Questioni di Logos
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Lo psicologo annota sulla scheda clinica i dati chiave, si lascia trasportare dalle libere associazioni, usa il proprio sé come strumento di analisi dell'altro. L'introspezione, quasi per contagio, transita dal mondo dei pazienti, al proprio, così il protagonista è sollecitato a rivisitare i rapporti familiari, personali, affettivi. Continui flashback, lo riportano all'infanzia, all'adolescenza, al nodo della rivalità fraterna, ai rapporti parentali irrisolti.
Improvvisamente l'irrompere dell'aggressività non controllata di un paziente, mette e rischio la sua vita, l’evento rompe la routine quotidiana diventando un ulteriore stimolo a chiudere i conti con se stesso.
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Anteprima del libro
Questioni di Logos - Alessandra Fasson
Alessandra Fasson
QUESTIONI DI LOGOS
Elison Publishing
Proprietà letteraria riservata
© 2016 Elison Publishing
www.elisonpublishing.com
Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.
Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:
Elison Publishing
Via Milano 44
73051 Novoli (LE)
ISBN 9788869631023
"Enigma di materia cosciente
che hai un dorso di secoli
e non sei
che un attimo immenso".
(David Maria Turoldo)
Indice
Capitolo I
Un enorme orecchio in ascolto
Capitolo II
La massaggiatrice
Capitolo III
L’arte della maieutica
Capitolo IV
Cesare: un condottiero mancato
Capitolo V
Smarrirsi e non ritrovarsi
Capitolo VI
Restare dentro il proprio guscio
Capitolo VI
Un fervore claustrale
Capitolo VIII
Lasciare fuori l’imprevisto
Capitolo IX
Trasgressioni orali
Capitolo X
Un bisturi per l’anima
Capitolo XI
Nel grembo materno
Capitolo XII
La visita del genio
Capitolo XIII
L’assoluzione temporanea dell’impiegato
Capitolo XIV
Tentiamo di chiudere la questione
L'autrice
Capitolo I
Un enorme orecchio in ascolto
Liberandomi dal caldo afoso penetro nello studio, schiaccio il dorso sul legno levigato della porta, inspirando profondamente.
Ho scelto il ciliegio per gli infissi, di una tonalità calda, tendente al rubino: m’illudo d’essere un uomo di classe, sguazzando nel mio narcisismo.
Finché mi chiudo dentro queste mura, cerco di cacciare fuori un pezzo della mia esistenza: divento un altro, prendo la forma di un oggetto, magari un filtro per l’areazione, una spugna, oppure un enorme orecchio.
Un frullio nervoso sul capo e sono già pronto a fare mente locale: che genere di personaggi varcherà oggi l’uscio di ciliegio
?
Sacerdote della psiche
: è il logo del mio mestiere, alquanto fumoso da definire, diciamo che indago sui misteri altrui e vendo saperi fondati sulla relazione.
Oggi però non mi applico, non apro le cartelle cliniche, punto sulla memoria.
È l’ultima giornata prima delle ferie, non posso certo muovere troppo le acque dei pazienti, me ne sto tranquillo e registro, è già tanto se non penso ai fatti miei.
Sento affiorare quelle giornate con la vena aperta a bilanci e rendiconti.
Devo confessare a me stesso che mi è passato il desiderio di scavare negli animi, sempre più spesso mi sento svuotato.
Controllo i miei sentimenti, fingo distacco e sicurezza, in realtà fremo degli stessi drammi umani a cui dovrei rimediare, oppure di altri, magari peggiori.
Da dov’era partita in me l’illusione della possibilità di curare
? Questo mi piacerebbe saperlo, ricordare il momento esatto in cui ho scelto questo mestiere.
Il tutto andava attribuito al mio idealismo giovanile, ad ingenue fantasie, ora sconfitte dalla concretezza.
«Tu che lavoro fai?» Domanda banale, a cui rispondevo soddisfatto: «Lo psicoterapeuta!» E sempre percepivo un moto di stupore, ammirazione o curiosità.
La gente mi attribuiva chissà quale capacità di lettura dell’altrui animo, chissà quali poteri di suggestione, insomma sapevo vedere dentro, oltre le apparenze.
Non ero un manovale, né un operaio, né un oscuro impiegato, qualcosa di me attraeva il mondo femminile; avvocati, medici, dirigenti, seppure quotati non possedevano altrettanto fascino.
Con me le donne si sentivano amabilmente scoperte, paventavano e nello stesso tempo desideravano avvicinarmi, parlarmi, aspettando il momento in cui avrei potuto rivelarle a se stesse. Pregustavo o semplicemente desideravo giocare il mio potere.
Parlo al passato, guardando con una sorta di auto compatimento la cittadella delle mie illusioni.
Ero convinto che nulla in me venisse ritenuto casuale, né il modo di atteggiarmi, né il mio abbigliamento, tutto assumeva un significato: poteva essere altrimenti per un uomo custode dei segreti della psiche?
Cominciavo quasi a soffrire della mia brillante capacità introspettiva, avevo la sensazione di smarrirmi nei meandri della mente altrui, scandagliavo sentimenti, raccoglievo frammenti sparsi di vissuto, emozioni lievi o pulsioni intense, allenavo la mia capacità empatica, ma… più entravo in profondità, maggiormente annaspavo nel vuoto, così da non riuscire a venirne a capo.
Agli inizi della mia carriera, all’epoca dei primi appuntamenti in agenda, superando la paura di non farcela, cercai d’inventarmi un mestiere che nonostante la laurea, i corsi e gli approfondimenti, nessuno era riuscito ad insegnarmi.
Ora rannicchiato nel mio studio, mi rifugio tra gli arredi selezionati con cura, avvolgono come un guscio di contenimento le emozioni, fasciano i moti dell’animo: uno spazio ovattato per svuotare il male di vivere.
La scelta dei particolari, i quadri, gli oggetti, la volevo orientata a favorire i parti della mente, così da offrire suggestioni nel gioco delle immagini rappresentate; anche i libri giocano il loro ruolo, ammiccando dagli scaffali, mentre i tappeti riportano tracce di altre culture.
Tutto sommato dovrei sentirmi appagato: meglio libero professionista, che dipendente ammuffito nel servizio pubblico, dentro gli ingranaggi delle aziende sanitarie.
Forse potrei ancora ingannarmi, se non fosse per la presenza subdola di questa sensazione di soffocamento, per l’impulso di ritornare fuori a cercare aria pulita, appena metto piede in questa stanza.
Un reliquiario di umori e odori umani, di silenzi inavvicinabili, un ring per fare a pugni con le parole, stanarle, stare dentro a quel disagio che si vorrebbe non riconoscere.
Mi sto avviando a lenti passi verso la sindrome da burnout: inizierò col detestare i pazienti, non sopportandone più i sintomi, la loro ostinata incapacità di cambiare.
La deriva delle professioni d’aiuto, il rischio di bruciarsi
, mi stava incalzando, ne erano segnali, l’impazienza, il nervosismo, la noia, ma anche la rabbia.
Il disagio si manifesta seguendo quattro fasi, quella dell’entusiasmo idealistico, l’ho già passata.
C’è poi la cosiddetta stagnazione, in cui l’interesse ed il senso di gratificazione legati alla professione iniziano a diminuire.
La terza fase, quella della frustrazione, diciamo che non quadra con il mio caso, se non fosse per il tentativo di mettere in atto comportamenti di fuga dall’ambiente lavorativo, ma potrei facilmente scivolare nella deriva assumendo atteggiamenti aggressivi verso gli altri o me stesso.
Inquietante la quarta tappa, definita una vera e propria morte professionale
, l’interesse e la passione per il proprio lavoro si spengono completamente e all’empatia subentrano indifferenza ed apatia.
Da troppo tempo navigo nel magma delle passioni: difficile non restarne contaminato!
Accolgo i primi cedimenti emotivi, sino all’apertura senza più contenimento di quanto non si aveva il coraggio di dichiarare a se stessi e si fatica ad accettare come proprio.
Si sa la potenza delle pulsioni spaventa, ed io testimone incolpevole, inizio a diventare detestabile, poiché ho udito quanto di più spiacevole ciascuno nasconde dentro di sé.
Sfoglio le pagine dell’agenda affondando sulla poltrona, ruoto leggermente su me stesso aspirando il profumo speziato, lieve e gradevole che permea la stanza, l’ho scelto con cura per annebbiare gli odori dei pazienti, ciascuno ha il suo.
Spesso mi ritrovo ad annusare le fragranze umane, promanano dalla sedia difronte alla mia, un po’ discosta a destra oppure a sinistra secondo gli impercettibili movimenti individuali.
Chissà se vi sono manuali anche sugli odori, temo di sì! Io comunque ho sviluppato alcune teorie infallibili sull’argomento, non ortodosse ma efficaci.
Per le pareti dello studio ho scelto una tonalità turchese adatta alla stanza di un figlio maschio, sarà il mio desiderio di paternità ad avermi guidato.
Appese al muro riproduzioni di Kandinskij, Klee e Chagall, un mondo onirico ed astratto, denso di colori e d’immagini sfumate, su cui spazia il mio sguardo nel tentativo di evadere dal momento presente.
Non sono un intenditore di opere d’arte e nemmeno un appassionato, fruisco della competenza altrui, in particolare quella femminile, mediamente più raffinata.
Oggi, sono arrivato in anticipo per gustarmi il silenzio, tra un po’ squillerà il telefono per gli appuntamenti, poi gli orari fissati dei colloqui.
Ho affibbiato dei nomignoli a ciascuno, così ben assestati che stavo per segnare un cliente con il nome in codice, lo sappiamo che sto deviando dalla carreggiata!
Brutto segno, pessimo segno! Avvisaglia manifesta della mia indifferenza, non c’è da scherzare, eppure, cerco di aggrapparmi all’ironia o al sarcasmo, ma dov’è finito il mio benemerito bisogno di salvazione?
Umanità sofferente bussa alla mia porta!
Avrei potuto proclamare solo qualche tempo fa, non soltanto per garantire la mia posizione sociale, ma anche per solleticare lo spirito samaritano nascosto nelle professioni sociali.
Dunque, mi compare dinnanzi l’algida mistica, martire oppressa dagli eventi, quasi un Giobbe aggiogato da un Dio padrone; la passionale, e l’incontenibile; e poi lui, il secondo uomo, presenza quanto mai rara nel mio studio frequentatissimo dal gentil sesso, sul primo uomo per il momento non voglio pronunciarmi, poiché il divenire uomo è la sua sfida.
Certo, una menzione a parte meritano le insegnanti frustrate, per effetto di un prodigo passa parola ne fui sommerso, poi il flusso lentamente si placò.
Grazie alla rete delle amicizie femminili comparvero anche affaticate dirigenti scolastiche; l’esperienza mi aprì ragionevoli dubbi sull’equilibrio dei professionisti della conoscenza, con qualche refuso sugli studenti.
Come sempre divago, non sono mai stato né logico né ordinato, giungo alle soluzioni si direbbe supportato dal pensiero divergente, mi lascio trasportare dalle suggestioni.
Una voce interna, quasi una personificazione della coscienza professionale, mi suggerisce: Stai attento al tuo vissuto! Ascolta i tuoi sentimenti! Quali reazioni provoca in te la presenza di questa persona? Annota tutto con cura.
Fa bene ritornare alle radici, rievocare le parole dei maestri, quei pochi che mi hanno lasciato qualcosa, sono io lo strumento principale della terapia, con la mia umanità affinata, l’intuizione, l’empatia, l’intelligenza. Eppure, forse mi sono guastato!
Squilla il telefono, afferro il ricevitore cercando di scrollarmi di dosso apatia e scoramento, la voce è bassa, appena percettibile.
«Parlo con il dottor Alfio Zanardi?» Dopo il mio assenso segue un lunga pausa di riflessone, freno l’impulso di riattaccare, riattivando la mia abitudine ai parti difficili della parola, so bene quanta fatica costa la prima telefonata.
«Ho ricevuto il suo numero da… Anna, ha presente?» – riprende la voce femminile.
La rassicuro e confermo, il mio numero è ben evidente nell’elenco telefonico con un trafiletto che indica: Logo-terapeuta o psicoterapeuta ad indirizzo umanistico – esistenziale, tanto per essere più chiaro, eppure il riferimento ad un mio paziente dà sicurezza, quasi per accattivarsi maggiore simpatia.
«Vorrei un appuntamento, ma non ho fretta – le parole escono tutte d’un fiato, poi la voce femminile riprende con un tono incerto – Intendo dire che se lei non avesse tempo subito, io posso anche aspettare!».
La rassicuro sul fatto che ho posto in agenda, dopo le ferie, possiamo subito fissare.
«Ah!… C’è spazio già tra due settimane? – riprende lei – Va bene allora. Sì penso di essere libera quel venerdì. Ma… credo di non sapere bene dove si trova il suo studio».
Scatta un’altra pausa, lascio correre e poi erogo indicazioni sulla posizione del mio studio, ma non sembrano esaurienti, dal momento che lei riprende: «È comodo in automobile? Posso posteggiare? Sì, intendo dire, vicino c’è un ampio parcheggio?»
Parte la mia rassicurazione sull’ampio parcheggio, ma lei non è soddisfatta e riprende: «Ma…vede ultimamente non riesco più a guidare, e non riesco nemmeno a prendere il treno. Del pullman non ne parliamo nemmeno, mi fa nausea e non so esattamente quando scendere. Mi è capitato di sbagliarmi in passato, quindi in corriera non salgo più!»
Le chiedo se può farsi accompagnare da un familiare o da un amico, non riesco a capire se tergiversa oppure c’è qualche vera fobia sotto. Finché cerco di suggerirle qualche possibile soluzione, lei riprende lentamente il discorso.
«Però, forse, tra due settimane, il treno sì… potrei farcela a prenderlo. Ma se poi, uscendo dalla stazione, devo cercare il tram e salire su quello, assolutamente no! Guardi, non mi è possibile prendere il tram. È una cosa troppo complicata, poi non saprei quando scendere. È terribile non conoscere la fermata… mi capisce?»
Sto già valutando che la mia futura paziente da casa non esce nemmeno, comunque prendo tempo e le suggerisco di fare una bella passeggiata appena scesa dal treno. Nemmeno un quarto d’ora di strada a piedi, il mio studio è vicino. Mi prodigo in dettagli di percorso e rassicurazioni ed attendo la sua risposta.
«Sì d’accordo! – dopo un po’ la voce riprende – Spero di non sbagliare strada, deve sapere che ho difficoltà di orientamento».
Le suggerisco di chiedere indicazioni, il mio studio è conosciuto. Mi freno in tempo prima di proporle di consultare la mappa della città. Non mi è mai venuto in mente di corredare il