DANTE dalla lingua alla patria: Nel settecentenario della morte (1321-2021) siamo ancora "Figli del Duecento"
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Un saggio letterario col quale l’autore tratta due tematiche in particolare: la nascita della lingua italiana col contributo fondamentale del Dolce Stil Novo e la concezione di «patria» in Dante. Seppur di contenuto essenziale il libro è arricchito, nelle conclusioni, da un estratto del proemio che Gabriele d’Annunzio scrisse per l’edizione monumentale della Divina Commedia del 1911, realizzata in occasione del cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. La lingua che gli italiani parlano ancora tutt’oggi è pressappoco la stessa del XIII-XIV secolo, per questo l’autore afferma che siamo ancora “Figli del Duecento”.
La ricorrenza sia dunque occasione non solo per celebrare il Sommo Poeta, che pure ha la sua importanza come simbolo nazionale, ma soprattutto per riscoprire e valorizzare la lingua italiana, vero motivo perché tutti i cittadini - da Nord a Sud - possano riscoprire un sano e genuino senso di appartenenza alla Patria.
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Anteprima del libro
DANTE dalla lingua alla patria - Giuseppe Palma
Giuseppe Palma
DANTE
dalla lingua alla patria
Nel settecentenario della morte (1321-2021)
siamo ancora Figli del Duecento
con un estratto del proemio di Gabriele d’Annunzio
per l’edizione monumentale della Commedia del 1911
Editrice GDS di Iolanda Massa
Via Pozzo n. 34, Vaprio d’Adda (MI)
E-mail: [email protected]
Ia Edizione marzo 2020
© Tutti i diritti sono riservati.
L’immagine riportata sulla copertina anteriore raffigura il dipinto Ritratto di Dante di Giusto di Gand (Jodochus van Ghent), tempera su tavola, datazione 1472-1476. Elaborazione grafica a cura di Iolanda Massa.
Giuseppe Palma
DANTE
dalla lingua alla patria
Nel settecentenario della morte (1321-2021)
siamo ancora Figli del Duecento
con un estratto del proemio di Gabriele d’Annunzio
per l’edizione monumentale della Commedia del 1911
GDS
A mia figlia
«sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva».
Dante Alighieri
Canto XXX del Purgatorio
Introduzione
Ricorre nel 2021 il settecentesimo anniversario della morte di Dante Alighieri, deceduto a Ravenna tra il 13 e il 14 settembre 1321. Di ritorno da Venezia per un’ambasciata commissionatagli da Guido Novello da Polenta presso cui era ospite, contrasse la malaria al passaggio dalle paludose valli di Comacchio.
Aveva cinquantasei anni e da poco aveva terminato la stesura del Paradiso, l’ultima Cantica della Commedia. In esilio da Firenze a causa della sconfitta dei Guelfi Bianchi per mano di Carlo di Valois, dalla fine del 1301 al giorno della sua morte il Poeta visse nel Nord-Italia presso la Corte di parecchi Signori, svolgendo soprattutto servigi da ambasciatore. Celebre la terzina del XVII Canto del Paradiso: «Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale».
Non fece mai più ritorno nella sua città natale, rifiutando dopo quindici anni un invito a tornare se avesse accettato una umiliazione da rendere ai vincitori.
Il rifiuto gli valse la condanna alla decapitazione.
Da ragazzo studiò le sette arti liberali del Trivio (grammatica e lingua latina, retorica e filosofia) e del Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica) per poi iscriversi all’arte dei medici e degli speziali, una formale copertura per poter ricoprire cariche pubbliche nella sua Firenze.
Nel 1285 sposò Gemma di ser Manetto Donati, cugina di Corso Donati (capo dei Guelfi Neri), dalla quale ebbe tre figli: Jacopo, Pietro e Antonia, e forse anche un quarto, Giovanni, che da un paio di atti notarili risulterebbe il primo figlio della coppia. Di Giovanni non si è saputo più nulla, anche perché solo Jacopo e Pietro raggiunsero il padre a Ravenna (vivendo con lui presso i Da Polenta) occupandosi delle sue opere dopo la morte.
Fu seppellito a Ravenna, tant’è che da cinque secoli Firenze ne chiede la restituzione delle spoglie. Pienamente condivisibile la presa di posizione dei ravennati nell’opporre il rifiuto al capoluogo toscano, anche perché il Poeta morì da esule e non sarebbe giusto che la città che ne ospitò il genio letterario restituisca i resti a quella che lo condannò a morte. Sulle ossa di Dante» bisogna pur dire qualcosa. Oggi nel monumento funerario che si trova a Ravenna ci sono per davvero le ossa del Sommo Poeta, che tuttavia hanno nei secoli subito diverse avventure. Il Papa fiorentino Leone X, della famiglia de’ Medici, inviò nel 1519 una delegazione a Ravenna per recuperare i resti del Poeta, ma i delegati trovarono un sarcofago vuoto. I frati francescani li avevano nascosti attraverso un buco che collegava la tomba al chiostro.
Tra il 1780 e il 1781 l’architetto Camillo Morigia eresse un sepolcro in stile neoclassico presso la Basilica di San Francesco, dove tutt’oggi si trovano i resti del Poeta. La furbizia dei frati si ripetette una seconda volta nel 1810 per evitare ai soldati di Napoleone, che nella razzia delle opere d’arte italiane furono zelanti, di appropriarsi anche delle «ossa di Dante». La cassetta fu murata nell’oratorio attiguo e nessuno ne seppe più nulla. Chi andava a far visita alla tomba, ignaro, visitava un sarcofago vuoto. Il 27 maggio 1865 un operaio, durante i lavori di ristrutturazione dell’oratorio, trovò casualmente una cassetta con una iscrizione in latino che iniziava con la dicitura «Ossa Dantis», tradotta da un giovane studente di giurisprudenza poi divenuto uno stimato notaio, tale Anastasio Matteucci. I resti furono ricomposti, esposti in pubblico e riportati nella tomba. Un terzo spostamento avverrà nel corso della Seconda Guerra mondiale per il timore che i bombardamenti avessero potuto distruggere la tomba, per poi tornare dove sono ora a guerra conclusa. In questo breve periodo, dal 23 marzo 1944 al 19 dicembre 1945, la cassetta venne nascosta a pochi metri dal mausoleo sotto un tumulo coperto da vegetazione (oggi evidenziato da una lapide). Insomma, grazie ai frati francescani i resti del Sommo Poeta sono salvi.
Negli ultimi due anni mi sono recato più volte a Firenze per motivi professionali. Terminato il mio lavoro in tribunale ho sempre trovato il tempo, prima di ripartire per Milano, di recarmi nel centro storico per far visita a quella che è chiamata «la Casa di Dante», un museo costruito sul luogo dove con ogni probabilità sorgeva la casa paterna nella quale il Poeta nacque nel 1265. In una targa apposta sulle mura della casa che affacciano in piazza San Martino (verso quella Torre della Castagna che fu sede dei Priori prima che fosse costruito il Palazzo della Signoria), sono riportati questi