanta allegria di notte. Ecco perché ora ti dico qualcosa che sorprenderà molto il professore di botanica dell’università! quello che abita qui vicino, lo conosci non è vero? Quando vai nel suo giardino, devi dire ad uno dei fiori che ci sarà un grande ballo al castello fuori città, così questo fiore lo dirà a sua volta a tutti gli altri e così voleranno tutti via; se poi il professore dovesse uscire nel giardino, non troverà un solo fiore e non potrà assolutamente capire dove siano andati tutti i fiori.

    «Ma come farà il fiore a raccontarlo agli altri? i fiori non sapranno parlare!»

    «No, non lo sapranno infatti!», rispose il baccelliere; – ma allora fanno una pantomima! Non hai visto che quando tira un po’ di vento tutti i fiori annuiscono con la testa e muovono tutte le foglie verdi, è veramente come se parlassero!»

    «Il professore capisce la pantomima?», chiese Ida.

    «Sì, certo, credimi! Una mattina scese nel suo giardino e vide una grande ortica che con le foglie faceva la pantomima a un bel garofano rosso; diceva, sei così grazioso e ti voglio tanto bene! Ma queste cose non piacciono per niente al professore che picchiò subito l’ortica sulle foglie, poiché loro sono le sue dita, ma si bruciò e da allora non ha mai osato toccare un’ortica.»

    «Che divertente!», disse la piccola Ida ridendo.

    «Non sono cose da far credere alla bambina!», disse il noioso consigliere di cancelleria, che era venuto a far visita ed era seduto sul sofà; non gli piaceva per niente il baccelliere e si imbronciava sempre quando lo vedeva ritagliare quelle figure strane e divertenti: una volta un uomo appeso a una forca teneva un cuore in mano, un cuore perché egli era un ladro di cuori, un’altra volta una vecchia strega a cavallo di una scopa portava il marito sul naso; tutto questo non piaceva al consigliere di cancelleria e allora diceva, come ora, – non sono cose da far credere alla bambina! quella è stupIda fantasia!

    Ma la piccola Ida trovò che fosse tanto divertente ciò che il baccelliere raccontava dei suoi fiori e ci pensò molto. I fiori stavano con la testa penzoloni, perché erano stanchi avendo ballato tutta la notte, erano sicuramente malati. Li portò allora vicino a tutti gli altri giocattoli che stavano su un grazioso tavolino, e l’intero cassetto era pieno di belle cose. Nel letto della bambola vi era Sofia, la sua bambola, che dormiva, ma la piccola Ida le disse: «Ti devi proprio alzare, Sofia, e accontentarti di dormire nel cassetto questa notte, i poveri fiori stanno male, dunque devono stare nel tuo letto, così forse guariranno!» e quindi sollevò la bambola, ma essa sembrava tanto accigliata e non disse una parola poiché era in collera perché non poteva tenere il letto per sé. Poi Ida mise i fiori nel letto della bambola, li coprì per bene con la copertina e disse loro di stare buoni e tranquilli, così avrebbe preparato loro del tè in modo che potessero guarire e alzarsi l’indomani, e tirò bene le tende intorno al lettino affinché non avessero il sole negli occhi.

    Per tutta la sera non poté fare a meno di pensare a ciò che le aveva raccontato il baccelliere e ora che anche lei dovette andare a letto, non poté non andare prima dietro le tende che coprivano le finestre dove vi erano i bellissimi fiori della madre, giacinti e tulipani, e sussurò sottovoce: «so bene che andrete al ballo questa notte!» ma i fiori fecero finta di non capire e non mossero una foglia, ma la piccola Ida sapeva con certezza le cose che sapeva. Nel suo letto rimase a lungo a pensare a quanto sarebbe carino vedere i bei fiori ballare al castello del re fuori città. «Chissà se i miei fiori hanno veramente partecipato?» Ma poi si addormentò. In piena notte si svegliò di nuovo, aveva sognato i fiori e il baccelliere che si faceva sgrIdare dal consigliere di cancelleria, il quale diceva che le voleva far credere delle storie. Nella stanza da letto dove stava Ida vi era un gran silenzio; la lampadina da notte sul tavolo era accesa e suo padre e sua madre dormivano.

    «Chi sa se i miei fiori ora sono nel letto di Sofia?» si chiese, «lo vorrei tanto sapere!» Si alzò un po’ e guardò verso la porta, che era socchiusa, di là vi erano i fiori e tutti i suoi giocattoli. Tese l’orecchio e allora le sembrò di sentire suonare il pianoforte nel salotto, ma piano piano e in modo tanto grazioso come non aveva mai sentito fin’allora.

    «Ora tutti i fiori ballano probabilmente di là!», disse, «oh, Dio mio come li vorrei vedere!», ma non osò alzarsi, avrebbe svegliato suo padre e sua madre. «Magari venissero di qua», disse; ma i fiori non vennero e la musica continuava a suonare in modo tanto grazioso, ed ecco che la piccola Ida non poté più resistere, era troppo bello, scivolò fuori dal suo lettino e andò senza far rumore fino alla porta e gettò uno sguardo nel salotto. Oh, come era divertente quello che riuscì a vedere!

    Non vi era nessuna lampada da notte eppure era tutto luminoso, la luna brillava attraverso la finestra irradiando la parte centrale del pavimento! era quasi come se fosse giorno. Tutti i giacinti e i tulipani erano allineati in due lunghe file sul pavimento, non ve ne erano più alla finestra, lì i vasi erano vuoti, sul pavimento i fiori ballavano con tanta grazia girando fra di loro, formavano vere catene e si tenevano per le lunghe foglie verdi, quando giravano intorno a un altro fiore. Ma al pianoforte sedeva un grande giglio giallo, che la piccola Ida aveva certamente già visto quest’estate poiché si ricordava bene che il baccelliere aveva detto: «oh, come assomiglia alla signorina Line!», allora tutti quanti risero di lui; ma ora sembrava anche a Ida che il lungo fiore giallo assomigliasse alla signorina e suonasse come lei, a volte metteva il lungo viso giallo da una parte, a volte dall’altra, segnando con la testa la cadenza della bella musica! Nessuno notò la piccola Ida. Ora ella vide un grosso croco blu saltare al centro del tavolo, dove erano i giocattoli, andare direttamente verso il letto della bambola e scostare le tende. Lì giacevano i fiori malati, ma questi si alzarono immediatamente e fecero agli altri cenno con la testa mostrando di voler ballare con loro. Il vecchietto bruciaprofumi, il cui labbro inferiore si era staccato, era in piedi e si inchinava davanti ai bei fiori che non sembravano per niente ammalati, saltarono giù in mezzo agli altri, pronti a divertirsi. Fu come se qualcosa cadesse dal tavolo, Ida guardò in quella direzione, era il fascio di ramoscelli per il carnevale, che saltò giù, pensando di fare parte anch’esso dei fiori. Infatti era molto grazioso e in cima vi era una piccola bambola di cera, che aveva in testa un cappello molto largo uguale a quello che portava il consigliere di cancelleria. Il fascio di carnevale saltellava in mezzo ai fiori sulle sue tre gambe di legno rosse, pestando piuttosto forte poiché ballava la mazurca, una danza che gli altri fiori non sapevano ballare perché essendo tanto leggeri non potevano pestare coi piedi.

    La bambola di cera sul fascio di carnevale diventò di colpo grande e lunga, fece piroette sopra i fiori di carta grIdando abbastanza forte: «Non sono cose da far credere alla bambina! quella è stupIda fantasia!» e così la bambola di cera assomigliava esattamente al consigliere di cancelleria con il largo cappello e con un’aria altrettanto gialla e contrariata, ma i fiori di carta si avvolsero lungo le sue esili gambe e quindi lui si rannicchiò tornando a essere una piccolissima bambola di cera. Era così divertente da vedere! la piccola Ida non poté trattenersi dal ridere. Il fascio di carnevale continuò a ballare e il consigliere di cancelleria dovette ballare con lui, che si facesse grande e lungo oppure che diventasse la piccola bambola di cera gialla con il grande cappello nero, non cambiava niente. Allora gli altri fiori pregarono per lui, specialmente quelli che erano stati nel letto della bambola, e il fascio di carnevale lasciò stare. In quell’istante si sentì bussare forte da dentro il cassetto, dove si trovava la bambola di Ida, Sofia, insieme a tanti altri giocattoli; il vecchietto bruciaprofumi corse fino al bordo del tavolo, si stese sulla pancia e riuscì ad aprire un pochino il cassetto. Ed ecco che Sofia si alzò in piedi, guardandosi attorno con stupore. «Si vede che qui c’è un ballo!», disse; «perché non me l’ha detto nessuno?»

    «Vuoi ballare con me?», chiese il vecchietto bruciaprofumi.

    «Certo che sei proprio bello come compagno di ballo!», disse voltandogli le spalle. Si sedette poi sul cassetto pensando che uno dei fiori sarebbe sicuramente venuto ad invitarla a ballare, ma nessuno venne, allora tossì, hem, hem, hem! ma non venne nessuno lo stesso. Il vecchietto bruciaprofumi ballava tutto solo e non era così male! Visto che nessuno dei fiori sembrava guardare Sofia, ella si lasciò cadere dal cassetto direttamente giù sul pavimento provocando un grande allarme; tutti i fiori accorsero infatti attorno a lei chiedendole se si era fatta male e tutti erano tanto gentili con lei, specialmente i fiori che avevano riposato nel suo letto; ma non si era assolutamente fatta male e tutti i fiori di Ida la ringraziarono per il letto tanto delizioso e l’apprezzarono tanto, la condussero al centro del pavimento dove la luna splendeva, ballarono con lei e tutti gli altri fiori formarono un cerchio tutt’intorno; adesso Sofia si divertiva, non le piaceva per niente stare nel cassetto. Ma i fiori dissero: «Ti ringraziamo tanto, ma noi non viviamo molto a lungo! domani saremo tutti morti; ma dì alla piccola Ida di seppellirci nel giardino dove c’è pure il canarino, così l’estate prossima cresceremo di nuovo e saremo ancora più belli!».

    «No, non dovete morire!», disse Sofia, e baciò i fiori; in quell’istante la porta della sala si aprì e un grande numero di splendidi fiori entrò ballando, Ida non riuscì a capire da dove venissero, erano sicuramente tutti i fiori del castello del re. All’inizio arrivarono le due splendide rose con piccole corone d’oro in testa, erano un re e una regina, poi vennero le più graziose violacciocche e i garofani più belli e salutarono da tutte le parti. Portarono con sé la musica, i grandi papaveri e le grandi peonie soffiavano tanto nei baccelli di pisello da essere completamente rossi in viso. Le campanule blu e i piccoli bucaneve bianchi tintinnarono come se portassero delle campanelline. Era una musica divertente. Poi vennero tanti altri fiori e ballarono tutti quanti, le viole blu e le pratoline rosse, le margheritine e i mughetti. Tutti i fiori si baciarono fra di loro, era così bello da vedere! Alla fine i fiori si diedero la buona notte e quindi anche la piccola Ida se ne tornò senza far rumore a letto, dove sognò tutto quello che aveva visto. Quando la mattina dopo si alzò, andò subito al tavolino per vedere se i fiori ancora erano lì, tirò la tenda del lettino e, sì, eccoli tutti quanti, ma erano completamente appassiti, molto più di ieri. Sofia stava nel cassetto, dove l’aveva messa lei, sembrava molto assonnata.

    «Ti ricordi quello che mi dovevi dire», disse Ida, ma Sofia aveva un’aria molto sciocca e non disse una sola parola.

    «Non sei affatto buona», disse Ida, «eppure tutti ballavano con te.» Poi prese una scatolina di carta sulla quale erano bei disegni di uccelli, la apri per mettervi dentro i fiori morti. «Questa sarà la vostra bella bara –, disse, – e quando verranno qui i cugini norvegesi parteciperanno ai vostri funerali fuori in giardino così che quest’estate possiate crescere e diventare ancora più belli!

    I cugini norvegesi erano due ragazzi svelti, si chiamavano Jonas e Adolf; il padre aveva regalato loro due archi che avevano portato a far vedere a Ida. Lei raccontò dei poveri fiori che erano morti, e loro ebbero il permesso di seppellirli. I due ragazzi camminavano davanti con gli archi sulle spalle, e la piccola Ida veniva dietro con i fiori morti nella bella scatola; in giardino fu scavata una piccola fossa; Ida prima baciò i fiori, poi li mise con la scatola in terra, e Adolf e Jonas tirarono coi loro archi sopra la tomba, poiché non avevano né fucili, né cannoni.

    La principessa sul pisello

    C’era una volta un Principe che voleva sposare una principessa; ma aveva ad essere proprio una principessa vera. Fece dunque il giro del mondo per trovarla: – né di principesse c’era penuria: ma non poteva mai sincerarsi se fossero vere principesse; sempre qualche cosa in esse gli pareva sospetto. E così se ne tornò a casa, afflittissimo per non aver trovato quello che desiderava.

    Una sera, il tempo era orribile; i lampi s’incrociavano, il tuono rumoreggiava, la pioggia cadeva a torrenti: uno spavento! Fu picchiato alla porta della città, ed il vecchio re si affrettò ad aprire.

    Era una principessa. Ma, Dio mio! com’era conciata dalla pioggia e dal vento! L’acqua le gocciolava dai capelli e dalle vesti, le entrava dall’orlo delle scarpe e le usciva dalle suole. Pure, dichiarò di essere una vera principessa.

    Non dubitare che tra poco lo sapremo!, pensò la vecchia regina; ma non disse nulla. Andò nella camera, disfece il letto, e mise un pisello sul fondo del fusto. Poi prese venti materasse e le distese sul pisello, e poi venti piumini, e li pose sopra le materasse. E quello fu il letto destinato alla principessa.

    La mattina dopo le domandarono come avesse passata la notte.

    «Oh, malissimo!» rispose: «Non ho quasi potuto chiudere occhio in tutta la notte. Sa Iddio che ci fosse nel letto! Ci sentivo qualche cosa di duro, che m’ha ridotto la pelle tutta lividure. Un martirio!».

    Dalla risposta si comprese subito ch’era una vera principessa, poi che aveva sentito un pisello attraverso venti materasse e venti piumini. Chi, se non una principessa, può avere la pelle così delicata? Il principe, ben persuaso ch’era una principessa vera, la tolse in moglie: ed il pisello fu posto nel museo, ove dev’essere ancora, se nessuno l’ha rubato.

    Perché la storia, vedete, è vera quanto la principessa.

    Pollicina

    C’era una volta una donna che si struggeva di avere una bambina, magari piccina così; ma non sapeva come fare a trovarsela. Andò dunque da una vecchia strega, e le disse:

    «Desidererei tanto di avere una bambina piccina: sapete dirmi dove potrei trovarne una?». «Oh, è presto fatto!» disse la strega: «Ecco qui un chicco d’orzo: non è della specie solita, che cresce nei poderi dei contadini e dà a mangiare ai pulcini. Piantatelo in un vaso da fiori, e vedrete».

    «Grazie!» disse la donna; e diede alla strega dodici soldi – prezzo fisso. Andò a casa, piantò il grano d’orzo: e lì per lì spuntò un bel fiore, che somigliava al tulipano, con i petali però chiusi strettamente, come se fosse ancora in boccio.

    «Che bel fiore!» disse la donna: e baciò i petali rossi e gialli. Per l’appunto mentre lo baciava, il fiore fece Ppa! e si aperse. Era un vero tulipano, ora si conosceva benissimo; ma nel mezzo del fiore, seduta sui verdi stami vellutati, c’era una bambina, delicata e graziosina, ch’era un piacere vederla. Era alta forse appena mezzo pollice, e per ciò le misero nome Pollicina.

    Un bel guscio di noce ben lucidato le serviva di culla: le materasse erano petali di viole del pensiero, morbidi come il velluto, una foglia di rosa formava la coperta. Là dentro dormiva la notte; ma il giorno giocava sopra la tavola, dove la donna aveva posto un piatto, con una ghirlandetta di fiori tutta all’ingiro dell’orlo; lo stelo dei fiori era immerso nell’acqua, e sull’acqua galleggiava un grande petalo di tulipano. In questo, la fanciullina poteva starsene seduta, e vogare da un lato all’altro del piatto, servendosi di due setole bianche, a guisa di remi. Faceva proprio un bellissimo vedere! Pollicina poi sapeva anche cantare; e così aggraziato, così dolce era il suo canto, che mai s’era sentito l’eguale.

    Una notte se ne stava nel suo lettino, quando capitò un vecchio rospo, che s’era ficcato dentro per un vetro rotto della finestra. Il rospo era molto brutto, grosso e viscido: saltò addirittura sulla tavola, dove Pollicina dormiva sotto la sua foglia di rosa.

    «Ecco una bella sposina per il mio figliuolo!» disse il rospo; prese il guscio di noce, dove Pollicina giaceva addormentata, e via d’un salto in giardino.

    Là c’era un largo fossato d’acqua corrente; ma il margine era fangoso e molle e quivi abitava il rospo col suo figliuolo. Uh, com’era brutto, anche lui! Tutto il ritratto di suo padre!

    «Coak! coak! Brek-kek-kex!» ecco tutto quello che seppe dire quando vide la bella ragazzina dentro al guscio di noce.

    «Non parlare così forte, che la svegli!» disse il vecchio rospo: «Potrebbe scapparci: è leggera come una piuma di cigno!... La metteremo nel fossato, sopra una di quelle grandi foglie di ninfea. Piccola e leggera com’è, si troverà quasi in un’isola; e così non potrà fuggire, mentre noi prepareremo le sale di cerimonia nel pantano, dove avete da metter su casa».

    Nel fosso, crescevano infatti molte ninfee, con grandi foglie verdi, che pareva navigassero sull’acqua. La foglia più lontana dalla riva

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