Il commissario Richard. La notte del 14 luglio
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Il commissario Richard. La notte del 14 luglio - Ezio D'Errico
Ezio D'Errico
Il commissario Richard La notte del 14 luglio
Con un'introduzione di Loris Rambelli
Una realizzazione Falsopiano/Fogli Volanti
secondo gli standard dell'International Digital
Publishing Forum
ISBN 9788893040822
Prima edizione digitale 2017
L'uomo che ha smarrito se stesso
di Loris Rambelli
Come gli indovini nell'Inferno dantesco, i lettori di romanzi polizieschi classici procedono con la testa rivolta all'indietro. A mano a mano che si avvicina alla meta dell'ultimo capitolo, che contiene lo scioglimento dell'enigma, vedono sempre più lontano e più chiaramente nel passato. Due direzioni del tempo, come vettori orientati in senso opposto, si sviluppano e si sovrappongono. Un po' come quando Carter descrive la fasciatura della mummia di Tutankhamon: «Benché l'esame della mummia cominciasse necessariamente dai piedi per proseguire verso la testa, nella mia descrizione seguirò, per maggiore chiarezza, l'ordine inverso, enumerando ogni oggetto rinvenuto e ogni aspetto interessante nella giusta successione. Sulla sommità del cranio trovammo...». La scoperta della tomba di Tutankhamon nella Valle dei Re, ad opera dell'équipe finanziata da lord Carnavon e guidata da Howard Carter, avvenne nell'anno 1922. Quanta egittologia si riflette nel romanzo poliziesco, da Van Dine, a Freeman, ad Agatha Christie. «Tutto in un'epoca si tiene», scriveva Umberto Saba a proposito delle ripercussioni sul romanzo giallo delle tematiche dominanti nel contesto culturale negli anni Venti e Trenta. L'archeologia, appunto. Ma anche la psicoanalisi, avvertita dal lettore di allora come una sorta di archeologia del profondo¹.
La notte del 14 luglio è il romanzo incentrato sulla memoria, ossia sulla perdita e sul recupero del passato. Narra la vicenda di un uomo che, colpito da amnesia, risale faticosamente la china della sua vita. E Richard, durante l'inchiesta, compie esattamente lo stesso percorso, dal presente al passato, per ricucire la trama di tutta un'esistenza. Per «l'uomo che ha smarrito se stesso» un colpo di pistola e una caduta sul cordolo di un marciapiede provocano una cesura nel fluire dei giorni, un distacco dalla comunità dei suoi simili, e questo nel giro di pochi attimi, in mezzo al frastuono della folla, agli scoppi dei fuochi d'artificio, agli applausi, alle musiche, ai cori improvvisati che intonano La marsigliese, con cui i parigini celebrano la ricorrenza dell'evento storico per antonomasia, lo scoppio della Rivoluzione francese. Anche Richard, vestito di nero, come sempre d'inverno e d'estate, scarponi a punta quadra, un fazzolettone al collo, e Milton, con «un vestito chiaro dal taglio impeccabile», «camicia di canapa grezza» e scarpe traforate, sono immersi nella folla la notte della festa nazionale. Richard, come uno scolaretto curioso, vuole sapere tutto da Milton: la Bastiglia, è vero che aveva otto torri? dove sorgeva esattamente? e da dove fu sparato il primo colpo di cannone? e a che ora avvenne la resa? e chi issò la bandiera bianca e chi fu il primo a entrare nella fortezza?... Milton, con dovizia di particolari, fa la cronaca di quegli avvenimenti indelebili nella storia della Francia. (Le digressioni didascaliche nei romanzi polizieschi, allo stesso modo che nei romanzi avventurosi di Salgari, sono retaggio ottocentesco nella tradizione della narrativa popolare educativa).
Per effetto di un bizzarro contrappasso, l'uomo che ha perso la memoria è un appassionato cultore di storia antica. «Che cosa saremmo noi senza la Storia? Davanti c'è il buio delle ipotesi... dietro la certezza dei fatti accaduti... non credete che sia più saggio guardare indietro?». Questo pensiero gli è rimasto conficcato come punto fermo, come uno scoglio affiorante dalle acque in cui ha fatto naufragio la sua mente. Ecco spiegate le sue lunghe soste nelle librerie, ecco perché ha in tasca Le vite parallele di Plutarco, che chissà come si è procurato. Ma intanto non sa più come si chiami, né da dove venga, né chi sia. Ora è soltanto un numero, assegnatogli nel momento in cui è stato ricoverato in ospedale. Il commissario non può fare a meno di pensare che un uomo può essere solo nella metropoli moderna, esattamente «come potrebbe esserlo in una landa del Tibet o nel deserto Marmarico». Finché un frammento della vita anonima dello smemorato non càpita, quasi per caso, nelle mani di Harpe, l'infaticabile ispettore la cui specialità sembra essere quella di trovare l'ago nel pagliaio, cioè di riuscire nell'impresa disperata di trovare un uomo in mezzo a milioni di uomini in una città come Parigi. E quel reperto conduce alla Ruche, l'alveare umano le cui celle sono gli atelier degli artisti squattrinati, giunti a Parigi in cerca di fortuna. «All'epoca in cui si svolge questa storia, esisteva in quella parte di Parigi un vasto spiazzo recinto di mura, nel quale da tempo immemorabile i pattumai rovesciavano i loro carretti di immondizie. Su quel terreno sterposo, fra cumuli di detriti e ciuffi di erbacce, si ergeva un curioso edificio rotondo costruito con i rottami dei padiglioni abbattuti dopo la Grande Esposizione». La Ruche, che è tutto un mondo a sé, era stato descritto in Parigi (Treves, Milano 1925) da Lorenzo Viani, che vi aveva abitato, esattamente nell'atelier A. Che D'Errico conoscesse le pagine di Viani è fuori di dubbio, perché descrive la Ruche quasi con le stesse parole dello scrittore e pittore toscano. Non solo, ma prende da Viani il nome di un personaggio: Koscialek (lo scultore Koscialek dell'atelier Z; ma si tenga presente anche il violinista dell'atelier D, perché D'Errico, fondendo le due figure, ne ricava il violinista Koscialek)². Oltre alla rievocazione della presa della Bastiglia nelle pagine iniziali, altri richiami al passato affiorano, sparsi qua e là: una vecchia oleografia del presidente Failleret (capo dello Stato dal 1906 al 1913) appesa nell'anticamera dell'ufficio di Richard; un museo di antichità nel sud della Francia, a Vaison, dove è conservata una copia del Diadùmeno di Policleto; la Ruche, che rappresenta il volto di una Parigi ormai scomparsa. Per rimanere in tema di storia, persino una portinaia, interrogata da Richard, fa ricadere gli occhiali dalla fronte al naso con un colpo secco del capo «come un antico guerriero che abbassi la celata» e, infine, Milton e Richard si ritrovano a passeggiare sotto la luna in vista delle rovine di un antico anfiteatro romano, sempre a Vaison, l'antica Vasio dei latini.
La soluzione del mistero coincide naturalmente con il recupero della memoria dell'uomo che aveva smarrito se stesso e che ora ritrova un suo posto nel mondo. Un'esistenza compie la sua parabola, presentando almeno un punto di contatto con quella del commissario. Se la storia d'amore del giovane Richard, ai tempi in cui era ancora vice ispettore e aveva tutti i suoi capelli in testa, era durata quindici giorni, in un alberguccio di Marsiglia con una soubrette che cantava romanze sentimentali col vestito ricamato a lustrini e un ventaglio di piume verdi (L'uomo agli occhi malinconici), per l'uomo che ha smarrito se stesso era stata ancora più breve: era durata una sola notte.
PARTE PRIMA
LA NOTTE DEL 14 LUGLIO
Capitolo I
La notte del 14 luglio
Quando il dottor Georges Milton, medico perito della Sûreté, sentì squillare il telefono, non poté reprimere una smorfia di malumore.
L'idea che qualcuno potesse snidarlo dalla sua elegante soffitta di rue du Dragon e costringerlo, col caldo che faceva, ad affrontare il «pavé» cittadino, gli riusciva oltre modo sgradevole.
Si rasserenò un poco riconoscendo all'altro capo del filo la voce del suo amico commissario Richard, ma il viso gli si rabbuiò di nuovo nel sentire le proposte che l'altro formulava.
— ... vi dico che ci divertiremo un mondo...
— Già, già... ma con questo caldo... e poi conoscete la mia pigrizia...
— Al tramonto il caldo sarà diminuito, e se volete andremo dopo cena... vi assicuro che è uno spettacolo pittoresco soprattutto per chi non l'ha mai visto...
— Va bene... Allora, a che ora?
— Passo a prendervi verso le ventuno... ma fatevi trovare sul portone, mi raccomando, non infliggetemi la punizione dei vostri sei piani!
— D'accordo... Arrivederci a questa sera.
Posò il microfono sulla staffa senza abbandonare la sua smorfia di disappunto, poi riprese il libro che stava leggendo, e si lasciò cadere sull'ammasso di cuscini che in un angolo dello studio costituivano quella che Milton chiamava la sua «cuccia».
Che quella notte il commissario Richard si seccasse di dover ispezionare da solo le pattuglie in servizio nei quartieri più popolosi di Parigi, il dottore se lo spiegava benissimo, ma non era una buona ragione per farsi tener compagnia proprio da lui che aveva in orrore le feste popolari.
«Già, la colpa è mia», andava monologando Milton mentre i suoi occhi seguivano senza leggerle le righe del libro, «ho la debolezza di dirgli sempre di sì, e quel benedetto uomo non l'ha ancora capita che non posso soffrire la confusione e che ho in orrore la folla... bella sfacchinata che mi si prepara... quello è capace di trascinarmi per tutti i bals Musette
... Pare impossibile come alla sua età possano ancora piacere i fuochi artificiali, le luminarie, e il puzzo delle frittelle».
I lettori che conoscono i personaggi di cui parliamo, avranno già capito che ancora una volta si stava delineando un conflitto fra la pigrizia raffinata del dottor Georges Milton, esteta un po' decadente e molto cerebrale, e la vivacità un po' plebea del commissario Émile Richard, gioviale rappresentante di una generazione molto più bonaria e semplice della nostra, davanti allo scenario senza dubbio pittoresco, ma piuttosto convenzionale, di una Parigi in baldoria per la festa del 14 luglio.
Tuttavia, alle nove di sera, il commissario trovò il suo amico ad attenderlo sul portone di casa.
Il dottore vestiva un abito chiaro dal taglio impeccabile, portava una camicia di canapa greggia, e calzava certe scarpe traforate il cui modello non era certo comune, mentre il commissario, che estate e inverno vestiva di nero, e col sole o con la pioggia portava sempre degli scarponi a punta quadra, non aveva trovato nessun altro modo per darsi un'aria estiva, che mettersi attorno al collo taurino un fazzoletto bianco annodato sotto la pappagorgia.
Inutile aggiungere che, mentre Milton andava a capo scoperto, l'altro teneva fitto in testa il solito cappelluccio di feltro la cui tesa spiovente e ondulata era conosciutissima non solo al quai des Orfèvres, ma anche nelle aule del Palazzo di Giustizia, dove i caricaturisti dei settimanali illustrati addetti alla rubrica giudiziaria, cento volte l'avevano ritratto con i loro lapis arguti.
— Caro Milton, mi rendo conto del vostro sacrificio e non ho parole per ringraziarvi...
— Ma no, nessun sacrificio, vi assicuro...
— Ma sì ma sì... voi non potete soffrire le feste popolari, lo so... ma mettetevi nei miei panni... alla mia età essere ancora costretto a ispezionare le pattuglie come un vice commissario di nuova nomina... e tutto perché quei signori del Ministero si ostinano a ridurre il personale...
— Potete giurarmi che non è stata una vostra iniziativa?
Il commissario si fece più rosso del solito.
— Ecco, vi dirò... iniziativa niente... tutt'al più non mi sono difeso... certo, avrei potuto rifiutarmi...
Milton sorrise rabbonito:
— Via, via... confessate che non vedete l'ora di immergervi nel turbine... eh! Gran brutto vizio il vostro...
— Credete davvero che sia un vizio? — mormorò l'altro un po' confuso.
Il dottore avrebbe voluto forse rassicurarlo, ma il clamore di un'orchestra accampata nel bel mezzo del Carrefour de la Croix Rouge glielo impedì.
Lungo le sei strade che si partono a raggiera, non si vedevano che archi luminosi, lampioncini alla veneziana e trofei di bandiere sorretti da scudi di cartone con su dipinta la sigla repubblicana.
Ingenue decorazioni di stagnola e collane di fiori di carta festonavano i balconi e le insegne dei caffè i cui tavolini invadevano lunghi tratti di marciapiede, costringendo la folla a camminare al centro della strada.
Da certi enormi caldaiotti piazzati su fornelli simili a quelli che d'inverno si adoperano per le caldarroste, si alzava il fumo graveolente delle frittelle dolci, mentre gli amatori di frutti di mare davan l'assalto ai banchi di ostriche e di arselle.
Si ballava dappertutto. Nei cortili, nelle salette interne delle trattorie, nelle piazze, dovunque ci fosse la possibilità di far girare la manovella di un organino, di far funzionare un grammofono o di manovrare il bottone di una radio.
Una folla popolaresca, ridanciana, pronta al lazzo, alla beffa e alla battuta salace, formicolava lungo la rue du Cherche Midi, sfociava da rue de Grenelle sul boulevard Raspail, per poi riversarsi come un liquido multicolore che straripa, per tutti i vicoli e le piazzette da cui è frastagliato il rione compreso fra il boulevard St. Germain e la rue Vaugirard.
Quello che i due amici vedevano era un modesto campionario di ciò che alla stessa ora si sarebbe potuto osservare nei rioni della Villette, nel quartiere di Montmartre o di quello di Montparnasse. L'orgia popolare era incominciata al tramonto, ma già il frastuono era arrivato a tale diapason che bisognava urlare nelle orecchie del vicino per farsi intendere, e più la folla gridava, più aveva sete.
Il giorno dopo non sarebbe mancato il cronista